1 ancora in treno col curdo Jan verso Qamishli Un movimento di

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1 ancora in treno col curdo Jan verso Qamishli Un movimento di
ancora in treno col curdo Jan verso Qamishli
Un movimento di passeggeri mi svegliò. Erano le tre ed eravamo fermi nella stazione di Aleppo. Mi
girai a occhiare Jan che ricambiò il mio sguardo sorridendomi con un cenno di saluto.
Dormii altre tre ore, fino a Raqqa, quando la luce e l’arresto del convoglio mi destarono
definitivamente. Volgendomi all’amico, lo vidi con gli occhi chiusi.
Ripartimmo e per un po’ stetti a osservare il brullo paesaggio che scorreva al finestrino. Ogni tanto
un villaggio, in genere circondato da un muro con poche aperture. Rare ormai le case di creta così
diffuse nel passato. Specie quelle con il tetto conico bombato da sembrare piccionaie che solo fino
a qualche decina d’anni fa erano la norma.
Ricordavo bene i mei primi viaggi e ciò che si vedeva viaggiando in autobus. Ora prevalevano le
grigie basse abitazioni in blocchi di cemento a vista, dall’aspetto sempre povero, su cui però era
frequente la presenza della parabola satellitare. Qua e là s’innalzava un edificio più alto e
pretenzioso. O la bianca cupola di una moschea col suo minareto, o anche senza, bastando
l’altoparlante in cima per diffondere l’adhàn, l’appello alla preghiera.
Le stazioni, più o meno piccole, si susseguivano vicine l’una all’altra. Nelle piccole periferie delle
cittadine più grosse si notavano numerosi gli edifici in costruzione. Quali sostegni, come un tempo,
i pali di legno dove da noi si usano i tubi innocenti. Ogni tanto il piatto paesaggio stepposo dai radi
cespugli era mosso dalla presenza del mammellone di un tell, quelle collinotte che in genere
nascondono vecchi o anche antichi insediamenti.
L’archeologo italiano Paolo Matthiae nel 1974 aveva scoperto casualmente l’antica città di Ebla
scavando a Tell Mardìkh, non lontano da Aleppo, in quel tell che certo quando fu scelto prometteva
bene, ma non fino a tal punto.
Rovine di antichi edifici che affioravano in qualcuna di quelle colline mi facevano pensare che
forse nel futuro si sarebbero scoperte altre quasi-Ebla.
In lontananza, elevazioni montuose color ocra. Non mancavano però le aree coltivate, specie nei
pressi dei villaggi. La stagione mostrava il grano maturo pronto per la mietitura. In piccoli
appezzamenti donne dai coloratissimi costumi lavoravano caricando all’inverosimile i basti di
striminziti asinelli, con patate e cipolle.
Sporadiche in quel tratto le greggi, spesso in prossimità di tende di pastori, le “case di pelo”. Più
frequenti dopo la cittadina di el-Hàssake, capoluogo della Giazìra.
Rari anche i corsi d’acqua che venivano annunciati dall’esplodere della vegetazione, specialmente
arborea al punto da formare dei boschetti. E allora anche i campi coltivati s’allargavano a
distanza. Passammo accanto a un grosso bacino d’acqua, un laghetto, probabilmente artificiale.
Spesso nei pressi delle stazioncine – in particolare quelle staccate dai centri abitati – sostava un
coloratissimo catorcio d’autobus col motore acceso e lo scarico nerofumo, in attesa di raccogliere i
passeggeri scesi dal treno. Qualche decennio prima solo quelli si vedevano. Gli uomini
indossavano ancora per lo più i costumi tradizionali, gallabìyya, kufìyya, al contrario di quanto
ora prevaleva nella capitale e nelle maggiori città.
Sentii Jan alzarsi. Venne da me e mi si sedette accanto. Alternando chiacchiere a lassi di silenzio,
mi raccontava – ora tranquillamente – della sua vita imperniata quasi tutta sulla sua attività quale
dipendente di una sartoria in cui si trovava abbastanza bene, delle sue amicizie, tutte maschili,
delle sue modeste ambizioni, dei suoi progetti in cui non c’era quello di metter su famiglia anche se
– sottolineava – suo padre stava cercando di convincerlo a maritare una cugina “per far
continuare il proprio nome”. Dell’ipotesi, vaga, di potersi trasferire all’estero.
Qualche minuto dopo le undici, arrivavamo a Qamìshli, in stupefacente orario.
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Scesi sul marciapiedie con Jan che fu subito chiamato da un ferroviere e condotto alla vettura di
coda, adibita alle merci. Lo seguii e lì il giovane aiutò un operaio a scaricare vari grossi pacchi.
Me ne aprì uno per mostrarmi dei vasi in terracotta colorata, di fattura grossolana. Belli, dissi.
Con l’operaio sentivo Jan parlare una lingua assolutamente ignota per me. Mi sembrava turco.
«Parlate un dialetto turco tra voi?» Con un largo sorriso ribatté: «È il kurmanji, la lingua curda.»
Già.
Concludendo le operazioni di scarico mi informò di stare ad attendere un pick-up che sarebbe
venuto a prenderlo coi vasi. Mi chiese se volevo andare a pranzo da lui. L’invito mi sembrò
formale, come doveroso e di prammatica, ma non sentito, e io gli lasciai tutte le possibilità dicendo
che forse la sua cittadina era lontana, che forse avrei disturbato. Ribatté con un tiepido: no no.
Stetti qualche minuto a guardarlo mentre controllava i suoi pacchi. Poi gli tesi la mano,
salutandolo e dicendogli che probabilmente ci saremmo rivisti a Damasco. Sorrise ancora. Sì, in
sha’ Allàh. Mi diressi fuori la stazione, un po’ spiaciuto per aver perso l’occasione di visitare una
famiglia curda nella sua vita quotidiana.
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