PREFAZIONE di Marco Travaglio Diciotto anni fa
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PREFAZIONE di Marco Travaglio Diciotto anni fa
PREFAZIONE di Marco Travaglio Diciotto anni fa Aldo Ricci ha perso un amico. Non era soltanto amico suo. Era amico di tanti. Ma tanti, troppi, si sono dimenticati di lui. Si chiamava Mauro Rostagno, era stato tra i fondatori di Lotta Continua. Negli ultimi tempi lavorava a Trapani, dava una mano alla comunità antidroga “Saman” ma soprattutto animava una battagliera tv locale antimafia, Rtc. Fu assassinato la sera del 26 settembre 1988, mentre rientrava in comunità. Si pensò a un’esecuzione mafiosa, ma nessun pentito di Cosa Nostra ha mai parlato del suo omicidio né sentito parlare di lui. Si puntò allora alla pista “interna” a Saman, con arresti clamorosi fra le persone più vicine a Mauro, compresa la moglie Chicca Roveri, e un avviso di garanzia al guru miliardario e craxiano della comunità, il fantasmagorico Francesco Cardella, ma furono poi tutti scagionati. Si ripiegò su una matrice “mista”, metà mafiosa metà legata al traffico d’armi e rifiuti tossici con la Somalia, lo stesso che probabilmente ha stritolato Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e che pare avesse a Trapani una della sue centrali su cui stava lavorando Rostagno. Ma alla fine i giudici di Palermo han dovuto per ora arrendersi e archiviare: troppo scarsi gli elementi per trascinare qualcuno in tribunale. Due sole persone non vogliono saperne di arrendersi. Una è Carla, la sorella di Mauro. L’altra è Aldo Ricci, strana razza di fiorentino anarchico e inquieto che nella vita ha fatto un po’ di tutto, dal sociologo al 7 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO fotografo, dallo sceneggiatore al romanziere al randagio, soprattutto il randagio, fra l’Italia, il Brasile e gli Stati Uniti. Era strano già nel Sessantotto, quando partecipò alla contestazione studentesca a Trento, facoltà di Sociologia, insieme ai Rostagno, ai Curcio, ai Boato, ma da posizioni liberal. Si erano conosciuti nel 1966, Aldo e Mauro, quarant’anni fa. Ed erano rimasti amici per 32 anni pur senza condividere quasi nulla, senza incrociare quasi per niente le loro vite cosí tumultuose e cosí diverse. Nel 1988 Ricci è in Brasile, “a fare l’avventuriero” dice lui. È lí che lo raggiunge la notizia della morte violenta di Rostagno. E quella notizia gli cambia la vita. Torna in Italia, vola a Trapani, accetta di prendere il posto di Mauro alla direzione di Rtc con la speranza nemmeno poi tanto nascosta di scoprire chi ha ammazzato il suo amico. Litiga con Cardella e la Roveri e, assistendo alla trasmissione televisiva dei funerali, assiste anche alla sfilata un po’ ipocrita di tanti lottatori continui (quelli che lui chiama “gli indefessi”) e dei maggiorenti del Psi, da Claudio Martelli in giù, che gli paiono tutti troppo ansiosi di accreditare la pista mafiosa. Allora gli ritorna in mente una frase che gli aveva sussurrato all’orecchio Mauro, quando aveva rotto definitivamente con Lotta continua, nel 1976: “Guarda, Aldo, se questi mi rompono ancora i coglioni, io dico chi ha ammazzato il commissario Calabresi”. La collega a una straordinaria coincidenza: pochi giorni prima di morire ammazzato, Rostagno era stato convocato dai giudici di Milano per deporre sul delitto Calabresi, per il quale erano stati da poco arrestati Leonardo Marino, Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Adriano Sofri. Poi scoprí che negli ultimi mesi Mauro era rimasto solo anche a Saman: Ciccio Cardella l’aveva cacciato dal suo alloggio, relegandolo in una dependance ribattezzata profeti- camente “il mattatoio”. In seguito venne a sapere che anche Renato Curcio, in carcere, aveva condotto una sua indagine sulla morte di Mauro, arrivando ad avvicinare nell’ora d’aria il boss trapanese Mariano Agate, il quale gli aveva giurato che “quella non è cosa nostra, quella cosa vostra è”. Cosí, mettendo insieme tutte le tessere del mosaico, si fece l’idea che Rostagno, da vivo come da morto, era divenuto imbarazzante e incontrollabile per molti, troppi. Compresa la tentacolare lobby lottacontinuista che in questi anni s’è battuta meritoriamente per liberare l’amico Sofri, ma non altrettanto per scoprire la verità su quei colpi di arma da fuoco alle porte di Saman. Una lobby che non dev’essere estranea, come afferma Ricci, all’incredibile ostracismo subíto da questo libro nel mondo editoriale italiano. Cominciò subito a scrivere, Aldo, mentre indagava intorno a quel delitto eccellente e misterioso. Cominciò a scrivere questo “romanzo storico-generazionale-di denuncia”, praticamente unico nel suo genere, che racconta una vicenda collettiva iniziata nel ’66 e finita bruscamente a Trapani nel 1988. Una vicenda tragica e appassionante, sul crinale fra la cronaca, la fiction e l’intuizione, fra la cronaca e la metafora, che mescola insieme contestazione, droga, criminalità, armi, tangenti, intrighi, traffici e intelligence. Un romanzo intitolato “Il Tonto” (anche se ora è diventato “Brasile d’inferno”) perché è proprio con l’aria del tonto che Ricci cominciò a investigare a spese proprie, fingendosi un po’ ingenuo, un po’ sprovveduto: una sorta di Forrest Gump volontario, per riuscire ad aprire meglio certe porte, valicare certe barriere, addentrarsi in certi ambienti e carpire informazioni scottanti. Io, essendo giornalista, sono irresistibilmente attratto soprattutto dalle implicazioni politiche che attraver- 8 9 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO sano questo romanzo. Non sono in grado di dire se Ricci abbia ragione o torto, quando seguita a battere la “pista interna” a Saman e addirittura a quel che nel 1988 restava di Lotta Continua a dieci anni dallo scioglimento. Certo alcune coincidenze, molte coincidenze sono davvero inquietanti. E sembrano portare, almeno logicamente, nella direzione che lui (ma anche Carla, la sorella di Mauro) continua a indicare: quella di un delitto molto simile a quelli di Giacomo Matteotti e di John Fitzgerald Kennedy, personaggi che come Rostagno erano diventati scomodi e ingombranti per molti poteri forti, distinti ma in qualche modo in contatto fra loro. Questa convergenza di interessi divergenti è spesso l’humus ideale per un delitto eccellente. Soprattutto in terra di Sicilia dove – come diceva Giovanni Falcone – “prima ti ammazzano con l’isolamento e poi con la lupara”. Una volta isolato il bersaglio, trovare un killer, un’arma e un pugno di pallottole a poco prezzo è la cosa più facile del mondo. L’altro aspetto che mi affascina, sia pure sinistramente, è l’incredibile storia di questo libro maledetto, tante volte giunto alle soglie della pubblicazione fra gli elogi degli editori, e altrettante respinto dal muro di gomma della censura, del non detto, del sussurrato. Onore dunque all’attuale editore, il quale, dopo l’imbarazzante passo indietro di Bollati-Boringhieri e dopo il fallimento del primo editore, Germano di Padova, ha deciso di ripubblicare cinque anni dopo quest’opera cosí ricca e cosí proibita. Comunque la si pensi sul caso Rostagno, è un contributo al “vizio della memoria” di cui parla Gherardo Colombo nel suo libro più bello. Ed è anche un fascio di luce puntato sul più clandestino dei cadaveri eccellenti. Là dove non sono arrivate la polizia giudiziaria e la magistratura, perché forse in questo limbo di omertà non ci potevano arrivare, è arrivato Aldo Ricci con l’arma estrema dell’intellettuale. Quella che fece scrivere a Pier Paolo Pasolini, nel 1974, a proposito di Piazza Fontana: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i fatti disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero...”. 10 11 PROLOGO Mi svegliai di soprassalto madido di sudore, con ancora negli occhi scene di violenza inaudita. Controllai il digitale, erano le nove di sera. Avevo dormito per trentasei ore consecutive, dall’alba del giorno prima, da quando ero rientrato dal set di “Rio Babilonia”. Mi alzai e andai ad affacciarmi alla finestra. L’avenida Atlantica era un caleidoscopio di colori & samba, l’intera città vibrava. Il caldo spazzato via dalla brezzolina notturna. L’oceano calmissimo, una linea quasi immobile sgorata di schiuma. E il cielo terso e stellato faceva presagire una notte eccellente e un domani ancor più radioso. Brenn... brenn... Due squilli di telefono, a due spanne dal mio giaciglio. “Alò...” “Ma stavi dormendo?” “Stavo.” “A quest’ora?” “E allora?” “Quando hai intenzione di tornare?” “Mai!” – urlai. “Mai – sottolineai isterico – non mi passa per la controcamera del cervello.” “Mai!” – conclusi riagganciando. Andai a buttarmi sotto i getti freddi dell’idromassaggio. Dunque avevo sognato e poi il sogno s’era trasformato in un incubo. Mi rivenne in mente “La Belle e la Bête”, una messa in scena di Jean Cocteau sull’impossibilità di distinguere tra realtà e sogno. 13 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO Brenn... brenn... mi precipitai al telefono. “Oi André, sí, va tutto bene grazie... no, mi sveglio adesso ho dormito dall’altro ieri... ma dimmi com’è poi andata sul set di Rio Bab.” “Ah ah... sacanagem, il solito casino... ah sí la festa da John... m’ero dimenticato... sí l’indirizzo... grazie, arriverò in taxi... ci vediamo là... boa tarde, ciao.” “Che mi metto?” – ragionai ripensando a John. L’australiano era corrispondente di un’agenzia di stampa internazionale. Certi giornalisti non mi vanno a genio e di solito li mando a quel paese, come avevo fatto con John, ma poi André aveva tanto insistito, che alla fine ero pur giunto alla festa d’inaugurazione della casa del corrispondente australiano. Arrivai alla festa con Marisa, Rita e Marise – due bianche e una nera rispettivamente. Pensai che Rita sarebbe arrivata alla festa con l’autista. Il dettaglio me lo avevano fornito i portieri, non lei. Segni inequivocabili denotavano la sua ricchezza. Del resto a Rio, quando non si è poveri – la stragrande maggioranza – si è ricchi. Semplice no? Comunque per parte mia, continuavo a fare lo gnorri. Non volevo che Rita capisse quanto mi giovasse una dama altolocata, munita anche di un discreto sex appeal. L’avevo conosciuta seguendola nella toilette di Cervantes e da quella volta lei aveva preso l’abitudine di venire da me un paio d’ore tutti i santi giorni, il tempo di fottere e di tornare da suo marito e da una creatura, a venticinque anni, neanche gliel’avesse prescritto il dottore. Cominciai a radermi. Marisa sarebbe passata a prelevarmi in macchina a mezzanotte. Spuntai le basette, i peli nasali e, manovrando lo specchietto, riuscii ad eliminare la peluria sul collo, poi mi inondai di acqua di colonia della farmacia di Santa Maria Novella, Florence, Italy. Lo studio era pregno di salmastro – scaffali, armadi a muro e parquet – il tutto in un legno tropicale durissimo. Con Marise ero rimasto che mi avrebbe dato un colpo di telefono, prima di uscire da casa sua sulla Princesa Isabel, il cuore di Copacabana by night, a un tiro di schioppo dal quartiere di Leme, a due passi da casa mia. Indossai dei jeans e t-shirt bianchi, con foro di proiettile all’altezza del cuore e una goccia di sangue vinilico iperreale, con la scritta made in Italy, poi mi infilai una collana rosso vermiglio, e mi sentii pervaso da una sottile ebbrezza. Nell’umbanda bahiana la collana rossa simboleggia il guerriero. La donna che me l’aveva venduta, m’aveva chiesto se mi rendevo conto di quanto sarebbe stata impegnativa la scelta di quel colore. Rientrai in sala e schiacciai il play sulle Quattro stagioni, quel vecchio prete rosso ci aveva saputo fare, e mi lasciai andare sull’ammucchiata di cuscini, accesi una paglia e chiusi gli occhi, in una specie di rilassatezza morale. Brennn... brennn... Due squilli e alzai la cornetta. “Ehi se tu... Gianni” – dissi. “Cosa stavi facendo?” – confermò lui. “Mi stavo preparando...” “...per una festa.” “Sí.” “Una al giorno.” “Sí.” Lui non disse nulla, si limitò a sospirare. Dissimulava uno stato di percettibile prostrazione. “Come stai?” Quasi rantolò. “Boulevard Giscard D’Estaing, boulevard de la mort” – canticchiai questo motivetto degli Alpha Blondy. 14 15 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO “Che tempo fa?” “Lo sai com’è qui l’estate!” “E qui siamo sotto la neve.” “Li senti i cavalloni?” – dissi avvicinando la cornetta alla finestra spalancata sull’Oceano Atlantico. “Dai... dimmi che li senti...” “...li sento... li sento...” Gli avevo ripetuto fino alla nausea di fuggire da quella dannata città. Cominciavo a esser stufo della mia incapacità di aiutarlo a uscire dalla situazione. “E a soldi come stai?” – disse cambiando discorso. “No problems” – mentii. “Se posso...” – insistette lui. “Lo so, lo so – glissai – ma lí, nel Bel Paese, cosa succede?” “La solita merda, la solita gerontocrazia al potere, il resto lo saprai dai giornali.” “E gli indefessi, che fanno gli ex lottatori continui?” “Vuoi dire i camaleonti?” “Oh yez!” – rifeci il verso a Mauro Ros. “Un tripudio di carriere & riconoscimenti ufficiali.” “Per aver mandato una generazione al massacro...” “...e via discorrendo – fece lui, e cambiando discorso – da chi è la festa?” “Da un cazzone.” “M15 o M16?” – ironizzò. “No... non è del giro che tu sai.” Cadde la linea e riagganciai. Brenn... “Sei sempre tu?” “Sí – fece lui cambiando ancora discorso – e lei?” Claudia s’era rifatta viva la sera precedente. M’era parsa tranquilla e l’avevo portata in una specie di bordello di Praça Maua, tra putas & marinai. E poi all’alba l’avevo riaccompagnata a casa sua e lei in cambio aveva ricominciato con le telefonate mute. “Ormai è uscita dalla mia vita – mentii e cambiando argomento – e di Mauro cosa sai?” “Ha fondato una comunità arancione in Sicilia col pornografo che tu sai.” Cadde la linea e Gianni non mi richiamò. Ricominciai a pensare a Marise. Pagarle un taxi che la portasse alla festa non era il caso, si sarebbe insospettita, le bahiane sono passionali e, d’altra parte, con quei chiari di luna, era meglio risparmiare. Non mi rimaneva che mettere le due Marise, la nera e la bianca, di fronte al fatto compiuto. Dovevo solo agire rapidamente, senza dare loro il tempo di reagire. Certe volte la mia vita sembra un film, specialmente se il destino mi cambia le carte in tavola quando la partita è ancora aperta. Arrivai alla festa. Una villetta nella parte alta del quartiere di Laranjeiras, una zona tranquilla e borghese come la festa. Vi giunsi con Marisa e Marise, una matrona famosa e una bellissima puta. Rita mi accolse fredda in mezzo a una piccola folla di giornalisti, coi loro progressismi vieti e le loro donnette radical cheap. Una esposizione di pesce, arrosti, vini cileni, frutta, erba a volontà. Una sola bottiglia di whisky importato, carissimo. Mi versai una dose e me ne andai in perlustrazione. Attraverso un disimpegno e una scala a chiocciola scesi al piano di sotto. Un tizio con la barba stava battendo su una macchina da scrivere. “Pardon” – feci urbano. “Non c’è problema” – rispose lo sconosciuto. “Scrittore?” – azzardai. “Giornalista” – fece deferente. “Inglese?” – imperversai. “Irlandese” – disse smettendo di scrivere. “Scrivi per chi?” – non mi davo per vinto. “Per un giornale di Baires” – rispose cortese. 16 17 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO Abbandonai l’irlandese al suo articolo argentino e me ne tornai nell’ennesimo circolo della stampa anglocarioca. Le due Marise si stavano ancora studiando, nelle stesse due poltrone dove le avevo parcheggiate entrando. Dopo un’altra dose di scotch, intravidi André in una camera alle prese con la solita neve. André, scozzese d’origine e carioca d’adozione, aveva penetrato i meandri più reconditi dell’infernoparadiso carioca, la cosiddetta cidade maravilhosa. Con un piglio da bucaniere, il fisico da scozzese, un’esistenza da bohêmio e una copertura da reporter, era la quinta essenza di quello che avevo sempre immaginato fosse un avventuriero romantico. Tra me e lui s’era stabilito un rapporto empatico, condividevamo molti punti di vista e nutrivamo lo stesso disprezzo nei confronti degli addetti alla dis/informazione. Tenendo conto delle mole eccezioni, specialmente tra le file dei giornalisti brasiliani, talvolta assai coraggiosi e gliene va dato atto. André raffinato bon vivant & dandy come solo a Rio ce ne sono ancora, era un profondo estimatore di pó e me la offriva sempre, pur sapendo che non era cosa per me e che comunque non ne andavo matto. “Un tiro” – mi fece lui. “Non ora, grazie” – dissi accendendomi una paglia d’erba paraguaiana già pronta. Mi avvicinai a Rita. Continuava sprezzante nei confronti miei e di Marise, ma feci finta di niente accogliendo Denis che arrivò in compagnia di Mirko, uno stilista. “Ooooooooooo ma quanto tempooo che non ti vedoooo” – mi si rivolse la signora. Io feci lo gnorri ma non ci fu verso. “Ooooooo stupidoneee... lo so perché fai cosí – continuò Mirko in caduta libera – Denis mi ha detto tutto... ma sí, ma sí lo so che stai scrivendo un romanzo, sarà bellissimo, e l’argomento?” “BRASILE d’INFERNO!” – esclamai. “Ahhh... s e n s a t i o n a l questa t-shirt – glissò lui e proseguendo – e come ti donaaa...” Il sangue continuava a martellarmi nelle vene, e intanto mi avvidi di Marise con John, completamente rapito dalla clamorosa bellezza della nera. Invece Marisa si stava annoiando e mi precipitai da lei. “Qualcosa da bere?” “No grazie.” “Allora balliamo.” “No, obrigado, grazie – declinò – brutte vibrazioni, gente che non mi piace, penso che andrò.” La riaccompagnai alla macchina, le baciai la mano e me ne tornai indietro. Rientrai, tutti mi sorridevano ma io continuavo scostante. Sempre quell’intercalare – fica/soldi, soldi/fica... Il mix whisky-erba-whisky mi stava esplodendo dentro. Per riequilibrare ripassai da André per un tiretto ma poi mi feci solo mezza striscia. Come registrò l’amico carioca, era la prima volta che mi vedeva tirare cosí. Mi fece un brutto effetto. Mi vidi annaspare in un mare di merda. Non riuscivo più a emergere. Il branco di gaglioffi & gaglioffe continuava a ganasce & mandibole spalancate. Far finta di non sentire la fame, di non vedere la violenza, di ignorare l’ingiustizia... In quel gioco dello gnorri non ci rientravo, non ci sarei più rientrato. “Che diavolo sto facendo della mia vita?” “Ma cosa stai combinando?” – avrebbe detto Mauro Ros. Mi si aprí una voragine nello stomaco e corsi a farmi un altro scotch che tracannai mettendo a fuoco la bunda, il posteriore di una carioca avvinghiata a uno mai visto prima. “Dov’è la boccia?” – chiesi perentorio a John. 18 19 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO “Questa è la bottiglia” – disse lui chinandosi a raccattare la boccia da dietro un divano. “Ma ti rendi conto di come ti sei ridotto? – aveva ripetuto Claudia qualche ora prima – se vai avanti cosí...” “In tempo di pace il guerriero va contro se stesso” – avevo detto ripetendo il solito refrain. “ G u e r r i e r o?” – aveva scandito Claudia, prima di lasciarsi andare alla sua solita risata. Che ne sapeva lei di quel che veramente avevo in mente. Ma forse “non era veramente intelligente, ma aveva l’astuzia dell’animale selvaggio in gabbia” come la Justine di Durrell – la gabbia del presunto amore in cui l’avevo rinchiusa e di cui lei non era ancora riuscita a liberarsi. Mi guardai attorno mettendo a fuoco la stessa creatura con il medesimo cavaliere. Continuava a dimenare la bunda in modo impressionante. Mi distrassi rimettendo a fuoco i mangiatori. Andavano forte i ragazzi, specialmente con la carne, Marise per mangiare vendeva la sua meravigliosa, la cercai con lo sguardo, ma non vidi né lei né John. “Hai capito l’amico australiano?” – ragionai tra me&me mentre venivo abbagliato da un flash: stavo sparando nel mucchio, il crepitio del mitra s’andava missando alle urla degli astanti. Il sangue sprizzava frammisto a brandelli di carne e cibo, spappolati sulle pareti e sul pavimento. I corpi passavano dalla vita alla morte ridendo e scherzando, come se niente fosse. Anche le donne. Mi accasciai sul divano e chiusi gli occhi. Li riaprii, sembrava passata, mi rimisi in piedi. Ora dovevo solo attraversare un mattatoio lercio di frattaglie, e uscire all’aria aperta. Cercai di farlo avvedendomi che ormai la bunda mi stava a un palmo di mano e io gliela toccai. “Oh!” – esclamò inviperita. “Vai tomá no cú, fan culo” – mi si rivolse lui. Dissi che il mio era stato solo un gesto d’ammirazione, nessuna malintenzione, ne ero sicuro, ma lui ripeteva che la cosa non gli era piaciuta, che proprio non riusciva a mandarla giù e allora per cercare di aiutarlo gli mollai uno sganassone e me lo sfilarono subito dalle mani. Cercai di allungargli un calcio nei denti e in quattro mi sospinsero lontano dal mucchio danzante e la cosa sembrò finire lí. Non ci furono altre reazioni. Il cinismo, la tolleranza, l’arroganza e persino la codardia sono meccanismi di sopravvivenza come altri. Insomma la parentesi poteva considerarsi chiusa. Avrei potuto cominciare a godermi la serata. “Bastardo!” – urlai catapultandomi contro il malcapitato. Mi si attaccarono addosso due per gamba e quattro per braccio ma riuscii a divincolarmi, senza riuscire a sfondare la barriera umana, frapposta tra me e quel povero disgraziato. “Stronzi, razzisti, fascisti” – sbraitai, iniziando a lanciare tutto quel che trovavo a portata di mano. Riuscirono a bloccarmi mentre stavo mettendo a fuoco l’avvicinamento di un barbuto punteggiato da due fredde pupille blu, che i tre hooligan – perché di questo si trattava, come mi avrebbero riferito poi – mi erano addosso. Due di loro mi tennero fermo, il barbuto inserí la sua zampa estranea tra le mie, seguí una leggera torsione, mentre i due, dopo avermi sollevato, mi rilasciarono ricadere a terra. Riaprii gli occhi con la faccia a contatto del pavimento, in sincrono con uno scrocco alla base della gamba destra e un formicolio freddo alla stessa estremità: un dolore acuto. Alzai lo sguardo in tempo per scorgere lo stesso figuro in procinto di infierire sul mio io steso, che però riuscí ad afferragli la scarpa, un attimo prima di ricevere il suo calcio nello stomaco. 20 21 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO “S t o p!” – scandii con l’autorità del regista sul set. L’hooligan si bloccò di colpo. “È rotta” – feci indicando la gamba destra. Risero. Eppure avevo riconosciuto lo scrocco caratteristico. Del resto il piede era girato a destra, fuori linea rispetto all’asse della gamba. Anche un bambino l’avrebbe capito. Ma quelli erano solo un branco di pennivendoli & pennivendole. Julio, un fondista del Jornal do Brasil, si chinò su di me, tirò su la stoffa e scoprí l’osso che si affacciava dalla carne tumefatta, mentre un cronista di O Povo, un quotidiano sanguinolento, mi scattò una foto. “È meglio stenderti sul divano” – constatò Julio, chiedendo di abbassare la musica, qualcuno del branco eseguí. Il dolore s’era attenuato in una specie di sordo formicolio ma riuscivo a controllarlo. L’unica cosa che non dovevo fare era dar loro soddisfazione. Arrivò Marise e John si chinò su di me, proprio mentre gli stavo sferrando un cazzotto sotto la cintura, che lui riuscí a schivare per un pelo, mentre il barbuto si riavvicinava minaccioso. “Ma perché, perché? – piagnucolò John – io che c’entro?” “Stai tranquillo stronzo che non ti denuncio – lo rassicurai – all’illegalità ci sono abituato.” “Anch’io” – intervenne l’hooligan, che continuava a controllarmi da vicino. Marise mi teneva la testa sollevata. Rita, un’espressione scolpita nel disprezzo, venne a riprendersi la borsetta sul bracciolo del divano. “Me ne vado” – disse con sommo disgusto sparendo nello sfondo. “V a i a f a r e i n c u l o” – articolai in lingua originale. “Sta arrivando l’ambulanza” – annunciò qualcuno. “E adesso cosa racconti” – mi fece John nell’orecchio. “Che sono caduto dalla scala a chiocciola.” “Io ti ringrazio, sai?” “Ringrazia iddio che non sono armato” – dissi mentre il medico mi palpeggiava l’osso esposto, facendomi cacciare un urlo talmente alto, che spensero lo stereo e l’ambiente piombò nel silenzio. “Com’è successo?” – mi chiese il dottore. “Sono caduto da quella scala a chiocciola” – risposi tosto. “Fa molto male?” “Da impazzire.” “Cerchi di non farlo mentre la carichiamo.” La barella era affiancata al divano. Mi iniettarono qualcosa, mi adagiarono sulla lettiga, la sollevarono all’altezza del branco ammutolito e mi trasportarono verso l’uscita. Li guardai in faccia uno ad uno. “Porcos & escrotas, porci & scrofe” – sussurrai. Brusio. “Porcos & escrotas” – alzai il tono. Brusio. “P o r c o s & e s c r o t a s” –sbraitai con tutta l’energia che ancora avevo in corpo. Silenzio. Gli infermieri mi stavano infilando nel furgone e dal branco si levò un lungo, scrosciante applauso interrotto dalla voce di una troia. “Cosí impari a fare lo stronzo!” – disse lei. “Ehi, porcos & escrotas – sbottai stavolta a squarciagola – sono un terroristaaaa e vi scoveròòòò uno per unooooo...” 22 23 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO Era la prima volta che mi assumevo questa responsabilità e tutti zittirono come d’incanto. Marise si sedette sul sedile riservato mentre dai portelli aperti giungeva la voce trafelata di André. “Aspetta vengo anch’io” – profferí l’anglosassone. “Fuori dal culo te e tutti quelli come te, occhi azzurri e palle bionde” – continuai a imprecare mentre i portelli si chiudevano. “Qui gatta ci cova – osservò il medico – se ha qualcosa da aggiungere me lo dica che faccio rapporto.” “Mi creda la verità gliel’ho già detta” – confermai. “Le credo, le credo” – fece ancora lui, mentre iniziavo a constatare il comfort di un’ambulanza che sembrava nuova di zecca. L’ironia della sorte aveva voluto che un paio di giorni prima, sul set di Rio Bab, avessi conosciuto l’importatore di ambulanze acquistate come rottami negli Stati Uniti e rivendute come nuove sulla piazza carioca con gli ammortizzatori rotti. “Soddisfatti & rimborsati” – aveva commentato il broker esilarato dal big deal appena concluso, corroborato da una colombiana al novanta per cento, e difatti durante tutto il tragitto ebbi modo di verificare tutte le buche che costellavano il percorso. Marise mi informò che eravamo arrivati al Miguel Couto, “l’ortopedico di Rio de Janeiro” – come precisò lei, arrapando la “r” come solo le carioca. Mi scaricarono e dissero alla mia accompagnatrice che poteva tornarsene a casa. Generalità, motivi del trauma e via discorrendo. Curioso il mondo visto da sottosopra. Difatti Marcel Proust scriveva disteso. Mi infilarono in un ascensore progettato da un pazzo, talmente corto che la barella schiacciava l’infermiere contro la parete d’acciaio inossidabile, come quella testa di cazzo che l’aveva realizzata. Quindi una serie interminabile di corridoi come tubi quadrangolari, illuminati da fluorescenti, altrettante lame nelle mie pupille dilatate, filava regolare al ritmo delle scannellature nel pavimento di cemento. Chissà quante mignotte s’era pagato quel generale che aveva suffragato quei lavori di merda. Quando il penultimo architetto si sarà impiccato con le budelle dell’ultimo politico, avremo ancora dei problemi? Dopo un altro ascensore, finalmente il pronto soccorso. Mi scaraventarono dalla barella su un lettino con le ruote e, per non farmi maledire dalla fila degli altri infortunati in lista d’attesa, soffocai un urlo. “Dov’è il dottore?” – chiesi all’infermiere. Non era ancora arrivato. Difatti a Rio il carnevale dura tutto l’anno. Arrivò un altro infermiere che mi ricaricò su un altro carrello, risospingendomi per altri chilometri di corridoi fino a radiologia. “Dottore, dottore” – supplicai. Non c’era e le lastre me le fece l’infermiere. Poi mi rimisero su una lettiga stavolta d’acciaio, con il piano d’appoggio inclinato per facilitare il deflusso dei liquidi, m’ero pisciato addosso, mentre il mio corpo rimaneva sospeso sulla canalina di scorrimento, in cerca di una posizione che non trovavo. Poi mi parcheggiarono al pronto soccorso per ore e ore assieme ad altri sventurati. All’alba sopraggiunsero due barelle con due crivellati di proiettili, lordi di sangue, ed esilarati dalla coca. “Come va?” – mi chiese un giovane dottore. “Qualcosa per il dolore” – tagliai corto. Scomparve e ricomparve con una siringa. “Funzionerà?” – mi chiesi e difatti funzionò. Intanto lo sbarbato controllava le lastre. “Brutta frattura a tibia e perone – disse scuotendo la testa e poi – se la gamba fosse mia non rimarrei qui un minuto di più.” 24 25 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO “Dove andresti?” “Ha soldi?” “Ho soldi.” “Allora andrei nella clinica del capo.” “Il capo?” “Il capo di quest’ospedale è titolare della São Miguel, una clinica che dispone dell’attrezzatura adatta per questo tipo d’intervento.” “Okey ci vado.” Stavolta rifacevo veloce il percorso inverso. In portineria ritrovai Marise che mi fece venire una canna incontenibile. “In queste condizioni” – pensai tra me&me. L’ambulanza partí a tutta velocità. “Piano, pianooo! altrimenti non pago” – sbraitai e l’autista smorzò l’andatura. Alla São Miguel il sole era già alto. Staccai un assegno per il trasporto e mi ritrovai in una linda stanzetta, mi fecero una morfina e mi infilarono una bella flebo nella coscia. “Sta arrivando il professore” – annunciarono. Entrò un vecchietto azzimato. “Adesso facciamo le lastre” – ordinò le petit baron. “Non ce n’è bisogno – dissi paventando il conto – queste lastre me l’hanno appena fatte al Miguel Couto.” Il professore le agguantò scettico. “Ah, ah – fece sbirciandole in controluce – una bella frattura a tibia e perone.” “Uh.” “La opero alle due” – decise e se ne andò. L’amministratore mi chiese di versare un importo equivalente al salario minimo di un operaio brasileiro, moltiplicato per venticinque volte. Duecento e cinquantamila per l’intervento di Sua Eminenza, altrettanto per la casa, settantamila per la retta, senza contare le assicurazioni, i diritti, le tasse e le percentuali. Mance a parte. L’amministratore cercò di convincermi, spiegandomi che le petit baron impiegava nuove tecnologie, che non prevedevano l’ingessatura. “Tra due settimane – concluse giulivo – lei sarà di nuovo sulla praia di Copacabana.” Detto & fatto. Gli mollai un assegno corrispondente alla metà dell’importo richiestomi, dicendogli chiaro e tondo che quella era l’ultima cifra di cui disponevo. Lui mi squadrò dicendomi che doveva consultarsi con il capo e lo chiamò al telefono. Il professore accettava di essere pagato anche dopo l’intervento, salvo parere contrario del console italiano. Non mi preoccupai per il console, con il quale avevo un buon rapporto. Mandai Marise a informarsi per un’altra soluzione. Difatti c’era un ospedale italiano molto meno caro. Pensai e ripensai all’affidabilità di medici scappati chissà da dove e riparati in America Latina chissà perché. Riflettei anche sul fatto che mi stavo ritrovando bel bello nel cul-de-sac che mi aveva predetto Edoardo, l’amico argentino. C’era solo una persona capace di tirarmi fuori da quella situazione e composi il suo numero. Claudia arrivò mezz’ora dopo con l’aria della debuttante snob. “Se sapevo che eri con un’altra non venivo” – fu la prima cosa che disse, poi decise di trasportarmi in quella clinica sull’Atlantica, da quei due aggiustaossa che avevo avuto modo di conoscere in un altro frangente. “Te ricordi di quando mi hai rotto il naso?” – mi disse in italiano, per non farsi intercettare da Marise. 26 27 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO “Ricordo sí” – feci tagliando corto e chiamando la segretaria del professore, per comunicarle la mia intenzione di tagliar l’angolo. “E perché?” – chiese la bunda stupita. “Perché sono povero” – ribattei secco. “Ahhh capisco” – fece la bunda scettica, osservando Claudia che tutto poteva sembrare, ma non certo una povera creatura. La gente pensa sempre che io sia ricco. Un giudizio favorevole o sfavorevole, a seconda delle situazioni. Mi portarono il conto, una cifra da hotel a cinque stelle per un paio d’ore di permanenza. L’ambulanza era pronta. Mi sollevarono ma ordinai di rimettermi subito a terra. Eseguirono. Chiesi la restituzione della cartella clinica del Miguel Couto e le relative lastre. L’amministratore spiegò, cavillò e tergiversò, senza sapere con chi aveva a che fare. E concluse dicendo che non poteva darmi niente, visto e considerato che era illegale. A Rio? Figurarsi. Gli rifeci, stavolta a squarciagola, la precedente minaccia. Accorsero infermieri, sanitari trafelati e pazienti spaventati. Era il momento di rincarare la dose. “Questo è un covo di ladri e tirate fuori l’incartamento, altrimenti qui ci torno con gli amici della Rocinha” – dichiarai in slang malandro. La parola Rocinha, che rimanda all’omonima favela, li fece vacillare. Mi riconsegnarono tutto & subito e ripartii con i portantini paghi di trasportare un duro. Claudia e Marise si guardavano in cagnesco mentre io non la smettevo di pensare al mio conto in rosso. Sull’Atlantica la barella era troppo larga per passare attraverso la porta dell’ambulatorio e allora dovettero issarla fino a una finestra del mezzanino, farcela passare, e di qui al piano terra nell’ambulatorio dei due strizzaossa che mi accolsero all’unisono: “Possiamo tentar una recomposiçao con il cinquanta per cento di probabilità di riuscir” – sembrava un’opera lirica. “Procedete con attenzione, sono molto sensibile.” “Tutti lo siamo.” Questa storia che saremmo tutti qualsiasi cosa non l’ho mai potuta mandar giù. “Ci sono persone più sensibili” – sottolineai allarmato. “Le nostre tecniche – ripresero sempre all’unisono – non contemplano l’anestesia.” “Nemmeno parziale?” “No!” “Te ricordi quella volta” – ricominciò Claudia. “Va bene, va bene” – tagliai corto paventando il peggio. Mi fecero firmare un foglio in cui mi assumevo ogni responsabilità e loro le declinavano tutte. Le lampade erano accese sul tavolo e mi ci assicurarono con le cinghie. “Tenetelo fermo – dissero alle due ragazze mentre cominciavano a tirare e io a urlare – tenetelo duro.” Quanto urlai, urlai tanto, urlai come non avevo mai urlato, al di là di ogni limite consentito e mi rividi da bambino mentre mi strappavano le tonsille senza anestesia. I due ossessi continuavano a darci dentro. In base a quale etica alternativa del cazzo non usavano l’anestesia, nessun tipo di anestesia? Quando anche solo per alleviarmi il dolore sarebbe bastato uno stereo con Vivaldi in cuffia. Pensai all’idiozia della cultura cosiddetta alternativa, ai cosiddetti alternativi e alla loro paranoia di sentirsi sempre e comunque dall’altra parte. 28 29 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO Ma quale parte poi se siamo tutti nella stessa merda, ricchi & poveri, sudisti e nordisti, eroi e vigliacchi, in questo siamo davvero tutti uguali. Pensai alla stupidità associata alla crudeltà umana. Ma ero stato io a ridurmi cosí. Ma perché, per che cosa? Per la voluttà dell’impatto a cui m’ero votato? Pensai che mi sarei fatto fuori. “Ormai la vita non ha più senso” – pensai al maledetto ’68 e al dannato contro ’68 degli stramaledetti indefessi al potere. Pensai a Mauro Ros, a questo alternativo per eccellenza e lo maledissi come maledissi il momento in cui ero nato e quello in cui l’avevo conosciuto. Pensai a mia madre che ancora continuava a rompermi i coglioni. “Mai! Mai! Mai! – sbraitai nella mia lingua con quanta forza avevo nei polmoni, il volto inondato di lacrime & sudore – non tornerò mai più!” È veramente troppo il bagaglio di orrore che ognuno di noi deve sopportare. Che importa poi se sono stati gli altri o siamo stati noi. Pensai a tutti i brasiliani e le brasiliane morti sui tavoli di tortura di quei maiali dei generali comprati e coperti dalla CIA. Di fronte al dolore siamo veramente tutti uguali. Ormai era il delirio. Poi smisero di martoriarmi e di lí a poco anche la stecca di gesso era finita. Ripercorsi con un’altra ambulanza i cinquecento metri che mi separavano dal mio edificio. I portieri si fecero in quattro per collocare la lettiga nell’ascensore di servizio, mentre Claudia e Marise continuavano a non rivolgersi la parola. Mi adagiarono sui cuscini della sala di fronte al finestrone sempre spalancato. Cominciai a ragionare sull’emissione dei due assegni a vuoto. Le banche aprivano l’indomani. Non dovevano trovarmi, almeno non in quelle condizioni. Decisi di sbarazzarmi dei mobili. Steve s’era invaghito dei pochi pezzi di mobilio chippendale, lo chiamai e concordammo il prezzo. Quindi telefonai all’agenzia immobiliare, disdissi quei centocinquanta metri quadri sull’Atlantico, fissandone la restituzione per il giorno dopo. Infine chiamai la compagnia aerea, prenotai il primo volo disponibile, esattamente per il primo giorno dell’anno dopo. Dissi alle due donne di prepararmi le valige e consultai il digitale: era mezzanotte. Dopo ventiquattr’ore esatte, la festa era proprio finita. La brezzolina notturna alitava dai finestroni spalancati e mi assopii; mi riebbi che Marise era sparita. Sapevo dove. Mandai Claudia a nanna a casa sua. Finalmente solo, mi rivolsi alla samambaia e le parlai. Le parole e le carezze cui l’avevo fatta segno da quando era entrata nella mia vita, avevano contribuito a far estendere la felce almeno cinque volte rispetto a quando l’avevo scelta, timida e spaurita, sul marciapiede sotto casa e João, il mio guardaspalle, me l’aveva appesa al soffitto, proprio al di sopra della scrivania. L’alba mi sorprese ancora intento a parlare con la pianta lussureggiante, con le sue braccia tremule fin quasi sul pavimento salmastro di maresia, ma la felce non aveva letto I ricordi del sottosuolo di Fëdor Dostoevskij e forse non aveva capito un’acca di tutto quel che le avevo raccontato. All’alba sentii la chiave girare nella toppa della serratura e Marise entrò con latte e brioches, quindi mi cavalcò e ci addormentammo come due angioletti. Ci svegliò Claudia verso le due del pomeriggio e per prima cosa mise Marise alla porta, dopodiché mi si avventò contro coprendomi di pugni, e facendomi sentire un vecchio bambino alla mercé di un’Alice nel Paese dell’Assurdo. 30 31 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO Il telefono stranamente taceva. Dov’erano finiti quelli & quelle che fino al giorno prima non mi davano tregua? Suonarono alla porta. La squadra dei traslocatori sgombrò tutto in meno di un quarto d’ora e quella dei portieri al completo ricevette l’ultima mancia. L’uomo dell’immobiliare riprese in consegna l’appartamento. I portantini mi sistemarono sulla barella e uscimmo tutti sul pianerottolo. Il portiere capo Napoleon chiuse la porta con fare talmente solenne, che mi fece sentire come una salma ancora calda. In strada c’erano tutti, il macellaio, il verduraio, persino il fioraio, che non mi aveva mai perdonato di avergli sottratto il suo João. Stavano chiudendo i portelli e Napoleon mi allungò una mano affettuosa. “Oh senhor muito obrigado por tudo, grazie per tutto” – mi sussurrò stringendomi affettuoso il braccio. L’ambulanza arrivò con l’intermittente acceso alla dimora del corrispondente del quotidiano più prestigioso di Sua Maestà Britannica e Steve, in compagnia della sua fidanzata arrivata fresca da Londra, mi accolse con sussiego stiff all’ingresso della sua sontuosa villa hollywoodiana, parco & piscina, ma circondata da una immensa favela. Ero stato il primo per non dire l’unico a correre in suo aiuto, subito dopo il suo sequestro per mano di quattro banditi i quali, dopo averlo ripulito di tutto, avevano anche rischiato di farlo secco. Quand’ero arrivato a soccorrerlo, Steve, più pallido del solito, dopo essersi scusato per il disturbo che mi stava arrecando, per la prima volta da quando lo conoscevo m’aveva abbracciato e poi m’aveva raccontato i dettagli della disavventura appena patita. Erano le sei di mattina e i quattro banditi, dopo essersi introdotti nella villa, lo avevano sorpreso, legato, imbavagliato e costretto ad aprire la piccola cassaforte, incassata nella parete alla destra del letto. Alla scena aveva assistito atterrita la coppia di domestici, legati come salami. “Apri la cassaforte o ti apriamo le budelle” – gli avevano intimato. Steve aveva ubbidito ma i magnifici quattro, non paghi di denaro e macchine fotografiche, avevano preteso anche l’apertura dell’altra cassaforte, posta sulla parte di sinistra del letto. Ma Steve, non avendola mai usata, ne ignorava la combinazione. “Ehi babaca, scemo – gli aveva fatto il capobanda facendo scattare la molla del serramanico – con questo ti taglio le palle e te le ficco nel culo.” “Proprio un bel lavoretto” – aveva profferito il compare. Mentre il satanasso era sul punto di mettere in atto la minaccia, il capobanda aveva detto che si sarebbe potuto utilizzare l’auto del corrispondente per andare a svaligiare una banca nei pressi. E Steve aveva immediatamente trovato e consegnato le chiavi e poi mi aveva telefonato, pregandomi di accompagnarlo al commissariato per l’adempimento delle formalità di rito. Abitavo a Rio da più tempo di lui e mi sembrò doveroso comportarmi da gentleman e l’accompagnai. M’ero cosí ritrovato di fronte al fior fiore del marginalismo carioca, al cospetto di migliaia di foto segnaletiche, con facce in maggioranza nere e occhi pesti. Su cento facce esaminate, almeno cinquanta erano tumefatte, gli occhi chiusi o semiaperti ed evidenti ecchimosi di pugni subiti a torto e a/traverso. Più bassa la percentuale di coloro con entrambe le orbite peste, segno evidente che qualche riguardo c’era pur stato. Avevo continuato a fissare quei ritratti di poveri e sporchi, pensando che prima o poi si sarebbero rivoltati. “Con segnaletiche come queste – osservò il britannico – non riconoscerei mio fratello.” 32 33 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO L’irriconoscibilità dei soggetti era anche dovuta all’abominevole stato delle segnaletiche, sovra o sottoesposte, con i piani di fronte talmente diversi dai profili, che c’era da dubitare si trattasse della stessa persona. “Ma non avevi detto che erano mascherati” – lo avevo incalzato. “Avevano bende sotto gli occhi – aveva dettagliato Steve – ma uno di loro a un certo punto rimase a volto scoperto.” “Era bianco o nero?” “Non saprei... forse mulatto, davvero non saprei.” “Ma non avevi detto che ti avevano tolto gli occhiali?” “Sí, ma me li ridiedero per aprire la cassaforte.” “Ah, ah! – esclamai supponente – a volte certi dettagli sono più importanti dell’insieme.” Quindi di almeno uno dei quattro era incerta persino l’appartenenza razziale. Grazie a Dio in Brasile i confini tra bianco & nero sono incerti. “Lo troverò, sono sicuro” – aveva detto Steve a questo punto, continuando a scrutare le foto. “Speriamo di no” – m’ero augurato in cuor mio. “Molto interessante sotto il profilo criminologico – aveva ripreso l’anglosaxonico – conosci il Lombroso?” “Certo che sí!” – avevo esclamato facendo sobbalzare il corrispondente, che non poteva immaginare quel che avevo scritto & fatto contro i cosiddetti criminologi come il professor Lombroso, autore di una teoria criminal-razzista, in base alla quale a determinati tratti somatici corrisponderebbero altrettanti comportamenti criminali. Infatti basta guardare le facce di politici & malfattori, per non parlar degli indefessi, per rendersi conto dei danni che possono provocare certe facce per bene. Comunque sia una battuta cosí il giornalista non avrebbe dovuto permettersela, di certo non con me e alla fine lo convinsi, data l’insicurezza da lui manifestata, che era meglio non arrivare ad alcun riconoscimento. E Steve mi era ancora riconoscente per avergli fatto evitare un abbaglio con le relative grane, e accettando con dissimulata riluttanza la mia indiretta richiesta di ospitalità aveva finito per accogliermi in quella sua magione sterminata dove, nonostante la recente avvisaglia, si ostinava a vivere senz’ombra di guardia del corpo. Mi trasferirono dall’ambulanza su un materasso a contatto di pavimento, in una stanza da cui potevo percepire l’inconfondibile pulsare della favela circostante. Per prima cosa, mi feci passare da Claudia il pugnale da subacqueo, che sistemai sotto il materasso. I due o tre giorni che mi separavano dalla partenza passarono cronologici. Breakfast, spuntino di mezzodí, tè delle cinque, tramezzino serale, tè delle dieci e camomilla notturna. Queste le uniche occasioni in cui ebbi modo di intravedere il viso pallido di Steve oppure, a seconda dei turni, quello sempre sbigottito della sua fidanzata Mary, fredda come l’inverno che mi si stava riapprossimando. Se gli inglesi sono in genere parchi e avveduti, ma costretti a recitare il ruolo dei ricchi che furono ma che non sono più, Denis – scozzese di nascita, americano d’adozione e carioca d’elezione – non era cosí. Costui fu l’unico amico – l’edonismo carioca rende improbabile un autentico sentimento d’amicizia – che venne a rendermi visita nella magione del comune amico. Arrivò il 31 mattina facendosi annunciare dalla sua caratteristica, fragorosa risata. Denis, astuzia e intelligenza associate ad ogni sorta di rispettabile espediente, era un raro esemplare di forestiero in grado di fottere i carioca, che in fatto di scaltrezza son peggio dei napoletani. L’amico scozzese faceva parte del ristretto gruppo di aficionados che mi stavano attorno e non appena piombò nella mia stanza, mi infagottò la 34 35 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO stecca di gesso con della carta stagnola dorata e, ficcandomi in mano un mitra giocattolo, cominciò a sparare polaroid a raffica. Ma nei secondi che precedevano la ricarica del flash, riuscii ad assumere una espressione talmente spavalda, da vanificare il suo intento di immortalarmi con l’aria demente del tramortito. L’ultima giornata era stata preannunciata sin dal mattino dal caravanserraglio percussionista del samba, proveniente dalla favela limitrofa, che si apprestava a salutare l’ultimo giorno dell’anno. Con il passare delle ore il ritmo delle batterie s’era fatto frenetico e febbrile come il mio corpo raffermo. Faceva un caldo tremendo, appena lenito da Claudia, che mi inumidiva la fronte con un panno bagnato. Del resto lei non aveva mai parlato molto. L’istinto si nutre d’azione, non di parole astratte. Alcuni mesi prima la sua preda, cioè io, le era sfuggita e ora che m’aveva riagguantato si sentiva paga. Quando il suono dei tamburi e dei físchietti si impadroní della sera, Steve uscí con Mary e cosí fece la coppia di domestici, mentre Claudia mi teneva una mesta compagnia, sullo sfondo di un samba inquietante come la favela oltre il muro di cinta, a venti metri in linea d’aria dal mio materasso fradicio di sudore. Mi chiesi che cosa aspettassero a scavalcare quel muretto che li separava dai ricchi estrangeiros a portata di mano. A mezzanotte, dopo il brindisi, Claudia mi annunciò che sarebbe tornata a casa sua sull’Atlantica, per godersi al sicuro, cioè dall’alto delle finestre del suo lussuoso appartamento, lo spettacolo dei neri sulla spiaggia di Copacabana, vestiti di bianco con decine di migliaia di candeline accese. Cercai di scoraggiarla dall’uscire a quell’ora da sola. Ma Claudia uscí e io rimasi con le antenne tese, senza riuscire a percepire l’accensione del motore della sua vecchia VW con lo scappamento rotto. Infilai la mano sotto il materasso e liberai l’impugnatu- ra dalla sicurezza e dopo alcuni istanti un urlo provenne dal giardino e poi un altro urlo seguito da uno scalpiccio nel corridoio. “Segurança, segurança” – sbraitai a un inesistente servizio di sicurezza, estraendo la lama del pugnale quasi abbagliato dal suo luccicore. Claudia rientrò in scena con l’abito strappato e ansimante disse: “Erano in due e mi volevano iscopare.” L’avevano sorpresa appena fuori dal cancello, l’avevano costretta a tornare sui propri passi e mentre l’uno perlustrava il giardino, l’altro aveva tentato di usarle violenza, e Claudia, fingendo di concedersi, aveva sussurrato al malcapitato: “In casa c’è molta pó, coca” – e l’idiota c’era caduto, lei s’era messa a urlare, provocando il mio gesto che aveva messo in fuga i due. “Guarda che potrebbero essere ancora in giardino – mi avvertí lei – potrebbero tornare sui loro passi.” Spensi la luce e mi attaccai al telefono. Il centralino della polizia civile era occupato. A quello dei pompieri mi risero in faccia augurandomi “Feliz Ano Novo”. Le auto della Polizia Militare erano tutte nell’inferno del carnevale carioca, occasione propizia per regolare i carichi pendenti con morti & feriti, come accade tutti gli anni, anche se la cosa non riguarda turisti & stranieri residenti. “Beato lei che può starsene al sicuro in una bella casa, con tanti begli amici e...” – si interruppe il PM dall’altra parte del filo. Gli raccontai che la ragazza era ferita, che ero disarmato perché il mio guardaspalle m’aveva mandato al diavolo proprio la sera dell’ultimo dell’anno e che, siccome ero l’inviato del quotidiano britannico più prestigioso, qualunque inadempienza nei miei riveriti confronti avrebbe innescato uno scandalo diplomatico. Mi 36 37 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO dissero che sarebbero arrivati da un momento all’altro e iniziò la snervante attesa. Dopo una buona mezz’ora suonarono il campanello, ma Claudia si rifiutò di andare alla porta e cacciò un tale urlo che la PM scavalcò il muro di cinta e due splendidi mulatti irruppero nella stanza e se ne andarono riaccompagnando Claudia fin dentro al suo garage di casa. Il giorno dopo l’ambulanza arrivò in anticipo sul previsto. “Goodbye.” “Goodbye.” “By by Steve, thanks a lot.” Claudia sembrava una crocerossina e io il suo reduce svizzero. La sedia a rotelle era pronta sul marciapiede dell’International Airport do Rio de Janeiro. Mi ci collocarono con la gamba in avanti, appoggiata sulla valigetta metallica posta sul predellino. Al check-in mancavano due ore e salimmo al ristorante. Pagai il conto con un altro cheque a vuoto e poi Claudia sospinse la carrozzina fino a una boutique di preziosi. “Perché non ne approfitti?” – mi disse lei, inducendomi ad un ragionamento. Infatti potevo sempre emettere un altro assegno, rivendere subito la merce e poi con calma riempire il buco. Un paio di commessi uscirono fuori cominciando ad agitarsi attorno a un tizio che, per via della classe di Claudia, non poteva che essere un miliardario impedito. Mi proposero subito delle pietre che esaminai attentamente su un plateau di smeraldi, tormaline e acque marine. Scelsi una mezza dozzina di pietre badando alle grosse carature. Mostrai le credenziali richieste e firmai il corrispettivo per una cinquantina di migliaia di dollari. “Dona Claudia, anche lei abita sull’Atlantica?” “Sí” – ammise lei. “Con il signore?” “Non esattamente – dettagliò lei – è solo il mio ex marito.” Mentre scendevamo rapidi ai check-in, mi avvidi che uno dei commessi ci stava seguendo. “Se quello stronzo chiama la banca – le mormorai – l’Interpol mi becca a Casablanca.” “Oggi le banche sono chiuse” – tagliò corto Claudia. Dall’altra parte dei metal detector mi ricordai dell’acqua marina che avrei voluto regalarle, ma ormai non potevo più tornare sui miei passi. “Claudinha, Claudinha, meu amor – le dissi ancora mentre lei agitava la manina – vedrai tornerò.” Attorno a me erano tutti gentili e premurosi, compresi gli agenti federali. La compagnia m’aveva fatto riservare nove posti su tre ordini di sedili e mi ci sistemarono come un sultano in gita. Quando accesero i motori sperai che fosse solo un incubo, che difatti durò tutta la nottata. Rientrare in patria dopo tanto tempo è una cosa da pazzi. A Casablanca la compagnia araba aveva predisposto tutto con precisione per il mio trasbordo sull’aereo della compagnia di bandiera. Dove mi scaricarono su un sedile del corridoio, un attimo prima dell’arrembaggio di una turba italiota di mamme, babbi, zie e bambini, questo piccolo mondo antico, assemblaggio paranoide e culto sadomaso di infanti & parenti, vicini & lontani. “Un amalgama di sangue assassino e mestruale di pallottole & pannolini” – scriveva Mario Puzo. Nella retina portariviste c’era una copia sgualcita del settimanale italiota più venduto e mi ci rifugiai, passando d’acchito dal culto degli infanti a quello dei gerontocrati & carampane, come le ideologie, le piattaforme, i contesti, i dibattiti, i partiti, le correnti, i mezzibusti, le 38 39 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO mezzefiche, i tritacazzi, le crisi, i compromessi, piduisti & monarchisti, coalizioni & scissioni, servizi & gabinetti, mafie & consorterie, pentiti & dissociati, irriducibili & cuorcoglioni, rievocazioni & commemorazioni, biennali & trentennali, resistenze & fascismi, emergenti & paraculi, stati nascenti & sociologi deficienti, semiologi à la page & prime puttane, claustrofobia & agorafobia, cattocomunisti & democristi, liberalsociali & socialfascisti, senatori verdi & manigoldi indefessi, conflitti religiosi & conflitti d’interessi, frattali & frattaglie nazi-fasciste, cinismi machiavellici & perdoni cattolici, Craxi e Martelli/Felci & Mirtilli... “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” – cantava il poeta – e se poi fossero i miei? – intercalai tra me&me. Nel cielo di Roma, il comandante mi chiese se volevo la carrozzina o la lettiga. Volevo l’elicottero e la mamma. Arrivarono due portantini. Chissà se per caso c’era un posto dove attendere qualcuno che non sapevo se e quando sarebbe arrivato. Mi guardarono come si guarda un pazzo. Sí, un’astanteria c’era ma a pagamento e mi ci feci portare. Venni sistemato in una linda cameretta con telefono & bidè. Telefonai per un’ambulanza da Fiorenza, che attesi scolandomi mezza boccia di whisky e quando finalmente mi trasbordarono in una cameretta dell’ortopedico fiorentino, la boccia era praticamente finita. E subito litigai con l’anestesista il quale, registrando i miei eccessi, si scandalizzò e mi ritrovai in corsia. Tanfo ospedalizio, parenti non miei in libera entrata e uscita a tutte le ore del giorno. Intervento chirurgico e dolori postoperatori affogati nel pianto invece che nella morfina – è cosí che si impara ragazzi! Mi rilasciarono venti giorni dopo con due stampelle e venti chili di gesso. Imbruniva, faceva un freddo tre- mendo, scesi dal taxi e mi ritrovai in un androne stretto e buio, dove Derno, per nulla sorpreso di vedermi in quello stato, era già in attesa. Anche se nessuno lo aveva informato, l’amico maremmano sapeva già in anticipo quel che mi era successo. Derno dischiuse guardingo la porta della sua stamberga e sgusciammo dentro un’atmosfera romantica da ultimo bohémien – una cucina col lavello intasato di piatti sporchi, la cortina verde delle pianticelle sulla finestra del cortile, le dita gialle di nicotina e lo stesso cappotto sdrucito, mentre lui si sfregava le mani perché si brillava di freddo. Ci osservammo un attimo nel più assoluto, reciproco rispetto. Sempre identico a se stesso, Derno non era cambiato nemmeno con l’età: quel suo sogghigno perpetuo, vessillo di austerità e orgoglio, ostentazione di un non ben identificato pedigree, mi ricordava Luis-Ferdinad Céline da vecchio, con il copriletto addosso. L’amico maremmano si muoveva rapido, con movimenti del corpo protesi in avanti, sghembi, lenti, goffi e tuttavia aggraziati. Un incedere elegante e un po’ maniacale, traguardando in tralice con l’occhio strabico sinistro la punta lucida della sua scarpa destra. Occhi scuri, vivi e scaltri su una faccia etrusca, afflitta da un’inconfessata nostalgia per la sua terra ingrata e durissima, la Maremma o Maremma puttana, come dicono in Toscana. Quando qualche lustro prima lo avevo conosciuto, avevo avuto la sensazione d’essermi imbattuto nell’unico più che nell’eccentrico. Il padre di Derno faceva il minatore, troppo povero per dare all’unico figlio un’istruzione adeguata alla sua particolarissima intelligenza; lo aveva spedito in seminario, da dove l’amico maremmano era fuggito, pur conservando, di quella breve parentesi, un eticismo ferreo e anacronistico. 40 41 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO Quindi solo di passaggio a Fiorenza, ma diretto a Rapallo dove Derno avrebbe dovuto incontrare Ezra Pound ma purtroppo il poeta maledetto era morto poco prima dell’incontro. E cosí Derno s’era fermato nel capoluogo toscano, divenendo mio confidente & amico. Precocemente sposato e poi separato con tre figli a carico, l’amico maremmano s’era costretto a lavori di tutti i tipi – stagnino, sverniciatore, infilatore di perle finte, bigiottiere, derattizzatore, sterminatore di termiti e infine posatore di sostanze tossiche & nocive, unico lavoro per il quale fosse stato ben retribuito. Lo scrutai attento: né grasso né magro, né bello né brutto, né giovane né vecchio, né povero né ricco, nessun segno d’appartenenza a un ceto, nessun segno particolare. Quindi non identificabile ma riconoscibilissimo: istrionico, sibillino, ieratico e quindi dogmatico. Eternamente coinvolto in una inquietudine senza sbocchi e prospettive, ma anche senza incubi. Ritenendo di essere il mio nume tutelare, Derno era da me considerato come una sorta di istruttore, al quale ricorrere nei momenti di particolare tensione emotiva, come quello che stavo attraversando in quel momento. Continuai a osservare quella faccia singolare afflitta da un travaglio malinconico ma sotto controllo, rendendomi conto che era vigile, attento, pronto a cogliere ogni bagliore anche impercettibile del mio io diviso. Derno mi fissò con quel suo sguardo timido e altezzoso a un tempo, come “cogliendo la vertigine d’angoscia in cui stavo precipitando” – come avrebbe detto Djuna Barnes se solo lo avesse conosciuto. Io gli dissi che mi sentivo vecchio, infelice, schiacciato dal senso di colpa, moralmente devastato, divelto dalle mie stesse responsabilità. Al posto del cuore un buco e ancora non sapevo che cazzo fare della mia vita. “Se ti crei problemi di vecchiaia ti prepari una vecchiaia umida – esordí l’amico maremmano – senza contare che oggi la felicità non è più una cosa che si persegue e l’unica cosa che uno può chiedere è cosa c’è nel menù.” “À la carte” – sbottai isterico. “E infatti, quando a uno come te gli piace il tutto, come può scegliere il meglio!” “Metti un uomo di fronte alle sue responsabilità – proseguí tirando in ballo un suo concetto – lo smembri, è il principio della fine.” Continuavo ad ascoltarlo attento a non perdermi un soffio di quel che mi stava dicendo, ben sapendo che se l’amico maremmano era consapevole di avere ascendente su di me, non per questo s’era mai sognato di approfittarsi di questo suo agio presunto. “L’uomo è inadeguato alla sua intelligenza – proseguí sicuro di quel che andava dicendo – tutto quel che di negativo si poteva fare è stato fatto, tutte le esperienze negative sono state sperimentate e le bombe sono già scoppiate, indipendentemente dalla rivolta per la loro soppressione.” “Rivolta o rivoluzione?” – chiesi estenuato. “Il ribelle si ribella comunque, il rivoluzionario solo in caso di necessità effettiva, mangiare ad esempio. Invece il ribelle è un professionista della trasgressione. L’uno parte dalla testa, l’altro dalla pancia. Il primo è cauto, il secondo spregiudicato. Il rivoluzionario persegue il suo fine finché non lo raggiunge, invece il ribelle conserva il suo istinto e non vuol farsi fottere – continuò spedito – almeno fino a quando non gli riempiono la bocca e la testa.” Rimasi senza fiato anche perché Derno stava sintetizzando quel che avevo sempre pensato. “L’uomo di oggi non si vuol salvare perché non è adeguato alla propria intelligenza – riprese accendendosi l’ennesima Alfa col filtro – ma tu devi sopravvivere.” 42 43 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO “Perché?” “Perché sei un individuo solo e indeciso, drammaticamente moderno.” Cosí parlò Derno, genio di professione e corniciaio per l’occasione. Mi rimaneva il problema di dove andare a sbattere la mia testa di cazzo. Nei pressi di mia madre non era proprio il caso e smammai dopo un rapido e familiare amplesso. Andai da mio padre in bassa montagna, mobilio di famiglia, una bassotta isterica e la moglie asburgica. Aria e acqua salubri, un posto isolato, non un bar, nessuno in giro, salvo qualche rado toscano ingrugnito. Mi buttai a scrivere. Dopo tre giorni mi dissero di mettere un panno tra la portatile e la scrivania del Cinquecento. “Sennò si sciupa” – precisarò l’asburgica. Esplosi e me ne tornai da mia madre a ritirare le pietre che le avevo affidato. Ma nel frattempo il direttore della gioielleria dell’aeroporto di Rio aveva individuato la casa di Claudia, riuscendo a estorcere al personale di servizio il mio indirizzo. E cosí un’emissaria s’era presentata a casa di mia madre, la quale, apprendendo che le pietre non erano state pagate, le aveva restituite e la cosa era finita lí. Oramai al verde, senza sapere dove sbattere la testa, mi ricordai di Mauro Ros, ribattezzato Sartàno dal suo solito santone indiano. Il quale aveva abbandonato Poona per andare a fondare l’ashram in Oregon, mentre invece Sartàno & Prem Cesco, alias Don Cesco Patella, avevano preferito andare ad aprire una succursale degli arancioni in Sicilia. Telefonai a Sartàno che mi invitò a raggiungerlo senz’altro indugio. All’aeroporto di Trapani trovai ad attendermi un lindo arancione, che mi aiutò a prender posto su un fuoristrada nuovo di trinca. Arrivammo all’ashram al tramonto e stava piovendo a dirotto. Una yuppy arancione mi fece riempire un modulo degno della West Coast. Mi guardai attorno tra casette in costruzione, baracche prefabbricate e personale ocra come il fango che sembrava sommergere tutto, mentre una Bentley fiammante era parcheggiata sotto una specie di stendardo da processione. “È l’auto di Cesco” – mi chiarí il mio accompagnatore riferendosi con deferenza a Prem Cesco, il rappresentante locale del Bhagwan come mi spiegarono, notando lo stupore allargarsi a vista d’occhio sul mio viso intontolito. Sartàno mi venne incontro strabuzzando gli occhi di fronte al voluminoso gesso, che mi saliva sulla gamba oltre il ginocchio, ma dall’affettazione con cui mi abbracciò intuii che non mi sarei più potuto fidare dell’ex Mauro. Non che Ros fosse infido, tutt’altro, ma chissà in quali ambiti aveva nel frattempo sospinto il suo turbinoso cervello. Come lo stesso pomografo avrebbe detto qualche tempo dopo, quando dopo la morte di Mauro avrebbe ammesso che “era una fucina di processi mentali”. L’ex Ros, più magro e ieratico di come me l’ero raffigurato tutte le volte in cui l’avevo ripensato, mi invitò a fare una ricognizione di quel che lui chiamò “il campo”, un costruendo agglomerato colonico in espansione attorno a una torre denominata il Gabbiano. L’atmosfera che vi emanava mi sembrò una via di mezzo tra una corte dei miracoli e un tempio abborracciato e periferico di un remoto e improbabile culto pagano. Ma era ora di cena e Sartàno, dopo avermi fatto attraversare il refettorio all’aperto, situato sotto un tendone da luna park, dove i commensali mangiavano all’addiaccio, e dopo aver percorso un grazioso giardinetto interno assai ben tenuto, mi fece varcare la soglia del Gabbiano, cioè della torre riattata dallo stesso architetto dell’onorevole Tino Felci, intimo di Don Cesco. 44 45 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO Qui l’atmosfera risultava assai diversa da quella esterna. Quadri d’autore, candele, incensi, musica ambientale e un caminetto acceso, tra gli svolazzi delle tuniche arancioni di donzelle intente a imbandire una tavola, a capo della quale ghignava la faccia sorniona e invereconda di Don Cesco, alias Cesco Patella, nel ruolo di Prem Cesco, come l’aveva ribattezzato il Bhagwan, che ammiccava da un ritratto hollywoodiano sulla parete, cogli occhi ridenti e l’espressione anfosa. Al pari di quest’ultimo, anche Don Cesco era avvolto in una lunga palandrana, e dal suo volto incorniciato da un barbone incolto, attraverso occhiali sottili come il suo indelebile sorrisetto, strizzavano sornioni occhietti birboni, incastonati nel suo faccione mellifluo da gangster levantino. “Ma che t’è successo?” – mi fece il Don con una punta di sarcasmo, mentre probabilmente diceva a se stesso: hai visto coglione cosa succede a fare il guascone? “Ho fatto il passo più lungo della gamba” – risposi laconico e vagamente blasé, mandando in visibilio l’intera compagnia. Don Cesco accolse battuta e relativa risata con un’espressione malandrina, tipica di un’epoca in cui taluni membri del Partito Sociale, prima che la magistratura tentasse, riuscendovi solo in parte, di porvi sacrosanto rimedio, facevano il bello e il cattivo tempo, in ogni contrada, anche la più sperduta, di questo Bel Paese del cazzo ai margini dell’Occidente sviluppato. Ma la cena era in procinto d’esser servita, tutti s’erano seduti al tavolo basso e due donzelle arancioni mi aiutarono ad adagiarmi sui cuscini di seta traslucida dello stesso colore. Non potendo piegarmi nella posizione del loto, mi accoccolai obliquamente rispetto al desco, sotto il quale infilai il catafalco di gesso. Questo stare un po’ in tralice conferiva al mio ristare una postu- ra ancor più ambigua e per cosí dire sinistra, corroborata dall’esser l’unico in abiti civili, nonché privo di qualunque sigillo di riconoscimento d’appartenenza all’allegra compagnia. E finalmente Sartàno mi rivolse la parola chiedendomi innanzitutto che fine avesse poi fatto Claudia. “Nel tentativo di sfuggire alla sua caccia spietata, in un paese che non conosce la pietas, dopo averle provate tutte e senza sapere più a che santo votarmi, avevo veduto di rivolgermi alla succursale carioca della Rajneesh Foundation, sul punto di diventare un sannyasin, cioè un adepto con il prefisso di Anand” – dissi tutto di un fiato. “E non hai preso il sannyas?!” – sbottò all’unisono la platea disillusa. Risposi che, come spesso mi accade, all’ultimo momento m’ero tirato indietro e Sartàno, che di queste cose se ne intendeva ancor più di me, non poté trattenere un mezzo sorrisetto. Ma la reazione alle mia battuta dovette essere sconfortante, perché tutti reinfilarono gli occhi nei rispettivi piatti, salvo Sartàno che mi chiese cosa avessi intenzione di fare io a quel punto. “S C R I V E R E” – scandii, tradendo l’ansia trattenuta a stento. Perché era stato quello l’unico movente che m’aveva sospinto in quella sperduta contrada di Lenzi. Cercai di capire le loro reazioni scrutandoli in volto uno per uno. Ma tutti meno uno, io, se ne stavano imbambolati pendendo dalle labbrone satolle di Don Cesco, che si limitò a dispensare a ognuno il suo indefesso sorrisetto. Erano in dodici e io ero il tredicesimo, mentre la cena, annaffiata da un corposo vinello bianco, continuava a essere ben servita da quattro donzelle piuttosto ben messe. In particolare una sannyasin australiana dal posteriore ben tornito e dalle ragguardevoli tette. 46 47 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO Oramai alla frutta, Don Cesco intercomunicò con la reception, chiedendo che il sannyasin addetto alla conservazione delle cassette registrate gli recapitasse quella corrispondente al tal discorso del Maestro. Dopo alcuni minuti richiamarono per informare il Don che il sannyasin in questione si era già ritirato e non aveva la minima intenzione di eseguire l’incombenza. Allora Don Cesco, pur mantenendosi fermo e compassato, ordinò che si andasse a convincere in qualche modo l’ingrato e ingannò l’attesa, ragguagliandomi sulla struttura piramidale dell’ashram, basata sull’accettazione delle regole imposte dai vertici, tra i quali in quel preciso momento m’era stato concesso il privilegio d’esser assiso. A questo punto osservai Sartàno, e non avendolo visto batter ciglio ripensai alle schiere di poveracci che seguendo i vari trip dell’ex leader carismatico, negli anni caldi prima, in quelli di piombo poi e in quelli arancioni del momento, lo avevano emulato in tutto e per tutto, persino fino alla galera e alla perdizione, mentre l’attuale Sartàno, vuoi per un motivo o per l’altro, aveva continuamente mutato indirizzo, in modo talmente repentino da rendere arduo il relativo ritiro o conversione in tempo utile degli sciagurati che l’avevano voluto seguire, magari portando alle estreme conseguenze gli ultimi dettami, in ordine di tempo, dell’ex carismatico convertito. Ma bussarono alla porta e il sannyasin in questione entrò con gli occhi stralunati dal sonno e andò ad accucciarsi ai piedi del Don. Il processo che ne seguí, rapido e conciso, si svolse in un gergo settario, infarcito di riferimenti non comprensibili ai non adepti, inutile quindi riferirli per filo e per segno. Sta di fatto che di lí a poco, sotto le domande incalzanti che gli venivano rivolte in tono calmo ma fermo dal Don, l’iniziale atteggiamento del ribaldo si stemperò al punto da divenire umile & sot- tomesso. E se lo sventurato aveva trovato un equilibrio precario standosene sui talloni, ora in ginocchio cercava di farfugliare qualcosa circa un suo spontaneo autoallontanamento dalla comunità. Tutti gli altri e le altre, con le orecchie vigili a quel che Don Cesco andava salmodiando, avevano mantenuto un silenzio religioso, lasciando al Don la risoluzione dell’evidente contraddizione. Ma visto che quest’ultimo traccheggiava, dalla sua destra si erse sinistra un’altra vecchia conoscenza, l’ennesimo ultrarosso riconvertito all’arancio, il quale, puntando il dito contro lo sventurato, si lanciò precipitoso nella seguente e aspra concione. “Salti o non salti? salti o non salti?” – ripeteva l’indemoniato, alzando progressivamente il tono minaccioso, continuando a tenere puntato il dito contro lo sventurato. “S A L T I O N O N S A L T I I I.” Dove per saltare si intendeva andare oltre il proprio ego e confidare nella grandezza del Maestro, del quale Don Cesco, in quel luogo e in quel momento supremo, era l’emanazione più vicina e diretta. Avendo notato il mio raccapriccio, venni invitato a dire la mia. Ed io, andando rapido con il pensiero a una linda cameretta che certamente mi stava aspettando al piano di sopra, con le lenzuola immacolate e magari rimboccate dall’australiana, dalla quale non avevo tolto gli occhi di dosso, guardai il disgraziato e nonostante mi ispirasse tanta compassione, mi lanciai in una diatriba situazionista sull’avvento del nuovo Medioevo e sull’emergere di un ceto nuovo ricco e sull’altrettanto inevitabile corollario dei neoservi della gleba. “Ragazzo – conclusi tosto – non basta star dentro a un castello, crogiolandosi nella convinzione d’averla fatta franca, perché una volta che sei al di qua di queste mura, se non ti sei fatto sgherro del padrone, vuol dire che ti devi accontentare di fargli da servo.” 48 49 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO E lui, l’infelice sannyasin, in un riverbero di consapevolezza, mi indirizzò tutto il suo sgomento, ma a questo punto il Don lo congedò, disponendo affinché si provvedesse a riaccompagnarlo nel suo giaciglio. E sempre Don Cesco mi annunciò che i miei alloggiamenti erano pronti ad accogliermi per una notte, che mi si augurava ristoratrice e portatrice di consiglio. Mi aiutarono a rimettermi in piedi, mi riaccompagnarono all’aperto e, attraverso il refettorio ormai deserto, giunsi di fronte a una porticina di lamiera ondulata che il mio custode aprí, infilando dentro la mia valigia e dopo averla incastrata tra i due letti, tanto la stanzuccia era stretta, mi augurò sogni all’arancio. Su uno dei due giacigli c’era un giovane vecchio dall’età indefinibile, il quale notando la mia intenzione di rifugiarmi in bagno, m’avvertí che era occupato. “E da chi di grazia? – mi informai incredulo – chi altri dorme qua dentro?” Il giovane vecchio mi spiegò che il cesso intercomunicava con una stanza sull’altro versante del prefabbricato, che in quel momento era appunto occupato. Il tambureggío della pioggia sulla lamiera mi tenne sveglio tutta la notte, durante la quale mi tornarono alla mente le tappe fondamentali della mia venturata vita. Al mattino mi precipitai alla reception, chiedendo la convocazione immediata di Sartàno. “Il mio arto ferito non può stare a bagnomaria” – comunicai tra il serio e il faceto all’ex Mauro. Sartàno mi spiegò che il Gabbiano era anche il loro tempio e che potevano accedervi solo quelli & quelle in grande intimità col Don, in quanto capo spirituale di Saman. D’altra parte il campo era stipato. C’era gente che, pur di star lí a prender la conoscenza, s’adattava a vivere sotto le tende piantate e impantanate, persino ai margini della proprietà che il Don aveva generosamente messo a disposizione dei fedeli. Insomma mi potevo ritener fortunato se s’era riusciti ad arrangiarmi quella sistemazione. “La storia che sto scrivendo necessita di privacy e di comfort” – dissi chiaro e tondo a Sartàno. “Ma perché vuoi scrivere?” “Forse per cambiare le cose.” “Se veramente vuoi cambiare – disse col tono di dire in verità io ti dico – scrivere è l’ultima cosa che serve.” Invece, tra i molti lavori in corso, compatibilmente con la mia zampa impedita, avrei avuto solo l’imbarazzo della scelta. Tutt’attorno era un alacre sciamare di carriole e laterizi, di bimbi inzaccherati e donne affaccendate, che tutto parevano meno che femmine. Pensai di andare in cucina e Sartàno mi accontentò abbandonandomi tra i fornelli, dove le donne stavano preparando la merenda per i lavoratori. “Dalle bundas di Copacabana in un convento di suore assatanate” – stavo dicendo in cuor mio, quando una sorella mi strappò lo spalmino di mano, spiegandomi che con tutto quel burro avrei mandato alla malora l’intera opera pia. E mi fece vedere lei come fare. “Un velo di burro e uno striscio di confettura, caro mio.” “Caro un cazzo!” “Oh!” – strabuzzò lei. “Vai un po’ a prendertelo in culo” – le feci io. Mi ripresentai alla reception pretendendo d’essere immediatamente riaccompagnato all’aeroporto. Mi rilasciarono un conto di centocinquantamila lire – cento per la quota giornaliera, il lavoro che avevo pur fatto faceva parte della “terapia”, e cinquanta per la benzina del Toyota che mi avrebbe ricondotto all’aeroporto. 50 51 ALDO RICCI Staccai l’assegno calcolando che mi rimanevano altre trecentomila. A Sartàno feci notare che quello scherzetto da prete m’era costato davvero troppo. “Non sono io che stabilisco le regole del gioco” – mi disse l’ex carismatico. Era la prima volta che lo sentivo esprimersi in questo modo. Presi atto che l’ex numero uno era ormai un numero due. Incredibile ma vero. Sempreché il tutto non rappresentasse l’ennesimo suo giochetto. “Mi pare giusto, quasi ovvio – lo avvertii, e proseguendo – sai sempre dove trovarmi.” “E dove?” – domandò lui. “Dall’altra parte.” “Dall’altra parte? – ripeté l’ex Mauro stupito – di che parte stai parlando?” “Da una parte che non sia la tua, da quella opposta alla tua – gli dissi guardandolo diritto negli occhi e pensando tra me&me – a questo gli rompo il culo ma proprio glielo rompo, quanto è vero Iddio.” La misura era ormai colma e io ero davvero pronto a disarticolare, come diceva René, quella banda di mentecatti fottuti. 52 1 La tana L’Alpen Express si fermò nella stazione livida di neve. Si spalancarono tre sportelli e uscirono tre persone. Calai lento e inesorabile sul binario semideserto, ben attento a posare bene le grucce sul marciapiede fradicio di neve. Un facchino caricò le valige sul carrello, mentre all’altezza della pensilina un uomo biondo e mingherlino, con gli occhiali cerchiati d’oro, in un completo grigio e cappotto di montone chiaro, agitava senza enfasi una mano rimanendo a fissare la mia figura trimpellante, in un trench di velluto marrone. “Finalmente ti sei deciso” – mi disse l’amico trentino abbracciandomi. La lenta marcia preceduta dal facchino si concluse di fronte a una cabrio decappottata, nonostante il freddo polare. Gianni mi aiutò a salire e a sistemare la zampa impedita, quindi entrò a sua volta inserendo nello stereo la Cavalcata delle Valchirie. Poco dopo l’auto si fermò nel cuore del centro storico della cittadina, quieta e silenziosa come sempre. Mentre estraevo la zampa dall’abitacolo, lui afferrò i due bagagli e ci inerpicammo fino alla mansarda di un antico palazzo, con gli scalini sdruccioli per via dell’usura. “E cento” – fece Gianni aprendo la porta d’ingresso e una seconda porta chiusa con il lucchetto, che si schiuse lasciando cadere una densa striscia di polvere rappresa. Sembrava una soffitta, tante erano le ragnatele che ottundevano quel mausoleo impolverato di silenzio. 53 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO Alle pareti giallastre campeggiavano i manifesti sbiaditi dell’era della contestazione. Un poster di James Dean, un altro di Sigmund Freud, la locandina di Easy Rider e due immagini decrepite di Che Guevara, la star in bianco & nero e l’eroe a colori. Gianni aprí le persiane delle due finestre, lasciando entrare una folata di aria gelata, assieme ai pallidi bagliori di una giornata cupa. Mi guardai attorno eseguendo una lenta carrellata. Sulla parete di destra, una mensola sbilenca carica di libri accartocciati dall’umidità e una vecchia radio militare posta su una mensola al di sopra di un giaciglio, che segnalava ancora le tracce del suo ultimo abitatore. Sul pavimento di legno giallastro, con tracce di fango rappreso impastato di sporcizia, un portacenere ricolmo di cicche, un’ipodermica usata e una bottiglia di plastica di acqua minerale priva di etichetta. Scostai con la stampella le lenzuola ingiallite, verificando l’esistenza del vecchio materasso di crine, ridotto a un impasto di polvere & sperma. Sulla parete di sinistra, il vecchio armadio turchese provvisto di specchio, di quelli che nei Cinquanta concedevano alle cameriere. Nel centro della stanza una poltrona di legno impagliato verde pisello, una sedia di legno dello stesso colore, accostata a un tavolo costituito da un’asse di compensato, posta su due cavalletti di metallo arrugginito. “Altro che garçonnière – mi fece Gianni – non ci ho più rimesso piede.” “Davvero?” “Sí, perché la pazza dava ospitalità a chiunque, anche a chi veniva a bucarsi e allora ci ho messo il lucchetto – spiegò Gianni e poi – ti ricordi quando dicevi che ci avresti girato un film?” “Ah già... e invece...” – dissi interrompendomi, mentre qualcuno nel corridoietto stava segnalando la sua posizione. “Ehiiii” – fece stupitissima una donna bruna, scarmigliata, dall’età indefinibile, certo non bella. “Erita!” – esclamai, simulando una gioia che non c’era. “Mamma mia che casino, sono anni che non rimetto piede qua dentro – commentò lei – ma venite, venite nella mia stanza.” Erita ci precedette in ciabatte nel breve corridoietto, alla fine del quale, proprio di fronte al bagno, c’era la sua stanza. Il letto a una piazza e mezza ingombrava tre quarti dello spazio, il resto era occupato da due sedie, da un tavolo stretto che trovava sostegno nella parete, mentre dall’unica mensola debordava uno stereo obsoleto, come il gigantesco televisore posto sul pavimento. “Ma quanti anni sono passati?” – continuò Erita cercando di darsi un contegno, forse volendo giustificare di ritrovarsi ancora in quel vittoriale di reliquie imputridite. In effetti il piccolo appartamento era rimasto tale e quale a come George, il comune compagno di studi, glielo aveva lasciato quasi vent’anni prima, e lei era rimasta pietrificata nel ricordo. Ci scusammo, ritornammo nella mia ex stanza e Gianni si accomiatò, lasciandomi alle prese con i fantasmi del mio passato. Mi rifugiai in bagno, uno sgabuzzino ingombro di ciabatte, scarpe sgorate di pioggia, vecchi barattoli di vernice, uno scolapiatti carico di stoviglie, indumenti sporchi appesi ai minuscoli attaccapanni d’ottone, resi verdognoli dal salnitro. Nella piccola vasca a seduta troneggiava una pila di piatti sporchi, con tracce recenti di cibo, che erano stati rimossi per metterli sul pavimento bisunto. Lavorai un quarto d’ora per scrostare la traccia giallastra di sporco rappreso nella tinozza. Finalmente, facendo perno sulla gamba sana e tenendo la gamba ingessata fuori dal bordo, entrai nella tinozza, riuscendo in qualche modo a spruzzarmi con la cornetta della doc- 54 55 ALDO RICCI cia. Rientrai in camera che ormai era sera. Mi affacciai alla finestra buttando lo sguardo sui tetti imbiancati di neve e lo riabbassai sul cinema sottostante, davano “Un lupo mannaro americano a Londra”. Richiusi le persiane lasciando aperti i vetri, e continuando a saltellare sul piede sano iniziai la complessa manovra per andare a letto. Afferrai le lenzuola pulite che Gianni mi aveva lasciato e preparai il letto. Quindi mi tolsi l’accappatoio di spugna rossa, indossai un pigiama di seta, mi inondai d’acqua di lavanda, mi lasciai andare sul letto, che emise un sinistro cigolio di molle arrugginite, e mi ci adagiai, subito sopraffatto da un sonno denso di incubi colorati. 2. I camaleonti Quarant’anni suonati, un volto segnato attraversato dal fascio di luce della lampada da tavolo, seduto a una scrivania ingombra di fogli dattiloscritti e di portacenere zeppi di cicche, batte furiosamente sulla tastiera del computer, neanche fosse una Lettera 22. Drinn... Drinn... Due squilli di telefono prima che l’uomo afferri la cornetta. “Alò?” – dall’altra parte solo un clic. Alex riattacca e ributta lo sguardo sullo schermo luminoso, fino a quando il cursore si blocca su questo titolo: I CAMALEONTI Complotto per un assasinio infame Mauro Ros si è trovato da solo in mezzo a un campo con i riflettori accesi, poi qualcuno nel buio ha sparato. Chi? Perché? Alex aspira una boccata di fumo, fissa per un altro istante il video e poi si alza, va verso la parete, stacca un dardo piumato dal bersaglio di sughero e lo rimanda a conficcarsi nel centro del target, su cui è appiccicata l’immagine ritagliata dell’arcinota faccia da cinghiale. Ora ritorna al tavolo, schiaccia il tasto d’invio e il sibilo della stampante si missa con l’Autunno di Vivaldi mentre la luce dell’alba si sta facendo strada dalle due 56 57 ALDO RICCI finestre aperte. L’uomo si alza, va a chiudere le persiane e si lascia cadere esausto sul divano. Drinn... drinn... drinn... Tre squilli di telefono, prima che l’uomo si giri verso l’apparecchio e afferri la cornetta. “Alò?” – dall’altra parte si sente solo un clic! Alex si infila un giubbetto di pelle nera, apre la porta ed esce. È l’alba e piazza Farnese si mostra in tutta la sua suprema bellezza. 58 3. L’inizio Niente televisione né telefono. Il gesso fino all’inguine mi impediva i movimenti. Di uscire da quella situazione neanche a pensarci, anche se potevo sempre “uscire” da una delle due finestre, dato che l’altra, quella con le persiane sempre accostate, mi serviva da frigo per l’acqua minerale. Passavo le giornate ad ascoltare il rumorio dal marciapiede dell’isola pedonale sottostante, ricordandomi quel che diceva il vecchio Cinasky: “Dacci dentro, dacci dentro forte, come un combattimento di pesi massimi, e ricordati le vecchie pellacce che si son battute cosí bene: Hemingway, Céline, Dostoevskij, Hamsun. Se pensi che loro non impazzirono nelle loro camerette, proprio come ti capita adesso, senza donne, senza mangiare, senza speranza, allora non sei ancora pronto.” Difatti non lo ero. Innanzitutto mi mancava una macchina da scrivere. “Mi raccomando che sia elettrica” – avevo detto e Gianni aveva provveduto, procurandomi una monumentale IBM a testina rotante, con la quale avevo cominciato a giocare divertendomi a battere lettere senza senso, cosí come mi sembrava essere stata la mia vita. Il mio problema era sempre stato quello di farla franca e, nonostante quel che mi era successo, rimanevo un ottimista incallito. Per ridursi a scrivere non bisogna disporre d’altre alternative. E cosí, chiuso in quella stanza, segregato in quei diciotto metri quadri ingombri di quel che 59 ALDO RICCI era il mio presente, ma soprattutto di quello che era stata una parte considerevole del mio passato, mi mettevo alla macchina dove restavo incollato per ore e ore senza avanzare di una riga, e il foglio rimaneva bianco. Cominciai a bere. Di buon mattino mi calavo con le stampelle per quelle rampe sdrucciole e rientravo quasi subito con una boccia di whisky sotto l’ascella. Dopo intere giornate trascorse ai margini del deserto, mi buttavo ubriaco sul letto fino al giorno dopo. Poi una sera, improvvisamente, cominciai a battere, battere, battere senza riuscire a tener dietro alla velocità del pensiero, proseguendo come un treno nella notte e oltre. 60 4. Milady Una Porsche grigia di polvere accosta lentamente sotto la pensilina dell’Hotel Hassler, nel punto in cui via Sistina converge con Trinità dei Monti. Al volante un quarantenne biondo, mingherlino e occhialuto. Al suo fianco siede un Alex elegante, che apre lentamente la portiera, salta fuori dall’abitacolo, richiude lo sportello e si abbassa sul finestrino, rivolgendosi all’amico. “Ciao bello.” “Ciao amore.” La Porsche viene trattenuta dalla paletta di uno dei portieri e Alex si infila nella porta girevole, mentre una signora sulla sessantina è in procinto di uscire da un’altra porta a vetri, che un boy le dischiude. Alex se ne rende conto e compie un intero giro nella porta, ritrovandosi con la signora sotto la pensilina e riscuotendo un sorrisetto di plauso da quella che d’ora in poi sarà Milady. In quel mentre il portiere dà via libera all’auto di Gianni, che abbassandosi nell’abitacolo invia un saluto in direzione dell’amico. Il gesto non sfugge a Milady, che lancia un’occhiata stupita ad Alex. “Non ti preoccupare, è il mio miglior amico” – si giustifica l’italiano. Milady non ha il tempo di rispondere, perché Alex le ha già preso la mano e accennando un inchino reclina leggermente il capo e se la porta con garbo alle labbra. “Sono arrivata da Washington alle sette, sono corsa in ambasciata e adesso devo andare a Fiumicino, se ti 61 ALDO RICCI BRASILE D’INFERNO va di accompagnarmi è l’unico tempo che ti posso dare” – taglia corto lei, avvicinandosi a una limousine non appariscente, mentre il portiere le apre la portiera posteriore. Milady sale seguita da Alex. “Dove sei diretta?” – le chiede lui, accomodandosi nella parte destra del sedile posteriore. “A Pechino” – risponde Milady, facendo cenno all’autista di partire. La berlina procede lenta nel traffico caotico dei lungotevere e in prossimità del ponte Regina Margherita, Alex estrae un manoscritto dalla borsa e lo porge a Milady. “Complotto per una morte misteriosa” – finisce di leggere lei, volgendosi verso il volto imperturbato di Alex. “Complotto di chi?” – vuol sapere Milady, appoggiando il manoscritto sul bracciolo che la separa dal suo interlocutore. “È la classica porcata all’italiana – spiega Alex – un complotto o meglio un connubio tra insospettabili di matrici opposte.” “Ah! – esclama Milady e dopo una pausa – e cioè?” Ora lo sguardo di Alex è nuovamente rivolto all’ingorgo in cui l’auto è intrappolata, lo smog rende l’aria irrespirabile, Milady fa cenno di chiudere il finestrino e l’autista esegue inserendo l’aria condizionata. “Ci son tutti dentro fino al collo, – prosegue Alex glaciale, mentre la signora scuote affermativamente la testa – politici & giornalisti, nonché qualche direttore di testata o di emittente e tu sai benissimo a chi mi sto riferendo.” Milady tace come chi acconsente. “Alcuni di questi signori vent’anni fa volevano la rivoluzione e invece oggi sono culo e camicia con l’attuale governo, grazie anche al vostro appoggio – continua e conclude Alex – o forse mi sbaglio?” Finalmente l’auto ha imboccato il ponte e Milady consulta l’orologio. “E allora?” – chiede ancora lei, con l’aria di voler arrivare a una prima conclusione. “E allora c’è stato un complotto all’italiana – insiste Alex – che si è concluso con l’uccisione del mio guru personale.” “Ma chi è?” – chiede lei in tono sbrigativo. “Ti dice qualcosa il nome di Mauro Ros?” – le domanda lui, scrutandola bene in volto. Milady rimane qualche attimo sovrappensiero. “Aspetta un po’ – fa lei inseguendo i ricordi – ma non era il leader...” “...del famoso movimento” – la interrompe Alex. “Ma sí... ora ho capito chi è – dice Milady con enfasi – non è quello fatto fuori dalla mafia?” “Sbagli! – esclama Alex e riprendendo – che sia stata la mafia è quello che hanno accreditato i media, controllati dagli ex amici & compagni dello scomparso...” “...i media... – ripete Milady mentre ora la berlina procede più spedita su viale delle Milizie – e invece?” “Invece la mafia non c’entra proprio niente.” “Ah!” – intercala Milady fingendo stupore. “Invece tra i coinvolti a vario titolo ci sono questi ex amici & compagni della vittima, i cosiddetti indefessi, alcuni dei quali già imputati in un processo clamoroso ma non ancora concluso, che nonostante diverse sentenze di colpevolezza, li lascia ancora a piede libero, forse proprio grazie all’assassinio di Mauro” – conclude Alex, con la percettibile stanchezza di chi sta raccontando la stessa storia per l’ennesima volta. 62 63