Cesare, Sallustio, Livio

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Cesare, Sallustio, Livio
Giulia Colomba Sannia
S186
Exemplaria
Collana di autori e testi latini
Cesare, Sallustio, Livio
La storiografia
tra creazione poetica
e testimonianza
storica
®
Estratto della pubblicazione
Giulia Colomba Sannia
Exemplaria
Collana di autori e testi latini
Cesare, Sallustio, Livio
La storiografia
tra creazione poetica
e testimonianza
storica
®
Estratto della pubblicazione
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l’editore è a disposizione degli aventi diritto. L’editore provvederà, altresì, alle
opportune correzioni nel caso di errori e/o omissioni a seguito della segnalazione
degli interessati.
Prima edizione: Gennaio 2006
S186
ISBN 88-244-7981-2
Ristampe
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1
2006
2007
2008
2009
Questo volume è stato stampato presso
Arti Grafiche Italo Cernia
Via Capri, n. 67 - Casoria (NA)
Coordinamento redazionale: Grazia Sammartino
Le prove di verifica dei Laboratori sono a cura della prof.sa Donatelli Onesti eccetto i
confronti intertestuali e intersegnici.
Grafica e copertina:
Impaginazione:
Grafica Elettronica
Premessa
In un bell’articolo del 1983, intitolato Il Latino che serve, attualissimo nella disarmante sincerità
con cui è scritto, lo scrittore Luigi Compagnone affermava: «Io ho amato e amo il Latino…Se
ho amato e amo il Latino non è per merito mio. Il merito è della fortuna che come primo
insegnante di materie letterarie mi dette un professore che si chiamava Raffaele Martini… La
sua lezione era un colloquio vivo, un modo chiaro e aperto di farci capire il Latino che per
noi non fu mai una lingua morta. Perché lui sapeva rendere vivo tutto il vivo che è nel Latino.
E nessuno non può non amare le cose vive che recarono luce alla sua adolescenza […]. In
una società in cui le parole di maggior consumo sono immediatezza, praticità, concretezza,
utilitarismo, la caratteristica del Latino è costituita dal “non servire” a nessunissima applicazione immediata, pratica, concreta, utilitaria… [Il Latino] fa intravedere che al di là delle
nozioni utili c’è il mondo delle idee e delle immagini. Fa intuire che al di là della tecnica
e della scienza applicata, c’è la sapienza che conta molto di più perché insegna l’armonia del
vivere e del morire. È una disciplina dell’intelligenza, che direttamente non serve a nulla, ma
aiuta a capire tutte le cose che servono e a dominarle e a non lasciarsi mai asservire ad esse
[…]. La disgrazia più inqualificabile [per gli studenti] è essere stati inclusi negli studi classici
senza averne tratto nessun vantaggio intellettuale, la vera disgrazia è aver fatto gli studi
classici ritenendoli e mal sopportandoli come il più grave dei pesi… [perché] al tempo della
scuola tutto si è odiato, […] tutto è stato condanna e sbadiglio».
Come dare, dunque, ai ragazzi un Latino che serve ed evitare che il suo studio sia noia
e peso, un esercizio poco proficuo, un bagaglio di conoscenze sterili, di cui liberarsi presto,
non appena si lascia la scuola, se non addirittura, subito dopo la valutazione?
C’è una sola via che conduce all’amore per il Latino e quella via è costituita dalla lettura
dei testi in lingua originale, ma di quei testi che nei secoli hanno resistito alla selezione
e in tutte le epoche sono apparsi imprescindibili. Non possiamo illuderci che la biografia
di un autore, un contesto storico, una pagina critica, un frammento di Nevio, un brano di
Ammiano Marcellino possano avere lo stesso valore e la stessa funzione di una pagina di
Lucrezio o di Tacito, di Catullo o di Cicerone. Quella sapienza che insegna l’armonia del
vivere e del morire, la quale costituisce il portato più alto della cultura classica, passa
d’obbligo attraverso la lettura di testi di altissima qualità. È la lingua latina, con la
perfezione geometrica della sua struttura, con l’armonia delle sue assonanze, con la
raffinatezza dei suoi accorgimenti retorici, a comunicare emozione e rigore logico, senso
del bello e razionalità, accendendo l’interesse dell’adolescente posto di fronte ai grandi
interrogativi della vita.
Aver studiato il Latino, significherà, perciò, per i ragazzi, non tanto aver imparato la
biografia di Cicerone o di Plauto o di Ovidio, o il contesto storico in cui essi hanno vissuto,
ma aver meditato sulle loro parole. In tutte le epoche le loro opere sono state lette e rilette,
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ricercate dagli umanisti in tutte le biblioteche d’Europa, riportate all’esatta lectio filologica,
preservate dall’oblio dai monaci medioevali perché ricopiate con amore.
Ci sono saperi che soltanto la scuola può dare, chiavi di lettura che solo da adolescenti
si ricevono e che, una volta perduti o ignorati, non si recupereranno mai più. Uno studente,
che non abbia letto nella lingua originale Virgilio o Lucrezio o Agostino o Tacito (come
se non avrà letto Dante, Boccaccio e Ariosto), che non abbia acquisito sensibilità di lettore
attraverso la consuetudine con le analisi testuali, mai più potrà provare il brivido di
emozione che la parola poetica comunica. Forse nel tempo, se e quando un’arricchita
sensibilità adulta gli farà avvertire il bisogno di tornare al passato, ricercherà in traduzione
italiana qualche autore particolarmente amato, come Seneca o Catullo. Ma, perché si
manifesti questo desiderio, la scuola dovrà aver trasmesso almeno il senso dello studio del
latino, focalizzando l’attenzione su quello che è grande ed essenziale, evitando di far
disperdere energie ed interesse sull’inutile.
Ci piace citare, a sostegno di quanto si è detto, le parole di Nuccio Ordine.
Nel Convegno tenutosi a Roma dal 17 al 19 marzo 2005 sul tema «Il liceo per l’Europa della
conoscenza», promosso da EWHUM (European Humanism in the World), Nuccio Ordine ha
usato parole che confermano, senza saperlo, quanto andiamo sostenendo da anni sulla
didattica del Latino e che sentiamo il dovere di riportare per la profondità e la chiarezza del
pensiero espresso:
«Conoscere significa “imparare con il cuore”. E ha ragione Steiner a ricordarci che […]
presuppone un coinvolgimento molto forte della nostra interiorità. In assenza del testo,
nessuna pagina critica potrà suscitarci quell’emozione necessaria che solo può scaturire
dall’incontro diretto con l’opera. […]. Nel Rinascimento (i professori) si chiamavano “lettori”,
[…] perché il loro compito era soprattutto quello di leggere e spiegare i classici. […] Chi
ricorderà a professori e studenti che la conoscenza va perseguita di per sé, in maniera gratuita
e indipendentemente da illusori profitti? Che qualsiasi atto cognitivo presuppone uno sforzo
e proprio questo sforzo che compiamo è il prezzo da pagare per il diritto alla parola? Che
senza i classici sarà difficile rispondere ai grandi interrogativi che danno senso alla vita
umana? […]. Non è improbabile che le stesse biblioteche – quei grandi “granai pubblici”, come
ricordava l’Adriano della Yourcenar, in grado di “ammassare riserve contro un inverno dello
spirito che da molti indizi mio malgrado vedo venire”, – finiranno a poco a poco, per
trasformarsi in polverosi musei. E lungo questa strada in discesa, chi sarà più in grado di
accogliere l’invito di Rilke a “sentire le cose cantare, nella speranza di non farle diventare
rigide e mute”? “Io temo tanto la parola degli uomini./Dicono sempre tutto così chiaro:/ questo
si chiama cane e quello casa,/ e qui è l’inizio e là è la fine/ […] Vorrei ammonirli: state
lontani./ A me piace sentire le cose cantare./Voi le toccate: diventano rigide e mute./ Voi mi
uccidete le cose”».
Sulla base di questi presupposti teorici nasce l’antologia latina in fascicoli della collana
Exemplaria che comprende autori e temi di tutta la letteratura latina. Ogni singolo volume
costituisce l’ossatura della storia letteraria e al tempo stesso una sorta di passaggio obbligato
della cultura, perché tutta la letteratura posteriore e tutta la cultura occidentale hanno avuto
come fermo punto di riferimento questi autori. Ed essi sono diventati exemplaria appunto
(da cui il titolo della collana), perché modelli da accettare o rifiutare, ma comunque con
i quali necessariamente confrontarsi per capire il presente.
La scelta dei testi è stata guidata, quindi, dall’esigenza di focalizzare l’attenzione degli
studenti sia sulla personalità dell’autore, sulla sua poetica, sul genere letterario privilegiato
4
Premessa
e sia, soprattutto, dal desiderio di suscitare l’amore per una lettura che aiuti a capire se
stessi e la vita.
È importante capire bene la struttura dei volumetti per poterla utilizzare al meglio. Ogni
autore è introdotto dal paragrafo Perché leggerlo?, che consiste nella spiegazione, in
sintesi, delle qualità per le quali quell’autore è diventato famoso e merita lo studio.
La vita e il contenuto delle opere hanno, poi, un piccolo spazio in quanto sono solo
funzionali alla migliore ricezione dei testi. Non manca un paragrafo sul genere di appartenenza o sul tema topico relativo.
Ogni singolo brano quindi è introdotto da una presentazione più o meno breve, per
fornire immediatamente agli studenti le informazioni sul contenuto, seguito dalle note al
testo, che propongono sempre la traduzione e commenti di carattere morfosintattico,
mitologico e storico-culturale, e dall’analisi testuale che permette di cogliere il messaggio
poetico dell’autore, attraverso le strutture formali, stilistiche e letterarie, sia in rapporto ai
generi che alle connessioni intertestuali e intersegniche.
A conclusione di ogni percorso didattico i Laboratori prevedono prove di verifica delle
abilità e delle competenze acquisite sul modello della tipologia A (Analisi testuale) della
prima prova (italiano) all’Esame di Stato, con la scansione consueta del Ministero, in
comprensione, analisi, approfondimento. Poiché si tratta di lingua latina, l’analisi si divide
in analisi morfosintattica sulle concordanze, sui casi ecc. e analisi semantica, sullo stile
e sul linguaggio. L’approfondimento, talvolta, fa riferimento anche alla tipologia B o D
dell’Esame di Stato (saggio breve o trattazione generale). Lo scopo è stato quello di abituare
gli studenti a un metodo che sappia distinguere le fasi del lavoro: comprendere, analizzare,
sintetizzare, approfondire ecc. Non si è voluto rinunciare a momenti di creatività: si vedano
gli esercizi “dare un titolo”, o “creare uno schema”, i confronti “intersegnici” ecc. Questo
tipo di esercizi nella prassi didattica si è sempre rilevato molto gradito agli studenti e
utilissimo a stimolare la loro capacità di osservazione e la loro creatività.
contraddistingue alcuni testi e
Una coppa circondata da una coroncina di alloro
prove di verifica di particolare complessità, che possono essere riservati a quegli alunni che
mostrano il desiderio di approfondire o ampliare lo studio dell’argomento e vogliano
perseguire l’eccellenza.
Non mancano le Pagine critiche che offrono le interpretazioni di noti studiosi su aspetti
e tematiche riguardanti l’autore e la sua opera.
I brani antologici sono accompagnati talvolta dai confronti intertestuali e intersegnici e dalla
rubrica Incontro tra autori in cui si confrontano due autori su differenti versioni di un
mito o differenti interpretazioni di un personaggio storico. Personaggi storici, come Cesare,
Bruto, Catilina, o mitici, come Orfeo, Medea, Cassandra, tanto per fare solo qualche nome
molto noto, oppure alcuni episodi famosi, ritornano nelle opere di autori diversi ed ogni
autore li “legge” differentemente, secondo la sua sensibilità e il suo intento poetico. Il titolo
della rubrica richiama una terminologia che si dice ucronica, da oúk + krónos («senza
tempo»), cioè come se essi potessero, per assurdo, incontrarsi al di là delle loro epoche
storiche e del contesto in cui vissero, per esprimere ciascuno di loro, nell’opera letteraria,
il proprio pensiero sullo stesso tema.
Chiude ogni singolo fascicolo il Vocabolario dei termini tecnici.
Premessa
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Estratto della pubblicazione
Indice
Premessa
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Introduzione
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Cesare
1. Perché leggerlo?
2. La vita
T1 De bello Gallico I, 1: La Gallia
T2 De bello Gallico V, 55, 2-4; 56, 1-2: L’ultimo arrivato
T3 De bello Gallico VII, 77, 12-16: Il cannibalismo nel discorso del barbaro
Critognato
Incontro tra autori: Giovenale e Cesare: I cannibali (Satira XV, 75-92)
Pagine critiche: La “tendenziosità” dei commentarii cesariani (G. Ferrara)
T4 De bello Civili III, 104: La morte di Pompeo
Pagine critiche: Il capitolo 104 del De bello Civili (G. Ferrara)
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Gallico VI, 21
Gallico VI, 25
Civili III, 94
Civili III, 103
Sallustio
1. Perché leggerlo?
2. La vita
T1 De coniuratione Catilinae, 5: Il ritratto dell’eroe perverso
T2 De coniuratione Catilinae, 9, 10, 3-5: Il rimpianto del passato e la corruzione
del presente
T3 De coniuratione Catilinae, 23, 3-6; 25: Fulvia e Sempronia
Pagine critiche: Sempronia (A. Introna)
T4 De coniuratione Catilinae, 61: La sconfitta dell’eroe, la morte di Catilina
Pagine critiche: Il galateo del comandante. Modelli comportamentali in Sallustio (G. Cipriani)
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Estratto della pubblicazione
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Catilinae,
Catilinae,
Catilinae,
Catilinae,
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T5 Bellum Iugurthinum, 5, 5-7, 6: Giugurta, il nemico barbaro
C1 Confronto intertestuale tra Bellum Iugurthinum, 5-6, e Saul II, 26-56, di Vittorio Alfieri: Il vecchio tiranno
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Iugurthinum,
Iugurthinum,
Iugurthinum,
Iugurthinum,
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Livio
1. Perché leggerlo?
2. La vita
T1 Ab urbe condita I, Praefatio 6-10: L’idealizzazione del passato di Roma
Incontro tra autori: Tacito e Livio: La Praefatio (Annales I, 1)
T2 Ab urbe condita I, 58: Lucrezia, personaggio esemplare
Pagine critiche: S. Agostino e il suicidio di Lucrezia (S. Fontanarosa)
T3 Ab urbe condita XXI, 4: Annibale, il grande nemico
T4 Ab urbe condita XXX, 12, 11-18: L’amore impossibile di Sofonisba e Massinissa
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Ab urbe condita, Praefatio, 1-5: traduzione contrastiva
Confronto intertestuale: L’eroismo di Lucrezia in Livio e in Shakespeare
Ab urbe condita XXII, 51
Ab urbe condita XXX, 12, 18-22
Ab urbe condita XXX, 13
Ab urbe condita XXX, 14
Confronto intertestuale: La morte di Sofonisba in Livio e in Francesco Petrarca
Vocabolario dei termini tecnici
Legenda:
T
C
= testo con analisi
= confronto intertestuale o intersegnico
= testi o verifiche di particolare complessità per l’eccellenza
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Estratto della pubblicazione
• Cesare
• Sallustio
• Livio
La storiografia tra creazione
poetica e testimonianza storica
Introduzione
La storiografia romana nasce come opus oratorium maxime, un’opera, cioè, di riflessione
sulla politica e sulle vicende storiche da parte di chi se ne è distaccato per scelta o per
obbligo, optando per la solitudine dell’otium. Lo storico, rerum scriptor, come dichiara
Sallustio, che è il primo ad assumere anche un impegno etico, se è libero da ogni parzialità
e da ogni timore (spe, metu, partibus), può studiare le cause che scatenano i conflitti o
determinano la corruzione dei costumi. La sua opera, così, si colloca sulla stessa linea
dell’oratoria: lo scrittore in essa esprime una propria visione del mondo ed usa il linguaggio
per sorreggerla.
Cicerone, nel De legibus, osserva che lo storico ha due compiti: la scelta degli argomenti,
rerum ratio, e la scelta del linguaggio, verborum ratio. Anche se il fine dichiarato della
ricerca storica è la verità, Cicerone tuttavia ammette la possibilità di usare l’ornatus per
raccontare i fatti: è questo, per alcuni versi, il limite, oltre che il fascino, della storiografia
latina. Da Sallustio, a Tacito, ad Ammiano Marcellino il testo storiografico, perciò, si
presenta sempre come un testo di letteratura e non di saggistica.
Gli storici che compaiono in questo libro sono Cesare, Sallustio, Livio.
Cesare scrive i Commentarii, veri e propri bollettini di guerra «nitidi come diamanti» come
dice Concetto Marchesi. Lo stile è, perciò, caratterizzato da due qualità: perspicuitas
(«chiarezza») e brevitas («rapidità»). Di qui un lessico molto limitato. Cesare evita i sinonimi,
per cui ad esempio ogni fiume, ruscello o torrente, viene definito indifferentemente flumen;
evita gli arcaismi e le forme sincopate del verbo. La sintassi è strutturata in linee geometriche e ordinate, secondo le norme della concinnitas, e con l’inserimento, di tanto in tanto,
di sintesi finali di ricapitolazione su quanto detto in precedenza. Il participio, l’ablativo
assoluto e i gerundi accrescono la forza sintetica del linguaggio. Così anche l’oratio obliqua,
il discorso indiretto, gli permette di ottenere una comunicazione più rapida rispetto al
discorso diretto, che invece deve necessariamente rispecchiare la personalità di chi parla.
Sallustio manifesta nella sua opera, rispetto alla precedente tradizione storiografica annalistica, delle profonde innovazioni, sia per lo stile, sia per il metodo più scientifico della
narrazione, che si sforza di spiegare le cause degli avvenimenti politici ed i motivi delle
azioni degli uomini. Preferisce alla perspicuitas il pathos (sul modello di Tucidide): di qui
lo stile nervoso, inquieto, contratto e ricco di accorgimenti retorici: variatio, antitesi,
velocitas e brevitas espresse da asindeti ed ellissi del verbo. Anche i frequenti arcaismi,
l’uso del participio mutuato da Ennio e Catone, le sententiae, gli omoteleuti e le allitterazioni contribuiscono a costruire il ritmo poetico della sua prosa. Il lessico è anch’esso scelto
secondo una logica bipolare, che separa nettamente il bene dal male, bonum vs malum,
verum vs falsum ecc.
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La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
Estratto della pubblicazione
• Introduzione
Livio, invece, guarda al modello degli storici greci Isocrate e di Erodoto per cui il suo stile,
la lactea ubertas, eloquente e fluido, si allunga in periodi sinuosi, con un ampio respiro
creato dalle subordinate. La sintassi, perciò, è lo strumento fondamentale, più del lessico,
di questo ritmo, solenne e lento, che regge la pagina liviana. Anche in lui compaiono
arcaismi, ma sembrano espressione del rapporto fatti-linguaggio, per cui le vicende del
passato sono narrate in uno stile che è, appunto, quello del passato arcaico, idealizzato,
come sempre, nella nostalgia, tutta romana, del mos maiorum. Di qui, perciò, le intenzioni
didascaliche della scrittura liviana, che vuole ricordare i valori morali e civili di un popolo
che dopo il degrado delle lotte civili sta ritrovando, con Augusto, la pax e l’unità. Docere
e probare, «insegnare» e «convincere», dunque, attraverso la narrazione storica. Per questo
motivo, Livio pure, come Sallustio, ricorre a volte al pathos, specie nei discorsi dei
personaggi o nei «ritratti» delle personalità famose: in tal caso la sintassi rispetta in pieno
il modello ciceroniano della concinnitas, il lessico abbonda di superlativi, le figure retoriche
specie l’anafora accompagnano e sottolineano il ritmo della pagina. Anche Livio, come
Cesare, usa la oratio obliqua, ma con l’intento diverso di esprimere la psicologia segreta
del singolo o, più spesso, della collettività.
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
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La storiografia tra creazione
poetica e testimonianza storica
Cesare
1. Perché leggerlo?
La figura di Cesare è quella, dice Marchesi, dell’«uomo più grande che Roma abbia dato al mondo»:
fu il generale abilissimo, conquistatore della Gallia, della Germania e della Britannia, fu capace di
guardare nel futuro, tanto da capire che i tempi erano ormai maturi per l’impero; perciò osò
marciare contro il senato e coloro che difendevano le libertà repubblicane, e li sconfisse. Così, fu
unico signore di Roma, statista lungimirante e uomo politico sagace.
Questa sua figura storica, destinata a cambiare la fisionomia del mondo, trova un riflesso straordinario nella sua opera letteraria, il De bello Gallico e il De bello Civili, in cui, attraverso il resoconto,
freddo e impersonale, degli anni di conquista e della lotta contro Pompeo, egli mostra una lucida
volontà di spiegare e, in qualche modo giustificare, la sua azione politica. Quanto più incandescente
è la materia narrata (le lotte contro il fiero popolo dei Galli, la resistenza dei Germani, la fuga e la
sconfitta di Pompeo), tanto più razionale, freddo, obiettivo è lo stile con cui egli la narra. È questo
lo stile detto atticista da letterato coltissimo che diventa un modello insuperabile di semplicità e di
chiarezza, come gli riconosce anche Cicerone che, nel Brutus (262), definisce i Commentarii: nudi,
recti et venusti, omni ornatu orationis, tamquam veste detracta («nudi, essenziali e belli, privi di
ogni ornamento formale, come spogliati di un vestito»).
Se la parola è lo specchio della personalità di chi scrive, più che mai l’opera letteraria di Cesare porta
l’impronta di una razionalità superiore, del pensiero che sa dare ordine alla frase, con la stessa forza
di analisi e di sintesi con cui aveva saputo dare ordine al mondo.
2. La vita
Gaio Giulio Cesare nacque a Roma tra il 102
e il 100 a.C. Apparteneva alla nobile gens
Iulia, le cui origini si facevano risalire ad Iulo,
il figlio di Enea, nipote di Venere, ma era di
modeste possibilità economiche, come dimostra la sua casa nella Suburra, il quartiere
povero di Roma. Imparentato con Mario da
parte del padre e con Silla da parte della
madre, aveva la possibilità di contatti sia con
i populares che con gli optimates. Ma egli,
nonostante l’aristocratica famiglia, scelse i
populares, per andare incontro alle esigenze
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delle masse popolari. Studiò prima a Roma e
poi in Grecia, dove, a Rodi ascoltò le lezioni
del famoso retore Molone, che sosteneva l’atticismo, uno stile di retorica semplice ed essenziale.
Tornato a Roma si dedicò per breve tempo
all’attività forense, e prese posizione contro
Silla accusando Dolabella, seguace di Silla,
nel famoso processo. Iniziò, così la sua carriera politica, prima come questore, poi edile,
quindi pontefice massimo, pretore e propretore in Spagna. Quando era edile conquistò il
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
• Cesare
consenso e la simpatia della plebe attraverso
la distribuzione del grano.
Nel 60, divenuto console, strinse con Pompeo
e il ricco finanziere Crasso un accordo, il Primo Triumvirato, con il quale i tre si dividevano le aree di potere: Crasso in Oriente, Pompeo in Italia, Cesare in Gallia. Fece sposare la
figlia Giulia con Pompeo, per rendere ancora
più saldo il loro legame. Dal 58 al 52 egli
svolse la campagna militare con la quale conquistò tutta la Gallia, spingendosi fino alla
Britannia.
Nel 51 morì Crasso nella guerra contro i Parti
e morì anche la figlia Giulia che lo legava a
Pompeo. Restato solo padrone dello Stato
insieme con Pompeo, Cesare, completato ormai il periodo del suo consolato, nel 49,
chiese al senato di prorogargli la nomina di
console e il diritto di conservare il suo esercito. Ma il senato non glielo concesse, sapendo che in tal modo avrebbe permesso la sua
dittatura e lo dichiarò fuori legge, affidando
a Pompeo il comando dell’esercito di Roma e
nominandolo consul sine collega. A Cesare
invece ordinò di deporre il comando e ritornare da privatus a Roma.
Nel 49 Cesare attraversò in armi il Rubicone,
il fiume che segnava il confine tra privatus
civis e inimicus. Celebre la frase alea iacta est,
«il dado è tratto», per indicare la sua scelta
irrevocabile. In tal modo, egli sceglieva di
tornare come un inimicus, piuttosto che come
un cittadino qualunque. Il potere raggiunto
con le sue conquiste, la devozione assoluta
dell’esercito, il favore del popolo gli permettevano di diventare unico signore di Roma. Era
la guerra civile.
Pompeo fuggì con alcuni senatori, tra i quali
c’era anche Cicerone, a Brindisi, per imbarcarsi
verso l’Oriente, dove sperava di trovare rinforzi, ma, inseguito da Cesare, fu sconfitto a Farsalo nel 48. Di qui Cesare andò in Egitto per
combattere contro i seguaci di Pompeo. Il re
egiziano Tolemeo, presso il quale Pompeo si era
rifugiato, per guadagnarsi la simpatia di Cesare, gli inviò la testa mozza di Pompeo in segno
di amicizia e di scelta politica. Cesare, invece,
lo punì duramente per aver osato uccidere un
nobile cittadino romano e lo tolse dal regno,
affidando il governo a Cleopatra, la sorellamoglie del re. Tornato a Roma, ottenne il tribunato a vita e il consolato per altri 5 anni. Nel
47 sconfisse sul Bosforo Farnace in soli 5 giorni. Allora disse il famoso veni, vidi, vici. Nel 46
tornò in Africa dove a Tapso sgominò gli ultimi pompeiani (è qui che Catone l’Uticense si
suicidò in segno di protesta contro il dittatore)
e risalì attraverso la Spagna dove a Munda nel
45 sconfisse Gneo e Sestio figli di Pompeo. Era
ormai il solo padrone dello Stato.
Giunto a Roma, con il titolo di imperator,
dittatore a vita, conferitogli dal senato, si
dedicò esclusivamente al suo programma politico e legislativo, con una visione universalistica e cosmopolita dello Stato, sul tipo di
quello di Alessandro Magno e con l’intento di
apparire difensore e liberatore del popolo. L’opposizione senatoria, invece, che vedeva in lui
la fine delle libertà repubblicane organizzò
una congiura per ucciderlo. E nel 44 a.C., alle
idi (15) di Marzo, per mano di Cassio e Bruto
suo figlio adottivo (tu quoque Brute, fili mi, si
dice che abbia mormorato, cadendo), Cesare
morì, colpito da 23 pugnalate.
Tra le opere minori di Cesare ricordiamo il De
analogia, trattato di retorica dedicato a Cicerone; alcune orazioni, epistole, laudationes, di
cui ci restano solo pochissimi frammenti; l’Anticato in 2 libri per screditare il suicidio di
Catone l’Uticense, dimostrando che era stato
solo espressione di viltà.
I capolavori di Cesare sono ovviamente le
opere d’impianto storico: Commentarii de bello Gallico, 7 libri che sono il resoconto puntuale dei 7 anni di conquiste militari in Gallia,
un libro per ogni anno; Commentarii de bello
Civili, 3 libri, che narrano la guerra civile dal
49 al 48, fino alla morte di Pompeo. Anche
qui come nel De bello Gallico la narrazione
procede sempre in terza persona: Caesar è il
protagonista, costretto a combattere contro un
esercito di Roma.
Forse ai suoi ufficiali Irzio e Pansa vanno
attribuiti un ottavo libro del De bello Gallico
e il Bellum Alexandrinum, il Bellum Africanum e il Bellum Hispaniense.
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
Estratto della pubblicazione
13
• Cesare
T1
De bello Gallico I, 1: La Gallia
Proponiamo l’incipit famosissimo, che di solito si legge appena si studia il latino, per la chiarezza
assoluta del linguaggio.
[1] Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani,
tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. [2] Hi omnes lingua,
institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis
Matrona et Sequana dividit. [3] Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod
a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores
saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt Germanis qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt.
[4] Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis
proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum
finibus bellum gerunt. [5] Eorum una pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium
capit a flumine Rhodano; continetur Garumna flumine, Oceano, finibus Belgarum;
attingit etiam ab Sequanis et Helvetiis flumen Rhenum; vergit ad septentriones. [6]
Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur; pertinent ad inferiorem partem fluminis
Rheni; spectant in septentrionem et orientem solem. [7] Aquitania a Garumna flumine
ad Pyrenaeos montes et eam partem Oceani quae est ad Hispaniam pertinet; spectat inter
occasum solis et septentriones.
1-2. Gallia…differunt: «Tutta la Gallia
è divisa in tre parti, di cui una abitano
i Belgi, un’altra gli Aquitani, una terza
coloro che nella loro lingua si chiamano
Celti, nella nostra Galli. Tutti questi differiscono tra loro, per lingua, istituzioni, leggi».
Est divisa: il perfetto serve per indicare
una divisione già esistente; lingua, institutis, legibus: ablativi di limitazione.
Notare il ritmo ternario: Belgae, Aquitani, Celtae e lingua, institutis, legibus.
2-3. Gallos…gerunt: «Il fiume Garonna
divide i Galli dagli Aquitani, il fiume
Marna e la Senna li dividono dai Belgi.
Tra tutti questi i più forti sono i Belgi,
per il fatto che sono estremamente distanti dalla cultura e dalla civiltà della
provincia e raramente i mercanti si recano da loro e vi importano quelle merci
che servono a effeminare gli animi e sono
molto vicini ai Germani che abitano oltre il Reno e con i quali combattono
continuamente».
Horum: genitivo partitivo; cultus e humanitas: se intesi come un’endiadi si
possono tradurre con «civiltà»; ad effeminandos: finale, effemino, letteralmen-
14
te «rendo femminile», allude ai prodotti
come le spezie che i Romani disprezzavano molto, perché ritenevano indebolissero; Germanis: tutte le testimonianze, sia di Cesare che di Tacito, sui Germani rilevano la grande forza di questa
etnia.
4. Qua de causa…gerunt: «E per questo
motivo gli Elvezi anche sono superiori
agli altri Galli per forza, poiché si scontrano con i Germani con combattimenti
quasi quotidiani sia quando li respingono dal proprio territorio, sia quando essi
stessi portano la guerra nei loro confini».
Virtute: ablativo di limitazione, virtus è
termine tecnico per indicare la parte più
nobile dell’uomo, qui per Cesare è, naturalmente, la forza, trattandosi di popoli
che sono lontani dalla civiltà romana e
hanno un’altra cultura in senso antropologico; cum: regge i due indicativi prohibent e gerunt ed è temporale. Rigorosa
la costruzione geometrica retta da
aut…aut: suis finibus eos prohibent, ipsi
in eorum finibus bellum gerunt (ablativo, accusativo, verbo).
5. Eorum…septentriones: «Una parte di
questi che si è detto occupano i Galli,
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
Estratto della pubblicazione
inizia dal fiume Rodano, è delimitata dal
fiume Garonna, dall’Oceano, dai confini
dei Belgi, tocca anche dalla parte dei
Sequani e dagli Elvezi il fiume Reno, si
estende verso Settentrione».
Vergit: propriamente «si volge»; septentriones: deriva da septem+triones, da
tero, «trebbiare», indica l’Orsa Maggiore,
formata da sette stelle e detta anche
Gran Carro.
6. Belgae…solem: «I Belgi hanno inizio
dagli estremi confini della Gallia, si
estendono fino alla parte inferiore del
fiume Reno, guardano a Settentrione e
a Oriente».
Oriuntur: «hanno origine», qui è indicazione geografica; orientem solem: è il
«sole che sorge»; oriuntur, pertinent,
spectant: continua il ritmo ternario.
7. Aquitania…septentriones: «L’Aquitania
si estende dal fiume Garonna fino ai monti
Pirenei e a quella parte dell’Oceano che è
vicino alla Spagna; guarda ad Occidente
e a Settentrione».
Pertinet ad: «riguarda», si è tradotto con
«si estende»; ad Hispaniam: «presso la
Spagna»; occasum solis: «tramonto del
sole», da ob+cado.
• Cesare
Analisi
testuale
T1
De bello Gallico I, 1: La Gallia
Il brano, di tipo descrittivo, che apre il De bello Gallico, è forse una delle più famose
pagine della letteratura latina. La ragione va ricercata proprio nel modo chiarissimo
con cui Cesare dà le coordinate geografiche dei luoghi, sui quali il suo genio militare
si manifesterà durante la conquista. È una prosa lineare e semplicissima, a cui le
ripetizioni lessicali accrescono la facilità di lettura e la immediata comprensione.
Pochi i vocaboli usati, oltre, naturalmente, ai nomi dei luoghi: gerunt, pertinent,
flumen, septentriones, finibus ecc.
La paratassi prevale sull’ipotassi a dare l’effetto di quadri giustapposti in ordine
sequenziale. Solo in un punto la costruzione ipotattica segna un lieve scarto
rispetto a tutto il brano, ed è quando Cesare allude alle merci che indeboliscono
gli animi, quae ad effeminandos animos pertinent, incastrando la finale nella
relativa, che separa con l’iperbato ea da important.
L’opposizione tra popolo primitivo e popolo civilizzato, cioè Germani e Romani,
qui compare appena accennato per la prima volta, ma sarà ripreso da Tacito nella
Germania, diventando poi un tópos letterario.
La prosa si snoda, così, pacata e regolare, caratterizzata in modo vistoso dal ritmo
ternario con qualche forma binaria e quaternaria; partes tres dice in apertura a
proposito della Gallia, e poi continua col ritmo di tre che connoterà tutto il discorso:
TRICOLON
TETRACOLON
DICOLON
lingua, institutis, legibus
capit continetur attingit vergit
pertinet spectat
Garumna Matrona Sequana
Aut suis finibus prohibent
Aut in finibus bellum gerunt
oriuntur pertinent spectant
I due verbi finali ravvicinati, invece, introducono il ritmo binario che di solito
prevale nella prosa del De bello Gallico.
Cesare delinea confini e popoli, ma fa allusione allo stato di guerra (continenter
bellum gerunt…fere cotidianis proeliis) che vi era tra le tribù della Gallia, costrette
a difendersi dai Germani. Nel territorio dei Sequani si erano stanziate, come dirà
dopo, le tribù germaniche comandate da Ariovisto. È appunto questo stato di
guerra a determinare la loro debolezza e a permettere a Cesare la conquista.
Si consideri la forma geometrica della prosa che ci aiuta a schematizzare il testo:
Gallia est divisa
in tres partes
Belgae
Aquitani
Celtae Galli
lingua
institutis
legibus
Garumna
Matrona
Sequana
Rhodano
Garumna
Oceano
Belgae oriuntur
pertinent
spectant
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
Estratto della pubblicazione
15
• Cesare
Questa pagina è solo l’inizio della narrazione della conquista gallica, per cui il suo
linguaggio è di tipo denotativo, eppure è tale l’ordine e la chiarezza che la caratterizzano da far emergere in essa la lucidità e la fredda lungimiranza del suo autore.
T2
De bello Gallico V, 55, 2-4; 56, 1-2: L’ultimo arrivato
Al ritorno dalla spedizione in Britannia, Cesare trova la rivolta gallica organizzata da Induziomaro,
capo dei Treviri. Qui Induziomaro, dopo aver cercato di attirare dalla sua parte le popolazioni
germaniche, indíce un «consiglio armato» che dà inizio alle ostilità contro i Romani.
[55, 2] Hac spe lapsus Indutiomarus nihilo minus copias cogere, [3] exercere, a finitimis
equos parare, exules damnatosque tota Gallia magnis praemiis ad se allicere coepit. [4]
Ac tantam sibi iam his rebus in Gallia auctoritatem comparaverat ut undique ad eum
legationes concurrerent, gratiam atque amicitiam publice privatimque peterent.
[56, 1] Ubi intellexit ultro ad se veniri, altera ex parte Senones Carnutesque conscientia
facinoris instigari, altera Nervios Aduatucosque bellum Romanis parare, neque sibi
voluntariorum copias defore, si ex finibus suis progredi coepisset, armatum concilium
indicit. Hoc more Gallorum est initium belli. [2] Quo lege communi omnes puberes
armati convenire coguntur; qui ex iis novissimus convenit, in conspectu multitudinis
omnibus cruciatibus affectus necatur.
55, 2-3. Hac spe…coepit: «Deluso da
tale speranza, Induziomaro comunque
cominciò a raccogliere le truppe, ad esercitarle, a procurarsi cavalli dalle popolazioni confinanti, ad attirare a sé con la
prospettiva di grandi ricompense tutti i
banditi e i pregiudicati della Gallia».
Hac spe: si riferisce alla «speranza» di convincere tutte le popolazioni della Germania
ad oltrepassare il Reno per combattere
contro i Romani; nihilo minus: «comunque»; coepit: in clausola, regge i quattro
infiniti cogere, parare exercere, allicere;
magnis praemiis: ablativo di mezzo.
Si noti l’accumulazione delle azioni di
Induziomaro, attraverso la climax degli
enunciati, creata a grappolo o a piramide:
coepit
↓
copias cogere exercere
(acc. + 2 infiniti)
↓
a finitimis equos parare
(ablat. + acc. + infinito)
↓
exules damnatosque tota Gallia
magnis praemiis allicere
(2 acc. + ablat. con agg. + ablat.
con agg. + acc. con ad + infinito)
4. Ac tantam…peterent: «E con queste
iniziative ormai si era procurato una
16
autorità così grande che da ogni parte
accorrevano a lui ambascerie, per chiedere a titolo pubblico e privato amicizia
e alleanza».
His rebus: ablativo di mezzo, si riferisce
alle azioni indicate dai verbi precedenti;
sibi: dativo di vantaggio, concordato con
comparaverat; ut…concurrerent…peterent: consecutiva; undique: «da ogni
parte». Notare l’eleganza della concinnitas creata dal ritmo binario:
gratiam atque amicitiam
publice privatimque
56, 1. Ubi intellexit…initium belli: «Appena capì che spontaneamente andavano da lui, che, da una parte i Senoni e i
Carnuti erano spinti dalla stessa consapevolezza della scellerata circostanza,
dall’altra Nervi e Aduatici preparavano la
guerra contro i Romani, e che non gli
sarebbero venute meno truppe di volontari, se avesse iniziato a spingersi oltre i
suoi confini, indisse un consiglio armato.
Con questa consuetudine i Galli danno
inizio alla guerra».
Ubi intellexit…indicit: i due verbi aprono
e chiudono abilmente tutte le ragioni
per cui Induziomaro decide di attaccare
i Romani; indicit: presente storico; ultro:
«spontaneamente»; altera ex parte…altera: sono in correlazione, da una parte e
dall’altra; Senones, Carnutes: popolazio-
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
Estratto della pubblicazione
ni della Gallia, i Carnutes abitavano la
parte centrale con capitale, l’attuale
Orléans; Nervios: era la popolazione più
forte e bellicosa della Gallia che occupava la zona corrispondente circa all’attuale Belgio; Romanis: dativo di svantaggio; facinoris: vox media (dalla stessa radice di facio), prende, perciò, significato dal contesto; defore: infinito futuro di desum-est, «mancare», regge il
dativo sibi; si progredi coepisset: protasi del periodo ipotetico la cui apodosi è
defore copias; armatum concilium: nel
linguaggio tecnico militare è un’adunata in cui si fa obbligo di presentarsi
armati, per cui si comprende che prelude alla guerra, come si dirà dopo. Hoc
more: si riferisce al concilium armatum;
more: ablativo di modo, da mos (=
«consuetudine»).
2. Quo lege…necatur: «Qui, per legge
generale, tutti i giovani sono obbligati a
intervenire in armi; chi tra loro arriva
per ultimo, al cospetto della folla, tormentato con ogni tortura, è ucciso».
Quo: avverbio di moto a luogo, «qui»; ex
iis: partitivo; novissimus: «ultimo»; multitudinis: si riferisce ai soldati presenti;
affectus: participio congiunto da afficio,
«tormentato»; cruciatibus: complemento
di mezzo; necatur: rilevato dalla collocazione in clausola.
• Cesare
Analisi
testuale
T2
De bello Gallico V, 55, 2-4; 56,1-2: L’ultimo arrivato
Su questo episodio del De bello Gallico proponiamo la sottile analisi di Giovanni
Cipriani1. Lo studioso, attraverso un approfondito esame delle strutture semiotiche
del brano, ne coglie l’importante significato antropologico, legato al rito propiziatorio dell’uccisione dell’«ultimo arrivato», come capro espiatorio che assicura il successo dell’impresa bellica. Cesare utilizza abilmente questo rito gallico per far cogliere,
indirettamente, tra le righe, al lettore romano, le usanze barbariche di questo
popolo, in modo che, quando Induziomaro sarà ucciso, la sua morte apparirà come
la giusta vendetta del “civilissimo” generale Cesare sul nemico violento e incivile.
«Nell’assolvere il compito di far giungere al proprio destinatario notizie degli
avvenimenti vissuti personalmente in Gallia, Cesare, per quel che concerne il
passo che ci interessa, fonde, senza che si avverta alcuna discrasia, due tipologie
diverse eppure complementari di enunciazione, quella dello storico-memorialista
e quella dello storico-etnologo. […]
L’opzione narrativa esercitata, nel suo distinguersi da una prassi che Cesare segue
altrove nell’ambito dei Commentarii, allorché si fa portavoce autorevole ed
esplicito di quanto desume da informatori occasionali, mira a ‘indirizzare la
vettorialità’ del messaggio lungo un solco che non ammette alternativa di fronte
allo sforzo che il lettore fa di “capessere” quanto gli viene comunicato. La più alta
aspirazione del narratore, in questo caso, è che il referente parli da sé, che il
lettore insomma si lasci incantare da questa “pseudo-castità” della storia, nell’ambito della quale Cesare si guarda bene, più che altrove, dal fare ostentatamente
la parte del ‘protagonista’; non a caso per l’occasione si spoglia di quei “sintagmi
del capo” fra i quali rientrano quelli del ‘pensare’, dello ‘scoprire’, del ‘venire a
sapere’. Basterà che il lettore percepisca solo l’«effetto di realtà», che si renda
conto che “è accaduto”, perché rimanga investito dalla più concentrata dose di
significato che quell’informante, sotto l’apparente veste di dettaglio superfluo, è
in grado di trasmettere.
In verità il successo di tutta questa tecnica è affidato soprattutto a quei segni
dichiarati che Barthes denomina “organizzatori” del discorso e che sono quelli
che conferiscono movimento e direzione all’enunciato costringendolo a fermarsi,
a ripartire o a ripiegarsi su se stesso. In questo caso, a guardare bene, il flusso
della narrazione subisce improvvisamente un arresto in coincidenza con la notifica della delibera di una chiamata generale alle armi; ad indirla è Induziomaro,
che ha proceduto appunto alla convocazione dopo che si è reso conto che il suo
progetto raccoglieva consensi spontanei e collimava con le ansie rivoluzionarie
dei Senoni e dei Carnuti, oltre che con le concrete intenzioni dei Nervi e degli
Aduatici (ubi intellexit ultro ad se veniri, altera ex parte Senones Carnutesque
conscientia facinoris instigari, altera Nervios Atuatucosque bellum Romanis parare, neque sibi voluntariorum copias defore si ex finibus suis progredi coepisset,
armatum concilium indicit). Dopo lo strappo, destinato ad un resoconto di puro
stampo etnologico (hoc more Gallorum est initium belli. Quo lege communi
omnes puberes armati convenire coguntur; qui ex iis novissimus convenit, in
1
Cipriani G., L’“ultimo arrivato” e la poetica di un’esecuzione. A proposito di un rito gallico in Cesare, in
«Aufidus», n. 9, 1989.
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
17
• Cesare
conspectu multitudinis omnibus cruciatibus adfectus necatur), la narrazione
riprende come se non fosse successo nulla […].
Non è certo la prima volta che il lettore dei Commentarii coglie, attraverso le
osservazioni affacciate da Cesare, il malcontento che serpeggia fra le popolazioni
galliche per l’insostenibile situazione creata dalla umiliante e invadente presenza
dei Romani, ma è anche vero che, nel frangente, la sua resistenza al senso è
formidabilmente sollecitata dall’immagine che gli viene proposta di un’adunata in
cui è fatto obbligo di presentarsi armati (armatum concilium indicit). Va da sé
che questo non insignificante “dettaglio” dovrà concorrere, pur nella sua asettica
enunciazione, a far germinare nella coscienza di qualsiasi civis Romanus un moto
di repulsione per una prassi così ‘barbara’ e così pregna di minacciose allusioni.
[…] Si deve convenire che, nel vasto campionario di progetti di rivolta, più o
meno abortiti, architettati dai Galli, quello su cui ci stiamo soffermando si avvale
indubbiamente, nonostante le linee portanti sembrino effettivamente riprodurre
un modello già visto, di un’espansione comunicativa che ne esaspera la ‘Spannung’, prima di trasferirla a livello immaginativo nella ricerca di una chiave di
lettura di quel macabro rito, ricerca destinata ad essere molto laboriosa, se si
considera l’economia assolutamente parca dell’informazione di cui Cesare beneficia il suo destinatario. […]
Conviene innanzitutto partire […] dal riconoscimento, nella dinamica che governa
l’esecuzione del novissimus, di una pratica rituale non dissimile, dal punto di vista
strutturale e funzionale, da quelle che già nell’ampia digressione etnografica sugli
usi e costumi dei Galli Cesare aveva segnalato come di prammatica in circostanze
legate allo svolgimento di un conflitto armato […]. L’aspetto singolare, entrando
nello specifico, è innanzitutto quello costituito dal peculiare criterio di selezione
adottato per individuare la vittima sacrificale, e, secondariamente, dallo “splendore del supplizio” nel quale si svolge la liturgia del sacrificio, per non parlare delle
valenze simboliche o più semplicemente catartiche che una siffatta espiazione
comportava nei confronti degli astanti. […] In questa direzione, va detto con
chiarezza, la pista era stata aperta – che io sappia – del solo Rice-Holmes, che
nel suo magistrale commento aveva affacciato l’ipotesi che l’ultimo arrivato fosse
considerato e trattato come un individuo “maledetto” e aveva rinviato il lettore
al luogo succitato in cui è fatto cenno dei riti sanguinari dei Galli.
L’initium belli, insomma, viene, all’interno del racconto cesariano, marcatamente
sottolineato, in prima istanza, nella sua dimensione simbolica di “rito di passaggio”, inteso come trasferimento di un popolo da uno stato di non belligeranza
a quello di dichiarata ostilità, con tutto il correlato corredo di pratiche rituali che
sanciscono questo abbandono della propria patria e il conseguente ‘varco della
frontiera’ che immette nella zona ‘sacra’ dove avverrà lo scontro armato. Perfettamente solidale a questa interpretazione del momento di ‘crisi’ che la popolazione avverte è il ricorso, in seconda istanza, a un rito iniziatico che veda agire
da giustificati ‘protagonisti’ gli appartenenti a una ben individuata classe d’età,
quella dei puberes, che si misurano in un agone che evidentemente ha tutte le
caratteristiche di una prova iniziatica ‘qualificante’ in vista della prova ‘difficile’
costituita dall’imminente cimento con il nemico. In terza istanza, sarà l’esito di
questa prova a ‘consacrare’, secondo una liturgia che toccherà toni esasperati ed
enfatizzerà il valore intrinseco all’istituzione di un tale certamen, quello che
potremmo definire con buona dose di approssimazione ‘il capro espiatorio’, dal
18
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
Estratto della pubblicazione
• Cesare
cui sacrificio ci si attende una conclusione positiva del conflitto. […] È evidente
che con la chiamata a raccolta dei giovani guerrieri si produce un vero e proprio
rito di separazione dei convocati dalle loro terre d’origine (zona profana) prima
che sia celebrato nel luogo deputato a far da centro di raccolta (zona sacra) un
rito di aggregazione (omnes puberes convenire coguntur) dal forte potere di
coesione, indispensabile per una risposta decisa e concorde alle provocazioni
dell’avversario. Giustamente Van Gennep richiamava l’attenzione sulla zona di
margine come quella dove più si concentra l’azione magico-religiosa: in questa
zona neutra prende corpo come sappiamo il processo di selezione che sfocia
nella macabra esecuzione. […] Ma quel che è sorprendente è che sia attiva nel
passo cesariano una “retorica del posto” quanto mai contratta nella sua espansione formale e pure così incisiva grazie alla radicale e pure paradossale esclusione
dell’unica posizione che, in una prospettiva chiaramente ottimale, alla pletora del
significante associa, per convenzione, la pletora del significato, cioè la posizione
del primo arrivato. Si sa bene che, all’interno di un catalogo militare di guerrieri
che si presentano al solenne appuntamento, l’essere ricordato come primus è, per
metonimia, equivalente a essere menzionato come chi detiene la più alta concentrazione di virtus, in altre parole come eroe. Se il primo arrivato si segnala per
eccesso di coraggio, va da sé che l’ultimo, in ragione di una struttura contrastiva
elementare si attesta sul ‘grado zero’ di tale ostentazione di valore. […]
Nella pratica ‘irrazionale’ dei Galli, il novissimus si configura come il mediatore
di questo processo in virtù del quale «la situazione ‘comunità in pericolo’ versus
‘individuo particolare’ si muta in ‘individuo condannato’ versus ‘comunità salva’».
Preliminarmente, rispetto a questa operazione di ‘transfert’, c’è stata la fase di
aggregazione/contatto e di separazione/espulsione per stabilire, come dice Burkert, «l’opposizione polare: gli attivi e salvi da una parte, la vittima passiva
dall’altra». L’individuazione di quest’ultima coincide con i soliti meccanismi che
offrono materia perché si scateni, nei ciclici momenti di ‘crisi’ di una popolazione,
l’aggressività nei confronti del ‘diverso’ o, come più probabile nel nostro caso, del
‘sacrilego’, inteso nella sua più ampia accezione. Questo individuo, intriso di
‘impurità’ e assimilabile per la sua temibile carica numinosa al nemico portatore
di minacce e di distruzione, permette, secondo una tipologia di riti ben individuata da Lévy-Bruhl, di neutralizzare e di eliminare le prevedibili conseguenze
deleterie derivanti dall’imminente evento conflittuale. La logica è di ‘invertire’ il
senso di orientamento di quelle conseguenze, prefigurando, con un procedimento
omeopatico, la qualità del nemico da affrontare e anticipando e volgendo a
proprio vantaggio l’esito del mortale scontro. […]
D’altronde la stessa modalità dell’esecuzione, che […] si articola lungo una
calcolata provocazione di sofferenze prima di giungere alla definitiva soppressione dell’individuo, è proposta al lettore attraverso una espressione formulare
(omnibus cruciatibus adfectus necatur) che ha, direi, per immediato e obbligato
referente, un hostis. A parte le suggestioni promosse dalla presenza della voce
verbale necare che di fatto associa l’atto stesso dell’uccisione alla volontà di
procurare la più ‘completa delle morti’, è soprattutto il nesso con le sevizie
(cruciatus) a orientare in tal senso. […]
C’è dunque un funzionamento politico a cui l’accuratezza e l’ostentazione del
cerimoniale sono subordinati e tale funzionamento mira, come nel nostro caso,
a riattivare il prestigio offeso secondo una logica che prevede l’annientamento del
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
Estratto della pubblicazione
19
• Cesare
corpo della vittima e la sua distruzione sotto la repressione di un potere che deve
sembrare infinitamente sproporzionato rispetto all’attacco subito. Perché sia evidente la dissimetria di forze fra le due parti in causa, il corpo del giustiziato dovrà
recare visibili le tracce della lotta che c’è stata e della vittoria trionfale che ha
arriso allo schieramento dei carnefici: la morte che ne consegue sarà solo
l’epilogo di questa atroce rappresentazione, l’effetto soddisfacente dei feroci
attacchi portati all’identità della vittima. C’è da ritenere che la macabra ‘performance’, a livello superficiale, abbia contribuito non poco a dare materia a forme
di pregiudizio in merito agli usi e costumi dei Galli, tanto più che Cesare, come
ben nota la Opelt, è ben accorto a impiegare la voce verbale necare quasi
esclusivamente per connotare lo stato d’animo e le modalità pratiche con cui i
barbari procedono alle loro esecuzioni penali; né è superfluo aggiungere che tale
esclusivo uso è determinato dalla ‘nuance’ semantica della voce verbale, opportunamente sfruttata per sottolineare la completa impotenza della vittima di fronte
alla volontà di annullamento e di cancellazione che guida la mano del boia.
E se alla fine della macabra cerimonia la moltitudine dei Galli, partecipe a pieno
titolo del clima di odio che l’assassinio del novissimus aveva scatenato e in un
certo qual modo già imbrattata di sangue, si apprestava a partire per replicare
all’infinito quella esecuzione, il lettore romano, nel contingente episodio propostogli da Cesare, non avrebbe tardato a compiacersi di vedere rovesciato su quegli
stessi carnefici un identico processo di annientamento e di distruzione: quale altro
significato, al di là di quello assolutamente superficiale di pura conferma di
un’esecuzione regolarmente compiuta, poteva esprimere, di lì a poco, l’esibizione,
davanti agli occhi di Labieno e compagni (B.G. 5, 58, 6), della testa mozzata ad
Induziomaro, cui veniva sottratta così la possibilità di potersi vantare di una ‘bella
morte’?».
T3
De bello Gallico VII, 77, 12-16: Il cannibalismo nel discorso del
barbaro Critognato
Gli assediati di Alesia, stremati dalla mancanza di viveri, decidono sul da farsi. Due sembrano le
possibilità: o arrendersi o tentare una sortita. Ma il capo Critognato propone di imitare gli antenati
che in un’analoga situazione riuscirono a resistere mangiandosi i compagni più deboli. Nel brano
che segue Critognato, dopo aver parlato ai suoi uomini di quanto sia disonorevole una resa al
nemico, avanza la proposta di cannibalismo.
[12] «[…] Quid ergo mei consili est? Facere, quod nostri maiores nequaquam pari bello
Cimbrorum Teutonumque fecerunt; qui in oppida compulsi ac simili inopia subacti eorum
corporibus qui aetate ad bellum inutiles videbantur vitam toleraverunt neque se hostibus
12. Quid ergo mei consili…fecerunt:
«Qual è dunque la mia proposta? Quella
di fare ciò che fecero i nostri antenati
nella guerra dei Cimbri e dei Teutoni, per
nulla simile a questa».
Consili: genitivo partitivo dipendente da
quid; facere: sottintende consilium est;
nequaquam: avverbio, «per nulla»;
Cimbrorum Teutonumque: i Cimbri e i
20
Teutoni devastarono a lungo la Gallia
finché Mario, il console romano, sconfisse ad Aquae Sextiae i Teutoni nel 102 e
a Campi Raudii i Cimbri nel 101; facere…fecerunt: il poliptoto crea attesa e
rinforza la proposta che verrà.
qui in oppida…tradiderunt: «essi, chiusi
nelle città e sottoposti alle stesse privazioni, con i corpi di coloro che sembra-
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
vano inutili per la guerra a causa della
loro età, si tennero in vita e non si arresero ai nemici».
Qui: sta per et ii, «ed essi»; compulsi: da
compello, cum+pello, «spinti insieme»,
«chiusi»; in oppida: complemento di moto
a luogo; oppida sono in modo specifico
le mura fortificate intorno alla città e
per metonimia «la città»; subacti: da
• Cesare
tradiderunt. [13] Cuius rei si exemplum non haberemus, tamen libertatis causa institui et
posteris prodi pulcherrimum iudicarem. [14] Nam quid illi simile bello fuit? Depopulata Gallia
Cimbri magnaque illata calamitate finibus quidem nostris aliquando excesserunt atque alias
terras petierunt; iura, leges, agros, libertatem nobis reliquerunt. [15] Romani vero quid petunt
aliud aut quid volunt, nisi invidia adducti, quos fama nobiles potentesque bello cognoverunt,
horum in agris civitatibusque considere atque his aeternam iniungere servitutem? Neque enim
ulla alia condicione bella gesserunt. [16] Quod si ea quae in longinquis nationibus geruntur
ignoratis, respicite finitimam Galliam, quae in provinciam redacta iure et legibus commutatis
securibus subiecta perpetua premitur servitute».
subigo, sub+ago, «sottomessi»; inopia:
ablativo di causa, da in+ops, «senza risorse», «mancanza», da cui in italiano
inopia che significa «povertà»; corporibus: ablativo di mezzo separato con significativo iperbato dal verbo toleraverunt, per creare suspense; tolerare vitam:
la formula significa «sostenere la vita»,
«sopravvivere»; inutiles ad bellum: «inutili per la guerra» specifica dopo, a causa
dell’età; aetate: complemento di causa,
perciò o troppo vecchi o troppo piccoli;
hostibus: dativo retto da tradiderunt.
13. Cuius rei si exemplum…iudicarem:
«E se di questo comportamento non avessimo già un esempio, riterrei bellissimo
istituirlo e tramandarlo, comunque, in
nome della libertà, ai posteri».
Si non haberemus…iudicarem: periodo
ipotetico della irrealtà perché esiste, invece, un precedente exemplum; libertatis causa: complemento di causa; posteris: dativo di vantaggio; prodi, institui:
infiniti passivi di prodere e instituere. Il
nesso allitterato molto sonoro lega i lessemi: posteris prodi pulcherrimum, dando rilievo all’espressione.
14. Nam quid…reliquerunt: «Infatti in che
cosa quella guerra fu simile a questa? Dopo
aver devastato la Gallia e aver fatto immensi danni, i Cimbri pure uscirono dalle
nostre frontiere e cercarono altre terre: istituzioni, leggi, terre, libertà, ci lasciarono».
Illi bello: si riferisce alla guerra contro i
Cimbri e i Teutoni che ha citato prima;
quid simile: letteralmente «che cosa di
uguale»; depopulata Gallia: ha valore
temporale e il participio depopulata è
usato come participio congiunto, del
verbo deponente depopulor, ovvero «spopolare», «devastare»; illata calamitate:
ablativo assoluto; illata: da infero,
in+fero, cioè «portare dentro»; excesse-
runt: da ex+cedo, «ritirarsi da», regge
l’ablativo finibus; aliquando: «una buona
volta»; petierunt: regge l’accusativo plurale terras; iura → leges → agros →
libertatem: l’asindeto crea un potente
effetto retorico di accumulazione, in climax: prima le istituzioni (iura), poi le leggi (leges), poi le terre (agros), infine la
libertà (libertatem) che comprende tutto.
15. Romani…gesserunt: «I Romani, invece, che cosa altro chiedono o che cos’altro vogliono, se non, spinti dall’invidia, di insediarsi nelle terre e nelle città
di coloro che essi hanno saputo per fama
essere nobili e potenti in guerra e soggiogarli in una servitù eterna? Né, infatti, con nessun altro scopo hanno condotto la guerra».
Vero: avversativa per indicare che rispetto ai Cimbri i Romani sono più pericolosi
e invincibili; infatti parla dopo di servitù
«eterna»; quid petunt aut quid volunt:
interrogative da cui dipendono le oggettive seguenti; adducti: concordato con
Romani, participio passato di adduco,
ad+duco, «trascinare»; invidia: ablativo
di causa; quos…cognoverunt: relativa
prolettica rispetto al genitivo horum,
«quelli che…di costoro»; nobiles, potentes: accusativi plurale; bello, fama: ablativi di limitazione.
Notare il chiasmo, che fa rilevare le ragioni dell’invidia: la superiorità etnica e
militare:
fama
nobiles
potentes
bello
In agris civitatibusque: il binomio indica
tutto il territorio, «campagna e città»;
considere: da cumsido, cum+sedeo, «insediarsi insieme»; aeternam: separato per
iperbato da servitutem esprime il prolun-
garsi nel tempo del potere romano; iniungere: da in+iungo, «congiungere insieme»,
proprio dei buoi sottomessi al giogo, iungo ha la stessa radice di iugum.
16. Quod si…servitute: «E se non sapete
quello che avviene negli Stati più lontani, guardate la Gallia vicina, che, trasformata in provincia, mutate istituzioni e
leggi, assoggettata alle scuri, è oppressa
da una eterna servitù».
Quod si: connettivo consueto in Cesare,
significa «e se»; longinquis: «lontane»; quae
geruntur: indica le cose che sono fatte,
«quel che avviene»; si ignoratis,…respicite:
periodo ipotetico della realtà; respicite:
imperativo di respicio, il prefisso re- indica il voltarsi indietro, qui per considerare
ciò che è avvenuto già; finitimam: «confinante», «vicina», la Gallia, infatti, divenuta provincia romana era confinante con
la terra di Critognato; redacta: ancora il
prefisso re-; iure et legibus commutatis:
ablativo assoluto; securibus: dativo dipendente da subiecta, indica «le scuri» con i
fasci che erano l’emblema del potere romano e venivano portate dai littori dinanzi ai magistrati superiori e ai consoli,
in quanto rappresentavano la terra d’origine, la campagna; subiecta: da subicio,
sub+iacio, è semanticamente correlato con
iniungere precedente; perpetua: in iperbato, concordato con servitute, è in relazione semantica col precedente enunciato
e in identico tricolon:
aeternam iniungere servitutem (3)
perpetua premitur servitute
(3)
Notare come in entrambi gli enunciati è
il lessema servitus a essere rilevato, perché efficacemente collocato in clausola.
Anche il tessuto fonico, intrecciando i
fonemi s, p, b, contribuisce a creare sonori effetti di enfasi: securibus subiecta
perpetua premitur servitute.
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
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• Cesare
Analisi
testuale
T3
De bello Gallico VII; 77, 12-16: Il cannibalismo nel discorso del barbaro Critognato
Proponiamo per questo testo il commento di Luca Canali1, in cui lo studioso
analizza il rapporto tra l’imperialismo romano e la resistenza dei Galli, ponendo
in luce la struttura complessa ed elegante del discorso di Critognato.
Si consideri, inoltre, come, anche per questo episodio, sia valida la lettura antropologica di Giovanni Cipriani del testo precedente (p. 17), che fa rilevare la sottile
abilità di Cesare di presentare il nemico come un barbaro – in tal caso è la
terribile proposta di cannibalismo a mostrarlo – per far apparire la conquista
romana come il trionfo della civiltà sull’inciviltà.
«L’imperialismo romano è smascherato in tutta la sua brutalità: “Ma i Romani, gelosi
di tutti coloro di cui conoscono la nobile fama e la potenza guerriera, che altro
chiedono o vogliono, se non stabilirsi nelle loro campagne e nelle loro città od
infliggere loro un eterno servaggio? Nessuna guerra con altro scopo fecero mai”.
Ma nello stesso tempo il discorso non è privo di astuzie: la rappresentazione degli
alleati che, se gli assediati non avranno la forza di resistere, sopraggiungendo
saranno costretti a combattere senza speranza sui corpi di ottantamila consanguinei uccisi, è un’efficace mozione degli affetti oltre che un valido strumento di
pressione sull’istinto di conservazione dei combattenti. I grandi febbrili lavori di
assedio compiuti dai Romani sono abilmente presentati come un segno della loro
preoccupazione e un indizio che gli eserciti alleati stanno arrivando.
La struttura è articolata e armoniosa, sottesa da un proposito di efficacia psicologica e insieme di logica stringata. Da questo punto di vista l’intero discorso si
può dividere in due parti: la prima (3-7) costituita da brevi periodi nei quali si
pongono i problemi dell’alternativa di cui è anticipata la soluzione dell’ipoteca di
concetti morali o etico-politici perentori; la seconda (8-16) basata su un intarsio
di interrogazioni retoriche seguite non già dalla risposta, che è sottintesa in
precedenza, ma dalla esortazione a compiere ciò che la ovvia risposta categoricamente impone. E per di più con una rispondenza quasi perfetta di membri: un
periodo interrogativo seguito da un periodo imperativo (8-9); tre brevi interrogazioni seguite da un lungo periodo imperativo (10-11); quindi lo schema è variato:
un’interrogazione breve, seguita da una risposta-esplicazione lunga (12-13); la
variazione si riproduce: un’interrogazione breve, una risposta-esplicazione relativamente lunga (14); e infine, alla conclusione (15-16), una nuova variazione che
riporta all’inizio della seconda parte: un periodo interrogativo seguito da un
periodo imperativo, ma separati da una battuta lapidaria intermedia (neque enim
ulla alia condicione bella gesserunt), e per di più con il fatto nuovo che il
periodo interrogativo non inizia una nuova serie logica, come le precedenti
interrogazioni, ma costituisce una seconda risposta-esplicazione alla domanda e
dopo la prima risposta del paragrafo 13: stabilendo in tal modo un legame più
stretto tra la penultima e l’ultima coppia di periodi, e dando in tal modo un giro
e un respiro più ampi alla conclusione del discorso senza rinunciare tuttavia
all’asciuttezza e relativa brevità delle frasi. […]
Il quadro che ne risulta è preciso e perentorio, secondo lo stile di Cesare: se ci
si lascia catturare dalla sua logica interna le soluzioni non possono essere che
quelle presentate come inevitabili e ovvie dall’oratore; e ciò, pur nella straordi1
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Canali L., Giulio Cesare, Editori Riuniti, Roma 1985.
La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
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• Cesare
naria lucidità intellettuale dell’espressione, non per artifizio o sofismi, ma per
forza di contenuta passione.
Come si vede, il passaggio dall’eloquenza di Critognato a quella di Cesare è stato
insensibile e inevitabile. Perché nessuno può dubitare che il discorso di Critognato è anche uno dei rari documenti dell’oratoria di Cesare. Cesare ha prestato
dunque la sua voce e il suo stile al più spietato dei suoi nemici, gli ha messo
sulle labbra accenti di efferatezza ma anche di nobiltà e di inflessibile coraggio,
gli ha fatto pronunciare (come aveva già fatto anche con Ariovisto) una dura
requisitoria contro l’imperialismo romano».
Incontro tra autori
Giovenale e Cesare: I cannibali
L’oratoria di Cesare e la satira di Giovenale si incontrano sul tema del cannibalismo.
Satira XV, 75-92
Giovenale racconta un curioso episodio di cannibalismo di cui dichiara di essere stato testimone in Egitto.
Non si tratta più di un racconto mitico come quello di Ulisse e dei Lestrigoni e di Polifemo, ma di un fatto
reale che dimostra come gli uomini siano peggiori delle bestie che non si divorano tra di loro.
Metro: esametro
Terga fugae celeri praestant instantibus Ombis
qui vicina colunt umbrosae Tentura palmae.
Labitur hic quidam nimia formidine cursum
praecipitans capiturque. Ast illum in plurima sectum
frusta et particulas, ut multis mortuus unus
sufficeret, totum corrosis ossibus edit
victrix turba, nec ardenti decoxit aeno
aut veribus, longum usque adeo tardumque putavit
expectare focos, contenta cadavere crudo.
Hic gaudere libet quod non violaverit ignem,
quem summa caeli raptum de parte Prometheus
donavit terris; elemento gratulor, et te
exultare reor. Sed qui mordere cadaver
sustinuit nil umquam hac carne libentius edit;
nam scelere in tanto ne quaeras et dubites an
prima voluptatem gula senserit, ultimus ante,
qui stetit, absumpto iam toto corpore, ductis
per terram digitis, aliquid de sanguine gustat.
75
80
85
90
Traduzione
75. Sotto l’incalzare degli Ombiti si danno alla fuga precipitosa/ gli abitanti della vicina Tentira ombrosa
di palme./ A questo punto uno (di loro) cade a terra per la paura e la corsa precipitosa/ e viene catturato.
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• Cesare
Ma quello viene tagliato in molti pezzetti piccoli piccoli,/ in modo che un solo morto possa bastare per
molti/ 80. e la massa dei vincitori se lo mangia rosicchiando le ossa,/ senza cuocerlo bene in una pentola
bollente di rame/ o sullo spiedo a tal punto ritenne troppo lento e lungo/ aspettare che il fuoco (fosse
pronto), contenta del cadavere crudo.
A questo punto ci si può rallegrare/ 85. che non abbiano violato il fuoco che Prometeo/ donò alla terra
rubandolo dalla parte più alta del cielo; mi congratulo con te/ e suppongo che anche tu sia contento, o
(sacro) elemento. Ma chi ha avuto il coraggio di mordere un cadavere,/ mai nulla con più piacere di questa
carne mangerà;/ infatti in tanta scelleratezza non devi chiedermi o dubitare/ 90. se furono i primi a provarne
il gusto; l’ultimo/ che si presentò (lì) davanti, quando tutto il corpo era stato ormai divorato,/ strisciando
le dita per terra si lecca un poco di sangue.
Analisi
testuale
Giovenale:
Satira XV, 75-92
Il brano è veramente di notevole interesse per due motivi:
• innanzi tutto tocca un tema inquietante, il cannibalismo, sul quale la letteratura
di solito non si è mai soffermata e che, invece, è stato oggetto di numerosi
studi antropologici;
• in secondo luogo presenta un duplice livello narrativo – e, quindi, un duplice
messaggio – che ora esamineremo, perché il lettore può cogliere qualcosa di
diverso da quello che l’autore dichiara esplicitamente.
Il cannibalismo qui descritto è stato consumato in una zona dell’Africa, da tribù
locali dell’Egitto che appaiono a Giovenale, intellettuale romano, colto e sprezzante delle etnie diverse, una prova di barbarie. Non è tanto l’episodio in sé che
gli interessa, quanto la giustificazione che esso costituisce della sua sacrosanta
intolleranza verso lo “straniero”, sia questo il greco, l’ebreo o l’egiziano. Anche
i particolari che accompagnano la scena servono a rimarcarne l’orrore: il nemico
che scivola a terra per il panico, durante la fuga, tutti che si buttano sul cadavere,
il frettoloso consumo del cibo crudo per l’impazienza di non attendere la cottura,
con le ossa masticate fino alla fine, il sangue leccato da terra. La macabra
descrizione è seguita (nelle parti del testo non riportate) dalla considerazione che
altre volte episodi del genere si sono verificati per la fame. Qui invece non c’è
altro che la gula a spiegare il gesto.
E viene subito in mente la tecnofagia (il mangiare i figli) che l’ambiguità stessa dei
versi danteschi suggerisce nel canto XXXIII dell’Inferno: il Conte Ugolino, murato vivo,
muore di fame, dopo aver visto «cadere ad uno ad uno» i due figli e i due nipoti che
erano con lui. «Poscia più che il dolor potè il digiuno» conclude Dante. Che significa
questo verso? Il digiuno è stato più forte del rispetto verso i corpi dei figli? Uno di
loro gli aveva offerto le proprie carni da vivo: «Assai ci fia men doglia/se tu mangi
di noi; tu ne vestisti/queste carni, e tu le spoglia». E Ugolino viene fissato nell’eternità
dell’orrore infernale in un gesto di bestiale violenza: rode il teschio del suo nemico
politico, l’arcivescovo Ruggieri, si pulisce la bocca sporca di capelli, quando deve
parlare a Dante. È un gesto che perpetua in modo plastico, fermandolo per sempre,
quello stesso gesto di cannibalismo consumato nel buio della torre maledetta? Non lo
sapremo mai, ma qui il cannibalismo diventa la prova della degenerazione estrema
a cui può indurre l’odio, nell’inferno del male e nell’abisso senza Dio.
Niente di tutto questo in Giovenale, ma neppure la comprensione di un’usanza
altrui, quale l’antropologia ci ha insegnato, dalla fine dell’Ottocento e per tutto il
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La storiografia tra creazione poetica e testimonianza storica
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