La corazzata Giulio Cesare

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La corazzata Giulio Cesare
UCCIO DE SANTIS
PAOLINO VITOLO
La corazzata Giulio Cesare
I.S.S.E.S.
Istituto di Studi Storici Economici e Sociali
Le notizie e le immagini presenti in questo testo sono parzialmente
tratte da:
"Giulio Cesare (nave da battaglia)" Wikipedia, L'enciclopedia libera.
11 gen 2015, 15:10 UTC+1. 11 gen 2015, 15:10
<https://it.wikipedia.org/wiki/Giulio_Cesare_(nave_da_battaglia)>.
I.S.S.E.S.
Istituto di Studi Storici Economici e Sociali
Indice
La costruzione .................................................................................... 7
Prima guerra mondiale e primo dopoguerra ..................................... 13
La ricostruzione ................................................................................ 15
Scafo ............................................................................................. 15
Apparato ....................................................................................... 16
Armamento ................................................................................... 17
Rientro in servizio ............................................................................ 19
Seconda guerra mondiale ................................................................. 21
Armistizio ..................................................................................... 25
L’ammutinamento ........................................................................ 25
Il trattato di pace ........................................................................... 30
Novorossijsk ..................................................................................... 32
L'affondamento ............................................................................. 37
La costruzione
La legge del 27 giugno 1909 approvò il “secondo programma navale” voluto dal ministro della Marina vice ammiraglio Mirabello che
aveva caldeggiato la costruzione di nuove corazzate. Pertanto dopo la
prima “dreadnought” italiana, la “ Dante Alighieri”, la cui costruzione era stata già approvata nel 1906, si poterono impostare tre nuove
unità di tipo “ dreadnought 1”: la Conte di Cavour, la Giulio Cesare e
la Leonardo da Vinci da 23.000 ton.
Con questa nuova classe di unità si decise, tra l’altro, di utilizzare le
notevoli potenzialità dei cantieri navali nazionali e dei grandi Arsenali della Marina di La Spezia, Venezia e Napoli (completato dal
Cantiere di Castellammare di Stabia), e dai complessi industriali
dell’Ansaldo e dell’Odero a Genova, dell’Orlando a Livorno e del
Pattison a Napoli.
La Conte di Cavour fu varata nel 1911 e completata nel 1915
dall’Arsenale di La Spezia.
La Giulio Cesare fu varata nel 1911 e completata nel 1914
dall’Ansaldo di Genova.
La Leonardo da Vinci fu varata nel 1911 e completata nel 1914 dall’
Odero di Genova.
Seguirono subito dopo altre due corazzate, la Doria e la Duilio , varate entrambe nel 1913 rispettivamente nell’Arsenale di la Spezia e a
Castellammare e nell’imminenza della guerra il programma di 4
nuove super “dreadnought” da 34.000 t.: Caracciolo, Colombo, Colonna e Morosini. Queste quattro unità furono impostate tutte nel
1915, ma poi la loro costruzione fu interrotta. Solo la Caracciolo fu
varata nel 1920 a Castellammare e mai completata.
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Dal nome della HMS Dreadnought della Royal Navy britannica, varata nel
1906, prima corazzata con batterie di cannoni mono calibro e turbine a vapore. Fu una nave così rivoluzionaria che il suo nome divenne un termine
generico per le navi da battaglia moderne, mentre quelle precedenti vennero
definite pre-dreadnought.
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Il suo scafo fu portato a rimorchio prima a La Spezia e poi a Baia
(Napoli). Il generale del GN Giuseppe Rota elaborò un progetto per
utilizzarlo per una portaerei (del tipo dell’inglese Argus), ma la Marina non lo approvò perdendo così una grande occasione.
Lo scafo fu venduto alla Compagnia Italia che voleva trasformarlo in
transatlantico veloce, ma anche questo progetto fallì e pertanto fu
demolito a Napoli nell’ottobre 1921.
Le tre unità della classe Cavour furono accumunate da un singolare
ed avverso destino. Tutte e tre furono colpite e messe fuori combattimento non in battaglia, ma mentre erano ferme in porto.
La Leonardo da Vinci andò perduta per sabotaggio il 2 agosto 1916
mentre era nel porto di Taranto. La Cavour fu danneggiata in modo
irreparabile sempre a Taranto colpita da aerosiluranti inglesi l’11 novembre 1940. La Cesare esplose mentre era all’ancora a Sebastopoli,
quando era sotto bandiera russa, il 28 ottobre 1955.
La corazzata Giulio Cesare, come abbiamo detto, fu impostata nel
cantiere Ansaldo di Sestri Ponente il 24 giugno 1910. Fu varata dopo
poco più di un anno, il 15 ottobre 1911, e fu completata il 14 maggio
1914. La sua costruzione richiese in totale quasi tre anni.
La bandiera di combattimento, in seta, fu ricamata a mano dalle orfane dei militari a Torino. Il cofano 2 fu realizzato in bronzo con decorazioni a smalto. Bandiera e cofano furono pagati con una colletta
fatta nelle scuole italiane e, nonostante le vicissitudini che portarono
alla perdita della corazzata, sono tuttora sul suolo della Patria, a Roma, nel Sacrario delle Bandiere del Vittoriano.
Cofano e bandiera furono consegnati il 7 giugno 1914 a Napoli, alla
presenza del Duca d'Aosta e di oltre mille invitati, da un comitato
presieduto dal preside del Liceo Mamiani di Roma.
L'unità ebbe nel corso della sua storia vari motti. Il primo fu “Ad
quamvis vim perferendam”, tratto da una frase del libro III del De
2
Contenitore metallico destinato a conservare la bandiera di combattimento
quando non in uso.
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bello Gallico, in cui Cesare, commentando l'avanzata terrestre delle
sue legioni contro i Galli, avendo inviato parte delle sue forze via
mare con una flotta al comando di Decimo Bruto, descriveva le navi
di questa flotta, come” naves totae factae ex robore ad quamvis vim
et contumeliam perferendam” cioè navi costruite interamente in rovere per sostenere qualsiasi urto ed ogni percossa. Tale motto venne
sostituito nel 1920 dal nuovo “Caesar adest” (Cesare è qui) , tratto
un'epigrafe in distici latini scelta in seguito ad un concorso pubblico,
composta da Vito Vaccaro di Palermo. Infine il motto “Guai agli
inermi!” venne adottato dopo la ricostruzione.
La nave da battaglia aveva dimensioni di tutto rispetto:
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dislocamento a pieno carico: 23.086 t
lunghezza fuori tutto: 176,1 m
larghezza al baglio massimo: 28 m
pescaggio: 9,4 m
L’apparato propulsore a vapore era dotato di 24 caldaie e di 3 turbine
Parsons e 4 assi motori, per una potenza totale di 31.000 C.V. La velocità massima era di 21,5 nodi e l’autonomia era di 4.800 miglia a
10 nodi.
L’armamento era così costituito:
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13 cannoni da 305/46 Mod. 1909 (tre torri trinate + due torri
binate)
18 cannoni da 120/50 Mod. 1909
22 cannoni da 76/50 Mod. 1909
3 lanciasiluri da 450 mm
I cannoni da 305/46 furono costruiti dalla Armstrong di Pozzuoli,
una fabbrica attiva nel campo delle artiglierie navali fin dal 1885. La
corazzatura era distribuita su una cintura continua, attorno ai fianchi
della nave, e sul ridotto3 che si estendeva dalla torretta sopraelevata
3
Il ridotto o ridotto corazzato nelle navi militari era la porzione di scafo dotata di una forte corazzatura allo scopo di proteggere le parti più importanti
della nave quali le artiglierie, l'apparato motore, i depositi munizioni. Il ri-
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di poppa fino a prua. La cintura, larga 2,8 m, di cui il 57% sopra linea di galleggiamento, aveva spessore massimo 250 mm e si assottigliava fino a 100 mm a prua ed a 120 mm a poppa. La cittadella 4 era
protetta da una corazza di 220 mm di spessore. Il ponte era protetto
da due strati da 12 mm e nelle parti inclinate raggiungeva i 40 mm
totali. Le torrette avevano una protezione frontale di 280 mm e di
220 mm ai lati. La torre di comando di prua aveva una protezione di
280 mm mentre quella di poppa era solo di 160 mm. I pezzi da
120/50 mm avevano una protezione da 130 mm. La corazzatura pesava ben 5.150 t (circa 1/4 del dislocamento) ed era tutta di acciaio al
nichel, fornito da ditte statunitensi ed inglesi e sottoposto a cementazione, secondo il processo Krupp, presso le acciaierie di Terni.
La nave fu dotata di un sistema di reti metalliche parasiluro, che venivano tese da un sistema di bracci buttafuori intorno alla nave. Il sistema poteva essere impiegato praticamente solo con la nave all'ancora. In navigazione, le reti venivano arrotolate e fissate, con i loro
bracci, sui fianchi della nave. Tale sistema fu eliminato da tutte le
navi della Regia Marina nel corso del 1916.
L'apparato motore, che permetteva di raggiungere la velocità massima di 21 nodi, era costituito da tre gruppi indipendenti di turbine collegati a quattro assi portaeliche ed alimentati da ventiquattro caldaie
tipo Babcock, di cui dodici con combustione a nafta e dodici con
combustione mista carbone e nafta, a differenza delle gemelle Cavour e Leonardo da Vinci, le cui turbine erano alimentate da venti
caldaie tipo Blechynden, di cui otto con combustione a nafta e dodici
con combustione mista carbone e nafta. Ciascuna caldaia era collegata al doppio anello delle tubolature principali e sussidiarie di vapore
ed era dotata di polverizzatori tipo Thornycroft per una migliore efficienza della combustione della nafta, soluzione che sarebbe stata
adottata anche per le caldaie Yarrow delle successive Duilio.
dotto era generalmente situato nella parte centrale della nave e si estendeva
dal deposito della prima torre prodiera fino a quello dell'ultima torre di poppa.
4
La cittadella è un’area blindata all’interno della nave, usata anche su navi
non da guerra.
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Anche lo schema del funzionamento delle turbine era identico a quello che sarebbe stato adottato sulle successive Duilio, con ogni gruppo
di turbine costituito da una turbina di alta pressione e da una di bassa
pressione per la marcia avanti. Le due turbine sia di alta sia di bassa
pressione dei gruppi laterali agivano su di un solo asse, mentre quelle
del gruppo centrale agivano sui due assi centrali. La turbina di marcia indietro nei gruppi laterali era incorporata nella turbina di bassa
pressione, mentre il gruppo centrale era dotato di due turbine di marcia indietro, una per ciascun asse. Le sei turbine di marcia avanti, che
agivano sui quattro assi portaeliche, sviluppavano una potenza complessiva di 23.000 kW (31.000 CV), mentre le quattro turbine di
marcia indietro, sviluppavano 10.000 kW (14.000 CV) di potenza.
Nelle andature normali il vapore veniva introdotto direttamente ed
indipendentemente in ciascuna delle tre turbine di alta pressione, da
dove passava e si espandeva nelle corrispondenti turbine di bassa
pressione per poi scaricarsi nei rispettivi condensatori. Per le andature a velocità ridotta venivano tenuti in azione o i due gruppi laterali
solamente o il gruppo centrale. L'andatura più economica si otteneva
mediante il funzionamento dei tre gruppi in serie, con il vapore che
entrava nella turbina di alta pressione laterale destra, per poi passare
a quella di alta pressione laterale sinistra e successivamente nelle
turbine di alta e bassa pressione centrali e infine scaricarsi nel condensatore centrale.
La riserva di combustibile era di 570 tonnellate di carbone e 350 tonnellate di nafta. L'autonomia era di 4.800 miglia ad una velocità di
10 nodi.
L'armamento principale si componeva di tredici cannoni da
305/46mm ripartiti in cinque torri, tre trinate e due binate, con una
torre trinata al centro e altre due torri trinate e le due torri binate disposte a poppa e a prua, con le torri binate sopraelevate rispetto a
quelle trinate.
L'armamento secondario era costituito da 18 cannoni da 120/50mm e
22 cannoni da 76/50mm, mentre l'armamento silurante era costituito
da tre tubi lanciasiluri da 450mm, ognuno dei quali dotato di tre silu11
ri. I cannoni da 120/50mm, come quelli della corazzata Dante Alighieri, erano Elswick Pattern, mentre i cannoni da 120/50mm delle
unità gemelle Cavour e Leonardo da Vinci erano Vickers. Le torri
corazzate dei cannoni da 305mm erano brandeggiabili mediante un
sistema sia idraulico che elettrico, mentre l'elevazione delle munizioni dai depositi, il caricamento e la manovra delle grosse artiglierie
all'interno delle torri erano solo idraulici. La manovra delle artiglierie
secondarie era invece esclusivamente manuale.
Figura 1 - La corazzata Giulio Cesare nel 1914, dopo il varo.
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Prima guerra mondiale e primo dopoguerra
All'entrata in guerra dell'Italia nel primo conflitto mondiale la nave al
comando del Capitano di Vascello Lobetti venne inquadrata nella I
Divisione di base a Taranto.
Il 13 marzo 1916 la corazzata venne spostata a Valona e, dopo essere
rientrata a Taranto, nel dicembre 1916 venne dislocata a Corfù. Il 2
agosto intanto la corazzata gemella Leonardo da Vinci era affondata
mentre si trovava ormeggiata a Taranto, in seguito ad un'esplosione
causata molto probabilmente da un sabotaggio austriaco. Successivamente nel marzo 1917 la Giulio Cesare venne impiegata nel Mar
Ionio, nell'Adriatico meridionale e nelle isole dello Ionio. In totale
durante il conflitto la corazzata venne impiegata per 40 ore in 3 missioni di guerra, specificatamente azioni di ricerca del nemico senza
esito, e 966 ore in attività addestrative; la nave non venne quindi mai
impiegata in azioni di combattimento a causa della politica passiva
adottata dalle Marine italiana ed austriaca.
Al termine del conflitto, il 10 novembre 1918, la Giulio Cesare, insieme alla Caio Duilio raggiunse Corfù per un periodo di esercitazioni. Il 9 settembre 1919 la Giulio Cesare rilevò a Smirne la Caio Duilio. La presenza di unità della Regia Marina in quelle zone fu conseguenza della vittoria sugli Imperi Centrali di cui faceva parte l'Impero Ottomano, che venne diviso in zone di occupazione e di influenza,
con i vincitori che tendevano a stabilizzare le loro occupazioni territoriali. L'Italia aveva particolare interesse alla zona di Smirne, dove
operava il corpo di spedizione italiano e per appoggiare tali interessi
la presenza di grandi navi da battaglia era determinante. Successivamente la nave venne impegnata in una crociera propagandistica verso
l'America del Nord, toccando i porti di Gibilterra, Ponta Delgada,
Faial, Halifax, Boston, Newport, Tompkinsville, New York, Philadelphia, Annapolis, Hampton Roads.
Nel 1923 la Giulio Cesare prese parte all'attacco all'isola greca di
Corfù, come rappresaglia per l'uccisione di rappresentanti italiani a
Giannina. Il 27 agosto 1923 la missione militare italiana, presieduta
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dal generale Tellini e incaricata dalla Conferenza degli Ambasciatori
della delimitazione del confine greco-albanese, era stata trucidata in
un'imboscata ed il capo del governo italiano Mussolini chiese che la
flotta greca in un'apposita cerimonia rendesse gli onori alla bandiera
italiana. La proposta era stata rifiutata dal governo greco e Mussolini
replicò inviando una divisione navale composta dalle corazzate Cavour, Cesare, Doria e Duilio ad occupare Corfù. Dopo che le navi
italiane bombardarono il 29 agosto il vecchio forte della città, il governo greco dovette accettare l'imposizione degli onori alla bandiera
italiana che la Squadra navale italiana ricevette al Falero, uno dei
porti presso Atene. Il 30 settembre 1923 le navi rientrarono a Taranto.
Nel corso degli anni ‘20 l'unità fu sottoposta a vari lavori di ammodernamento e l'armamento antiaereo subì delle lievi modifiche con la
sostituzione di sei cannoni da 76/50mm, con altrettanti da 76/40mm
di più moderna concezione e la sostituzione dell'albero anteriore tripode con un albero quadripode a sostegno di una centrale telemetrica
più alta che ne modificava il profilo.
Nel 1925 sull'unità venne imbarcato un idrovolante da ricognizione
Macchi M.18, che venne sistemato sul cielo della torre centrale in
un'apposita sella brandeggiabile per poter orientare il velivolo secondo la direzione del vento. L'aereo veniva messo in mare ed issato a
bordo per mezzo di un albero di carico. Nel 1926 per il lancio dell'idrovolante fu anche installata una catapulta.
Il 12 maggio 1928 la nave fu posta in disarmo a Taranto e dal 1928
al 1933 fu utilizzata come nave d'addestramento per gli artiglieri.
Nell'ottobre del 1933 lasciò La Spezia per rientrare in cantiere fino al
1937 per un radicale riammodernamento.
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La ricostruzione
I lavori di ricostruzione furono affidati ai Cantieri del Tirreno ed effettuati negli stabilimenti di Genova. La ricostruzione lasciò inalterato solo il 40% della struttura originale, riutilizzando in pratica solamente lo scafo e la corazzatura di murata, per il resto si trattò di una
trasformazione radicale, con potenziamento dell'armamento, aumento del dislocamento e della potenza dell'apparato motore. Le modifiche cambiarono il profilo della nave e ne aumentarono le capacità di
combattimento.
Scafo
La scafo fu allungato di 10,3m per aumentarne il coefficiente di finezza e contribuire ad aumentare la velocità della nave. Si operò sovrapponendo una nuova prora alla vecchia e dotando l'opera viva di
un bulbo. In tal modo il castello di prua risultò allungato e allargato
nella parte poppiera per proseguire nella sovrastruttura centrale, con i
due fumaioli che risultarono più bassi e più ravvicinati; venne eliminato uno dei due alberi, quello che si trovava immediatamente dietro
al torrione, mantenendo solamente quello poppiero che, in conseguenza dell'aumento di lunghezza della nave, risultò più arretrato. La
parte poppiera, tranne l'abolizione di due assi portaeliche, non venne
modificata ed i due timoni rimasero gli stessi. La protezione, sia verticale che orizzontale, subì solamente dei minimi ritocchi. La cintura
verticale, al galleggiamento, mantenne lo spessore, assolutamente
insufficiente per una nave che avrebbe probabilmente dovuto sostenere combattimenti con navi armate con cannoni da 381 mm. Invece,
per rendere le due unità meno vulnerabili alle bombe di aereo, particolarmente a centro nave in corrispondenza dell'apparato motore,
vennero applicate sul ponte di protezione due strati da 12 mm di lamiere di acciaio. La protezione orizzontale era costituita da un ponte
di corridoio da 80 mm, uno di coperta da 13 mm e uno di sovrastruttura da 18+24 mm, con spessori inferiori a prora e a poppa. Allo scopo di aumentare la protezione, intorno ai basamenti cilindrici delle
torri di grosso calibro, vanne applicata una corazzetta di 50mm di
spessore, sistemata ad una distanza di 50cm dalla protezione vera e
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propria, per cui le torri si presentavano poggiate su basamenti più
massicci, conferendo all'unità una sensazione di maggior potenza e
sicurezza dal punto di vista estetico
Il torrione fu completamente ricostruito. La sua protezione era di 260
mm a forma tronco-conica. Non molto elevato, aveva alla sommità
una torretta rotante con due stereotelemetri con base di 7,2 m, per il
calcolo della distanza dei bersagli, e le apparecchiature per la direzione tiro dei calibri principali. Il torrione ospitava la direzione di tiro occupata dal Primo Direttore di Tiro che tramite l'A.P.G. (Apparecchio di Punteria Generale) assegnava il bersaglio e comandava il
fuoco delle batterie principali. La direzione di tiro era direttamente
connessa con la Centrale di Tiro, posta alla base del torrione. Nel caso di avaria della stazione di tiro sul torrione, il fuoco dei cannoni
principali poteva essere diretto dalla torre di prua superiore o da
quella di poppa, subito dietro il fumaiolo, che ospitavano un telemetro da 9 m di base. La punteria della torre poteva sostituire l'A.P.G.
asservendo le altre torri.
Molto interessante era la protezione subacquea, costituita da cilindri
assorbitori modello "Pugliese", dal nome dell'ingegnere e generale
del Genio Navale Umberto Pugliese che fu il progettista di tale sistema. Tale protezione consisteva in due lunghi cilindri deformabili,
che, posti lungo la murata, all'interno di una paratia piena, avevano il
compito di assorbire la forza dell'onda d'urto provocata dall'esplosione di un siluro o di una mina, disperdendola all'interno del cilindro
stesso. L'efficacia di tale protezione rimane controversa e non è stata
né confermata né smentita dalle vicende belliche. Le Cavour ricostruite furono le prime unità ad adottare tale sistema di protezione,
che sarebbe stato adottato in seguito anche nella ricostruzione delle
Duilio e nella costruzione delle Littorio.
Alla fine le modifiche portarono il dislocamento dell'unità a 29000
tonnellate.
Apparato motore
Le modifiche alla propulsione videro l'installazione di nuovi motori
dalla potenza di 56. 000kW (75.000 CV), che nelle prove a tutta for16
za giunsero a sviluppare una potenza di 69.000kW (93.000 CV) e
consentivano all'unità di raggiungere una velocità di 28 nodi. La produzione del vapore era assicurata da otto caldaie a tubi d'acqua con
surriscaldatori di tipo Yarrow, con bruciatori a nafta che alimentavano due gruppi indipendenti di turbine Belluzzo, che azionavano due
assi con eliche a tre pale. Vennero eliminati due dei quattro assi,
mentre caldaie e gruppi turboriduttori trovarono posto in posizione
centrale a poppavia del torrione comando. Ogni gruppo di turbine era
composto da una turbina di alta pressione, da due turbine di bassa
pressione con incorporata la marcia indietro e da un riduttore. I due
gruppi vennero rispettivamente disposti in un locale a poppavia delle
caldaie di sinistra e in un locale a proravia delle caldaie di dritta.
La riserva di combustibile era di 2.500 tonnellate di nafta e l'autonomia era di 3.100 miglia ad una velocità di 20 nodi.
L'apparato motore mostrò sempre grande affidabilità, non essendosi
mai verificate avarie di grave entità ed avendo sempre retto abbastanza bene anche agli sforzi prolungati di navigazione a tutta forza.
Armamento
L'armamento nei lavori di ricostruzione venne radicalmente modificato. L'armamento principale vide l'eliminazione della torre a centro
nave e la ritubazione delle altre torri da 305mm/46 a 320mm/44, per
un totale di 10 cannoni in due torri trinate e due torri binate nelle
classiche posizioni prodiera e poppiera, con le torri binate sopraelevate rispetto a quelle trinate. Il ricalibramento dei cannoni principali,
consentito dal largo margine di resistenza dell'arma originale, permise di dotare la nave, e le altre unità sulle quali venne fatto questo imponente lavoro, di armi più potenti del 30% dei cannoni originali; i
nuovi impianti, inoltre, ebbero la manovra elettrica in sostituzione di
quella idraulica originale.
L'armamento secondario fu totalmente modificato sbarcando tutti i
vecchi cannoni e, dopo la ricostruzione, venne configurato in 12 cannoni OTO da 120/50mm, in 6 torrette binate, disposte tre per lato,
che, con un'elevazione massima di 33º a cui corrispondevano 18.300
metri di gittata, non erano utilizzabili contro gli aerei; questi cannoni
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avrebbero equipaggiato tutte le classi di cacciatorpediniere costruiti
per la Regia Marina a partire dagli anni ‘30: i Maestrale, gli Oriani e
le due serie della classe Soldati.
L'armamento antiaereo principale era costituito da 8 cannoni da
100/47mm in torrette singole, 4 per ogni lato della nave, con cui furono armati, oltre alle Cavour, tutti gli incrociatori. Esso poteva
svolgere anche compiti antinave, ma in funzione antiaerea, con l'aumento della velocità dei velivoli e con le nuove forme di attacco in
picchiata, mostrò diversi limiti, rivelandosi utile solo nel tiro di sbarramento, tanto che venne approntato un nuovo cannone, il modello
singolo 90/50 A-1938 con affusto stabilizzato, che trovò posto sulle
Duilio ricostruite e sulle Littorio.
Completavano l'armamento antiaereo 16 cannoni da 37/54mm Mod.
1932 in otto torrette binate, particolarmente utili contro gli aerosiluranti e in generale contro i bersagli a bassa quota, e dodici mitragliere da 20/65mm Mod. 1935, in sei impianti binati.
I tubi lanciasiluri infine vennero rimossi.
Figura 2 - La Giulio Cesare nel 1937, dopo la ricostruzione
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Rientro in servizio
I lavori di ricostruzione, iniziati il 25 ottobre 1933 durarono fino al 1º
giugno 1937. Come detto precedentemente, erano stati effettuati
presso i Cantieri del Tirreno di Genova. Al termine dei lavori il 3
giugno la nave raggiunse La Spezia per completare il ciclo delle prove e dei collaudi, terminati i quali, il 1º ottobre successivo entrò in
squadra raggiungendo il 3 ottobre la propria base operativa di Taranto.
La ristrutturazione ne fece complessivamente una nave di buon livello, anche se con scarse difese antiaeree e antisottomarine.
Nel 1938, dopo aver preso parte nel mese di maggio alla parata navale di Napoli in occasione della visita di Hitler in Italia, a giugno effettuò una visita a Malta e a luglio visitò Cattaro e Sebenico.
All'inizio di aprile 1939 la nave partecipò all'occupazione dell'Albania. Nell'occasione la Regia Marina schierò davanti alle coste albanesi una squadra navale al comando dell'ammiraglio Arturo Riccardi,
con insegna su Conte di Cavour, composta dalle due Cavour, fornite
dalla scorta dei cacciatorpediniere della X Squadriglia e dalle torpediniere della XI Squadriglia, dai quattro incrociatori pesanti Zara,
scortati dai cacciatorpediniere Oriani della IX Squadriglia e dalle
torpediniere della VIII Squadriglia, dagli incrociatori leggeri Abruzzi
e Garibaldi della VIII Divisione, scortate dai cacciatorpediniere Fulmine e Freccia e dalle torpediniere della I Squadriglia, dall'incrociatore Bande Nere, cui dal 9 aprile si aggregò il Cadorna, con la scorta
dei cacciatorpediniere Da Recco, Folgore e Baleno, dei cacciatorpediniere della II Squadriglia, dalle torpediniere Pleiadi, Polluce, Prestinari e Pilo, per un totale di 2 corazzate, 8 incrociatori, 17 cacciatorpediniere, 16 torpediniere, cui sono da aggiungere la nave appoggio idrovolanti Miraglia, 12 sommergibili, varie unità minori quali
MAS e varie motonavi su cui erano imbarcati in totale circa 11.300
uomini, 130 carri armati e materiali di vario genere. Nonostante l'imponente spiegamento di forze, l'azione delle navi italiane nei confronti dei timidi tentativi di reazione da parte albanese si limitò sol19
tanto ad alcune salve sparate a Durazzo e a Santi Quaranta. Le forze
italiane incontrarono scarsissima resistenza e in breve tempo tutto il
territorio albanese fu sotto il controllo italiano, con re Zog costretto
all'esilio.
L'occupazione dell'Albania, che poneva l'Adriatico sotto l'esclusivo
controllo italiano, con la possibilità di chiuderne definitivamente
l'accesso, dal punto di vista politico rispondeva all'occupazione tedesca dei Sudeti, anticipando quella che nel primo periodo della seconda guerra mondiale sarebbe stata la cosiddetta "guerra parallela".
Contemporaneamente intendeva far capire al resto d'Europa, e soprattutto alla Francia, che i Balcani rientravano nella sfera d'influenza esclusiva dell'Italia.
Nei restanti mesi del 1939, e nei primi mesi del 1940, la Giulio Cesare, insieme ad altre unità della squadra navale, venne dislocata saltuariamente nelle acque albanesi, stazionando nei porti di Valona e
Durazzo.
Figura 3 - Cavour e Cesare, in linea di fila, passano vicino all'isola di Capri.
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Seconda guerra mondiale
Allo scoppio del secondo conflitto mondiale la nave era inquadrata
nella V Divisione navi da battaglia di base a Taranto nell'ambito della I Squadra Navale, ricoprendo il ruolo di ammiraglia di Divisione
con insegna dell'ammiraglio Brivonesi, mentre alla corazzata gemella Cavour venne assegnato il ruolo di ammiraglia della flotta con insegna dell'ammiraglio Inigo Campioni.
Dopo avere preso il mare il 7 luglio al comando del Capitano di Vascello Angelo Varoli Piazza, per far parte della scorta ad un convoglio partito da Napoli il 6 luglio e diretto a Bengasi, il 9 luglio tale
missione culminò nel primo scontro tra navi della Regia Marina e
navi della Royal Navy: la battaglia di Punta Stilo. Nel corso dello
scontro una salva lunga del Giulio Cesare danneggiò lievemente i
caccia Hereward e Decoy. L'unità venne a sua volta colpita da un
proiettile da 15 pollici (381 mm) sparato dalla corazzata britannica
HMS Warspite, nave con insegna dell'ammiraglio Andrew Cunningham. Il colpo messo a segno dall'unità britannica da più di 24 km di
distanza, stabilì il record per cannoneggiamento navale contro un
bersaglio in movimento. In seguito a questa battaglia, in cui perirono
settanta componenti dell'equipaggio, la sua bandiera venne decorata
di medaglia d'argento al valor militare. I danni non furono gravi e
dopo alcuni minuti di immobilità la nave riprese la navigazione.
La Giulio Cesare venne colpita da una granata che, attraversato il
fumaiolo poppiero, esplose provocando un principio d'incendio. Le
esalazioni di fumo e gas, portate dai turboventilatori nei locali di
quattro caldaie della nave, costrinsero allo spegnimento delle caldaie
stesse. Intorno al punto dello scoppio restarono corpi di marinai straziati. Il colpo fu visto da Cunningham a bordo del Warspite. A questo punto, con solo quattro caldaie in funzione, la velocità venne ridotta a 18 nodi, mentre la nave si allontanava dal teatro di battaglia,
pur continuando a sparare con i cannoni di poppa. Poco dopo, grazie
al prodigarsi dell'equipaggio, due caldaie vennero riparate e, con sei
caldaie in funzione, la velocità aumentò a 24 nodi. Così la Giulio Ce21
sare poté raggiungere Messina insieme con gli incrociatori Trento
della III Divisione dell'ammiraglio Cattaneo.
Pare che a sua volta anche la corazzata inglese fosse stata colpita da
una delle Cavour, anche se la cosa non è mai stata confermata. Un
Tenente di Vascello a bordo del Freccia, che si trovava a prora di una
delle due corazzate impegnate in quel momento nel tiro balistico con
la Warspite, vide alcuni proietti cadere vicino alla nave britannica e
del fumo blu innalzarsi dalla corazzata inglese. Questa rilevazione fu
confermata anche da alcuni uomini di vedetta del Giulio Cesare. Anche alcuni giornalisti imbarcati a bordo di varie unità italiane confermarono l'avvistamento del colpo. Anche se negli annali ufficiali
britannici, pubblicati dopo la guerra, non viene fatta menzione di alcun colpo incassato dall'ammiraglia della Mediterranean Fleet,
nell'autobiografia dell'Ammiraglio Cunningham, pubblicata pochi
anni dopo, viene citato il fatto che la Warspite rientrò in porto ad
Alessandria con un notevole sbandamento e che molti pensarono che
avesse subito danni. A detta di Cunningham, in realtà l'equipaggio
stava solamente controllando eventuali danni sotto la linea di galleggiamento.
Seguendo il filo logico di tali incongruenze, lo storico navale Enrico
Cernuschi ha condotto una lunga ricerca, durata oltre cinque anni, ed
ha rinvenuto una raccolta denominata ADM199 "Wartime damages
to ships: Reports 1939-1945 ", una collezione di documentazione risalente alla guerra, ed ha scoperto che i resoconti sulla Warspite erano mancanti e sostituiti da un foglietto dattiloscritto con la dicitura
"Not available" (non disponibile). Tale assenza confermerebbe la
teoria di una possibile "insabbiatura" da parte delle autorità britanniche, allo scopo di mantenere l'assoluto segreto sui danni subiti dalla
Royal Navy durante il periodo 1940-41 nel Mediterraneo, in quanto i
resoconti relativi a tale periodo erano stati sistematicamente ripuliti.
La Giulio Cesare venne inviata all'Arsenale di La Spezia per i necessari lavori di riparazione e il successivo 30 agosto prese parte con
gran parte delle unità della Iª Squadra e con altre unità partite da
Messina e da Brindisi ad un'azione di contrasto all'Operazione Hats,
con cui gli inglesi tentavano di far giungere un convoglio da Ales22
sandria d'Egitto per rifornire Malta. La Squadra Navale italiana, che
vedeva per la prima volta l'impiego delle due nuovissime navi da battaglia Vittorio Veneto e Littorio, non riuscì però a venire a contatto
del nemico, anche a causa di una violenta burrasca che costrinse al
rientro le navi italiane, non potendo i cacciatorpediniere reggere il
mare.
Superata indenne la notte di Taranto dell'11-12 novembre 1940, in
cui la gemella Conte di Cavour venne gravemente danneggiata, la
"Giulio Cesare" fu trasferita a Napoli insieme a Doria e Vittorio Veneto, con la scorta della X e XIII Squadriglia, dove partecipò alla difesa antiaerea della città.
Il successivo 26 novembre la nave uscì in mare, in formazione con la
Vittorio Veneto, altra nave da battaglia uscita indenne dalla notte di
Taranto, e ad altre unità della I e della II Squadra, per intercettare la
Forza H dell'Ammiraglio Somerville, proveniente da Gibilterra, che
aveva preso il mare per proteggere un convoglio diretto a Malta ed
Alessandria. Il contatto tra le forze navali italiane e britanniche avvenne nei pressi della Sardegna e culminò il 27 novembre nella battaglia di Capo Teulada. Nell'occasione la corazzata Vittorio Veneto
venne aggregata alla Vª Divisione Corazzate, andando a ricoprire il
ruolo di "nave insegna".
Dopo il rientro a Napoli, nel pomeriggio del 15 dicembre, avuto notizia che il giorno precedente gli inglesi avevano nuovamente attaccato la base di Taranto, danneggiando l'incrociatore pesante Pola, la
Giulio Cesare, insieme con Vittorio Veneto, Zara, Gorizia e con i
cacciatorpediniere della VII, IX e XV Squadriglia, salpò con destinazione La Maddalena, rientrando il 29 dicembre a Napoli dove nel
frattempo erano state rafforzate le difese antiaeree.
Il successivo 8 gennaio, in concomitanza con l'Operazione Excess,
la città partenopea venne bombardata da aerei della Royal Air Force
di base a Malta e la nave fu lievemente danneggiata, essendogli cadute vicino tre bombe, una delle quali, scoppiando sulla banchina,
provocò infiltrazioni d'acqua nella carena, causando avaria ad una
turbina, mentre alcune schegge di un'altra bomba causarono la morte
23
di cinque uomini dell'equipaggio e il ferimento di altri venti. Alle
17:00 del 9 gennaio Vittorio Veneto e Giulio Cesare lasciarono gli
ormeggi, visto che anche Napoli non era più sicura, la prima per La
Spezia, la seconda verso Genova, da dove, effettuate le necessarie
riparazioni, alla fine di gennaio del 1941 raggiunse La Spezia.
Il successivo 8 febbraio si ebbe notizia che navi britanniche della
Forza H, tra cui la portaerei Ark Royal, provenienti da Gibilterra
erano in avvicinamento verso le coste italiane. Pertanto una forza navale al comando dell'ammiraglio Angelo Iachino, formata da Cesare,
Doria e Vittorio Veneto, con la scorta della X e XIII Squadriglia,
uscì in mare alla ricerca del nemico, convinta che l'obiettivo degli
inglesi fosse la Sardegna. La flotta italiana si sarebbe dovuta incontrare il mattino seguente presso l'Asinara con gli incrociatori della
classe Trento della III Divisione provenienti da Messina con la scorta
dei cacciatorpediniere della XI Squadriglia. Purtroppo però il contatto con la flotta inglese non avvenne, perché il mattino seguente le
unità inglesi, eludendo il contatto con le navi italiane si presentarono
davanti a Genova bombardando la città.
Inizialmente la scelta di bombardare la città fu dovuta sia all'importanza di Genova come città industriale, sia alla volontà di dare un segnale alla Regia Marina che neanche nel Tirreno le navi italiane sarebbero state al sicuro. Inoltre nel cantiere erano in riparazione le corazzate Giulio Cesare e Caio Duilio; di queste la prima lasciò Genova alla fine di gennaio e la seconda fu scambiata per la Littorio. Comunque il servizio segreto inglese era venuto a conoscenza che a
Genova sarebbe giunto Franco per incontrare il 12 febbraio a Bordighera Mussolini e nell'incontro il Duce avrebbe sicuramente tentato
di convincere il Caudillo spagnolo a entrare in guerra a fianco
dell'Asse. Se la Spagna fosse entrata in guerra, la prima conseguenza
sarebbe stata la caduta di Gibilterra e tutto il Mediterraneo sarebbe
diventato dominio dell'Asse. Per impedire a tutti i costi che il governo spagnolo facesse tale passo, occorreva dimostrare la debolezza
dell'Italia, incapace persino di proteggere le proprie coste; perciò il
bombardamento di Genova, progettato come operazione militare, di24
venne una questione politica e dovette essere effettuato prima dell'arrivo di Franco in Italia.
Le forze dell'ammiraglio Iachino, venute a conoscenza dell'attacco a
Genova tentarono di raggiungere il nemico in ritirata verso Gibilterra, ma per una serie di disguidi arrivarono quando ormai era troppo
tardi e non riuscirono a stabilire il contatto. Mancato l'incontro, le
unità raggiunsero Napoli l'11 febbraio, proseguendo poi per La Spezia.
Fino alla fine del 1941, la corazzata Giulio Cesare fu assegnata a
compiti di scorta ai convogli. Nel dicembre 1941 partecipò alla scorta del convoglio M42, culminato nella prima battaglia della Sirte, in
cui faceva parte della forza di copertura a distanza insieme a Doria e
Littorio. Effettuò poi la sua ultima missione di guerra partecipando
dal 3 al 6 gennaio 1942 all'operazione M43, che aveva la finalità di
far trasferire tre convogli per un totale di sei navi a Tripoli, sotto la
protezione diretta ed indiretta della maggior parte delle forze navali.
Anche in questa occasione la Giulio Cesare, insieme a Doria e Littorio, costituiva la scorta indiretta.
Rientrata a Taranto, la corazzata venne dichiarata obsoleta per missioni operative, ed utilizzata solamente per operazioni di addestramento. Il 30 dicembre 1942 venne inviata a Pola, per essere utilizzata, anche a causa della mancanza di carburante, come nave caserma e
come nave di addestramento statico; nella città istriana si trovava il
giorno dell'armistizio.
Armistizio
A seguito delle clausole armistiziali, il 9 settembre 1943 dopo aver
ricevuto l'ordine da parte del Re di consegnarsi a Malta insieme al
resto della flotta.
L’ammutinamento
Sulla Cesare si ebbe, in occasione dell’armistizio, il più grande episodio di dissenso e ribellione all’improvvisa resa e all’ordine di portare la navi a Malta a consegnarsi agli inglesi.
25
Alla notizia dell’armistizio la nave fu frettolosamente messa in condizione di partire e vennero anche reimbarcate la munizioni. La partenza avvenne alle ore 15 del 9 settembre, ma il Comandante, Vittorio Carminati, non fece trapelare quale fosse la destinazione e la sorte a cui andavano incontro.
La nave uscì con equipaggio ridotto e nel pomeriggio mosse per la
sua destinazione insieme alla torpediniera Sagittario e alla corvetta
Urania. All'uscita del porto un sommergibile tedesco attendeva la corazzata, ma la torpediniera Sagittario, intuite le intenzioni del sommergibile, intervenne immediatamente e gli si lanciò contro tentando
di speronarlo e lo costrinse a scansarsi, per cui il siluro lanciato dal
battello tedesco mancò il bersaglio andando ad infrangersi sulla scogliera.
La corazzata aveva ricevuto l'ordine di andare a Cattaro in Dalmazia
per rifornirsi di carburante, dato che la nafta che si trovava nei serbatoi era insufficiente a raggiungere Malta e di rimanere lì in attesa di
nuovi ordini.
Intanto giunse notizia che Trieste e Fiume erano state occupate dai
tedeschi e con Venezia ogni comunicazione era interrotta.
Nella grande nave in navigazione in Adriatico nella notte tra il 9 e il
10 settembre cominciò a diffondersi un diffuso malessere soprattutto
tra un gruppo di sottoufficiali che si interrogò, insieme al Capo Servizio del Genio Navale maggiore Fornasari (direttore di macchina),
al Capitano del Genio Navale Spotti ed al Guardiamarina Tentoni,
sul loro destino e su quello della loro bella unità.
Affiorò in tutti il ricordo dei 68 commilitoni caduti allo scontro di
Punta Stilo con gli inglesi.
L’idea di consegnarsi al nemico ripugnava a tutti.
Alle 22:30 di quella notte del 9 settembre, quando la nave era
all’altezza di Ancona, il 2° capo Filipponi prese l’iniziativa di chiedere, tramite il capitano Spotti, al Comandante di chiarire le sue intenzioni.
26
Alla risposta evasiva di Carminati sul prossimo scalo a Cattaro, scattò la ribellione.
Alle 2.15 gruppi di uomini armati si impossessarono della nave, il
comandante ed altri ufficiali rimasti con lui vennero rinchiusi nel locale timoneria a poppa, praticamente agli arresti.
Il Direttore di Macchina maggiore Fornasari dispose di aumentare la
velocità facendo rotta per Ortona a Mare (la costa in quel momento
era a circa 70 miglia) e cominciarono i preparativi per
l’autoaffondamento, sistemando cariche esplosive intorno alle “ prese a mare” e nei locali caldaia.
Ma poi tutto rientrò. In due ore di frenetiche trattative alla fine il
Comandante assicurò che la sosta a Cattaro sarebbe stata solo tecnica
e che se vi fosse stato pericolo di consegnare la nave ad una potenza
straniera avrebbe dato immediatamente ordine di affondarla in cento
metri di fondo.
Alle 9:15 di quel 10 settembre il Comandante parlò all’intero equipaggio, assicurò che la nave sarebbe restata con la bandiera italiana
sotto comando italiano e promise che della ribellione non avrebbe
fatto parola (non sarà così).
La nave così proseguì in direzione di Cattaro, e dopo essere stata avvistata nella mattinata da un ricognitore tedesco e dopo essersi ricongiunta intorno alle 12:15 con la nave appoggio Miraglia proveniente
da Venezia, intorno alle 13:15 dovette respingere un attacco aereo
condotto da una formazione di Junkers Ju 87 Stuka. Durante l'attacco
fu il guardiamarina Tentoni, che era stato uno dei più determinati
nell'ammutinamento, ad organizzare il fuoco contraereo, scompaginando la formazione degli aerei tedeschi, che, sorpresi dalla reazione,
sganciarono senza precisione le bombe, che finirono in mare. A
prendere il comando della formazione fu il comandante del Miraglia,
che era il più anziano, e nel pomeriggio le due navi ricevettero l'ordine di non recarsi più a Cattaro, ma a Taranto.
Nel canale di Otranto la corazzata restò senza nafta e, rimorchiata da
una nave inglese, giunse alla fine a Taranto alle 14 dell’11 settembre.
27
La nave raggiunse Taranto quando gli inglesi avevano già preso possesso della base; buona parte dell’equipaggio (tutti quelli che avevano partecipato alla ribellione) venne sbarcata.
Nel giugno 1945 la Commissione di Inchiesta sui fatti verificatisi a
bordo della Cesare contestò al maggiore Fornasari, al capitano Spotti
e al guardiamarina Tentoni una serie di addebiti. Ma la Marina, in
considerazione degli alti motivi ideali che avevano ispirato la ribellione, ebbe un atteggiamento molto comprensivo verso i protagonisti
dell’ammutinamento e il procedimento si concluse il 9 novembre
1946 con la pena della sospensione di 12 mesi dall’impiego, provvedimento però subito condonato.
L’episodio dimostra che c’erano uomini in arme che non volevano
arrendersi e venir meno all’onore.
Le sorti della bella nave erano segnate da un crudele destino. La Giulio Cesare, ceduta alla Russia in seguito al trattato di pace, saltò in
aria misteriosamente il 28 ottobre 1955. Ma di questo si parlerà nel
seguito.
L'episodio di ribellione a bordo della nave non fu il solo ad essersi
verificato nelle ore seguenti alla proclamazione dell'armistizio. La
sera dell'8 settembre, quando il ministro della Marina de Courten annunciò alle basi di La Spezia e di Taranto l'armistizio e l'ordine del
Re di salpare con tutte le navi per Malta, tra gli equipaggi si rischiò
la rivolta ed in quelle concitate ore c'era chi proponeva di lanciarsi in
un ultimo disperato combattimento, chi di autoaffondarsi.
Nella base di La Spezia, l'ammiraglio Bergamini, avvertito telefonicamente da de Courten dell'armistizio ormai imminente e delle relative clausole che riguardavano la flotta, andò su tutte le furie per poi
formalmente accettare con riluttanza gli ordini. Lasciò gli ormeggi ed
innalzò il gran pavese, non adempiendo così all'obbligo delle clausole dell'armistizio di innalzare il pennello nero del lutto sui pennoni ed
i dischi neri sulle tolde. Andò così incontro al suo tragico destino,
che si consumò il pomeriggio del 9 settembre, quando la corazzata
Roma, sulla quale era imbarcato, affondò, sventrata da una bomba
teleguidata Fritz-X sganciata da un Dornier Do 217 tedesco.
28
Nella base di Taranto il contrammiraglio Giovanni Galati, comandante di un gruppo di incrociatori, essendosi rifiutato di dirigersi a
Malta, dichiarando l'intenzione di salpare per il nord, o per cercare
un'ultima battaglia o per autoaffondare le navi, venne messo agli arresti in fortezza dall'ammiraglio Brivonesi, suo superiore, che aveva
tentato invano di convincerlo ad obbedire agli ordini del Re, al quale
aveva prestato giuramento.
Altri esempi di rifiuto della resa furono quelli dei comandanti delle
torpediniere Pegaso e Impetuoso, Riccardo Imperiali e la Medaglia
d'oro Cigala Fulgosi, che avendo soccorso i naufraghi della corazzata
Roma, trasportandone i feriti alle Baleari, dopo aver usufruito delle
24 ore di ospitalità regolamentari, l'11 settembre 1943, al momento
di ripartire, invece di dirigersi a consegnare le loro navi agli inglesi
le autoaffondarono all'uscita del porto.
Anche due sommergibili, il Serpente e l’Ametista, si autoaffondarono il 12 settembre’43 in Adriatico, davanti ad Ancona, per non consegnarsi.
Tornando alla Giulio Cesare, la corazzata, giunta a Taranto l’11 settembre, ormeggiò alla boa nel Mar Grande e dopo aver fatto rifornimento di nafta ripartì per Malta alle 14:00 del 12 settembre insieme
alla nave appoggio idrovolanti Miraglia. Alle 7:25 del giorno successivo nei pressi di Capo Passero le due unità italiane incontrarono una
formazione inglese formata dalla nave da battaglia Warspite e quattro cacciatorpediniere e, dopo essersi messe in linea di fila alla corazzata inglese, raggiunsero Malta a mezzogiorno dello stesso giorno
riunendosi al resto dello flotta, il cui comando era stato assunto
dall'ammiraglio Da Zara. In ottemperanza alle clausole armistiziali la
bandiera italiana non venne ammainata e l'equipaggio italiano rimase
a bordo delle navi.
Le navi italiane internate a Malta rientrarono a Taranto i primi giorni
di ottobre del 1943, ad eccezione delle corazzate. Le Littorio vennero
internate ai Laghi Amari nel canale di Suez, mentre la Giulio Cesare,
che insieme alle Duilio rimase internata nella base inglese con equipaggio ridotto, fu autorizzata al rientro il 17 giugno 1944 Fece ritor29
no a Taranto il 28 giugno dopo un sosta di 10 giorni ad Augusta, e
rimase inattiva fino al termine delle ostilità.
Durante il conflitto aveva effettuato 38 missioni di guerra, delle quali
8 per ricerca del nemico, 2 per scorta ai convogli e protezione del
traffico nazionale, 14 per trasferimenti e 14 per esercitazioni, per un
totale di 16.947 miglia percorse e 912 ore di moto effettuate.
Durante la cobelligeranza effettuò 4 missioni per trasferimento, percorrendo 1.376 miglia per 93 ore di moto.
Il trattato di pace
Al termine della guerra, in ottemperanza alle clausole del trattato di
pace, la corazzata venne ceduta all'Unione Sovietica, come risarcimento per danni di guerra. Il trattato prevedeva che le navi destinate
alla cessione, fossero cedute in condizioni di operare e pertanto prima della cessione l'unità venne sottoposta ad alcuni lavori, effettuati
nel Cantiere navale di Palermo. Le dure condizioni imposte dal trattato di pace riguardo alla flotta, divisa tra i vincitori e con notevoli
limitazioni per il futuro, portarono nel dicembre del 1946 alle dimissioni del Capo di Stato Maggiore della Marina Ammiraglio Raffaele
de Courten, che si dimise in segno di protesta contro le condizioni
imposte dal Trattato, che non tenevano in conto nel modo dovuto del
leale atteggiamento tenuto dalla Marina per tutto il periodo della cobelligeranza sin dal momento dell'armistizio.
La cessione delle navi alle nazioni vincitrici, ed in particolare all'Unione Sovietica, dove si trovavano ancora migliaia di prigionieri di
guerra italiani, creò un gran fermento fra gli equipaggi della Marina
Militare e sdegno in tutta Italia, al punto che durante gli ultimi mesi
prima della consegna vennero prese eccezionali misure di sorveglianza mediante ronde, sia sulla banchina che in tutto il porto. Intorno alle carene delle navi destinate ad essere cedute avvenivano continue ispezioni subacquee, con immersioni di palombari ogni trenta
minuti, nel timore che vi potessero essere applicate cariche esplosive
in grado di provocarne l'affondamento. Tra le unità da cedere ai sovietici quelle maggiormente indiziate di essere oggetto di sabotaggio
erano la corazzata Giulio Cesare e la nave scuola Cristoforo Colom30
bo. Si scoprì pure che appartenenti ai FAR e reduci della Xª MAS
avevano pianificato l'affondamento della Cristoforo Colombo, che
era un mito per tutti i marinai, avendo addestrato generazioni di ufficiali e che quindi bisognava sottrarre all'onta della cessione allo straniero. In particolare i sovietici, oltre alla Giulio Cesare e alla Colombo, ottennero l'incrociatore Emanuele Filiberto, i cacciatorpediniere
Artigliere e Fuciliere, le torpediniere classe Ciclone, Animoso, Ardimentoso e Fortunale, e i sommergibili Nichelio e Marea, oltre al
cacciatorpediniere Riboty, che non venne ritirato a causa della sua
obsolescenza ed altro naviglio, quali MAS e motosiluranti, vedette,
navi cisterna, motozattere da sbarco, una nave da trasporto e dodici
rimorchiatori. Oltre al Riboty, una piccola parte della quota di naviglio destinata ai sovietici non venne ritirata a causa del pessimo stato
di manutenzione e per questa parte di naviglio i sovietici concordarono una compensazione economica. I sovietici avevano cercato di
ottenere una delle due moderne corazzate Littorio, che non essendo
state ritirate da Stati Uniti e Inghilterra, cui erano state assegnate, furono lasciate all'Italia con la clausola che sarebbero state demolite. I
sovietici, non essendo riusciti ad ottenere nessuna delle due moderne
unità, pretesero che alle due corazzate fossero tagliate, con la fiamma
ossidrica, le volate dei cannoni e distrutte, a colpi di mazza, le pale
delle turbine.
La consegna delle navi ai sovietici sarebbe dovuto avvenire in tre fasi a partire da dicembre 1948 per concludersi nel giugno successivo.
Le unità principali erano quelle del primo e del secondo gruppo. La
corazzata Giulio Cesare faceva parte del primo gruppo, insieme
all'Artigliere e ai due sommergibili, mentre del secondo gruppo facevano parte l'Emanuele Filiberto, la nave scuola e le torpediniere. Per
tutte le navi la consegna sarebbe avvenuta nel porto di Odessa, ad
eccezione della corazzata e dei due sommergibili la cui consegna era
prevista nel porto albanese di Valona, in quanto la Convenzione di
Montreux non consentiva il passaggio attraverso i Dardanelli di navi
da battaglia e sommergibili appartenenti a stati privi di sbocchi sul
Mar Nero. Il trasferimento sarebbe dovuto avvenire con equipaggi
civili italiani sotto il controllo di rappresentanti sovietici e con le navi battenti bandiera della Marina Mercantile, con le autorità governa31
tive italiane responsabili delle navi sino all'arrivo nei porti dove era
prevista la consegna. Per prevenire possibili sabotaggi, le navi dei
primi due gruppi sarebbero state condotte ai porti di destinazione
senza munizioni a bordo, che sarebbero state trasportate successivamente a destinazione con normali navi da carico. Si fece eccezione
con la Giulio Cesare, consegnata con 900 tonnellate di munizioni,
che comprendevano anche 1100 colpi dei cannoni principali e l'intera
dotazione di 32 siluri da 533mm dei due battelli subacquei.
Figura 4 - La Giulio Cesare nel 1948, in procinto di essere trasferita
all'Unione Sovietica
Novorossijsk
La corazzata, il 9 dicembre 1948 venne trasferita da Taranto ad Augusta, dove il 15 dello stesso mese passò in disarmo insieme alle unità facenti parte del primo gruppo. La nave venne definitivamente radiata dal registro navale italiano a decorrere dal 15 dicembre 1948
con decreto del Presidente della Repubblica del 29 aprile 1949.
Nella base di Augusta nel gennaio del 1949 giunse un gruppo di 56
membri degli equipaggi delle unità in fase di consegna, tra cui il comandante della corazzata, il Capitano di 1º rango Jurij Zinov'ev (in
russo: Юрий Зиновьев) che aveva iniziato la sua carriera come
32
semplice marinaio durante il primo conflitto mondiale e nel corso
della seconda guerra mondiale aveva comandato l'incrociatore Molotov e dalla primavera del 1942 la nave da battaglia Parižskaja Kommuna. Improvvisamente il 19 gennaio il comandante Zinov'ev morì a
causa di un attacco cardiaco e venne sostituito dal pari grado Comandante Boris Beljaev, che nel corso del conflitto aveva comandato
il cacciatorpediniere Baku, una squadriglia di cacciatorpediniere e
dall'aprile 1944 l'incrociatore Murmansk. La prima unità ad essere
consegnata ai sovietici fu l'Artigliere, che con la sigla Z 12 raggiunse
Odessa il 21 gennaio con un equipaggio della marina mercantile, entrando a far parte della Marina Sovietica dal 23 gennaio, mentre per
la corazzata la consegna ai sovietici avvenne nel porto albanese di
Valona, raggiunto con un equipaggio della marina mercantile, insieme ai due sommergibili.
La nave, partita da Augusta il 2 febbraio, viaggiando alla velocità di
16 nodi, il 3 febbraio raggiunse Valona, dove, con la sigla Z 11, avvenne il trasferimento temporaneo alla commissione sovietica, guidata dal contrammiraglio Levčenko. Il 6 febbraio, giorno in cui, con la
firma del verbale di cessione, venne formalizzato il trasferimento
della corazzata, la bandiera della Marina Sovietica venne per la prima volta innalzata a bordo dell'unità. Il giorno seguente, 7 febbraio,
venne formalizzata anche la cessione dei due sommergibili.
La nave, partita verso la sua nuova base di Sevastopol' il 15 febbraio
insieme ai due battelli, Marea (Z 13) e Nichelio (Z 14), raggiunse la
sua destinazione il 26 febbraio e, il 5 marzo 1949 venne ribattezzata
Novorossijsk (in russo: Новороссийск) ed inquadrata nella Flotta
del Mar Nero. Il nome assegnato alla nave rievoca l'assedio di Novorossijsk, quando quella città, sulla costa orientale del Mar Nero, fornì
un caposaldo contro l'offensiva tedesca dell'estate 1942, con intensi
combattimenti che avvennero all'interno e attorno alla città. I combattimenti durarono da agosto a settembre del 1942, quando i Sovietici riuscirono a mantenere il possesso della parte orientale della baia,
impedendo ai tedeschi di usare il porto per far giungere i rifornimenti. Alla città, nel 1973, in ricordo dell'assedio, sarebbe stato conferito
il titolo di città eroina. L'Unione Sovietica, dopo la resa e l'uscita
33
dall'Asse dell'Italia, già nel corso della Conferenza di Mosca, nell'incontro tra i ministri degli esteri delle tre principali potenze alleate,
Eden, Hull e Molotov, aveva richiesto una consistente quota di naviglio militare e mercantile italiano in conto riparazione danni di guerra, tra cui una corazzata, ed aveva ribadito tale richiesta nell'incontro
tra Stalin, Roosevelt e Churchill alla Conferenza di Teheran trovando
l'appoggio del presidente americano. Tuttavia, essendo in quel momento l'Italia cobelligerante con gli Alleati, non venne ritenuta opportuna la spartizione della flotta italiana, per cui i sovietici ricevettero in cambio, a titolo di prestito, da americani e inglesi alcune unità, in attesa che con la fine del conflitto fosse stata decisa la sorte
della flotta italiana. Tra le navi che i sovietici ricevettero a titolo di
prestito c'erano alcuni cacciatorpediniere della Classe Town, tre battelli Classe U, l'incrociatore leggero americano della classe Omaha
Milwaukee, ribattezzato Murmansk, e la vecchia corazzata inglese
HMS Royal Sovereign, che, entrata in servizio nella Marina Sovietica il 30 maggio 1944 e ribattezzata Archangel'sk durante il periodo
trascorso sotto la bandiera sovietica, venne restituita ai britannici il 4
febbraio 1949, il giorno dopo che i sovietici ebbero ricevuto dall'Italia il Giulio Cesare. Tutte queste unità prestarono servizio nella Flotta del Nord e vennero restituite al termine del conflitto, tranne un
cacciatorpediniere perso per cause belliche.
La Marina Sovietica aveva ancora in servizio le corazzate Oktjabr'skaja Revoljucija e Parižskaja Kommuna, due vecchie unità della Classe Gangut, risalenti alla prima guerra mondiale e rimodernate
negli anni trenta; l'entrata in servizio della nave da battaglia italiana,
di concezione più moderna rispetto alle corazzate che avevano avuto
fino a quel momento in servizio, negli ambiziosi piani sovietici
avrebbe dovuto servire a preparare gli equipaggi, nell'attesa che fossero stati allestiti gli incrociatori da battaglia Progetto 82 della Classe
Stalingrad. La nave al momento della consegna era in condizioni
molto trascurate, in quanto dal 1943 al 1948 aveva avuto una scarsissima manutenzione, se si eccettuano alcuni piccoli lavori di riparazione alle parti elettromeccaniche, effettuati a Palermo immediatamente prima del trasferimento all'Unione Sovietica. La nave presentava ruggine in vari punti, il fuoribordo era in pessime condizioni e
34
lungo la linea di galleggiamento erano attaccate numerosissime conchiglie. In condizioni soddisfacenti la maggior parte delle armi, tranne l'armamento antiaereo minore, e la centrale elettrica principale,
così come l'opera viva che era stato trattata con vernici antiincrostanti, mentre erano in pessime condizioni valvole e tubazioni
ed erano praticamente inutilizzabili i generatori diesel di emergenza.
I tubi dei sistemi antincendio e le tubazioni delle caldaie erano pieni
di incrostazioni, e per quanto riguarda le cucine, solo quella della
mensa ufficiali era pienamente funzionante. I locali destinati all'equipaggio non erano inoltre adeguati alle caratteristiche climatiche
della regione del Mar Nero, in quanto, essendo stata la nave progettata per operare nel Mediterraneo, i locali equipaggio erano scarsamente isolati dall'esterno, e questo, nel periodo invernale, quando era
maggiore la differenza tra la temperatura interna dei locali riscaldati
e quella esterna molto più fredda, causava il formarsi di condensa, in
particolare nella zona di prua, con la conseguenza che pioveva all'interno dei locali. Il comando della Flotta del Mar Nero cercò di trasformare la nave nel più breve tempo possibile in una vera e propria
unità di combattimento, ma la situazione era complicata dal fatto che
parte della documentazione, esclusivamente in italiano, non era disponibile.
Figura 5 - La Novorossijsk a Sebastopoli
35
Dal 12 maggio al 18 giugno del 1949 la nave entrò in bacino per lavori di manutenzione e la pulizia e riparazione all'opera viva. Nell'estate del 1949 la corazzata prese parte alle manovre della Flotta del
Mar Nero in qualità di nave ammiraglia, ma la sua partecipazione fu
nominale, in quanto l'equipaggio aveva avuto poco tempo a disposizione per familiarizzare con la nave; tuttavia, la sua partecipazione
aveva l'obiettivo di dimostrare la capacità dei marinai sovietici di
operare con navi italiane. Successivamente la corazzata venne anche
utilizzata come nave di addestramento per artiglieri.
Tra il 1950 e il 1955 entrò varie volte in bacino per lavori sia di ammodernamento che di manutenzione. La nave entrò in bacino per lavori di manutenzione nel luglio del 1950, quindi nel 1951, una prima
volta dal 29 aprile al 22 giugno ed una seconda volta nel mese di ottobre, poi nel 1952 nel mese di giugno, nel corso del 1953 per lavori
di ammodernamento, e successivamente ancora per lavori di manutenzione nel 1954 nel mese di novembre e nel 1955, dal 13 febbraio
al 29 marzo.
Nel corso dei lavori di ammodernamento effettuati nel 1953, la nave
venne dotata di radar, di nuovi apparati di comunicazione radio, di
una nuova direzione di tiro ed alcune modifiche vennero apportate
all'armamento antiaereo minore, con la rimozione dei cannoni da
37/54mm e delle mitragliere da 20/65mm, sostituiti da 24 cannoni da
37/67mm V-11 binati, raffreddati ad acqua e con una cadenza di tiro
di 320-360 colpi al minuto, e 6 cannoni da 37/67mm 70-K singoli,
raffreddati ad aria e la cui cadenza di tiro era di 150 colpi al minuto.
Vennero anche sostituiti i generatori diesel di emergenza.
Altre modifiche riguardarono l'apparato di propulsione con la sostituzione dei gruppi turboriduttori con turbine Kharkov di fabbricazione sovietica, che consentivano alla nave di raggiungere una velocità
massima di 27 nodi. Venne anche presa in considerazione la sostituzione delle torri principali con le torri da 305/52mm delle unità della
Classe Gangut che erano andate in disarmo, visto che la nave era stata consegnata con soltanto una riserva di munizioni per i cannoni da
320mm e la conseguente difficoltà di reperire le munizioni per questi
cannoni. Essendo stata scartata questa idea, venne avviata la produ36
zione delle munizioni per i cannoni di fabbricazione italiana. Le opere di ammodernamento provocarono un piccolo supplemento di sovraccarico della nave di circa 130 tonnellate, con la diminuzione della stabilità in conseguenza della variazione di 3 centimetri dell'altezza metacentrica.
L'affondamento
La nave, la sera del 28 ottobre 1955, tornata da un viaggio di partecipazione alle celebrazioni del centenario della difesa di Sebastopoli,
venne ormeggiata ad una boa nella baia di Sebastopoli a 300 metri
dalla riva, di fronte ad un ospedale. Alle ore 1:30 della notte sul 29
ottobre, un'esplosione, della potenza stimata di 1 200 kg di TNT, sotto lo scafo squarciò tutti i ponti dalla corazzatura inferiore fino al
ponte del castello di prua. Si calcola che al momento dell'esplosione
persero la vita dai 150 ai 175 uomini dell'equipaggio che si trovavano nella zona della deflagrazione. Sul ponte del castello di prua il foro misurava 14 x 4 metri. L'esplosione fu talmente forte da essere registrata anche dai sismografi della Crimea.
La nave affondò lentamente dalla prua, capovolgendosi sul lato sinistro, alle 4:15 di notte, 2 ore e 45 minuti dopo l'esplosione, quando
aveva già imbarcato più di 7 000 tonnellate di acqua, con centinaia di
marinai, che si trovavano sul ponte, caduti in acqua e coperti dallo
scafo della corazzata. Il capovolgimento venne accelerato dall'allagamento dei ponti, causato dall'equipaggio stesso, per evitare l'esplosione dei restanti depositi di munizioni. La nave rimase 18 ore in
questa posizione con l'albero piantato nel fondale e alle 22:00 lo scafo era completamente scomparso sotto l'acqua, con centinaia di marinai intrappolati nei compartimenti della nave. Fu il più grande disastro nella storia navale russa, aggravato dall'imperizia dell'equipaggio e dall'impreparazione dei soccorritori e degli ufficiali della nave
stessa, la quale avrebbe potuto essere rimorchiata ad insabbiarsi in
bassi fondali, evitando così il capovolgimento, che fece rimanere la
maggior parte delle vittime intrappolate nei compartimenti della nave. Dato il tempo trascorso tra l'esplosione ed il capovolgimento della corazzata, l'equipaggio avrebbe potuto essere evacuato. In seguito
al capovolgimento della nave, intervennero imbarcazioni minori e di
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salvataggio, che recuperarono dalle acque gelide molti superstiti. I
sommozzatori riuscirono a recuperare due uomini rimasti intrappolati
in una sacca d'aria, mentre altri sette furono salvati mediante il taglio
di un foro nella zona poppiera.
L'affondamento causò la morte di 604 marinai, tra cui anche alcuni
marinai delle squadre di soccorso, cinque dei quali dell'incrociatore
Molotov, che persero la vita quando la corazzata Novorossijsk si capovolse.
Il Cremlino sostenne in un primo momento che la tragedia fosse stata
innescata da alcuni incendi accidentali a bordo, ma a causa del clima
politico della guerra fredda il fato della Novorossijsk rimase oscuro
fino alla fine degli anni ottanta, ed ancora oggi le cause dell'esplosione sono poco chiare, in quanto le informazioni su ciò che accade
quella notte non sono state completamente declassificate.
Per chiarire le cause dell'esplosione venne immediatamente istituita
una commissione governativa che il 17 novembre 1955 presentò le
sue conclusioni al Comitato Centrale del PCUS.
La colpa dell'enorme perdita di vite umane venne direttamente addossata alle azioni incompetenti del comandante della flotta, il vice
ammiraglio Parchomenko, che, rifiutandosi di abbandonare la nave,
invitò tutti a ritornare alle loro postazioni, assicurando che la nave
non correva alcun pericolo. Oltre ad aver sottostimato il pericolo in
cui era la nave, Parchomenko non conosceva le condizioni del fondale, avendo creduto che la differenza tra la profondità del mare (17 m)
e la larghezza della stessa (28 m) avrebbe impedito il capovolgimento. Invece lo strato superficiale del fondo, composto di fango morbido per una profondità 15 metri, non offrì alcuna resistenza. Venne
riportato che, durante questa situazione critica, il comandante mostrò
boria e calma priva di fondamento e che espresse anche il desiderio
di «andare a farsi un tè».
Il rapporto della Commissione sottolineava alcuni esempi di coraggio
e di vero eroismo dei componenti dell'equipaggio, vanificati dal
comportamento di Parchomenko.
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La causa ritenuta ufficialmente come più probabile è l'esplosione di
una RMH magnetica deposta dai tedeschi durante la seconda guerra
mondiale che, urtata da un'ancora, secondo il parere dell'ingegnere
navale e militare storico Oleg Teslenko, detonando avrebbe causato
la successiva esplosione del serbatoio di carburante utilizzato per il
rifornimento delle lance imbarcate. Nei due anni successivi i sommozzatori trovarono 19 mine magnetiche sul fondo della baia di Sebastopoli; undici di queste avevano una potenza corrispondente a
quella dell'esplosione sotto la Novorossijsk, e tre di esse si trovavano
ad una distanza di meno di 50 metri dal luogo dell'esplosione. Vi sono comunque molti dubbi su questa spiegazione. Il luogo dove si trovava la Novorossijsk era stato considerato ripulito, era già stato utilizzato più volte da altre navi e le ultime indagini erano state condotte nel periodo 1951-1953. Alcuni esperti dicono che l'innesco elettrico delle mine magnetiche non avrebbe più potuto funzionare dopo 11
anni, a causa del tempo massimo di vita delle batterie (che era di 9
anni). Alcuni esperti ritengono che le dimensioni del cratere sul fondo (profondo 1 - 2,1 m) sono troppo piccole per una mina di queste
dimensioni. D'altra parte il danno alla nave fu notevole, e secondo
alcuni ricercatori equivalente a 5 000 kg di TNT; inoltre, essendo la
nave ormeggiata ad una boa, non aveva dato fondo all'ancora.
Un’altra spiegazione è l'ipotetica vendetta da parte di ex membri della Xª Flottiglia MAS di Borghese per il trasferimento di una corazzata italiana all'Unione Sovietica, mediante una loro missione segreta;
ci sarebbero rapporti secondo i quali non molto tempo dopo un piccolo gruppo di sommozzatori italiani avrebbe ricevuto delle decorazioni militari. Il sabotaggio sarebbe stato effettuato o piazzando sotto
la chiglia una carica di esplosivo o con un siluro lanciato da un minisommergibile penetrato nella rada. Il tipo di squarcio, secondo gli
esperti, sembra escludere, anche se non del tutto, l'ipotesi siluro. Gli
uomini ed i mezzi per il sabotaggio sarebbero stati condotti sul posto
da alcune navi mercantili italiane che in quel periodo si erano recate
nei porti della Crimea, ed inoltre gli uomini della Xª MAS avevano
una perfetta conoscenza della zona per avervi operato durante il secondo conflitto mondiale. Lo storico russo Nikolaj Čerchašin, a sostegno di questa ipotesi, nota in un articolo scritto sulla rivista So39
veršenno sekretno (cirillico: Совершенно секретно) che la corazzata nei lavori di ristrutturazione era stata allungata di dieci metri con
l'aggiunta di una nuova sezione a prua, ed aveva il suo punto debole
nella congiunzione del vecchio scafo con i nuovi elementi strutturali
di prua, punto in cui è avvenuta l'esplosione. Inoltre gli incursori che
avrebbero attuato il sabotaggio avrebbero probabilmente avuto conoscenza dei punti di debolezza strutturale della nave, piazzando proprio in uno di quei punti una carica di tritolo. Comunque non ci sono
prove solide a conferma di questa ipotesi, smentita anche dall'ammiraglio Gino Birindelli (che secondo questo storico russo sarebbe stato
tra i componenti del gruppo che avrebbe effettuato il sabotaggio), e
che ha commentato la storia della romantica vendetta italiana come
"un'altra patacca venduta da un russo".
L'ipotesi di un sabotaggio straniero tira in ballo anche gli inglesi, che
avrebbero organizzato l'azione servendosi anche di uomini-rana italiani, nel timore che la corazzata potesse essere equipaggiata con armi nucleari, e per il fatto che alla fine di ottobre del 1955 una squadra navale britannica avrebbe svolto esercitazioni nell'Egeo e nel
Mar di Marmara.
Diverse volte comunque i russi nel corso degli anni hanno tirato in
ballo il sabotaggio straniero con coinvolgimento italiano per l'esplosione della nave. Nel 1999 il quotidiano "Segodnia" era arrivato a
scrivere addirittura che l'azione rientrava in un più ampio piano di
invasione dell'Unione sovietica, bloccato dalla Nato all'ultimo momento. Secondo l'agenzia di stampa russa RIA Novosti, la Commissione governativa incaricata di accertare i fatti non avrebbe escluso
che l'esplosione della corazzata fosse il segnale per l'inizio delle operazioni militari da parte della NATO contro l'Unione Sovietica. Durante la seconda metà del mese di ottobre del 1955 nel Mediterraneo
orientale c'era stata una massiccia concentrazione di unità della U.S.
Navy e di altre marine di stati della Nato, che secondo la commissione potrebbe essere messa in relazione ad una preparazione di operazioni militari contro l'URSS e altri stati del Patto di Varsavia che allora si era appena costituito; inoltre l'esplosione della corazzata
avrebbe potuto portare alla detonazione dei depositi munizioni delle
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navi ormeggiate nelle vicinanze della Novorossijsk, con il risultato
che sarebbe stata gravemente danneggiata la principale base della
Flotta del Mar Nero.
Si deve però far notare che un'azione simile avrebbe potuto causare
lo scoppio della terza guerra mondiale, se fosse stata scoperta, e sarebbe stata pertanto un'operazione molto rischiosa.
L'ipotesi che l'affondamento fosse dovuto ad un sabotaggio italiano è
stata rievocata con dovizia di particolari dalla rivista russa Itoghi nel
2005 in occasione del cinquantenario dell'affondamento e riportata
da un articolo comparso il 25 ottobre 2005 sul quotidiano genovese Il
Secolo XIX. Secondo questa rivista russa, l'ipotesi più accreditata è
che l'affondamento fu provocato da bombe a orologeria piazzate sulla chiglia da sabotatori italiani, otto uomini-rana agli ordini dei servizi segreti italiani. Secondo questa rivista i servizi segreti italiani
dell'epoca avrebbero agito per conto della Nato, al fine di impedire
che la corazzata appartenuta alla Regia Marina potesse essere equipaggiata di missili a testata nucleare, ed i servizi avrebbero trovato
complici entusiasti tra i reduci della Decima Mas che consideravano
la cessione della corazzata un "atto di disonore".
La rivista, facendo notare come all'epoca soltanto due stati della
NATO, l'Italia e la Gran Bretagna, avevano personale addestrato ad
un'impresa del genere, sostiene che l'unico tra i protagonisti di
quell'impresa ancora in vita, avrebbe raccontato i particolari dell'impresa ad un ex-ufficiale sovietico, conosciuto casualmente durante
una vacanza in Florida.
Un'altra teoria ipotizza che a bordo fosse stato nascosto dell'esplosivo, prima che venisse ceduta ai russi. Lo stesso Nikolaj Čerchašin, a
sostegno di questa seconda ipotesi, fa notare che durante i lavori di
ristrutturazione la nuova prua era stata in parte sovrapposta alla vecchia creando delle intercapedini e che la carica esplosiva principale
poteva essere stata occultata in un doppio fondo prima della consegna della nave ai sovietici, considerando anche che i russi avevano
una conoscenza molto superficiale di alcuni elementi strutturali
dell'unità I documenti tecnici sui materiali impiegati erano infatti re41
datti soltanto in italiano e quindi non tutti i doppi fondi della corazzata sarebbero stati ispezionati. Nessuna traccia di sabotaggio è mai
stata però trovata, sebbene le inchieste sovietiche non abbiano completamente escluso questa possibilità, a causa delle cattive misure di
sicurezza della flotta nella notte in cui avvenne l'esplosione. Difatti le
lamiere dello scafo si sono piegate verso l'interno della nave, proprio
come se l'esplosione fosse avvenuta sotto la chiglia all'esterno. Secondo il parere di Jurij Lepechov, ufficiale ingegnere della corazzata
Novorossijsk, la causa dell'esplosione potrebbe essere stata la detonazione di una (o forse anche due) mine magnetiche tedesche; ma
allo stesso tempo, visto che lo scafo è stato completamente penetrato
dall'esplosione, ed il fatto che il buco nel fondo non coincide con i
fori sul ponte, la mina potrebbe avere causato la detonazione dell'esplosivo che era stato nascosto nei doppi fondi della nave.
Secondo un'altra teoria cospirazionista, l'affondamento della corazzata Novorossijsk sarebbe stata un'azione dei servizi segreti russi per
accusare la Turchia del sabotaggio, in modo da avere un pretesto per
l'occupazione del Bosforo e dello stretto dei Dardanelli. A supporto
di questa teoria non c'è alcuna prova.
C'è ancora un'altra teoria cospirazionista, che attribuisce l'affondamento del Novorossijsk ad agenti del KGB allo scopo di screditare i
vertici della marina.
A causa della perdita della Novorossijsk, il primo ministro deputato
della Difesa e comandante in capo della Marina Nikolaj Gerasimovič
Kuznecov venne rimosso dalla sua posizione nel novembre 1955, e
nel febbraio 1956 venne degradato al rango di Viceammiraglio e rimosso permanentemente dal servizio attivo.
L'ammiraglio Kuznetsov avrebbe avuto una riabilitazione postuma
da parte del Praesidium dell'Unione Sovietica solamente nel 1988,
ben 33 anni dopo l'affondamento e 14 anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1974.
Le autorità sovietiche decisero di nascondere il disastro, e nessuna
menzione di quanto era accaduto venne fatta nell'ambito della stampa
nazionale. Le vittime furono sepolte in una fossa comune in un cimi42
tero militare locale ed ai sopravvissuti, riassegnati ad altri reparti,
venne dato l'ordine di tacere l'avvenimento.
I primi sopralluoghi per il recupero del relitto iniziarono nell'estate
del 1956, da parte di una spedizione denominata "EON 35". I preparativi terminarono alla fine di aprile del 1957, e il 30 aprile ebbero
inizio le prime operazioni. La carena venne portata a galla nel pomeriggio del 4 maggio, e nonostante la giornata di pioggia, una grande
folla si precipitò sulle rive e sulle colline che circondano la città per
assistere al recupero. Il 14 maggio lo scafo venne ribaltato e condotto
in una piccola baia nel dintorni della città per essere poi demolito,
mentre uno dei cannoni da 320mm della corazzata venne lasciato in
mostra in una Scuola della Marina a Sebastopoli fino al 1971.
La Flotta del Mar Nero diciannove anni dopo sarebbe stata funestata
da un altro tragico incidente, quando l'Otvažnyj, un cacciatorpediniere della Classe Kashin, il 29 agosto 1974 ebbe una tremenda esplosione a bordo, forse in un deposito missili, e colò a picco nel Mar
Nero dopo 5 ore di incendio, nel quale persero la vita oltre 200 dei
280 componenti dell'equipaggio.
Alla fine di dicembre del 1999, l'allora Primo ministro Vladimir Putin premiò sette marinai superstiti della corazzata, decorati con decreto del Presidente El'cin.
Sull’argomento, nel settembre 2014, è uscito un interessantissimo
libro:
Il MISTERO DELLA CORAZZATA RUSSA , Fuoco, fango e sangue
di Luca Ribustini , editore Luigi Pellegrini – Cosenza, dove in quasi
150 pagine di documenti recuperati da archivi militari, civili e dei
servizi segreti, oltre a testimonianze esclusive di personaggi coinvolti
a vario titolo, viene sceverata in modo completo la vicenda
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Figura 6 - Monumento ai marinai della Novorossijsk a Sevastopol'
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