PREFAZIONE di Marco Travaglio Diciotto anni fa

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PREFAZIONE di Marco Travaglio Diciotto anni fa
PREFAZIONE
di Marco Travaglio
Diciotto anni fa Aldo Ricci ha perso un amico. Non
era soltanto amico suo. Era amico di tanti. Ma tanti,
troppi, si sono dimenticati di lui. Si chiamava Mauro
Rostagno, era stato tra i fondatori di Lotta Continua.
Negli ultimi tempi lavorava a Trapani, dava una mano
alla comunità antidroga “Saman” ma soprattutto animava una battagliera tv locale antimafia, Rtc. Fu assassinato la sera del 26 settembre 1988, mentre rientrava in
comunità. Si pensò a un’esecuzione mafiosa, ma nessun
pentito di Cosa Nostra ha mai parlato del suo omicidio
né sentito parlare di lui. Si puntò allora alla pista “interna” a Saman, con arresti clamorosi fra le persone più
vicine a Mauro, compresa la moglie Chicca Roveri, e un
avviso di garanzia al guru miliardario e craxiano della
comunità, il fantasmagorico Francesco Cardella, ma
furono poi tutti scagionati. Si ripiegò su una matrice
“mista”, metà mafiosa metà legata al traffico d’armi e
rifiuti tossici con la Somalia, lo stesso che probabilmente ha stritolato Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e che pare
avesse a Trapani una della sue centrali su cui stava lavorando Rostagno. Ma alla fine i giudici di Palermo han
dovuto per ora arrendersi e archiviare: troppo scarsi gli
elementi per trascinare qualcuno in tribunale.
Due sole persone non vogliono saperne di arrendersi. Una è Carla, la sorella di Mauro. L’altra è Aldo
Ricci, strana razza di fiorentino anarchico e inquieto
che nella vita ha fatto un po’ di tutto, dal sociologo al
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fotografo, dallo sceneggiatore al romanziere al randagio, soprattutto il randagio, fra l’Italia, il Brasile e gli
Stati Uniti. Era strano già nel Sessantotto, quando partecipò alla contestazione studentesca a Trento, facoltà
di Sociologia, insieme ai Rostagno, ai Curcio, ai Boato,
ma da posizioni liberal. Si erano conosciuti nel 1966,
Aldo e Mauro, quarant’anni fa. Ed erano rimasti amici
per 32 anni pur senza condividere quasi nulla, senza
incrociare quasi per niente le loro vite cosí tumultuose
e cosí diverse.
Nel 1988 Ricci è in Brasile, “a fare l’avventuriero”
dice lui. È lí che lo raggiunge la notizia della morte violenta di Rostagno. E quella notizia gli cambia la vita.
Torna in Italia, vola a Trapani, accetta di prendere il
posto di Mauro alla direzione di Rtc con la speranza
nemmeno poi tanto nascosta di scoprire chi ha ammazzato il suo amico. Litiga con Cardella e la Roveri e, assistendo alla trasmissione televisiva dei funerali, assiste
anche alla sfilata un po’ ipocrita di tanti lottatori continui (quelli che lui chiama “gli indefessi”) e dei maggiorenti del Psi, da Claudio Martelli in giù, che gli paiono
tutti troppo ansiosi di accreditare la pista mafiosa. Allora
gli ritorna in mente una frase che gli aveva sussurrato
all’orecchio Mauro, quando aveva rotto definitivamente
con Lotta continua, nel 1976: “Guarda, Aldo, se questi
mi rompono ancora i coglioni, io dico chi ha ammazzato il commissario Calabresi”. La collega a una straordinaria coincidenza: pochi giorni prima di morire ammazzato, Rostagno era stato convocato dai giudici di Milano
per deporre sul delitto Calabresi, per il quale erano stati
da poco arrestati Leonardo Marino, Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Adriano Sofri. Poi scoprí che
negli ultimi mesi Mauro era rimasto solo anche a
Saman: Ciccio Cardella l’aveva cacciato dal suo alloggio, relegandolo in una dependance ribattezzata profeti-
camente “il mattatoio”. In seguito venne a sapere che
anche Renato Curcio, in carcere, aveva condotto una sua
indagine sulla morte di Mauro, arrivando ad avvicinare
nell’ora d’aria il boss trapanese Mariano Agate, il quale
gli aveva giurato che “quella non è cosa nostra, quella
cosa vostra è”.
Cosí, mettendo insieme tutte le tessere del mosaico,
si fece l’idea che Rostagno, da vivo come da morto, era
divenuto imbarazzante e incontrollabile per molti, troppi. Compresa la tentacolare lobby lottacontinuista che in
questi anni s’è battuta meritoriamente per liberare l’amico Sofri, ma non altrettanto per scoprire la verità su
quei colpi di arma da fuoco alle porte di Saman. Una
lobby che non dev’essere estranea, come afferma Ricci,
all’incredibile ostracismo subíto da questo libro nel
mondo editoriale italiano.
Cominciò subito a scrivere, Aldo, mentre indagava
intorno a quel delitto eccellente e misterioso. Cominciò
a scrivere questo “romanzo storico-generazionale-di
denuncia”, praticamente unico nel suo genere, che racconta una vicenda collettiva iniziata nel ’66 e finita bruscamente a Trapani nel 1988. Una vicenda tragica e
appassionante, sul crinale fra la cronaca, la fiction e l’intuizione, fra la cronaca e la metafora, che mescola insieme contestazione, droga, criminalità, armi, tangenti,
intrighi, traffici e intelligence. Un romanzo intitolato “Il
Tonto” (anche se ora è diventato “Brasile d’inferno”)
perché è proprio con l’aria del tonto che Ricci cominciò
a investigare a spese proprie, fingendosi un po’ ingenuo,
un po’ sprovveduto: una sorta di Forrest Gump volontario, per riuscire ad aprire meglio certe porte, valicare
certe barriere, addentrarsi in certi ambienti e carpire
informazioni scottanti.
Io, essendo giornalista, sono irresistibilmente attratto soprattutto dalle implicazioni politiche che attraver-
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sano questo romanzo. Non sono in grado di dire se Ricci
abbia ragione o torto, quando seguita a battere la “pista
interna” a Saman e addirittura a quel che nel 1988 restava di Lotta Continua a dieci anni dallo scioglimento.
Certo alcune coincidenze, molte coincidenze sono davvero inquietanti. E sembrano portare, almeno logicamente, nella direzione che lui (ma anche Carla, la sorella di Mauro) continua a indicare: quella di un delitto
molto simile a quelli di Giacomo Matteotti e di John
Fitzgerald Kennedy, personaggi che come Rostagno
erano diventati scomodi e ingombranti per molti poteri
forti, distinti ma in qualche modo in contatto fra loro.
Questa convergenza di interessi divergenti è spesso
l’humus ideale per un delitto eccellente. Soprattutto in
terra di Sicilia dove – come diceva Giovanni Falcone –
“prima ti ammazzano con l’isolamento e poi con la lupara”. Una volta isolato il bersaglio, trovare un killer,
un’arma e un pugno di pallottole a poco prezzo è la cosa
più facile del mondo.
L’altro aspetto che mi affascina, sia pure sinistramente, è l’incredibile storia di questo libro maledetto,
tante volte giunto alle soglie della pubblicazione fra gli
elogi degli editori, e altrettante respinto dal muro di
gomma della censura, del non detto, del sussurrato.
Onore dunque all’attuale editore, il quale, dopo l’imbarazzante passo indietro di Bollati-Boringhieri e dopo il
fallimento del primo editore, Germano di Padova, ha
deciso di ripubblicare cinque anni dopo quest’opera cosí
ricca e cosí proibita. Comunque la si pensi sul caso
Rostagno, è un contributo al “vizio della memoria” di
cui parla Gherardo Colombo nel suo libro più bello. Ed
è anche un fascio di luce puntato sul più clandestino dei
cadaveri eccellenti. Là dove non sono arrivate la polizia
giudiziaria e la magistratura, perché forse in questo
limbo di omertà non ci potevano arrivare, è arrivato
Aldo Ricci con l’arma estrema dell’intellettuale. Quella
che fece scrivere a Pier Paolo Pasolini, nel 1974, a proposito di Piazza Fontana: “Io so. Ma non ho le prove.
Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che
succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di
immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che
coordina fatti anche lontani, che mette insieme i fatti
disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano
regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero...”.
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PROLOGO
Mi svegliai di soprassalto madido di sudore, con
ancora negli occhi scene di violenza inaudita. Controllai
il digitale, erano le nove di sera. Avevo dormito per trentasei ore consecutive, dall’alba del giorno prima, da
quando ero rientrato dal set di “Rio Babilonia”. Mi alzai
e andai ad affacciarmi alla finestra. L’avenida Atlantica
era un caleidoscopio di colori & samba, l’intera città
vibrava. Il caldo spazzato via dalla brezzolina notturna.
L’oceano calmissimo, una linea quasi immobile sgorata
di schiuma. E il cielo terso e stellato faceva presagire
una notte eccellente e un domani ancor più radioso.
Brenn... brenn... Due squilli di telefono, a due spanne dal mio giaciglio.
“Alò...”
“Ma stavi dormendo?”
“Stavo.”
“A quest’ora?”
“E allora?”
“Quando hai intenzione di tornare?”
“Mai!” – urlai.
“Mai – sottolineai isterico – non mi passa per la controcamera del cervello.”
“Mai!” – conclusi riagganciando.
Andai a buttarmi sotto i getti freddi dell’idromassaggio. Dunque avevo sognato e poi il sogno s’era trasformato in un incubo. Mi rivenne in mente “La Belle e la
Bête”, una messa in scena di Jean Cocteau sull’impossibilità di distinguere tra realtà e sogno.
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Brenn... brenn... mi precipitai al telefono.
“Oi André, sí, va tutto bene grazie... no, mi sveglio
adesso ho dormito dall’altro ieri... ma dimmi com’è poi
andata sul set di Rio Bab.”
“Ah ah... sacanagem, il solito casino... ah sí la festa
da John... m’ero dimenticato... sí l’indirizzo... grazie,
arriverò in taxi... ci vediamo là... boa tarde, ciao.”
“Che mi metto?” – ragionai ripensando a John.
L’australiano era corrispondente di un’agenzia di
stampa internazionale. Certi giornalisti non mi vanno a
genio e di solito li mando a quel paese, come avevo fatto
con John, ma poi André aveva tanto insistito, che alla
fine ero pur giunto alla festa d’inaugurazione della casa
del corrispondente australiano. Arrivai alla festa con
Marisa, Rita e Marise – due bianche e una nera rispettivamente.
Pensai che Rita sarebbe arrivata alla festa con l’autista. Il dettaglio me lo avevano fornito i portieri, non lei.
Segni inequivocabili denotavano la sua ricchezza. Del
resto a Rio, quando non si è poveri – la stragrande maggioranza – si è ricchi. Semplice no? Comunque per parte
mia, continuavo a fare lo gnorri. Non volevo che Rita
capisse quanto mi giovasse una dama altolocata, munita
anche di un discreto sex appeal. L’avevo conosciuta
seguendola nella toilette di Cervantes e da quella volta
lei aveva preso l’abitudine di venire da me un paio d’ore
tutti i santi giorni, il tempo di fottere e di tornare da suo
marito e da una creatura, a venticinque anni, neanche
gliel’avesse prescritto il dottore.
Cominciai a radermi. Marisa sarebbe passata a prelevarmi in macchina a mezzanotte. Spuntai le basette, i
peli nasali e, manovrando lo specchietto, riuscii ad eliminare la peluria sul collo, poi mi inondai di acqua di
colonia della farmacia di Santa Maria Novella,
Florence, Italy. Lo studio era pregno di salmastro –
scaffali, armadi a muro e parquet – il tutto in un legno
tropicale durissimo.
Con Marise ero rimasto che mi avrebbe dato un
colpo di telefono, prima di uscire da casa sua sulla
Princesa Isabel, il cuore di Copacabana by night, a un
tiro di schioppo dal quartiere di Leme, a due passi da
casa mia.
Indossai dei jeans e t-shirt bianchi, con foro di
proiettile all’altezza del cuore e una goccia di sangue
vinilico iperreale, con la scritta made in Italy, poi mi
infilai una collana rosso vermiglio, e mi sentii pervaso
da una sottile ebbrezza.
Nell’umbanda bahiana la collana rossa simboleggia
il guerriero. La donna che me l’aveva venduta, m’aveva
chiesto se mi rendevo conto di quanto sarebbe stata
impegnativa la scelta di quel colore. Rientrai in sala e
schiacciai il play sulle Quattro stagioni, quel vecchio
prete rosso ci aveva saputo fare, e mi lasciai andare sull’ammucchiata di cuscini, accesi una paglia e chiusi gli
occhi, in una specie di rilassatezza morale.
Brennn... brennn... Due squilli e alzai la cornetta.
“Ehi se tu... Gianni” – dissi.
“Cosa stavi facendo?” – confermò lui.
“Mi stavo preparando...”
“...per una festa.”
“Sí.”
“Una al giorno.”
“Sí.”
Lui non disse nulla, si limitò a sospirare.
Dissimulava uno stato di percettibile prostrazione.
“Come stai?”
Quasi rantolò.
“Boulevard Giscard D’Estaing, boulevard de la
mort” – canticchiai questo motivetto degli Alpha
Blondy.
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“Che tempo fa?”
“Lo sai com’è qui l’estate!”
“E qui siamo sotto la neve.”
“Li senti i cavalloni?” – dissi avvicinando la cornetta alla finestra spalancata sull’Oceano Atlantico.
“Dai... dimmi che li senti...”
“...li sento... li sento...”
Gli avevo ripetuto fino alla nausea di fuggire da
quella dannata città. Cominciavo a esser stufo della mia
incapacità di aiutarlo a uscire dalla situazione.
“E a soldi come stai?” – disse cambiando discorso.
“No problems” – mentii.
“Se posso...” – insistette lui.
“Lo so, lo so – glissai – ma lí, nel Bel Paese, cosa
succede?”
“La solita merda, la solita gerontocrazia al potere, il
resto lo saprai dai giornali.”
“E gli indefessi, che fanno gli ex lottatori continui?”
“Vuoi dire i camaleonti?”
“Oh yez!” – rifeci il verso a Mauro Ros.
“Un tripudio di carriere & riconoscimenti ufficiali.”
“Per aver mandato una generazione al massacro...”
“...e via discorrendo – fece lui, e cambiando discorso – da chi è la festa?”
“Da un cazzone.”
“M15 o M16?” – ironizzò.
“No... non è del giro che tu sai.”
Cadde la linea e riagganciai.
Brenn... “Sei sempre tu?”
“Sí – fece lui cambiando ancora discorso – e lei?”
Claudia s’era rifatta viva la sera precedente. M’era
parsa tranquilla e l’avevo portata in una specie di bordello di Praça Maua, tra putas & marinai. E poi all’alba l’avevo riaccompagnata a casa sua e lei in cambio
aveva ricominciato con le telefonate mute.
“Ormai è uscita dalla mia vita – mentii e cambiando
argomento – e di Mauro cosa sai?”
“Ha fondato una comunità arancione in Sicilia col
pornografo che tu sai.”
Cadde la linea e Gianni non mi richiamò.
Ricominciai a pensare a Marise. Pagarle un taxi che la
portasse alla festa non era il caso, si sarebbe insospettita, le bahiane sono passionali e, d’altra parte, con
quei chiari di luna, era meglio risparmiare. Non mi
rimaneva che mettere le due Marise, la nera e la bianca, di fronte al fatto compiuto. Dovevo solo agire rapidamente, senza dare loro il tempo di reagire. Certe
volte la mia vita sembra un film, specialmente se il
destino mi cambia le carte in tavola quando la partita è
ancora aperta.
Arrivai alla festa. Una villetta nella parte alta del
quartiere di Laranjeiras, una zona tranquilla e borghese
come la festa. Vi giunsi con Marisa e Marise, una matrona famosa e una bellissima puta. Rita mi accolse fredda
in mezzo a una piccola folla di giornalisti, coi loro progressismi vieti e le loro donnette radical cheap. Una
esposizione di pesce, arrosti, vini cileni, frutta, erba a
volontà. Una sola bottiglia di whisky importato, carissimo. Mi versai una dose e me ne andai in perlustrazione.
Attraverso un disimpegno e una scala a chiocciola scesi
al piano di sotto. Un tizio con la barba stava battendo su
una macchina da scrivere.
“Pardon” – feci urbano.
“Non c’è problema” – rispose lo sconosciuto.
“Scrittore?” – azzardai.
“Giornalista” – fece deferente.
“Inglese?” – imperversai.
“Irlandese” – disse smettendo di scrivere.
“Scrivi per chi?” – non mi davo per vinto.
“Per un giornale di Baires” – rispose cortese.
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Abbandonai l’irlandese al suo articolo argentino e
me ne tornai nell’ennesimo circolo della stampa anglocarioca. Le due Marise si stavano ancora studiando,
nelle stesse due poltrone dove le avevo parcheggiate
entrando. Dopo un’altra dose di scotch, intravidi André
in una camera alle prese con la solita neve.
André, scozzese d’origine e carioca d’adozione,
aveva penetrato i meandri più reconditi dell’infernoparadiso carioca, la cosiddetta cidade maravilhosa. Con
un piglio da bucaniere, il fisico da scozzese, un’esistenza da bohêmio e una copertura da reporter, era la quinta
essenza di quello che avevo sempre immaginato fosse
un avventuriero romantico. Tra me e lui s’era stabilito
un rapporto empatico, condividevamo molti punti di
vista e nutrivamo lo stesso disprezzo nei confronti degli
addetti alla dis/informazione. Tenendo conto delle mole
eccezioni, specialmente tra le file dei giornalisti brasiliani, talvolta assai coraggiosi e gliene va dato atto.
André raffinato bon vivant & dandy come solo a Rio
ce ne sono ancora, era un profondo estimatore di pó e
me la offriva sempre, pur sapendo che non era cosa per
me e che comunque non ne andavo matto.
“Un tiro” – mi fece lui.
“Non ora, grazie” – dissi accendendomi una paglia
d’erba paraguaiana già pronta.
Mi avvicinai a Rita. Continuava sprezzante nei confronti miei e di Marise, ma feci finta di niente accogliendo Denis che arrivò in compagnia di Mirko, uno stilista.
“Ooooooooooo ma quanto tempooo che non ti
vedoooo” – mi si rivolse la signora.
Io feci lo gnorri ma non ci fu verso.
“Ooooooo stupidoneee... lo so perché fai cosí – continuò Mirko in caduta libera – Denis mi ha detto tutto...
ma sí, ma sí lo so che stai scrivendo un romanzo, sarà
bellissimo, e l’argomento?”
“BRASILE d’INFERNO!” – esclamai.
“Ahhh... s e n s a t i o n a l questa t-shirt – glissò lui
e proseguendo – e come ti donaaa...”
Il sangue continuava a martellarmi nelle vene, e
intanto mi avvidi di Marise con John, completamente
rapito dalla clamorosa bellezza della nera. Invece
Marisa si stava annoiando e mi precipitai da lei.
“Qualcosa da bere?”
“No grazie.”
“Allora balliamo.”
“No, obrigado, grazie – declinò – brutte vibrazioni,
gente che non mi piace, penso che andrò.”
La riaccompagnai alla macchina, le baciai la mano e
me ne tornai indietro. Rientrai, tutti mi sorridevano ma
io continuavo scostante. Sempre quell’intercalare –
fica/soldi, soldi/fica... Il mix whisky-erba-whisky mi
stava esplodendo dentro. Per riequilibrare ripassai da
André per un tiretto ma poi mi feci solo mezza striscia.
Come registrò l’amico carioca, era la prima volta che
mi vedeva tirare cosí.
Mi fece un brutto effetto. Mi vidi annaspare in un
mare di merda. Non riuscivo più a emergere. Il branco
di gaglioffi & gaglioffe continuava a ganasce & mandibole spalancate. Far finta di non sentire la fame, di non
vedere la violenza, di ignorare l’ingiustizia... In quel
gioco dello gnorri non ci rientravo, non ci sarei più rientrato.
“Che diavolo sto facendo della mia vita?”
“Ma cosa stai combinando?” – avrebbe detto Mauro
Ros.
Mi si aprí una voragine nello stomaco e corsi a farmi
un altro scotch che tracannai mettendo a fuoco la bunda,
il posteriore di una carioca avvinghiata a uno mai visto
prima.
“Dov’è la boccia?” – chiesi perentorio a John.
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“Questa è la bottiglia” – disse lui chinandosi a raccattare la boccia da dietro un divano.
“Ma ti rendi conto di come ti sei ridotto? – aveva
ripetuto Claudia qualche ora prima – se vai avanti
cosí...”
“In tempo di pace il guerriero va contro se stesso” –
avevo detto ripetendo il solito refrain.
“ G u e r r i e r o?” – aveva scandito Claudia, prima
di lasciarsi andare alla sua solita risata.
Che ne sapeva lei di quel che veramente avevo in
mente. Ma forse “non era veramente intelligente, ma
aveva l’astuzia dell’animale selvaggio in gabbia” come
la Justine di Durrell – la gabbia del presunto amore in
cui l’avevo rinchiusa e di cui lei non era ancora riuscita
a liberarsi. Mi guardai attorno mettendo a fuoco la stessa creatura con il medesimo cavaliere. Continuava a
dimenare la bunda in modo impressionante. Mi distrassi rimettendo a fuoco i mangiatori. Andavano forte i
ragazzi, specialmente con la carne, Marise per mangiare vendeva la sua meravigliosa, la cercai con lo sguardo,
ma non vidi né lei né John.
“Hai capito l’amico australiano?” – ragionai tra
me&me mentre venivo abbagliato da un flash: stavo
sparando nel mucchio, il crepitio del mitra s’andava
missando alle urla degli astanti. Il sangue sprizzava
frammisto a brandelli di carne e cibo, spappolati sulle
pareti e sul pavimento. I corpi passavano dalla vita alla
morte ridendo e scherzando, come se niente fosse.
Anche le donne.
Mi accasciai sul divano e chiusi gli occhi. Li riaprii,
sembrava passata, mi rimisi in piedi. Ora dovevo solo
attraversare un mattatoio lercio di frattaglie, e uscire
all’aria aperta. Cercai di farlo avvedendomi che ormai la
bunda mi stava a un palmo di mano e io gliela toccai.
“Oh!” – esclamò inviperita.
“Vai tomá no cú, fan culo” – mi si rivolse lui.
Dissi che il mio era stato solo un gesto d’ammirazione, nessuna malintenzione, ne ero sicuro, ma lui ripeteva che la cosa non gli era piaciuta, che proprio non
riusciva a mandarla giù e allora per cercare di aiutarlo
gli mollai uno sganassone e me lo sfilarono subito dalle
mani. Cercai di allungargli un calcio nei denti e in quattro mi sospinsero lontano dal mucchio danzante e la
cosa sembrò finire lí. Non ci furono altre reazioni. Il
cinismo, la tolleranza, l’arroganza e persino la codardia
sono meccanismi di sopravvivenza come altri. Insomma
la parentesi poteva considerarsi chiusa. Avrei potuto
cominciare a godermi la serata.
“Bastardo!” – urlai catapultandomi contro il malcapitato.
Mi si attaccarono addosso due per gamba e quattro
per braccio ma riuscii a divincolarmi, senza riuscire a
sfondare la barriera umana, frapposta tra me e quel
povero disgraziato.
“Stronzi, razzisti, fascisti” – sbraitai, iniziando a lanciare tutto quel che trovavo a portata di mano.
Riuscirono a bloccarmi mentre stavo mettendo a
fuoco l’avvicinamento di un barbuto punteggiato da due
fredde pupille blu, che i tre hooligan – perché di questo
si trattava, come mi avrebbero riferito poi – mi erano
addosso. Due di loro mi tennero fermo, il barbuto inserí
la sua zampa estranea tra le mie, seguí una leggera torsione, mentre i due, dopo avermi sollevato, mi rilasciarono ricadere a terra. Riaprii gli occhi con la faccia a
contatto del pavimento, in sincrono con uno scrocco alla
base della gamba destra e un formicolio freddo alla stessa estremità: un dolore acuto. Alzai lo sguardo in tempo
per scorgere lo stesso figuro in procinto di infierire sul
mio io steso, che però riuscí ad afferragli la scarpa, un
attimo prima di ricevere il suo calcio nello stomaco.
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“S t o p!” – scandii con l’autorità del regista sul set.
L’hooligan si bloccò di colpo.
“È rotta” – feci indicando la gamba destra.
Risero.
Eppure avevo riconosciuto lo scrocco caratteristico.
Del resto il piede era girato a destra, fuori linea rispetto
all’asse della gamba.
Anche un bambino l’avrebbe capito.
Ma quelli erano solo un branco di pennivendoli &
pennivendole.
Julio, un fondista del Jornal do Brasil, si chinò su di
me, tirò su la stoffa e scoprí l’osso che si affacciava
dalla carne tumefatta, mentre un cronista di O Povo, un
quotidiano sanguinolento, mi scattò una foto.
“È meglio stenderti sul divano” – constatò Julio,
chiedendo di abbassare la musica, qualcuno del branco
eseguí.
Il dolore s’era attenuato in una specie di sordo formicolio ma riuscivo a controllarlo. L’unica cosa che non
dovevo fare era dar loro soddisfazione.
Arrivò Marise e John si chinò su di me, proprio mentre gli stavo sferrando un cazzotto sotto la cintura, che
lui riuscí a schivare per un pelo, mentre il barbuto si
riavvicinava minaccioso.
“Ma perché, perché? – piagnucolò John – io che
c’entro?”
“Stai tranquillo stronzo che non ti denuncio – lo rassicurai – all’illegalità ci sono abituato.”
“Anch’io” – intervenne l’hooligan, che continuava a
controllarmi da vicino.
Marise mi teneva la testa sollevata. Rita, un’espressione scolpita nel disprezzo, venne a riprendersi la borsetta sul bracciolo del divano.
“Me ne vado” – disse con sommo disgusto sparendo
nello sfondo.
“V a i a f a r e i n c u l o” – articolai in lingua originale.
“Sta arrivando l’ambulanza” – annunciò qualcuno.
“E adesso cosa racconti” – mi fece John nell’orecchio.
“Che sono caduto dalla scala a chiocciola.”
“Io ti ringrazio, sai?”
“Ringrazia iddio che non sono armato” – dissi mentre il medico mi palpeggiava l’osso esposto, facendomi
cacciare un urlo talmente alto, che spensero lo stereo e
l’ambiente piombò nel silenzio.
“Com’è successo?” – mi chiese il dottore.
“Sono caduto da quella scala a chiocciola” – risposi
tosto.
“Fa molto male?”
“Da impazzire.”
“Cerchi di non farlo mentre la carichiamo.”
La barella era affiancata al divano.
Mi iniettarono qualcosa, mi adagiarono sulla lettiga,
la sollevarono all’altezza del branco ammutolito e mi
trasportarono verso l’uscita.
Li guardai in faccia uno ad uno.
“Porcos & escrotas, porci & scrofe” – sussurrai.
Brusio.
“Porcos & escrotas” – alzai il tono.
Brusio.
“P o r c o s & e s c r o t a s” –sbraitai con tutta l’energia che ancora avevo in corpo.
Silenzio.
Gli infermieri mi stavano infilando nel furgone e dal
branco si levò un lungo, scrosciante applauso interrotto
dalla voce di una troia.
“Cosí impari a fare lo stronzo!” – disse lei.
“Ehi, porcos & escrotas – sbottai stavolta a squarciagola – sono un terroristaaaa e vi scoveròòòò uno per
unooooo...”
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Era la prima volta che mi assumevo questa responsabilità e tutti zittirono come d’incanto.
Marise si sedette sul sedile riservato mentre dai portelli aperti giungeva la voce trafelata di André.
“Aspetta vengo anch’io” – profferí l’anglosassone.
“Fuori dal culo te e tutti quelli come te, occhi azzurri e palle bionde” – continuai a imprecare mentre i portelli si chiudevano.
“Qui gatta ci cova – osservò il medico – se ha qualcosa da aggiungere me lo dica che faccio rapporto.”
“Mi creda la verità gliel’ho già detta” – confermai.
“Le credo, le credo” – fece ancora lui, mentre iniziavo a constatare il comfort di un’ambulanza che sembrava nuova di zecca.
L’ironia della sorte aveva voluto che un paio di giorni prima, sul set di Rio Bab, avessi conosciuto l’importatore di ambulanze acquistate come rottami negli Stati
Uniti e rivendute come nuove sulla piazza carioca con
gli ammortizzatori rotti.
“Soddisfatti & rimborsati” – aveva commentato il
broker esilarato dal big deal appena concluso, corroborato da una colombiana al novanta per cento, e difatti
durante tutto il tragitto ebbi modo di verificare tutte le
buche che costellavano il percorso.
Marise mi informò che eravamo arrivati al Miguel
Couto, “l’ortopedico di Rio de Janeiro” – come precisò
lei, arrapando la “r” come solo le carioca.
Mi scaricarono e dissero alla mia accompagnatrice
che poteva tornarsene a casa.
Generalità, motivi del trauma e via discorrendo.
Curioso il mondo visto da sottosopra. Difatti Marcel
Proust scriveva disteso. Mi infilarono in un ascensore progettato da un pazzo, talmente corto che la barella schiacciava l’infermiere contro la parete d’acciaio inossidabile, come
quella testa di cazzo che l’aveva realizzata. Quindi una serie
interminabile di corridoi come tubi quadrangolari, illuminati da fluorescenti, altrettante lame nelle mie pupille dilatate,
filava regolare al ritmo delle scannellature nel pavimento di
cemento. Chissà quante mignotte s’era pagato quel generale che aveva suffragato quei lavori di merda. Quando il
penultimo architetto si sarà impiccato con le budelle dell’ultimo politico, avremo ancora dei problemi? Dopo un
altro ascensore, finalmente il pronto soccorso.
Mi scaraventarono dalla barella su un lettino con le
ruote e, per non farmi maledire dalla fila degli altri
infortunati in lista d’attesa, soffocai un urlo.
“Dov’è il dottore?” – chiesi all’infermiere.
Non era ancora arrivato. Difatti a Rio il carnevale
dura tutto l’anno. Arrivò un altro infermiere che mi ricaricò su un altro carrello, risospingendomi per altri chilometri di corridoi fino a radiologia.
“Dottore, dottore” – supplicai.
Non c’era e le lastre me le fece l’infermiere. Poi mi
rimisero su una lettiga stavolta d’acciaio, con il piano
d’appoggio inclinato per facilitare il deflusso dei liquidi, m’ero pisciato addosso, mentre il mio corpo rimaneva sospeso sulla canalina di scorrimento, in cerca di una
posizione che non trovavo.
Poi mi parcheggiarono al pronto soccorso per ore e
ore assieme ad altri sventurati.
All’alba sopraggiunsero due barelle con due crivellati di proiettili, lordi di sangue, ed esilarati dalla coca.
“Come va?” – mi chiese un giovane dottore.
“Qualcosa per il dolore” – tagliai corto.
Scomparve e ricomparve con una siringa.
“Funzionerà?” – mi chiesi e difatti funzionò.
Intanto lo sbarbato controllava le lastre.
“Brutta frattura a tibia e perone – disse scuotendo la
testa e poi – se la gamba fosse mia non rimarrei qui un
minuto di più.”
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BRASILE D’INFERNO
“Dove andresti?”
“Ha soldi?”
“Ho soldi.”
“Allora andrei nella clinica del capo.”
“Il capo?”
“Il capo di quest’ospedale è titolare della São
Miguel, una clinica che dispone dell’attrezzatura adatta
per questo tipo d’intervento.”
“Okey ci vado.”
Stavolta rifacevo veloce il percorso inverso.
In portineria ritrovai Marise che mi fece venire una
canna incontenibile.
“In queste condizioni” – pensai tra me&me.
L’ambulanza partí a tutta velocità.
“Piano, pianooo! altrimenti non pago” – sbraitai e
l’autista smorzò l’andatura.
Alla São Miguel il sole era già alto.
Staccai un assegno per il trasporto e mi ritrovai in
una linda stanzetta, mi fecero una morfina e mi infilarono una bella flebo nella coscia.
“Sta arrivando il professore” – annunciarono.
Entrò un vecchietto azzimato.
“Adesso facciamo le lastre” – ordinò le petit baron.
“Non ce n’è bisogno – dissi paventando il conto –
queste lastre me l’hanno appena fatte al Miguel Couto.”
Il professore le agguantò scettico.
“Ah, ah – fece sbirciandole in controluce – una bella
frattura a tibia e perone.”
“Uh.”
“La opero alle due” – decise e se ne andò.
L’amministratore mi chiese di versare un importo
equivalente al salario minimo di un operaio brasileiro,
moltiplicato per venticinque volte.
Duecento e cinquantamila per l’intervento di Sua
Eminenza, altrettanto per la casa, settantamila per la
retta, senza contare le assicurazioni, i diritti, le tasse e le
percentuali. Mance a parte.
L’amministratore cercò di convincermi, spiegandomi
che le petit baron impiegava nuove tecnologie, che non
prevedevano l’ingessatura.
“Tra due settimane – concluse giulivo – lei sarà di
nuovo sulla praia di Copacabana.”
Detto & fatto.
Gli mollai un assegno corrispondente alla metà dell’importo richiestomi, dicendogli chiaro e tondo che
quella era l’ultima cifra di cui disponevo. Lui mi squadrò dicendomi che doveva consultarsi con il capo e lo
chiamò al telefono. Il professore accettava di essere
pagato anche dopo l’intervento, salvo parere contrario
del console italiano.
Non mi preoccupai per il console, con il quale avevo
un buon rapporto. Mandai Marise a informarsi per
un’altra soluzione. Difatti c’era un ospedale italiano
molto meno caro.
Pensai e ripensai all’affidabilità di medici scappati
chissà da dove e riparati in America Latina chissà perché. Riflettei anche sul fatto che mi stavo ritrovando bel
bello nel cul-de-sac che mi aveva predetto Edoardo, l’amico argentino.
C’era solo una persona capace di tirarmi fuori da
quella situazione e composi il suo numero.
Claudia arrivò mezz’ora dopo con l’aria della debuttante snob.
“Se sapevo che eri con un’altra non venivo” – fu
la prima cosa che disse, poi decise di trasportarmi in
quella clinica sull’Atlantica, da quei due aggiustaossa che avevo avuto modo di conoscere in un altro
frangente.
“Te ricordi di quando mi hai rotto il naso?” – mi
disse in italiano, per non farsi intercettare da Marise.
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“Ricordo sí” – feci tagliando corto e chiamando la
segretaria del professore, per comunicarle la mia intenzione di tagliar l’angolo.
“E perché?” – chiese la bunda stupita.
“Perché sono povero” – ribattei secco.
“Ahhh capisco” – fece la bunda scettica, osservando
Claudia che tutto poteva sembrare, ma non certo una
povera creatura.
La gente pensa sempre che io sia ricco. Un giudizio
favorevole o sfavorevole, a seconda delle situazioni.
Mi portarono il conto, una cifra da hotel a cinque
stelle per un paio d’ore di permanenza. L’ambulanza era
pronta. Mi sollevarono ma ordinai di rimettermi subito a
terra.
Eseguirono.
Chiesi la restituzione della cartella clinica del Miguel
Couto e le relative lastre. L’amministratore spiegò,
cavillò e tergiversò, senza sapere con chi aveva a che
fare. E concluse dicendo che non poteva darmi niente,
visto e considerato che era illegale.
A Rio? Figurarsi.
Gli rifeci, stavolta a squarciagola, la precedente
minaccia.
Accorsero infermieri, sanitari trafelati e pazienti spaventati. Era il momento di rincarare la dose.
“Questo è un covo di ladri e tirate fuori l’incartamento, altrimenti qui ci torno con gli amici della
Rocinha” – dichiarai in slang malandro.
La parola Rocinha, che rimanda all’omonima favela,
li fece vacillare. Mi riconsegnarono tutto & subito e
ripartii con i portantini paghi di trasportare un duro.
Claudia e Marise si guardavano in cagnesco mentre
io non la smettevo di pensare al mio conto in rosso.
Sull’Atlantica la barella era troppo larga per passare
attraverso la porta dell’ambulatorio e allora dovettero
issarla fino a una finestra del mezzanino, farcela passare, e di qui al piano terra nell’ambulatorio dei due strizzaossa che mi accolsero all’unisono:
“Possiamo tentar una recomposiçao con il cinquanta
per cento di probabilità di riuscir” – sembrava un’opera
lirica.
“Procedete con attenzione, sono molto sensibile.”
“Tutti lo siamo.”
Questa storia che saremmo tutti qualsiasi cosa non
l’ho mai potuta mandar giù.
“Ci sono persone più sensibili” – sottolineai allarmato.
“Le nostre tecniche – ripresero sempre all’unisono –
non contemplano l’anestesia.”
“Nemmeno parziale?”
“No!”
“Te ricordi quella volta” – ricominciò Claudia.
“Va bene, va bene” – tagliai corto paventando il peggio.
Mi fecero firmare un foglio in cui mi assumevo ogni
responsabilità e loro le declinavano tutte.
Le lampade erano accese sul tavolo e mi ci assicurarono con le cinghie.
“Tenetelo fermo – dissero alle due ragazze mentre
cominciavano a tirare e io a urlare – tenetelo duro.”
Quanto urlai, urlai tanto, urlai come non avevo mai
urlato, al di là di ogni limite consentito e mi rividi da bambino mentre mi strappavano le tonsille senza anestesia.
I due ossessi continuavano a darci dentro.
In base a quale etica alternativa del cazzo non usavano l’anestesia, nessun tipo di anestesia? Quando
anche solo per alleviarmi il dolore sarebbe bastato uno
stereo con Vivaldi in cuffia. Pensai all’idiozia della cultura cosiddetta alternativa, ai cosiddetti alternativi e alla
loro paranoia di sentirsi sempre e comunque dall’altra
parte.
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Ma quale parte poi se siamo tutti nella stessa merda,
ricchi & poveri, sudisti e nordisti, eroi e vigliacchi, in
questo siamo davvero tutti uguali.
Pensai alla stupidità associata alla crudeltà umana.
Ma ero stato io a ridurmi cosí.
Ma perché, per che cosa? Per la voluttà dell’impatto
a cui m’ero votato? Pensai che mi sarei fatto fuori.
“Ormai la vita non ha più senso” – pensai al maledetto ’68 e al dannato contro ’68 degli stramaledetti
indefessi al potere.
Pensai a Mauro Ros, a questo alternativo per eccellenza e lo maledissi come maledissi il momento in cui
ero nato e quello in cui l’avevo conosciuto.
Pensai a mia madre che ancora continuava a rompermi i coglioni.
“Mai! Mai! Mai! – sbraitai nella mia lingua con
quanta forza avevo nei polmoni, il volto inondato di
lacrime & sudore – non tornerò mai più!”
È veramente troppo il bagaglio di orrore che ognuno
di noi deve sopportare. Che importa poi se sono stati gli
altri o siamo stati noi. Pensai a tutti i brasiliani e le brasiliane morti sui tavoli di tortura di quei maiali dei generali comprati e coperti dalla CIA. Di fronte al dolore
siamo veramente tutti uguali.
Ormai era il delirio.
Poi smisero di martoriarmi e di lí a poco anche la
stecca di gesso era finita. Ripercorsi con un’altra ambulanza i cinquecento metri che mi separavano dal mio
edificio. I portieri si fecero in quattro per collocare la
lettiga nell’ascensore di servizio, mentre Claudia e
Marise continuavano a non rivolgersi la parola.
Mi adagiarono sui cuscini della sala di fronte al finestrone sempre spalancato. Cominciai a ragionare sull’emissione dei due assegni a vuoto. Le banche aprivano
l’indomani. Non dovevano trovarmi, almeno non in
quelle condizioni. Decisi di sbarazzarmi dei mobili.
Steve s’era invaghito dei pochi pezzi di mobilio chippendale, lo chiamai e concordammo il prezzo.
Quindi telefonai all’agenzia immobiliare, disdissi
quei centocinquanta metri quadri sull’Atlantico, fissandone la restituzione per il giorno dopo. Infine chiamai la
compagnia aerea, prenotai il primo volo disponibile,
esattamente per il primo giorno dell’anno dopo. Dissi
alle due donne di prepararmi le valige e consultai il digitale: era mezzanotte. Dopo ventiquattr’ore esatte, la
festa era proprio finita. La brezzolina notturna alitava
dai finestroni spalancati e mi assopii; mi riebbi che
Marise era sparita. Sapevo dove.
Mandai Claudia a nanna a casa sua.
Finalmente solo, mi rivolsi alla samambaia e le parlai.
Le parole e le carezze cui l’avevo fatta segno da
quando era entrata nella mia vita, avevano contribuito a
far estendere la felce almeno cinque volte rispetto a
quando l’avevo scelta, timida e spaurita, sul marciapiede sotto casa e João, il mio guardaspalle, me l’aveva
appesa al soffitto, proprio al di sopra della scrivania.
L’alba mi sorprese ancora intento a parlare con la
pianta lussureggiante, con le sue braccia tremule fin
quasi sul pavimento salmastro di maresia, ma la felce
non aveva letto I ricordi del sottosuolo di Fëdor
Dostoevskij e forse non aveva capito un’acca di tutto
quel che le avevo raccontato. All’alba sentii la chiave
girare nella toppa della serratura e Marise entrò con latte
e brioches, quindi mi cavalcò e ci addormentammo
come due angioletti.
Ci svegliò Claudia verso le due del pomeriggio e per
prima cosa mise Marise alla porta, dopodiché mi si
avventò contro coprendomi di pugni, e facendomi sentire un vecchio bambino alla mercé di un’Alice nel Paese
dell’Assurdo.
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Il telefono stranamente taceva.
Dov’erano finiti quelli & quelle che fino al giorno
prima non mi davano tregua?
Suonarono alla porta. La squadra dei traslocatori
sgombrò tutto in meno di un quarto d’ora e quella dei
portieri al completo ricevette l’ultima mancia. L’uomo
dell’immobiliare riprese in consegna l’appartamento. I
portantini mi sistemarono sulla barella e uscimmo tutti
sul pianerottolo. Il portiere capo Napoleon chiuse la
porta con fare talmente solenne, che mi fece sentire
come una salma ancora calda. In strada c’erano tutti, il
macellaio, il verduraio, persino il fioraio, che non mi
aveva mai perdonato di avergli sottratto il suo João.
Stavano chiudendo i portelli e Napoleon mi allungò una
mano affettuosa.
“Oh senhor muito obrigado por tudo, grazie per
tutto” – mi sussurrò stringendomi affettuoso il braccio.
L’ambulanza arrivò con l’intermittente acceso alla
dimora del corrispondente del quotidiano più prestigioso di Sua Maestà Britannica e Steve, in compagnia della
sua fidanzata arrivata fresca da Londra, mi accolse con
sussiego stiff all’ingresso della sua sontuosa villa hollywoodiana, parco & piscina, ma circondata da una
immensa favela.
Ero stato il primo per non dire l’unico a correre in
suo aiuto, subito dopo il suo sequestro per mano di quattro banditi i quali, dopo averlo ripulito di tutto, avevano
anche rischiato di farlo secco. Quand’ero arrivato a soccorrerlo, Steve, più pallido del solito, dopo essersi scusato per il disturbo che mi stava arrecando, per la prima
volta da quando lo conoscevo m’aveva abbracciato e poi
m’aveva raccontato i dettagli della disavventura appena
patita. Erano le sei di mattina e i quattro banditi, dopo
essersi introdotti nella villa, lo avevano sorpreso, legato,
imbavagliato e costretto ad aprire la piccola cassaforte,
incassata nella parete alla destra del letto. Alla scena
aveva assistito atterrita la coppia di domestici, legati
come salami.
“Apri la cassaforte o ti apriamo le budelle” – gli avevano intimato.
Steve aveva ubbidito ma i magnifici quattro, non
paghi di denaro e macchine fotografiche, avevano preteso anche l’apertura dell’altra cassaforte, posta sulla
parte di sinistra del letto. Ma Steve, non avendola mai
usata, ne ignorava la combinazione.
“Ehi babaca, scemo – gli aveva fatto il capobanda
facendo scattare la molla del serramanico – con questo
ti taglio le palle e te le ficco nel culo.”
“Proprio un bel lavoretto” – aveva profferito il compare.
Mentre il satanasso era sul punto di mettere in atto la
minaccia, il capobanda aveva detto che si sarebbe potuto utilizzare l’auto del corrispondente per andare a svaligiare una banca nei pressi. E Steve aveva immediatamente trovato e consegnato le chiavi e poi mi aveva telefonato, pregandomi di accompagnarlo al commissariato
per l’adempimento delle formalità di rito. Abitavo a Rio
da più tempo di lui e mi sembrò doveroso comportarmi
da gentleman e l’accompagnai.
M’ero cosí ritrovato di fronte al fior fiore del marginalismo carioca, al cospetto di migliaia di foto segnaletiche, con facce in maggioranza nere e occhi pesti. Su
cento facce esaminate, almeno cinquanta erano tumefatte, gli occhi chiusi o semiaperti ed evidenti ecchimosi di
pugni subiti a torto e a/traverso. Più bassa la percentuale di coloro con entrambe le orbite peste, segno evidente che qualche riguardo c’era pur stato. Avevo continuato a fissare quei ritratti di poveri e sporchi, pensando che
prima o poi si sarebbero rivoltati.
“Con segnaletiche come queste – osservò il britannico – non riconoscerei mio fratello.”
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L’irriconoscibilità dei soggetti era anche dovuta
all’abominevole stato delle segnaletiche, sovra o sottoesposte, con i piani di fronte talmente diversi dai profili,
che c’era da dubitare si trattasse della stessa persona.
“Ma non avevi detto che erano mascherati” – lo
avevo incalzato.
“Avevano bende sotto gli occhi – aveva dettagliato
Steve – ma uno di loro a un certo punto rimase a volto
scoperto.”
“Era bianco o nero?”
“Non saprei... forse mulatto, davvero non saprei.”
“Ma non avevi detto che ti avevano tolto gli occhiali?”
“Sí, ma me li ridiedero per aprire la cassaforte.”
“Ah, ah! – esclamai supponente – a volte certi dettagli sono più importanti dell’insieme.”
Quindi di almeno uno dei quattro era incerta persino
l’appartenenza razziale.
Grazie a Dio in Brasile i confini tra bianco & nero
sono incerti.
“Lo troverò, sono sicuro” – aveva detto Steve a questo punto, continuando a scrutare le foto.
“Speriamo di no” – m’ero augurato in cuor mio.
“Molto interessante sotto il profilo criminologico –
aveva ripreso l’anglosaxonico – conosci il Lombroso?”
“Certo che sí!” – avevo esclamato facendo sobbalzare il corrispondente, che non poteva immaginare quel
che avevo scritto & fatto contro i cosiddetti criminologi
come il professor Lombroso, autore di una teoria criminal-razzista, in base alla quale a determinati tratti somatici corrisponderebbero altrettanti comportamenti criminali. Infatti basta guardare le facce di politici & malfattori, per non parlar degli indefessi, per rendersi conto dei
danni che possono provocare certe facce per bene.
Comunque sia una battuta cosí il giornalista non avrebbe dovuto permettersela, di certo non con me e alla fine
lo convinsi, data l’insicurezza da lui manifestata, che era
meglio non arrivare ad alcun riconoscimento. E Steve
mi era ancora riconoscente per avergli fatto evitare un
abbaglio con le relative grane, e accettando con dissimulata riluttanza la mia indiretta richiesta di ospitalità
aveva finito per accogliermi in quella sua magione sterminata dove, nonostante la recente avvisaglia, si ostinava a vivere senz’ombra di guardia del corpo.
Mi trasferirono dall’ambulanza su un materasso a
contatto di pavimento, in una stanza da cui potevo percepire l’inconfondibile pulsare della favela circostante.
Per prima cosa, mi feci passare da Claudia il pugnale da
subacqueo, che sistemai sotto il materasso.
I due o tre giorni che mi separavano dalla partenza
passarono cronologici. Breakfast, spuntino di mezzodí,
tè delle cinque, tramezzino serale, tè delle dieci e camomilla notturna. Queste le uniche occasioni in cui ebbi
modo di intravedere il viso pallido di Steve oppure, a
seconda dei turni, quello sempre sbigottito della sua
fidanzata Mary, fredda come l’inverno che mi si stava
riapprossimando. Se gli inglesi sono in genere parchi e
avveduti, ma costretti a recitare il ruolo dei ricchi che
furono ma che non sono più, Denis – scozzese di nascita, americano d’adozione e carioca d’elezione – non era
cosí. Costui fu l’unico amico – l’edonismo carioca rende
improbabile un autentico sentimento d’amicizia – che
venne a rendermi visita nella magione del comune
amico. Arrivò il 31 mattina facendosi annunciare dalla
sua caratteristica, fragorosa risata.
Denis, astuzia e intelligenza associate ad ogni sorta di
rispettabile espediente, era un raro esemplare di forestiero in grado di fottere i carioca, che in fatto di scaltrezza
son peggio dei napoletani. L’amico scozzese faceva parte
del ristretto gruppo di aficionados che mi stavano attorno e non appena piombò nella mia stanza, mi infagottò la
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stecca di gesso con della carta stagnola dorata e, ficcandomi in mano un mitra giocattolo, cominciò a sparare
polaroid a raffica. Ma nei secondi che precedevano la
ricarica del flash, riuscii ad assumere una espressione talmente spavalda, da vanificare il suo intento di immortalarmi con l’aria demente del tramortito.
L’ultima giornata era stata preannunciata sin dal mattino dal caravanserraglio percussionista del samba, proveniente dalla favela limitrofa, che si apprestava a salutare l’ultimo giorno dell’anno. Con il passare delle ore il
ritmo delle batterie s’era fatto frenetico e febbrile come
il mio corpo raffermo. Faceva un caldo tremendo, appena lenito da Claudia, che mi inumidiva la fronte con un
panno bagnato. Del resto lei non aveva mai parlato
molto. L’istinto si nutre d’azione, non di parole astratte.
Alcuni mesi prima la sua preda, cioè io, le era sfuggita
e ora che m’aveva riagguantato si sentiva paga.
Quando il suono dei tamburi e dei físchietti si impadroní della sera, Steve uscí con Mary e cosí fece la coppia di domestici, mentre Claudia mi teneva una mesta
compagnia, sullo sfondo di un samba inquietante come
la favela oltre il muro di cinta, a venti metri in linea d’aria dal mio materasso fradicio di sudore. Mi chiesi che
cosa aspettassero a scavalcare quel muretto che li separava dai ricchi estrangeiros a portata di mano. A mezzanotte, dopo il brindisi, Claudia mi annunciò che sarebbe
tornata a casa sua sull’Atlantica, per godersi al sicuro,
cioè dall’alto delle finestre del suo lussuoso appartamento, lo spettacolo dei neri sulla spiaggia di
Copacabana, vestiti di bianco con decine di migliaia di
candeline accese. Cercai di scoraggiarla dall’uscire a
quell’ora da sola. Ma Claudia uscí e io rimasi con le
antenne tese, senza riuscire a percepire l’accensione del
motore della sua vecchia VW con lo scappamento rotto.
Infilai la mano sotto il materasso e liberai l’impugnatu-
ra dalla sicurezza e dopo alcuni istanti un urlo provenne
dal giardino e poi un altro urlo seguito da uno scalpiccio
nel corridoio.
“Segurança, segurança” – sbraitai a un inesistente
servizio di sicurezza, estraendo la lama del pugnale
quasi abbagliato dal suo luccicore.
Claudia rientrò in scena con l’abito strappato e ansimante disse: “Erano in due e mi volevano iscopare.”
L’avevano sorpresa appena fuori dal cancello, l’avevano costretta a tornare sui propri passi e mentre l’uno
perlustrava il giardino, l’altro aveva tentato di usarle
violenza, e Claudia, fingendo di concedersi, aveva sussurrato al malcapitato:
“In casa c’è molta pó, coca” – e l’idiota c’era caduto, lei s’era messa a urlare, provocando il mio gesto che
aveva messo in fuga i due.
“Guarda che potrebbero essere ancora in giardino –
mi avvertí lei – potrebbero tornare sui loro passi.”
Spensi la luce e mi attaccai al telefono. Il centralino
della polizia civile era occupato. A quello dei pompieri
mi risero in faccia augurandomi “Feliz Ano Novo”. Le
auto della Polizia Militare erano tutte nell’inferno del
carnevale carioca, occasione propizia per regolare i carichi pendenti con morti & feriti, come accade tutti gli
anni, anche se la cosa non riguarda turisti & stranieri
residenti.
“Beato lei che può starsene al sicuro in una bella
casa, con tanti begli amici e...” – si interruppe il PM dall’altra parte del filo.
Gli raccontai che la ragazza era ferita, che ero disarmato perché il mio guardaspalle m’aveva mandato al
diavolo proprio la sera dell’ultimo dell’anno e che, siccome ero l’inviato del quotidiano britannico più prestigioso, qualunque inadempienza nei miei riveriti confronti avrebbe innescato uno scandalo diplomatico. Mi
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dissero che sarebbero arrivati da un momento all’altro e
iniziò la snervante attesa.
Dopo una buona mezz’ora suonarono il campanello,
ma Claudia si rifiutò di andare alla porta e cacciò un tale
urlo che la PM scavalcò il muro di cinta e due splendidi
mulatti irruppero nella stanza e se ne andarono riaccompagnando Claudia fin dentro al suo garage di casa.
Il giorno dopo l’ambulanza arrivò in anticipo sul previsto.
“Goodbye.”
“Goodbye.”
“By by Steve, thanks a lot.”
Claudia sembrava una crocerossina e io il suo reduce svizzero. La sedia a rotelle era pronta sul marciapiede dell’International Airport do Rio de Janeiro.
Mi ci collocarono con la gamba in avanti, appoggiata sulla valigetta metallica posta sul predellino. Al
check-in mancavano due ore e salimmo al ristorante.
Pagai il conto con un altro cheque a vuoto e poi
Claudia sospinse la carrozzina fino a una boutique di
preziosi.
“Perché non ne approfitti?” – mi disse lei, inducendomi ad un ragionamento.
Infatti potevo sempre emettere un altro assegno,
rivendere subito la merce e poi con calma riempire il
buco. Un paio di commessi uscirono fuori cominciando
ad agitarsi attorno a un tizio che, per via della classe di
Claudia, non poteva che essere un miliardario impedito.
Mi proposero subito delle pietre che esaminai attentamente su un plateau di smeraldi, tormaline e acque marine. Scelsi una mezza dozzina di pietre badando alle grosse carature. Mostrai le credenziali richieste e firmai il
corrispettivo per una cinquantina di migliaia di dollari.
“Dona Claudia, anche lei abita sull’Atlantica?”
“Sí” – ammise lei.
“Con il signore?”
“Non esattamente – dettagliò lei – è solo il mio ex
marito.”
Mentre scendevamo rapidi ai check-in, mi avvidi che
uno dei commessi ci stava seguendo.
“Se quello stronzo chiama la banca – le mormorai –
l’Interpol mi becca a Casablanca.”
“Oggi le banche sono chiuse” – tagliò corto Claudia.
Dall’altra parte dei metal detector mi ricordai dell’acqua marina che avrei voluto regalarle, ma ormai non
potevo più tornare sui miei passi.
“Claudinha, Claudinha, meu amor – le dissi ancora
mentre lei agitava la manina – vedrai tornerò.”
Attorno a me erano tutti gentili e premurosi, compresi gli agenti federali. La compagnia m’aveva fatto
riservare nove posti su tre ordini di sedili e mi ci sistemarono come un sultano in gita. Quando accesero i
motori sperai che fosse solo un incubo, che difatti durò
tutta la nottata.
Rientrare in patria dopo tanto tempo è una cosa da
pazzi.
A Casablanca la compagnia araba aveva predisposto
tutto con precisione per il mio trasbordo sull’aereo della
compagnia di bandiera. Dove mi scaricarono su un sedile del corridoio, un attimo prima dell’arrembaggio di
una turba italiota di mamme, babbi, zie e bambini, questo piccolo mondo antico, assemblaggio paranoide e
culto sadomaso di infanti & parenti, vicini & lontani.
“Un amalgama di sangue assassino e mestruale di
pallottole & pannolini” – scriveva Mario Puzo.
Nella retina portariviste c’era una copia sgualcita del
settimanale italiota più venduto e mi ci rifugiai, passando d’acchito dal culto degli infanti a quello dei gerontocrati & carampane, come le ideologie, le piattaforme, i
contesti, i dibattiti, i partiti, le correnti, i mezzibusti, le
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mezzefiche, i tritacazzi, le crisi, i compromessi, piduisti
& monarchisti, coalizioni & scissioni, servizi & gabinetti, mafie & consorterie, pentiti & dissociati, irriducibili & cuorcoglioni, rievocazioni & commemorazioni,
biennali & trentennali, resistenze & fascismi, emergenti
& paraculi, stati nascenti & sociologi deficienti, semiologi à la page & prime puttane, claustrofobia & agorafobia, cattocomunisti & democristi, liberalsociali &
socialfascisti, senatori verdi & manigoldi indefessi, conflitti religiosi & conflitti d’interessi, frattali & frattaglie
nazi-fasciste, cinismi machiavellici & perdoni cattolici,
Craxi e Martelli/Felci & Mirtilli...
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” – cantava il poeta
– e se poi fossero i miei? – intercalai tra me&me.
Nel cielo di Roma, il comandante mi chiese se volevo la carrozzina o la lettiga.
Volevo l’elicottero e la mamma. Arrivarono due portantini.
Chissà se per caso c’era un posto dove attendere
qualcuno che non sapevo se e quando sarebbe arrivato.
Mi guardarono come si guarda un pazzo. Sí, un’astanteria c’era ma a pagamento e mi ci feci portare. Venni
sistemato in una linda cameretta con telefono & bidè.
Telefonai per un’ambulanza da Fiorenza, che attesi scolandomi mezza boccia di whisky e quando finalmente
mi trasbordarono in una cameretta dell’ortopedico fiorentino, la boccia era praticamente finita. E subito litigai
con l’anestesista il quale, registrando i miei eccessi, si
scandalizzò e mi ritrovai in corsia. Tanfo ospedalizio,
parenti non miei in libera entrata e uscita a tutte le ore
del giorno. Intervento chirurgico e dolori postoperatori
affogati nel pianto invece che nella morfina – è cosí che
si impara ragazzi!
Mi rilasciarono venti giorni dopo con due stampelle
e venti chili di gesso. Imbruniva, faceva un freddo tre-
mendo, scesi dal taxi e mi ritrovai in un androne stretto
e buio, dove Derno, per nulla sorpreso di vedermi in
quello stato, era già in attesa. Anche se nessuno lo
aveva informato, l’amico maremmano sapeva già in
anticipo quel che mi era successo. Derno dischiuse
guardingo la porta della sua stamberga e sgusciammo
dentro un’atmosfera romantica da ultimo bohémien –
una cucina col lavello intasato di piatti sporchi, la cortina verde delle pianticelle sulla finestra del cortile, le
dita gialle di nicotina e lo stesso cappotto sdrucito,
mentre lui si sfregava le mani perché si brillava di freddo. Ci osservammo un attimo nel più assoluto, reciproco rispetto.
Sempre identico a se stesso, Derno non era cambiato
nemmeno con l’età: quel suo sogghigno perpetuo, vessillo di austerità e orgoglio, ostentazione di un non ben
identificato pedigree, mi ricordava Luis-Ferdinad
Céline da vecchio, con il copriletto addosso. L’amico
maremmano si muoveva rapido, con movimenti del
corpo protesi in avanti, sghembi, lenti, goffi e tuttavia
aggraziati. Un incedere elegante e un po’ maniacale, traguardando in tralice con l’occhio strabico sinistro la
punta lucida della sua scarpa destra. Occhi scuri, vivi e
scaltri su una faccia etrusca, afflitta da un’inconfessata
nostalgia per la sua terra ingrata e durissima, la
Maremma o Maremma puttana, come dicono in
Toscana.
Quando qualche lustro prima lo avevo conosciuto,
avevo avuto la sensazione d’essermi imbattuto nell’unico più che nell’eccentrico. Il padre di Derno faceva il
minatore, troppo povero per dare all’unico figlio un’istruzione adeguata alla sua particolarissima intelligenza;
lo aveva spedito in seminario, da dove l’amico maremmano era fuggito, pur conservando, di quella breve
parentesi, un eticismo ferreo e anacronistico.
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Quindi solo di passaggio a Fiorenza, ma diretto a
Rapallo dove Derno avrebbe dovuto incontrare Ezra
Pound ma purtroppo il poeta maledetto era morto poco
prima dell’incontro. E cosí Derno s’era fermato nel
capoluogo toscano, divenendo mio confidente & amico.
Precocemente sposato e poi separato con tre figli a carico, l’amico maremmano s’era costretto a lavori di tutti i
tipi – stagnino, sverniciatore, infilatore di perle finte,
bigiottiere, derattizzatore, sterminatore di termiti e infine posatore di sostanze tossiche & nocive, unico lavoro
per il quale fosse stato ben retribuito.
Lo scrutai attento: né grasso né magro, né bello né
brutto, né giovane né vecchio, né povero né ricco, nessun segno d’appartenenza a un ceto, nessun segno particolare. Quindi non identificabile ma riconoscibilissimo:
istrionico, sibillino, ieratico e quindi dogmatico. Eternamente coinvolto in una inquietudine senza sbocchi e
prospettive, ma anche senza incubi. Ritenendo di essere
il mio nume tutelare, Derno era da me considerato come
una sorta di istruttore, al quale ricorrere nei momenti di
particolare tensione emotiva, come quello che stavo
attraversando in quel momento.
Continuai a osservare quella faccia singolare afflitta
da un travaglio malinconico ma sotto controllo, rendendomi conto che era vigile, attento, pronto a cogliere ogni
bagliore anche impercettibile del mio io diviso.
Derno mi fissò con quel suo sguardo timido e altezzoso a un tempo, come “cogliendo la vertigine d’angoscia in cui stavo precipitando” – come avrebbe detto
Djuna Barnes se solo lo avesse conosciuto.
Io gli dissi che mi sentivo vecchio, infelice, schiacciato dal senso di colpa, moralmente devastato, divelto dalle mie stesse responsabilità. Al posto del cuore
un buco e ancora non sapevo che cazzo fare della mia
vita.
“Se ti crei problemi di vecchiaia ti prepari una vecchiaia umida – esordí l’amico maremmano – senza contare che oggi la felicità non è più una cosa che si persegue
e l’unica cosa che uno può chiedere è cosa c’è nel menù.”
“À la carte” – sbottai isterico.
“E infatti, quando a uno come te gli piace il tutto,
come può scegliere il meglio!”
“Metti un uomo di fronte alle sue responsabilità –
proseguí tirando in ballo un suo concetto – lo smembri,
è il principio della fine.”
Continuavo ad ascoltarlo attento a non perdermi un
soffio di quel che mi stava dicendo, ben sapendo che se
l’amico maremmano era consapevole di avere ascendente su di me, non per questo s’era mai sognato di
approfittarsi di questo suo agio presunto.
“L’uomo è inadeguato alla sua intelligenza – proseguí
sicuro di quel che andava dicendo – tutto quel che di negativo si poteva fare è stato fatto, tutte le esperienze negative sono state sperimentate e le bombe sono già scoppiate,
indipendentemente dalla rivolta per la loro soppressione.”
“Rivolta o rivoluzione?” – chiesi estenuato.
“Il ribelle si ribella comunque, il rivoluzionario solo
in caso di necessità effettiva, mangiare ad esempio.
Invece il ribelle è un professionista della trasgressione.
L’uno parte dalla testa, l’altro dalla pancia. Il primo è
cauto, il secondo spregiudicato. Il rivoluzionario persegue il suo fine finché non lo raggiunge, invece il ribelle
conserva il suo istinto e non vuol farsi fottere – continuò
spedito – almeno fino a quando non gli riempiono la
bocca e la testa.”
Rimasi senza fiato anche perché Derno stava sintetizzando quel che avevo sempre pensato.
“L’uomo di oggi non si vuol salvare perché non è
adeguato alla propria intelligenza – riprese accendendosi l’ennesima Alfa col filtro – ma tu devi sopravvivere.”
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“Perché?”
“Perché sei un individuo solo e indeciso, drammaticamente moderno.”
Cosí parlò Derno, genio di professione e corniciaio
per l’occasione.
Mi rimaneva il problema di dove andare a sbattere la
mia testa di cazzo.
Nei pressi di mia madre non era proprio il caso e
smammai dopo un rapido e familiare amplesso. Andai
da mio padre in bassa montagna, mobilio di famiglia,
una bassotta isterica e la moglie asburgica. Aria e acqua
salubri, un posto isolato, non un bar, nessuno in giro,
salvo qualche rado toscano ingrugnito. Mi buttai a scrivere. Dopo tre giorni mi dissero di mettere un panno tra
la portatile e la scrivania del Cinquecento.
“Sennò si sciupa” – precisarò l’asburgica.
Esplosi e me ne tornai da mia madre a ritirare le pietre che le avevo affidato. Ma nel frattempo il direttore
della gioielleria dell’aeroporto di Rio aveva individuato
la casa di Claudia, riuscendo a estorcere al personale di
servizio il mio indirizzo. E cosí un’emissaria s’era presentata a casa di mia madre, la quale, apprendendo che
le pietre non erano state pagate, le aveva restituite e la
cosa era finita lí. Oramai al verde, senza sapere dove
sbattere la testa, mi ricordai di Mauro Ros, ribattezzato
Sartàno dal suo solito santone indiano. Il quale aveva
abbandonato Poona per andare a fondare l’ashram in
Oregon, mentre invece Sartàno & Prem Cesco, alias
Don Cesco Patella, avevano preferito andare ad aprire
una succursale degli arancioni in Sicilia. Telefonai a
Sartàno che mi invitò a raggiungerlo senz’altro indugio.
All’aeroporto di Trapani trovai ad attendermi un lindo
arancione, che mi aiutò a prender posto su un fuoristrada
nuovo di trinca. Arrivammo all’ashram al tramonto e
stava piovendo a dirotto. Una yuppy arancione mi fece
riempire un modulo degno della West Coast. Mi guardai
attorno tra casette in costruzione, baracche prefabbricate
e personale ocra come il fango che sembrava sommergere tutto, mentre una Bentley fiammante era parcheggiata
sotto una specie di stendardo da processione.
“È l’auto di Cesco” – mi chiarí il mio accompagnatore riferendosi con deferenza a Prem Cesco, il rappresentante locale del Bhagwan come mi spiegarono,
notando lo stupore allargarsi a vista d’occhio sul mio
viso intontolito.
Sartàno mi venne incontro strabuzzando gli occhi di
fronte al voluminoso gesso, che mi saliva sulla gamba
oltre il ginocchio, ma dall’affettazione con cui mi
abbracciò intuii che non mi sarei più potuto fidare dell’ex Mauro. Non che Ros fosse infido, tutt’altro, ma
chissà in quali ambiti aveva nel frattempo sospinto il
suo turbinoso cervello. Come lo stesso pomografo
avrebbe detto qualche tempo dopo, quando dopo la
morte di Mauro avrebbe ammesso che “era una fucina di
processi mentali”. L’ex Ros, più magro e ieratico di
come me l’ero raffigurato tutte le volte in cui l’avevo
ripensato, mi invitò a fare una ricognizione di quel che
lui chiamò “il campo”, un costruendo agglomerato colonico in espansione attorno a una torre denominata il
Gabbiano.
L’atmosfera che vi emanava mi sembrò una via di
mezzo tra una corte dei miracoli e un tempio abborracciato e periferico di un remoto e improbabile culto pagano. Ma era ora di cena e Sartàno, dopo avermi fatto
attraversare il refettorio all’aperto, situato sotto un tendone da luna park, dove i commensali mangiavano
all’addiaccio, e dopo aver percorso un grazioso giardinetto interno assai ben tenuto, mi fece varcare la soglia
del Gabbiano, cioè della torre riattata dallo stesso architetto dell’onorevole Tino Felci, intimo di Don Cesco.
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Qui l’atmosfera risultava assai diversa da quella esterna.
Quadri d’autore, candele, incensi, musica ambientale e
un caminetto acceso, tra gli svolazzi delle tuniche arancioni di donzelle intente a imbandire una tavola, a capo
della quale ghignava la faccia sorniona e invereconda di
Don Cesco, alias Cesco Patella, nel ruolo di Prem
Cesco, come l’aveva ribattezzato il Bhagwan, che
ammiccava da un ritratto hollywoodiano sulla parete,
cogli occhi ridenti e l’espressione anfosa. Al pari di quest’ultimo, anche Don Cesco era avvolto in una lunga
palandrana, e dal suo volto incorniciato da un barbone
incolto, attraverso occhiali sottili come il suo indelebile
sorrisetto, strizzavano sornioni occhietti birboni, incastonati nel suo faccione mellifluo da gangster levantino.
“Ma che t’è successo?” – mi fece il Don con una
punta di sarcasmo, mentre probabilmente diceva a se
stesso: hai visto coglione cosa succede a fare il guascone?
“Ho fatto il passo più lungo della gamba” – risposi
laconico e vagamente blasé, mandando in visibilio l’intera compagnia.
Don Cesco accolse battuta e relativa risata con un’espressione malandrina, tipica di un’epoca in cui taluni
membri del Partito Sociale, prima che la magistratura
tentasse, riuscendovi solo in parte, di porvi sacrosanto
rimedio, facevano il bello e il cattivo tempo, in ogni
contrada, anche la più sperduta, di questo Bel Paese del
cazzo ai margini dell’Occidente sviluppato.
Ma la cena era in procinto d’esser servita, tutti s’erano seduti al tavolo basso e due donzelle arancioni mi
aiutarono ad adagiarmi sui cuscini di seta traslucida
dello stesso colore. Non potendo piegarmi nella posizione del loto, mi accoccolai obliquamente rispetto al
desco, sotto il quale infilai il catafalco di gesso. Questo
stare un po’ in tralice conferiva al mio ristare una postu-
ra ancor più ambigua e per cosí dire sinistra, corroborata dall’esser l’unico in abiti civili, nonché privo di qualunque sigillo di riconoscimento d’appartenenza all’allegra compagnia. E finalmente Sartàno mi rivolse la
parola chiedendomi innanzitutto che fine avesse poi
fatto Claudia.
“Nel tentativo di sfuggire alla sua caccia spietata, in
un paese che non conosce la pietas, dopo averle provate tutte e senza sapere più a che santo votarmi, avevo
veduto di rivolgermi alla succursale carioca della
Rajneesh Foundation, sul punto di diventare un sannyasin, cioè un adepto con il prefisso di Anand” – dissi tutto
di un fiato.
“E non hai preso il sannyas?!” – sbottò all’unisono la
platea disillusa.
Risposi che, come spesso mi accade, all’ultimo
momento m’ero tirato indietro e Sartàno, che di queste
cose se ne intendeva ancor più di me, non poté trattenere un mezzo sorrisetto. Ma la reazione alle mia battuta
dovette essere sconfortante, perché tutti reinfilarono gli
occhi nei rispettivi piatti, salvo Sartàno che mi chiese
cosa avessi intenzione di fare io a quel punto.
“S C R I V E R E” – scandii, tradendo l’ansia trattenuta a stento.
Perché era stato quello l’unico movente che m’aveva
sospinto in quella sperduta contrada di Lenzi. Cercai di
capire le loro reazioni scrutandoli in volto uno per uno.
Ma tutti meno uno, io, se ne stavano imbambolati pendendo dalle labbrone satolle di Don Cesco, che si limitò
a dispensare a ognuno il suo indefesso sorrisetto. Erano
in dodici e io ero il tredicesimo, mentre la cena, annaffiata da un corposo vinello bianco, continuava a essere
ben servita da quattro donzelle piuttosto ben messe. In
particolare una sannyasin australiana dal posteriore ben
tornito e dalle ragguardevoli tette.
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Oramai alla frutta, Don Cesco intercomunicò con la
reception, chiedendo che il sannyasin addetto alla conservazione delle cassette registrate gli recapitasse quella corrispondente al tal discorso del Maestro. Dopo
alcuni minuti richiamarono per informare il Don che il
sannyasin in questione si era già ritirato e non aveva la
minima intenzione di eseguire l’incombenza. Allora
Don Cesco, pur mantenendosi fermo e compassato,
ordinò che si andasse a convincere in qualche modo
l’ingrato e ingannò l’attesa, ragguagliandomi sulla
struttura piramidale dell’ashram, basata sull’accettazione delle regole imposte dai vertici, tra i quali in quel
preciso momento m’era stato concesso il privilegio
d’esser assiso. A questo punto osservai Sartàno, e non
avendolo visto batter ciglio ripensai alle schiere di
poveracci che seguendo i vari trip dell’ex leader carismatico, negli anni caldi prima, in quelli di piombo poi
e in quelli arancioni del momento, lo avevano emulato
in tutto e per tutto, persino fino alla galera e alla perdizione, mentre l’attuale Sartàno, vuoi per un motivo o
per l’altro, aveva continuamente mutato indirizzo, in
modo talmente repentino da rendere arduo il relativo
ritiro o conversione in tempo utile degli sciagurati che
l’avevano voluto seguire, magari portando alle estreme
conseguenze gli ultimi dettami, in ordine di tempo, dell’ex carismatico convertito.
Ma bussarono alla porta e il sannyasin in questione
entrò con gli occhi stralunati dal sonno e andò ad accucciarsi ai piedi del Don. Il processo che ne seguí, rapido
e conciso, si svolse in un gergo settario, infarcito di riferimenti non comprensibili ai non adepti, inutile quindi
riferirli per filo e per segno. Sta di fatto che di lí a poco,
sotto le domande incalzanti che gli venivano rivolte in
tono calmo ma fermo dal Don, l’iniziale atteggiamento
del ribaldo si stemperò al punto da divenire umile & sot-
tomesso. E se lo sventurato aveva trovato un equilibrio
precario standosene sui talloni, ora in ginocchio cercava
di farfugliare qualcosa circa un suo spontaneo autoallontanamento dalla comunità. Tutti gli altri e le altre,
con le orecchie vigili a quel che Don Cesco andava salmodiando, avevano mantenuto un silenzio religioso,
lasciando al Don la risoluzione dell’evidente contraddizione. Ma visto che quest’ultimo traccheggiava, dalla
sua destra si erse sinistra un’altra vecchia conoscenza,
l’ennesimo ultrarosso riconvertito all’arancio, il quale,
puntando il dito contro lo sventurato, si lanciò precipitoso nella seguente e aspra concione.
“Salti o non salti? salti o non salti?” – ripeteva l’indemoniato, alzando progressivamente il tono minaccioso,
continuando a tenere puntato il dito contro lo sventurato.
“S A L T I O N O N S A L T I I I.”
Dove per saltare si intendeva andare oltre il proprio
ego e confidare nella grandezza del Maestro, del quale
Don Cesco, in quel luogo e in quel momento supremo,
era l’emanazione più vicina e diretta. Avendo notato il
mio raccapriccio, venni invitato a dire la mia. Ed io,
andando rapido con il pensiero a una linda cameretta che
certamente mi stava aspettando al piano di sopra, con le
lenzuola immacolate e magari rimboccate dall’australiana, dalla quale non avevo tolto gli occhi di dosso, guardai il disgraziato e nonostante mi ispirasse tanta compassione, mi lanciai in una diatriba situazionista sull’avvento del nuovo Medioevo e sull’emergere di un ceto
nuovo ricco e sull’altrettanto inevitabile corollario dei
neoservi della gleba.
“Ragazzo – conclusi tosto – non basta star dentro a
un castello, crogiolandosi nella convinzione d’averla
fatta franca, perché una volta che sei al di qua di queste
mura, se non ti sei fatto sgherro del padrone, vuol dire
che ti devi accontentare di fargli da servo.”
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E lui, l’infelice sannyasin, in un riverbero di consapevolezza, mi indirizzò tutto il suo sgomento, ma a questo punto il Don lo congedò, disponendo affinché si
provvedesse a riaccompagnarlo nel suo giaciglio. E
sempre Don Cesco mi annunciò che i miei alloggiamenti erano pronti ad accogliermi per una notte, che mi si
augurava ristoratrice e portatrice di consiglio. Mi aiutarono a rimettermi in piedi, mi riaccompagnarono all’aperto e, attraverso il refettorio ormai deserto, giunsi di
fronte a una porticina di lamiera ondulata che il mio
custode aprí, infilando dentro la mia valigia e dopo averla incastrata tra i due letti, tanto la stanzuccia era stretta,
mi augurò sogni all’arancio. Su uno dei due giacigli
c’era un giovane vecchio dall’età indefinibile, il quale
notando la mia intenzione di rifugiarmi in bagno, m’avvertí che era occupato.
“E da chi di grazia? – mi informai incredulo – chi
altri dorme qua dentro?”
Il giovane vecchio mi spiegò che il cesso intercomunicava con una stanza sull’altro versante del prefabbricato, che in quel momento era appunto occupato. Il tambureggío della pioggia sulla lamiera mi tenne sveglio
tutta la notte, durante la quale mi tornarono alla mente
le tappe fondamentali della mia venturata vita.
Al mattino mi precipitai alla reception, chiedendo la
convocazione immediata di Sartàno.
“Il mio arto ferito non può stare a bagnomaria” –
comunicai tra il serio e il faceto all’ex Mauro.
Sartàno mi spiegò che il Gabbiano era anche il loro
tempio e che potevano accedervi solo quelli & quelle in
grande intimità col Don, in quanto capo spirituale di
Saman. D’altra parte il campo era stipato. C’era gente
che, pur di star lí a prender la conoscenza, s’adattava a
vivere sotto le tende piantate e impantanate, persino ai
margini della proprietà che il Don aveva generosamente
messo a disposizione dei fedeli. Insomma mi potevo
ritener fortunato se s’era riusciti ad arrangiarmi quella
sistemazione.
“La storia che sto scrivendo necessita di privacy e di
comfort” – dissi chiaro e tondo a Sartàno.
“Ma perché vuoi scrivere?”
“Forse per cambiare le cose.”
“Se veramente vuoi cambiare – disse col tono di dire
in verità io ti dico – scrivere è l’ultima cosa che serve.”
Invece, tra i molti lavori in corso, compatibilmente
con la mia zampa impedita, avrei avuto solo l’imbarazzo della scelta. Tutt’attorno era un alacre sciamare di
carriole e laterizi, di bimbi inzaccherati e donne affaccendate, che tutto parevano meno che femmine. Pensai
di andare in cucina e Sartàno mi accontentò abbandonandomi tra i fornelli, dove le donne stavano preparando la merenda per i lavoratori.
“Dalle bundas di Copacabana in un convento di
suore assatanate” – stavo dicendo in cuor mio, quando
una sorella mi strappò lo spalmino di mano, spiegandomi che con tutto quel burro avrei mandato alla malora
l’intera opera pia.
E mi fece vedere lei come fare.
“Un velo di burro e uno striscio di confettura, caro
mio.”
“Caro un cazzo!”
“Oh!” – strabuzzò lei.
“Vai un po’ a prendertelo in culo” – le feci io.
Mi ripresentai alla reception pretendendo d’essere
immediatamente riaccompagnato all’aeroporto.
Mi rilasciarono un conto di centocinquantamila lire
– cento per la quota giornaliera, il lavoro che avevo pur
fatto faceva parte della “terapia”, e cinquanta per la
benzina del Toyota che mi avrebbe ricondotto all’aeroporto.
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Staccai l’assegno calcolando che mi rimanevano
altre trecentomila. A Sartàno feci notare che quello
scherzetto da prete m’era costato davvero troppo.
“Non sono io che stabilisco le regole del gioco” – mi
disse l’ex carismatico.
Era la prima volta che lo sentivo esprimersi in questo modo. Presi atto che l’ex numero uno era ormai un
numero due. Incredibile ma vero. Sempreché il tutto non
rappresentasse l’ennesimo suo giochetto.
“Mi pare giusto, quasi ovvio – lo avvertii, e proseguendo – sai sempre dove trovarmi.”
“E dove?” – domandò lui.
“Dall’altra parte.”
“Dall’altra parte? – ripeté l’ex Mauro stupito – di che
parte stai parlando?”
“Da una parte che non sia la tua, da quella opposta
alla tua – gli dissi guardandolo diritto negli occhi e pensando tra me&me – a questo gli rompo il culo ma proprio glielo rompo, quanto è vero Iddio.”
La misura era ormai colma e io ero davvero pronto a
disarticolare, come diceva René, quella banda di mentecatti fottuti.
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La tana
L’Alpen Express si fermò nella stazione livida di
neve. Si spalancarono tre sportelli e uscirono tre persone. Calai lento e inesorabile sul binario semideserto, ben
attento a posare bene le grucce sul marciapiede fradicio
di neve. Un facchino caricò le valige sul carrello, mentre all’altezza della pensilina un uomo biondo e mingherlino, con gli occhiali cerchiati d’oro, in un completo grigio e cappotto di montone chiaro, agitava senza
enfasi una mano rimanendo a fissare la mia figura trimpellante, in un trench di velluto marrone.
“Finalmente ti sei deciso” – mi disse l’amico trentino abbracciandomi.
La lenta marcia preceduta dal facchino si concluse di
fronte a una cabrio decappottata, nonostante il freddo
polare. Gianni mi aiutò a salire e a sistemare la zampa
impedita, quindi entrò a sua volta inserendo nello stereo
la Cavalcata delle Valchirie. Poco dopo l’auto si fermò
nel cuore del centro storico della cittadina, quieta e
silenziosa come sempre. Mentre estraevo la zampa dall’abitacolo, lui afferrò i due bagagli e ci inerpicammo
fino alla mansarda di un antico palazzo, con gli scalini
sdruccioli per via dell’usura.
“E cento” – fece Gianni aprendo la porta d’ingresso e
una seconda porta chiusa con il lucchetto, che si schiuse
lasciando cadere una densa striscia di polvere rappresa.
Sembrava una soffitta, tante erano le ragnatele che
ottundevano quel mausoleo impolverato di silenzio.
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Alle pareti giallastre campeggiavano i manifesti sbiaditi dell’era della contestazione. Un poster di James Dean,
un altro di Sigmund Freud, la locandina di Easy Rider e
due immagini decrepite di Che Guevara, la star in bianco & nero e l’eroe a colori. Gianni aprí le persiane delle
due finestre, lasciando entrare una folata di aria gelata,
assieme ai pallidi bagliori di una giornata cupa. Mi
guardai attorno eseguendo una lenta carrellata. Sulla
parete di destra, una mensola sbilenca carica di libri
accartocciati dall’umidità e una vecchia radio militare
posta su una mensola al di sopra di un giaciglio, che
segnalava ancora le tracce del suo ultimo abitatore. Sul
pavimento di legno giallastro, con tracce di fango rappreso impastato di sporcizia, un portacenere ricolmo di
cicche, un’ipodermica usata e una bottiglia di plastica di
acqua minerale priva di etichetta. Scostai con la stampella le lenzuola ingiallite, verificando l’esistenza del
vecchio materasso di crine, ridotto a un impasto di polvere & sperma. Sulla parete di sinistra, il vecchio armadio turchese provvisto di specchio, di quelli che nei
Cinquanta concedevano alle cameriere. Nel centro della
stanza una poltrona di legno impagliato verde pisello,
una sedia di legno dello stesso colore, accostata a un
tavolo costituito da un’asse di compensato, posta su due
cavalletti di metallo arrugginito.
“Altro che garçonnière – mi fece Gianni – non ci ho
più rimesso piede.”
“Davvero?”
“Sí, perché la pazza dava ospitalità a chiunque,
anche a chi veniva a bucarsi e allora ci ho messo il lucchetto – spiegò Gianni e poi – ti ricordi quando dicevi
che ci avresti girato un film?”
“Ah già... e invece...” – dissi interrompendomi, mentre qualcuno nel corridoietto stava segnalando la sua
posizione.
“Ehiiii” – fece stupitissima una donna bruna, scarmigliata, dall’età indefinibile, certo non bella.
“Erita!” – esclamai, simulando una gioia che non
c’era.
“Mamma mia che casino, sono anni che non rimetto
piede qua dentro – commentò lei – ma venite, venite
nella mia stanza.”
Erita ci precedette in ciabatte nel breve corridoietto,
alla fine del quale, proprio di fronte al bagno, c’era la
sua stanza. Il letto a una piazza e mezza ingombrava tre
quarti dello spazio, il resto era occupato da due sedie, da
un tavolo stretto che trovava sostegno nella parete, mentre dall’unica mensola debordava uno stereo obsoleto,
come il gigantesco televisore posto sul pavimento.
“Ma quanti anni sono passati?” – continuò Erita cercando di darsi un contegno, forse volendo giustificare di
ritrovarsi ancora in quel vittoriale di reliquie imputridite.
In effetti il piccolo appartamento era rimasto tale e
quale a come George, il comune compagno di studi,
glielo aveva lasciato quasi vent’anni prima, e lei era
rimasta pietrificata nel ricordo. Ci scusammo, ritornammo nella mia ex stanza e Gianni si accomiatò, lasciandomi alle prese con i fantasmi del mio passato. Mi rifugiai in bagno, uno sgabuzzino ingombro di ciabatte,
scarpe sgorate di pioggia, vecchi barattoli di vernice,
uno scolapiatti carico di stoviglie, indumenti sporchi
appesi ai minuscoli attaccapanni d’ottone, resi verdognoli dal salnitro. Nella piccola vasca a seduta troneggiava una pila di piatti sporchi, con tracce recenti di
cibo, che erano stati rimossi per metterli sul pavimento
bisunto. Lavorai un quarto d’ora per scrostare la traccia
giallastra di sporco rappreso nella tinozza. Finalmente,
facendo perno sulla gamba sana e tenendo la gamba
ingessata fuori dal bordo, entrai nella tinozza, riuscendo
in qualche modo a spruzzarmi con la cornetta della doc-
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cia. Rientrai in camera che ormai era sera. Mi affacciai
alla finestra buttando lo sguardo sui tetti imbiancati di
neve e lo riabbassai sul cinema sottostante, davano “Un
lupo mannaro americano a Londra”. Richiusi le persiane lasciando aperti i vetri, e continuando a saltellare sul
piede sano iniziai la complessa manovra per andare a
letto. Afferrai le lenzuola pulite che Gianni mi aveva
lasciato e preparai il letto. Quindi mi tolsi l’accappatoio
di spugna rossa, indossai un pigiama di seta, mi inondai
d’acqua di lavanda, mi lasciai andare sul letto, che emise
un sinistro cigolio di molle arrugginite, e mi ci adagiai,
subito sopraffatto da un sonno denso di incubi colorati.
2.
I camaleonti
Quarant’anni suonati, un volto segnato attraversato
dal fascio di luce della lampada da tavolo, seduto a una
scrivania ingombra di fogli dattiloscritti e di portacenere zeppi di cicche, batte furiosamente sulla tastiera del
computer, neanche fosse una Lettera 22.
Drinn... Drinn... Due squilli di telefono prima che
l’uomo afferri la cornetta.
“Alò?” – dall’altra parte solo un clic. Alex riattacca e ributta lo sguardo sullo schermo luminoso, fino a
quando il cursore si blocca su questo titolo:
I CAMALEONTI
Complotto per un assasinio infame
Mauro Ros si è trovato da solo in mezzo a un
campo con i riflettori accesi, poi qualcuno nel buio ha
sparato.
Chi?
Perché?
Alex aspira una boccata di fumo, fissa per un altro
istante il video e poi si alza, va verso la parete, stacca
un dardo piumato dal bersaglio di sughero e lo rimanda
a conficcarsi nel centro del target, su cui è appiccicata
l’immagine ritagliata dell’arcinota faccia da cinghiale.
Ora ritorna al tavolo, schiaccia il tasto d’invio e il sibilo della stampante si missa con l’Autunno di Vivaldi
mentre la luce dell’alba si sta facendo strada dalle due
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ALDO RICCI
finestre aperte. L’uomo si alza, va a chiudere le persiane e si lascia cadere esausto sul divano.
Drinn... drinn... drinn... Tre squilli di telefono,
prima che l’uomo si giri verso l’apparecchio e afferri
la cornetta.
“Alò?” – dall’altra parte si sente solo un clic!
Alex si infila un giubbetto di pelle nera, apre la porta
ed esce. È l’alba e piazza Farnese si mostra in tutta la
sua suprema bellezza.
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3.
L’inizio
Niente televisione né telefono. Il gesso fino all’inguine mi impediva i movimenti. Di uscire da quella
situazione neanche a pensarci, anche se potevo sempre
“uscire” da una delle due finestre, dato che l’altra, quella con le persiane sempre accostate, mi serviva da frigo
per l’acqua minerale. Passavo le giornate ad ascoltare il
rumorio dal marciapiede dell’isola pedonale sottostante,
ricordandomi quel che diceva il vecchio Cinasky:
“Dacci dentro, dacci dentro forte, come un combattimento di pesi massimi, e ricordati le vecchie pellacce
che si son battute cosí bene: Hemingway, Céline,
Dostoevskij, Hamsun. Se pensi che loro non impazzirono nelle loro camerette, proprio come ti capita adesso,
senza donne, senza mangiare, senza speranza, allora non
sei ancora pronto.”
Difatti non lo ero. Innanzitutto mi mancava una macchina da scrivere.
“Mi raccomando che sia elettrica” – avevo detto e
Gianni aveva provveduto, procurandomi una monumentale IBM a testina rotante, con la quale avevo cominciato a giocare divertendomi a battere lettere senza senso,
cosí come mi sembrava essere stata la mia vita. Il mio
problema era sempre stato quello di farla franca e, nonostante quel che mi era successo, rimanevo un ottimista
incallito. Per ridursi a scrivere non bisogna disporre
d’altre alternative. E cosí, chiuso in quella stanza, segregato in quei diciotto metri quadri ingombri di quel che
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ALDO RICCI
era il mio presente, ma soprattutto di quello che era stata
una parte considerevole del mio passato, mi mettevo alla
macchina dove restavo incollato per ore e ore senza
avanzare di una riga, e il foglio rimaneva bianco.
Cominciai a bere. Di buon mattino mi calavo con le
stampelle per quelle rampe sdrucciole e rientravo quasi
subito con una boccia di whisky sotto l’ascella. Dopo
intere giornate trascorse ai margini del deserto, mi buttavo ubriaco sul letto fino al giorno dopo. Poi una sera,
improvvisamente, cominciai a battere, battere, battere
senza riuscire a tener dietro alla velocità del pensiero,
proseguendo come un treno nella notte e oltre.
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4.
Milady
Una Porsche grigia di polvere accosta lentamente
sotto la pensilina dell’Hotel Hassler, nel punto in cui via
Sistina converge con Trinità dei Monti. Al volante un
quarantenne biondo, mingherlino e occhialuto. Al suo
fianco siede un Alex elegante, che apre lentamente la
portiera, salta fuori dall’abitacolo, richiude lo sportello e si abbassa sul finestrino, rivolgendosi all’amico.
“Ciao bello.”
“Ciao amore.”
La Porsche viene trattenuta dalla paletta di uno dei
portieri e Alex si infila nella porta girevole, mentre una
signora sulla sessantina è in procinto di uscire da un’altra porta a vetri, che un boy le dischiude. Alex se ne
rende conto e compie un intero giro nella porta, ritrovandosi con la signora sotto la pensilina e riscuotendo
un sorrisetto di plauso da quella che d’ora in poi sarà
Milady. In quel mentre il portiere dà via libera all’auto
di Gianni, che abbassandosi nell’abitacolo invia un
saluto in direzione dell’amico. Il gesto non sfugge a
Milady, che lancia un’occhiata stupita ad Alex.
“Non ti preoccupare, è il mio miglior amico” – si
giustifica l’italiano.
Milady non ha il tempo di rispondere, perché Alex le
ha già preso la mano e accennando un inchino reclina
leggermente il capo e se la porta con garbo alle labbra.
“Sono arrivata da Washington alle sette, sono corsa
in ambasciata e adesso devo andare a Fiumicino, se ti
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BRASILE D’INFERNO
va di accompagnarmi è l’unico tempo che ti posso
dare” – taglia corto lei, avvicinandosi a una limousine
non appariscente, mentre il portiere le apre la portiera
posteriore. Milady sale seguita da Alex.
“Dove sei diretta?” – le chiede lui, accomodandosi
nella parte destra del sedile posteriore.
“A Pechino” – risponde Milady, facendo cenno
all’autista di partire.
La berlina procede lenta nel traffico caotico dei lungotevere e in prossimità del ponte Regina Margherita,
Alex estrae un manoscritto dalla borsa e lo porge a
Milady.
“Complotto per una morte misteriosa” – finisce di
leggere lei, volgendosi verso il volto imperturbato di
Alex.
“Complotto di chi?” – vuol sapere Milady, appoggiando il manoscritto sul bracciolo che la separa dal
suo interlocutore.
“È la classica porcata all’italiana – spiega Alex – un
complotto o meglio un connubio tra insospettabili di
matrici opposte.”
“Ah! – esclama Milady e dopo una pausa – e cioè?”
Ora lo sguardo di Alex è nuovamente rivolto all’ingorgo in cui l’auto è intrappolata, lo smog rende l’aria
irrespirabile, Milady fa cenno di chiudere il finestrino e
l’autista esegue inserendo l’aria condizionata.
“Ci son tutti dentro fino al collo, – prosegue Alex glaciale, mentre la signora scuote affermativamente la testa
– politici & giornalisti, nonché qualche direttore di testata o di emittente e tu sai benissimo a chi mi sto riferendo.”
Milady tace come chi acconsente.
“Alcuni di questi signori vent’anni fa volevano la
rivoluzione e invece oggi sono culo e camicia con l’attuale governo, grazie anche al vostro appoggio – continua e conclude Alex – o forse mi sbaglio?”
Finalmente l’auto ha imboccato il ponte e Milady
consulta l’orologio.
“E allora?” – chiede ancora lei, con l’aria di voler
arrivare a una prima conclusione.
“E allora c’è stato un complotto all’italiana – insiste Alex – che si è concluso con l’uccisione del mio guru
personale.”
“Ma chi è?” – chiede lei in tono sbrigativo.
“Ti dice qualcosa il nome di Mauro Ros?” – le
domanda lui, scrutandola bene in volto.
Milady rimane qualche attimo sovrappensiero.
“Aspetta un po’ – fa lei inseguendo i ricordi – ma
non era il leader...”
“...del famoso movimento” – la interrompe Alex.
“Ma sí... ora ho capito chi è – dice Milady con enfasi – non è quello fatto fuori dalla mafia?”
“Sbagli! – esclama Alex e riprendendo – che sia stata
la mafia è quello che hanno accreditato i media, controllati dagli ex amici & compagni dello scomparso...”
“...i media... – ripete Milady mentre ora la berlina
procede più spedita su viale delle Milizie – e invece?”
“Invece la mafia non c’entra proprio niente.”
“Ah!” – intercala Milady fingendo stupore.
“Invece tra i coinvolti a vario titolo ci sono questi ex
amici & compagni della vittima, i cosiddetti indefessi,
alcuni dei quali già imputati in un processo clamoroso
ma non ancora concluso, che nonostante diverse sentenze di colpevolezza, li lascia ancora a piede libero,
forse proprio grazie all’assassinio di Mauro” – conclude Alex, con la percettibile stanchezza di chi sta raccontando la stessa storia per l’ennesima volta.
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