ALL`ALBA DEL VENTIDUESIMO GIORNO Sapeva solo che quel
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ALL`ALBA DEL VENTIDUESIMO GIORNO Sapeva solo che quel
90 Nicoletta Fanuele ALL’ALBA DEL VENTIDUESIMO GIORNO Sapeva solo che quel viaggio l’avrebbe portata lontano. Olga non sapeva cosa aspettarsi da quell’avventura a Kabul. Amava viaggiare, aveva visitato l’India, il Canada, la Polinesia e l’Europa, ma l’Afghanistan quello no. L’Afghanistan non era l’Europa, bella e sicura. Ogni giorno il telegiornale raccontava di nuove stragi in quella terra, perché a Kabul rischi la vita continuamente, ogni momento può essere quello buono per saltare in aria a causa di un kamikaze o di una molotov. Quel viaggio l’avrebbe portata lontano da Giacomo, suo figlio. Quell’ometto piccolo e paffuto l’aveva implorata di non partire; tra pochi giorni avrebbe cominciato a frequentare la prima elementare, ci avrebbe tenuto tanto a essere accompagnato davanti al cancello di scuola dalla sua mamma, come tutti gli altri bambini. Da quando suo marito li aveva abbandonati, Olga e Giacomo non si erano mai lasciati. Sua madre, Susanna, avrebbe badato al bambino durante la sua assenza. Era il momento di partire, il dovere la chiamava e lei non aveva altra scelta. In fondo l’aveva sempre saputo che quel suo mestiere da fotoreporter, prima o poi, l’avrebbe portata lontano da casa. A Kabul insieme ai suoi due colleghi, Giorgia e Michele, avrebbe girato un documentario sulla vita dei soldati inviati in missione di pace e sulle condizione di vita dei bambini, spesso costretti a imbracciare le armi sin dalla più tenera età. Le immagini di quei bambini-soldato, trasmesse per televisione, le avevano sempre stretto lo stomaco. Quei bambini, poco più grandi del suo Giacomo, avevano diritto a giocare spensierati e liberi, proprio come i loro coetanei 91 occidentali. Aveva navigato intere notti in internet, alla ricerca di informazioni su quella Kabul tanto lontana, ma ora spaventosamente vicina. Quelle molotov e quei kamikaze la spaventavano. A rassicurarla, nei limiti del possibile, erano i visi di quei bambini e di quelle donne. Inizio settembre, una giornata di cielo terso su Roma. Domenica pomeriggio, le 16 circa. I bagagli erano già sul pianerottolo, un bacio veloce a sua madre Susanna e al piccolo Giacomo, senza indugiare troppo, senza permettergli di piangere ancora; e via all’aeroporto: il volo sarebbe partito di lì a poche ore. Kabul era sempre più vicina, ma Olga non avrebbe mai potuto, neanche lontanamente, immaginare cosa sarebbe successo durante quei giorni in Afghanistan. All’ingresso dell’aeroporto la attendevano Michele e Giorgia, abbigliati con larghi pantaloni ed abbondanti kaftani, le facce sorridenti, i visi distesi. Non potevano sapere, nessuno poteva sapere, cosa il destino aveva in serbo per loro. Sorrisi, bagagli, check-in ed eccoli seduti uno accanto all’altro in aereo. Olga infila le cuffiette del lettore mp3 nelle orecchie, le canzoni di quel rocker, che ama tanto, la accompagnano non solo durante i suoi viaggi, ma in ogni istante della sua vita. Fa scorrere velocemente il dito sulla playlist, eccola: «Cosa c’entra questo cielo lucido, che non è mai stato così blu. E che se ne frega delle nuvole, mentre qui manchi tu.» Su queste note si addormenta e sogna. A svegliarla è la voce della hostess che annuncia l’arrivo a Kabul. Scendono dall’aereo, respirano quell’aria che sa di terra e sole, recuperano i bagagli e affittano un vecchio fuo- 92 ristrada per poter raggiungere la base italiana. Un giro veloce in città: i giardini di Babur, il Mausoleo di Nadir Shah, il Faro dell’Indipendenza, il Palazzo Darul Aman e i Giardini Paghman. In quei luoghi bellissimi, spesso avvolti dalla devastazione, il tempo sembra essersi fermato a centinaia di anni fa. Una grande città, per molti invisibile, amata e violentata, che nasconde un patrimonio culturale inestimabile. Olga deve ricredersi: Kabul è un luogo fantastico, avvolto da un alone di magia e mistero, tipicamente orientali. È ormai il crepuscolo, la notte sta per scendere su Kabul, le strade sono deserte; all’ambasciata italiana attendono i tre reporter. L’atmosfera di accoglienza nella base italiana è festosa. I giorni trascorrono lenti e armoniosi, tra una ripresa e l’altra. Olga vaga per le strade di Kabul alla ricerca dei luoghi più nascosti e suggestivi. Quel posto, quell’oriente nell’oriente, è stato, per lei, una magnifica scoperta. Vive lì, a contatto con quella gente, con quei bambini, con quei soldati ormai da venti giorni. Riesce a telefonare a suo figlio appena una volta al giorno, ne sente la mancanza. Le riprese sono ormai terminate. Cala la notte sul ventunesimo giorno a Kabul. La mattina seguente un aereo militare li avrebbe riportati in patria. Ma durante la notte succede l’inatteso, ciò che sconvolge ogni equilibrio. Come a dire che il destino ha la sua puntualità. È buio terso su Kabul quando una molotov, di straordinaria potenza, fa saltare in aria il tricolore italiano e insieme a esso gran parte della base italiana. L’esplosione squarcia la notte come un fulmine a ciel sereno. La base 93 italiana viene distrutta. È una strage. Mancavano poche ore al ritorno a casa, mancava poco, troppo poco. È l’alba del ventiduesimo giorno a Kabul. Una molotov conficcata nell’asta della bandiera italiana li ha traditi. Il bilancio della strage è un bollettino di guerra: muoiono ventidue giovani soldati italiani e la sua amica, la compagna di mille avventure, Giorgia. Moltissimi sono i feriti: le loro condizioni sono preoccupanti. Olga si sente stordita, ha ancora nelle orecchie il boato di quell’esplosione, si rende conto di essere ancora viva. Miracolosamente. Non riesce a muovere le gambe, sono coperte da un cumulo di macerie. Tra le urla di disperazione appare Michele, ha il volto tumefatto e le braccia sanguinanti. Con la poca forza che ha ancora nelle braccia sposta, a poco a poco, i calcinacci che ricoprono Olga. Nonostante l’aiuto di Michele non riesce ad alzarsi, non avverte sensibilità negli arti inferiori. Michele la solleva, ormai esausto, portandola in salvo fuori dall’edificio. Scene di disperazione e morte scorrono davanti ai loro occhi. I soccorritori li recuperano ormai privi di sensi. Olga si sveglia, qualche ora dopo, nell’ospedale militare di Kabul, sotto lo sguardo vigile di un giovane medico. È frastornata al punto tale che riesce a udire a malapena le parole pronunciate dal giovane medico. Quelle parole si mescolano e confondono. Il medico, dispiaciuto, le sta comunicando che non potrà più camminare: il trauma e l’impatto sono stati troppo violenti per le sue gambe. Il giovane cerca di rassicurarla e di spigarle che potrà continuare a condurre una vita normale, ma soltanto su una sedia a rotelle. Sugli occhi di Olga cala il buio. Cosa? Era tutto vero oppure era soltanto un brutto sogno da 94 cui si sarebbe presto svegliata? Una sedie a rotelle? Cosa ne sarebbe stato della sua vita, della sua carriera? Come avrebbe continuato ad accudire suo figlio? Sarebbe stata la fine per lei; non avrebbe più avuto una vita normale. Il medico continuava dicendole che presto sarebbe stata trasferita in Italia, dove sarebbe stata sottoposta a ulteriori esami clinici per appurarne le condizioni. Un aereo militare la riporta in Italia, un paio di giorni dopo. Nonostante i continui accertamenti clinici, la diagnosi resta invariata: non potrà mai più camminare sulle sue gambe. Presto arrivano anche le dimissioni dall’ospedale. I giorni che seguono sono difficili non solo per Olga, ma anche per Susanna e Giacomo. Sono giorni difficili anche per Michele che fatica a superare quello shock e a riprendere il corso quotidiano della sua vita. Sono giorni di dolore per i familiari di Giorgia e dei soldati scomparsi. I mesi che seguono sono freddi e difficili, come le correnti gelide che spirano su Roma. Con l’arrivo della primavera tutto rifiorisce, anche l’animo di Olga, pronta e determinata a riprendere in mano le redini della sua vita. Accetta la sua condizione, del resto è un’invalida solo negli arti inferiori; ha tante idee, un’intelligenza straordinaria e, soprattutto, tanti sogni ancora da realizzare. E poi ha una bellissima famiglia, pronta a tutto pur di vederla sorridere. Deve realizzare quel documentario, deve celebrare e rendere onore a Giorgia e ai soldati caduti. Non può e non deve arrendersi. Quell’esperienza l’ha arricchita, l’ha resa una persona nuova, più sensibile ai problemi del mondo, più consapevole di quanto sia prezioso il dono della vita. Ripensa ai volti di quei bambini, di quelle donne, di quei soldati, di suo figlio. Lo deve a loro: deve ricominciare 95 con calma, senza strappi al motore, riassaporare la vita lentamente. È una calda giornata di luglio, all’auditorium è tutto pronto per la presentazione del suo lavoro, di quel documentario intriso di sangue e lacrime. Michele non ha voluto aiutarla, non se l’è sentita, non ha ancora chiuso il suo conto con Kabul. L’auditorium è gremito: gente comune, famiglie, giovani e meno giovani, i familiari dei caduti, registi. Il silenzio dei cinquanta minuti del filmato è rotto solo da brevi singulti di pianto, di commozione, di ricordo. Cala il sipario. In sala è il tripudio. Un applauso interminabile accompagna Olga sul palco, a bordo della sua carrozzella. Pronuncia solo poche parole commosse: «Quest’opera è per voi, per i ventitré caduti di Kabul, del 25 settembre scorso. Devo ringraziarvi, mi avete dato la forza necessaria per rialzarmi. Non odiate l’Afghanistan, non odiate Kabul, non è solo guerra e morte, è tradizione, posti bellissimi e misteriosi, è gente che ha bisogno di speranza e sorrisi. Non odiate coloro che provocano quelle guerre in Oriente, non fatelo per i nostri caduti perché loro amavano quella terra, il loro era un messaggio di pace e fratellanza. Kabul mi ha resa una persona migliore, più forte e sensibile. Ho imparato ad amare Kabul, fatelo anche voi». Scende dal palco. Gli applausi riecheggiano nell’auditorium. Michele è lì, a pochi passi da lei, si avvicina, piange, le accarezza il viso, si abbracciano: niente paura, ci penserà la vita. E quello non poteva che essere un nuovo inizio.