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Anno XXXIII, n. 2 BIBLIOTECA DI RIVISTA DI STUDI ITALIANI Dicembre 2015
RECENSIONI
MERAVIGLIE DI GADDA.
SEMINARIO DI STUDI SULLE CARTE DELLO SCRITTORE
a cura di Monica Marchi e Claudio Vela, Pisa: Pacini Editore, 2014. 259 pp.
MANUELE MARINONI
Università degli Studi di Firenze
C
he ogni testo di Carlo Emilio Gadda, maestro assoluto, nel nostro
Novecento, della “scrittura apocopata”, nasconda dietro e dentro di sé
un’immensa stratigrafia elaborativa (teorica e pratica) è cosa ben nota.
E il recente volume Le meraviglie di Gadda, a cura di Monica Marchi e
Claudio Vela, pubblicato dall’Editore Pacini nella prestigiosa collana di
“Strumenti di filologia e critica”, non fa che confermare quest’assioma,
offrendo ulteriori prove e percorsi di indagine.
Come ribadito più volte nel corso del volume, la stessa partizione
(geografica) dei fondi (Roscioni, Citati e Garzanti – per non parlare della carte
conservate al Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori
moderni e contemporanei di Pavia, dei libri di Gadda presenti alla biblioteca
del Burcardo di Roma, ecc.) è emblematica di una mirabolante fucina
lavorativa che, nella splendida metafora di Dante Isella, padre di tutti i
gaddisti, non cessa mai di offrire nuovi materiali genetici e non. I “Quaderni
dell’Ingegnere”, rivista voluta e inizialmente diretta da Dante Isella (con la
direzione di Clelia Martignoni), con la sua rinascita nel settembre 2010, è la
sistematica vetrina di ogni nuova scoperta e indagine; ad essa si aggiunge da
tempo la complessa planimetria informatica – ma su questo tornerò in seguito.
Prima di vedere da vicino i singoli lavori, occorre una piccola parentesi
bibliografica: non si è mai abbastanza aggiornati quando si tratta di Gadda. Si
è convinti di poter studiare un’opera nella sua compiutezza (se mani ce ne
fosse una!) e poi si scopre che esistono un’infinità di rielaborazioni,
riscritture, manipolazioni, varianti, e quindi ... delusioni (dell’autore),
ripensamenti, dubbi, ecc.
Il primo monumentale ‘Gadda’ si può ancora leggere attraverso la
pregevole edizione, in cinque volumi, delle edizioni Garzanti “I libri della
Spiga”. Il complesso corpus, fondato su solide basi filologiche, fu l’esito di un
lavoro d’equipe, diretto da Dante Isella (la metodologia ha, come ben noto,
una forte matrice continiana) dal 1988 al 1993. Ai primi tre volumi ne seguiva
uno sugli Scritti vari e postumi e quello finale dei preziosissimi Indici (e
Bibliografia; a cura di Isella, Liliana Orlando e Guido Lucchini). Poi sono
arrivate le singole edizioni economiche, sempre presso l’editore Garzanti,
dove si è potuto leggere quasi tutto il Gadda edito. Non si può trascurare
nell’insieme la quant’altro mai preziosa edizione einaudiana della Cognizione
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del dolore a cura di Emilio Manzotti. E così, sempre presso l’editore torinese
(oltre alcune edizioni di opere, diciamo, ‘minori’ come Il palazzo degli ori) le
grandi scoperte della Meditazione milanese (Roscioni, 1974) e del Racconto
italiano d’ignoto del Novecento (Isella, 1983). L’elenco da qui è molto lungo e
conta anche dell’importante riesumazione del Fulmine sul 220 (sempre per la
cure filologiche di Isella) e, più di recente, dalle pagine dei “Quaderni”, il
Quaderno di Buenos Aires, su cui sono già stati compiuti fini studi su
questioni di fonti (antiche) e di ideologia politica (l’adesione al partito
fascista).
Oggi c’è un nuovo Gadda: ed è quello di Adelphi (per ora Verso la
Certosa, Adalgisa, Accoppiamenti giudiziosi). Cosa poi di tanto nuovo abbia
rispetto al Gadda garzantiano lo mostrano innanzitutto i copiosissimi apparati
di note filologico-critiche (non propriamente tipici delle edizioni adelphiane);
e, con essi, la scelta, talvolta discutibile per il lettore, ma non per il lettorestudioso, di ‘altre’ edizioni della stessa opera (credo lo si vedrà a breve per il
frizzante e godibilissimo pamphlet Il guerriero l’amazzone, lo spirito della
poesia nel verso immortale del Foscolo curato da Franco Gavazzeni
nell’edizione di Isella ed ora nelle mani di Claudio Vela). Sempre da Adelphi
sono usciti di recente due importanti carteggi (col tempo abbiamo letto quelli
con Contini, Bigongiari, Traverso, ecc.): quello con Pietro Citati (Un gomitolo
di concause, a cura di Giorgio Pinotti, Milano, Adelphi, 2013) e quello con
Goffredo Parise (“Se mi vede Cecchi, sono fritto”, a cura di Domenico
Scarpa, Milano, Adelphi, 2015). Non ci sono dubbi sull’arte (di un numinoso
satirico, ma elegante; sbeffeggiatore, ma educatamente) epistolografa di
Gadda. Certi aneddoti, sulla Morante o su Pasolini, da leccarsi i baffi. Ma
anche tante notizie su questioni politiche, culturali, letterarie e, naturalmente,
artistiche.
Mi scuso a questo punto per la lunga parentesi bibliografica, ma credo
serva da sfondo per capire meglio certe stazioni innovative del volume in
questione.
Veniamo dunque alle Meraviglie di Gadda. E cerchiamo di procedere con
ordine. L’overture è lasciata a Giorgio Pinotti, Claudio Vela e Paola Italia.
La brevissima nota di Pinotti insiste sul binomio, ormai considerato
imprescindibile, (‘bigamia’, la chiamava Segre) di filologia e critica. È il
perfetto passepartout per tutti i lavori successivi; una giustificazione a livello
metodologico che fa breccia nel cuore, oserei quasi dire ontologico (e quindi
assiologico), del materiale filologico (“redazioni plurime, non-chiusura,
sovrabbondanza di inediti”, p. 2). In fondo qual è il testo (con la ‘T’
maiuscola) di Gadda? Quello dato alle stampe? Solo quello? Avremmo un
autore, credo, di un qualche centinaio di pagine. Invece siamo di fronte a
migliaia e, quasi tutte, situate nel retrobottega. E di questo parla subito Vela
nel suo intervento (“‘Ho dato alle stampe’: sì, ‘ho dato alle stampe’. ‘Edito e
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inedito in Gadda e per Gadda’ ” – purtroppo o per fortuna, non ‘con Gadda’).
Vengono così presentate più fenomenologie: una riguardante il carattere
profondo delle titubanze gaddiane nei confronti del “Dare alle stampe” (forse
troveremmo ben altri giustificazione da un Gioanola, ma quelle sono
planimetrie del profondo, non quelle della ‘carta’); e l’altra, molto importante,
sulla tipologia, direi quasi (non poco ossimoricamente), strutturale dei
materiali inediti provenienti dai fondi studiati; e così tre categorie: gli “Inediti
non-più-esistenti”, gli “Inediti Che-non-si-sa-se-esistono” e i “ParzialmenteInediti”. Pensando, dai banchi delle officine, a un autore vicino e lontano a
Gadda come d’Annunzio, verrebbe da aggiungere la categoria degli “Ineditimai realizzati”. Il nesso d’Annunzio-Gadda (su cui è già stato scritto molto e
bene) mi permette di aprire una piccola partentesi sulla questione del ‘nonfinito’ (edito o inedito che sia). L’incompiutezza (ce l’hanno insegnato bene,
fra tanti, Starobinski e Steiner) è elemento intrinseco ai principi della
modernità (e poi, verticalmente, lo sarà anche per la post-modernità; ed
entrambi gli autori fanno ombra sul futuro). Le teorie in proposito, specie
dalla scuola americana (ma anche da certa scuola estetica torinese), sono state
davvero tante. Nel volume che stiamo leggendo si parte dal concreto: e lo si
individua dalle carte! La prima forma, chiamiamola pure metamorfosi,
dell’incompiuto, sopravvive lì, tra i progetti, tra le riscritture, nello
“gnommero”, il, per dirla con Gadda stesso, “mostruoso groviglio della
totalità”.
Ma torniamo all’intervento di Vela. C’è un altro punto, molto importante,
su cui fermarsi. E riguarda il problema della datazione delle opere. Credo
esibendo così tra le righe una giustificazione ai nuovi lavori editoriali
(Adelphi), il filologo sentenzia che la “ricostruzione del percorso cronologico
delle opere” così come si presenta nell’edizione Garzanti è “impraticabile”;
questa ospita “al proprio interno tanto l’edito quanto l’inedito, tanto il portato
alla luce quanto il rimasto nell’ombra, quali che ne siano state le ragioni” (p.
14). Certo le ragioni di una ‘somma’ finiscono però col cozzare con le ragioni
di una ‘frammentazione’: se da un lato si tende a tenere insieme un universo
aperto, dall’altro si cerca di esplorare il microcosmo nelle sue profondità; ma
se anche da questa prospettiva ci si rende conto di un senza-fine la storia
finisce col ripetersi. Difatti Vela conclude col rifarsi alla bella immagine
iselliana dell’opera di Gadda come “un complesso sistema a vasi
comunicanti” (p. 16).
Dalla prospettiva dell’edito/inedito si passa più da vicino sulle carte,
appunto “inedite”, con l’intervento di Paola Italia (“Come lavorava Gadda”.
Un percorso tra le carte). La studiosa traccia un profilo dettagliato sui metodi
di lavori di Gadda (il plurale è d’obbligo) partendo da una prima bipartizione
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che a suo tempo aveva individuato Isella: 1) “Gadda lavorava sempre su
progetti molto ambiziosi” (dato da ripensare con tutte le implicazioni
dell’intervento di Vela) e 2) dietro ogni testo è possibile individuare un senso
comune, un vero e proprio telos che il più delle volte fa breccia nei rapporti
tra gli avantesti (Italia cita l’esempio, studiato prima da Isella e poi da Clelia
Martignoni, del legame tra il Fulmine e l’Adalgisa). L’attitudine,
eminentemente pratica, è, come ricorda Italia, proprio quella dell’Ingegnere.
La filologa procede tenendo conto delle scoperte dai fondi già ricordati, e non
può che ribadire la complessità inusitata ad ogni cantiere gaddiano: “perché
Gadda non lavora su un unico progetto, ma costruisce […] organismi
complessi e integrati fra loro, tiene sul tavolo di lavoro vari quaderni,
ciascuno comprendente vari progetti, tanto che un’opera può essere
documentata […] da testimoni anche molto diversi” (pp. 21-22). Così viene
definendosi il primo livello della molteplice processualità scrittoria rievocata,
intrinsecamente, dal titolo: l’opera e il progetto; poi viene la stesura, e lì il
metodo di lavoro “tipicamente gaddiano” è il procedere “per “divagazioni e
garbugli”, da un primo abbozzo fino all’elaborazione finale” (chioserei: quella
che si ‘considera’ come ‘finale’, o che il tempo biografico ha imposto come
tale, essendo, il più delle volte ‘aperta’. Così si ha a che fare col grande
problema “moderno”, ma non solo, ben noto e studiato da Italia, dell’“ultima
volontà dell’autore”; Cfr. Editing Novecento, Roma, Salerno, 2013).
Nel volume si susseguono poi tre lavori dedicati ai fondi: Garzanti,
Roscioni e Citati. Procedere in modo analitico sarebbe alquanto svantaggioso,
dato che i tre studiosi di per sé hanno già operato, per gli interventi, delle
scelte e individuato dei campioni (che poi, come è scritto, verranno ampliati,
approfonditi e discussi in ulteriori pubblicazioni critiche e di testi). Andrò
quindi piluccando qua e là alcune notizie che credo davvero significative.
La prima stazione è costituita dalle indagini di Monica Marchi (Carotaggi
nel fondo Garzanti. Stratigrafia degli “Studi imperfetti”). La studiosa
annuncia subito che il “lavoro di scavo ha consentito di fare chiarezza sulle
vicende solariane degli esordi dello scrittore” (p. 32). Fonti inedite: alcuni
manoscritti e le lettere con Tecchi e Carocci. Da alcuni documenti specifici
emergono con chiarezze le giustificazioni del rifiuto da parte dei due solariani
di pubblicare sulla rivista fiorentina due frammenti gaddiani (che usciranno
poi nel ’28 sulla Fiera Letteraria). Il motivo, così come Gadda stesso
pensava, parrebbe riguardare la dimensione dei testi (a cui però Gadda non
avrebbe mai rinunciato). D’altra parte se andiamo a riprendere l’introduzione
che Carocci accompagnò a un’edizione antologica di Solaria ci rendiamo
subito conto dell’allora consapevole difformità (di stili, temi, persino generi)
del profilo letterario dei collaboratori (c’era chi guardava all’Europa, Proust e
Woolf in primis, ma anche chi guardava a Nievo). “L’accesso al Parnaso”
avviene invece tramite gli Studi imperfetti. Marchi spiega che “proprio grazie
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ai carotaggi effettuali nei “Fondi Gadda”, siamo in grado di stabilire il canone
solariano” di questi Studi. In particolare soccorre un “quadernetto conservato
nel Garzanti”: si tratta di materiali (“Primi abbozzi”) recuperati dal Cahier
d’études (uno dei più significativi serbatoi gaddiani). Marchi approfondisce
poi ogni dettaglio. Mi piace ricordare che già a quest’altezza sussiste un
problema testuale (oggetto poi della relazione di Clelia Martignoni), “prassi
nella scrittura gaddiana”: il sistema delle note. In una lettera a Tecchi Gadda
giustifica queste note come “autodifesa”, a riprova che la maggiore (fra le
tante) preoccupazione dell’ingegnere, a quest’altezza, nei confronti del
direttivo della rivista, sia di ordine linguistico.
Al fondo Roscioni è invece indirizzata l’indagine di Francesco Venturi
(Nel fondo Roscioni: sinopie, indici, piani di lavoro). E sono davvero molti i
dati emersi. Mi soffermo solo su due, entrambi legati al mondo della filosofia,
e tra loro connessi: in un quaderno inaugurato da Gadda il 12 ottobre 1931 a
Milano e da lui stesso denominato “Quaderno Serie 1931 – N.° 2” si trovano
appuntati – lo segnala con dovizia di particolari Venturi – gli indirizzi di
Adelchi Baràtono e di Antonio Banfi. Quest’ultimo nome registra il passaggio
della tesi concordata con Martinetti sulla “teoria della conoscenza nei
Nouveaux Essais di G. G. Leibniz”. All’appunto segue una sommaria
“Disposizione delle parti”, cinque per la precisione, in cui sono tracciati i
percorsi da seguire nel lavoro di tesi. Poi l’elenco dei libri per il lavoro,
suggeriti da Banfi. Veniamo così a conoscenza di un manipolo di testi che,
probabilmente, Gadda ebbe modo di vedere e che non risultano presenti nel
Fondo Gadda alla Biblioteca del Burcardo: un volume su Spinoza di Léon
Brunschvicg (che, va specificato, fu un importante esponente della scuola
idealistica francese) le cui sintesi critiche andrebbero confrontate da vicino
con la Parte terza della Meditazione milanese (soprattutto i paragrafi XXI,
XXII e XXIII); lo studio sulla filosofia di Leibniz di Russell (nella Biblioteca
del Burcardo sono presenti altre due opere del logico tra cui, direi quasi
naturalmente, I principi della matematica) e poi altri volumi di Schmalenbach
e Cassirer. Insomma nuovi nomi e nuovi titoli, ma soprattutto il rapporto con
Banfi. Se sotto l’ala protettiva di Martinetti certo c’era una sorta di avversione
totale a ogni forma di idealismo (o meglio neo-idealismo) con il nome di
Banfi le cose vanno un po’ smorzandosi. Ci ha insegnato Fulvio Papi (Il
pensiero di Antonio Banfi, Firenze, Parenti, 1961) a leggere la prospettiva
banfiana, specie nella coppia (dialettica) di realismo e idealismo, come una
sorta di sintesi concettuale di modelli del conoscere. Non vorrei dunque
azzardare molto, ma credo che la lettura kantiana di Gadda vista da Lucchini
(principe degli studi filosofici gaddiani) sotto la guida di Martinetti possa
essere rifornita di ulteriori aggiustamenti accostandola a quella banfiana
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(naturalmente resta solo una suggestione; a riprova, purtroppo, non sono
presenti volumi banfiani nella Biblioteca del Burcardo. Le stesse date non
agevolano molto). Più interessanti ancora certe riflessioni critiche del filosofo
sulla fortuna del Manzoni (ma questa è davvero un’altra storia).
L’altro nome ricordato, quello di Baràtono, è più immediato; essendo stato
nominato, nel medesimo 1931, da Martinetti come suo successore per la
cattedra milanese. Insomma tra idealismo e non, certo due pensatori assai
vicini al neo-marxismo (e al socialismo).
Infine il terzo fondo, quello Citati. Alessia Vezzoni (Le carte del fondo
Citati. Percorsi e incagli) si sofferma su un altro dettaglio operativo del
Gadda scrittore (e anche lettore): i cartigli. Quello che, come indica la
studiosa, “potrebbe a tutta prima sembrare una semplice prassi da scrittoio
[…] spesso reca in sé implicazioni semantiche e programmatiche non
irrilevanti che sfiorano, a tratti, la gnoseologia gaddiana più intima” (p. 76).
Credo questo sia un altro dettaglio non indifferente che accosta l’officina
dell’ingegnere a quella del Vate. Oltre a donarci una pittoresca semantica
materiale del cartigli stessi (o cartini) Vezzoni ci avverte che spesso su di essi
si trova un “implemento testuale” delegata dalla ben nota “ipetrofia
autoglossatoria” (il sintagma è a sua volta ripreso da un lavoro di Giuliano
Cenati). Sono davvero poi numerose altre indicazioni su materiali genetici
(assai utili, fra i vari campioni, per Adalgisa e I viaggi e la morte) e carteggi.
Spumeggiante la “pseudointervista” calata in un “dialogo ingegnoso” fra
Luciano Frenetti/Fregnetti (da qui una bella parentesi sull’onomastica
gaddiana) e lo scrittore Anadiabante De Carlo (alias Gadda).
Dopo i sondaggi archivistici si susseguono quattro studi critici (per tener
fede al dettame filologia critica).
Il primo è quello di Clelia Martignoni (Sul sistema delle note in Gadda:
lavori in corso) che, così come si legge nelle prime righe (e si evince dalla
pubblicazione su Strumenti critici, 1, 2015, pp. 85-1189, con Lorenzo Panizzi,
di una ‘seconda parte’ dal titolo La “malattia delle note” e altre bizzarrie.
Gadda verso satira e Swift) pare essere una prima stazione per un futuro
lavoro unitario sull’argomento. Qui l’ingegnere viene aggredito sub specie
testuale (o paratestuale? - i riscontri con Genette e precisi distanziamenti
critici si leggono nel saggio su Strumenti critici). Si tratta di mostrare in modo
analitico la “finzione del chiosatore-eternonimo” (p. 116). Martignoni non si
limita a inventariare il corpus ‘annotativo’ presente nei vari volumi gaddiani
(per cui si effettua un bilancio numericamente preciso) ma dà prime risposte
su modi, forme e, soprattutto, modelli. Non c’è dubbio che le note siano
innanzitutto “un’ulteriore modalità di espansione e di groviglio di un testo già
soggetto a divagazioni e complicazioni” (p. 118). La filologa punta molto
sulla “prassi umoristica” che veda Gadda impegnato sui binari dello
“sdoppiamento di voci e punti di vista” (qui, anche se Martignoni non lo
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ricorda esplicitamente, c’è molto della “prassi dello specchio” evocato per
altre questioni dallo stesso Gadda e, quindi, del complesso fenomeno del
narcisismo: eredità felicemente accolta da alcuni insigni “nipotini di Gadda”).
Per quanto riguarda le fonti e i modelli (altri studi di Martignoni erano già
andati verso la direzioni dei confini del testo; si pensi ai lavori eccellenti su
Landolfi, Arbasino e Manganelli) “lo sdoppiamento umoristico narratore (o
personaggio)/chiosatore” viene declinato nell’artificio già “swiftiano,
sterniano, richteriano”. (solo come suggestione: non ci sarà anche una voluta
pratica pseudo-freudiana in queste superfetazioni della già multipla superficie
testuale?).
Segue il lavoro di Guido Lucchini (Gli studi filosofici di Gadda nelle carte
del Fondo Bonsanti). Più che ‘lavori in corso’ si tratta di ‘conferme in corso’.
Dall’inedito si possono trarre conclusioni pressoché identiche alle ricerche già
avviate da tempo (non possiamo non ricordare dello studioso L’istinto della
combinazione. Le origini del romanzo in Carlo Emilio Gadda, Firenze, La
Nuova Italia Editrice, 1988; ma molti aggiornamenti in rivista, specie sui
“Quaderni dell’ingegnere”). Al centro delle meditazioni gaddiane c’è l’opera
di Kant (le letture sul filosofo tedesco, ci indica Lucchini, si concentrano tutte
nel 1925 – ricordo qui la suggestione per l’incontro banfiano sopra ricordata).
Ma quello che più conta, ancora una volta, è la “questione del debito contratto
da Gadda con un intellettuale come Martinetti” (p. 141). Il discorso inizia così
a concentrarsi sulle tendenze anti-idealistiche del filosofo torinese. E il nesso
con Gadda (che, si ricorda sempre, non va inteso come rapporto diretto di
influenze sul pensiero o sulla pratica scrittoria, bensì sull’ermeneutica dei testi
letterari; difatti, sottolinea, Lucchini, il Gesù Cristo e il cristianesimo “rimase
sostanzialmente estraneo allo scrittore”) finisce col tornare sulla questione
Kant (la prospettiva si amplia anche sui nomi di Spinoza e Leibniz). Sono
però segnalate alcune divergenze, nell’orizzonte delle letture, dal magistero
martinettiano: si tratta di Bergson e di Croce. Di quest’ultimo Gadda
possedeva sia i volumi della filosofia dello spirito si quelli di carattere storico
e storico-filosofico. Lucchini si interroga: escluso dunque l’intervento di
Martinetti cosa spinse Gadda a intraprendere la lettura di Croce? Risposta: “fu
spinto […] da ragioni teoretiche”. Aggiungerei che la spinta alla lettura può
essere venuta anche dall’ambiente solariano che, nonostante tutto, con
l’estetica crociana fu sicuramente in relazione (pensiamo solo ai nomi di
Ferrata e Capasso); e come non ricordare la Filosofia in margine del
menzionato Baratono? L’attenzione poi prestata alla Logica sembra
indirizzare verso il nome di Contini.
Da Croce il balzo a Gentile è immediato; l’intermediario è però Leopardi.
E Lucchini si ferma proprio sui giudizi (assai negativi) di Gadda sulla
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Operette morali (lette “forse” nell’edizione commentata da Gentile). Il
principale punto di dissenso è nei confronti del pessimismo leopardiano.
Chissà che qui non possa tornare, per il vecchio positivista milanese, il nome
di Tito Vignoli e del suo Mito e scienza! Lucchini ricorda inoltre che il
dissenso per Leopardi, dettato da varie ragioni culturali, si capovolge,
ovviamente, su basi nazionaliste, in favore dell’amato Manzoni.
Del Gadda recensore discute invece Donatella Martinelli (Le prime
recensioni gaddiane come riconoscimento di una vocazione narrativa. Con
notizia delle inedite). Alcuni degli interessi principali già si conoscono bene:
il romanzo storico (italiano ed europeo) in primis. E così da Balzac, Stendhal
e Zola (e ovviamente Manzoni) a Bacchelli: con due recensioni, entrambe
sull’“Ambrosiano” (1931 e 1939): una su La congiura di Don Giulio d’Este e
l’altra sul Mulino del Po. È un Gadda, scrive Martinelli, che “vuole fustigare
la critica dei professori”. Ma le novità vanno cercate altrove; e Bacchelli, il
fluviale Bacchelli (vicino come pochi altri nel Novecento a Nievo) non basta.
Ecco allora: François Brousson (una recensione inedita all’Itinéraire de Paris
a Buenos-Ayres); Paul Morand (1900 - “la lettura forse più nutritiva per
Gadda”); Marcel Arland (Essais critiques). Fra altre notizie di inediti la
studiosa segnala una recensione “intenzionale” a Vittorini, “appena abbozzata
su due pagine di un ampio block notes” (p. 180). Il volume in questione è
Piccola borghesia, gli otto ‘disegni’ pagati “dieci lirazze”.
Dopo il recensore il traduttore. È il turno di Angela Checola (Una
traduzione inedita di Gadda: “Gli Appelmänner” di Achim von Arnim). Si
tratta della traduzione del dramma Die Appelmänner realizzata da Gadda
all’inizio degli anni Quaranta. Il lavoro venne commissionato nel ’41 dalla
Bombiani; interlocutore Vittorini, mandanti: Gaime Pintor e Leonello
Vincenti. Il giallo tenta d’essere risolto su due prove: la conoscenza effettiva
del tedesco da parte dell’ingegnere e le ragioni di una ‘bizzarra’
scelta/imposizione. La studiosa ci offre da vicino il laboratorio del Gadda
traduttore: “appuntando prima la traduzione di singole parole o di intere frasi
sul quaderno di studio e, successivamente” la stesura del “testo del dramma
nei due quaderni di traduzione” che “procedono per blocchi di testo” (p. 194).
Con gioia per i ricercatori del tesoro della note: “nel testo compaiono
numerose ‘note di lavoro’”. Risultato del lavoro: “si tratta, dunque, di una
versione ‘gaddizzata’, una sorta di rifacimento gaddiano del testo di Arnim”
(195). Ciò che non viene spiegato sino in fondo è il perché di certa patina
‘fiorentineggiante’ (non credo convinca molto l’idea che Gadda abbia operato
in questa direzione solo per “avvicinare l’opera di Arnim al pubblico italiano”.
Seguono poi alcuni resoconti artigianali sui recuperi, il restauro e,
soprattutto, la conquista ormai stabile da parte dell’ingegnere del web.
Isabella Fiorentini, Stefano Dalla Via e poi Giuseppe Bonavira offrono un
preciso vademecum su come orientarsi dai materiali effettivi dei fondi
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(l’ontica primaria del testo per intenderci) ai lavori telematici (il livello
virtuale di quell’ontica). E quindi la precisa descrizione della piattaforma
Gaddaman (http://www-5.unipv.it/gaddamn) a cui va aggiunta WIKI Gadda
(www.filologiadautore.it/wiki).
La chiusura delle danze è lasciata a Emilio Manzotti (Sempre sulle
“meraviglie” nascoste di C. E. Gadda. Qualche nota per concludere). Il
sintetico e denso resoconto poggia su due suggerimenti e propositi nati
proprio dai lavori del volume: da un lato uno “studio comprensivo sulla teoria
e sulle pratiche del tradurre gaddiano” e dall’altro uno “studio comprensivo
sui nomi”. Tradurre e nominare; due modi di conoscere il reale; un reale però
inconoscibile, secondo Gadda, sino in fondo.
Riprendendo un passo dalla Meditazione milanese è Gadda stesso a
fornirci la chiave del ‘meraviglioso’, del ‘suo’ tesoro nascosto che pare non
avere limiti, soggetto all’incantesimo di una moltiplicazione senza sosta,
intermittente e, perchè no, sbeffeggiatrice: “Io intendo alludere […] alle
posizioni fittizie con cui la ragione cerca di tamponare le falle del sistema che
essa ama di rappresentare come chiuso; mentre è in realtà apertissimo e
indeterminato”.
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