I CINQUE SENSI (Ovvero la percezione del loro risveglio

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I CINQUE SENSI (Ovvero la percezione del loro risveglio
I CINQUE SENSI
(Ovvero la percezione del loro risveglio…)
Ciao Dulcinea, questo pensiero è dedicato a te, al tuo ritorno, e la futuro roseo che voglio sperare ci
sarà… Non so perché questo articolo mi sia “uscito” così, ma giacché l’ho fatto, te lo dedico…
Nei Sonetti di Shakespeare compare una suggestiva similitudine che ha come protagonista l’olfatto,
ma che maschera due altri personaggi: il tempo e l’eternità.
I fiori estivi perdono ben presto la fragranza e la bellezza. Eppure, se li sottoponiamo a un processo
di distillazione, il profumo che si ottiene, una volta racchiuso e sigillato in un flacone, ne conserva
per sempre l’odore: “Se non restasse l’essenza dell’estate, liquida prigioniera chiusa in muri di
vetro, l’effetto della bellezza sarebbe tolto con la bellezza, sparita quella, e insieme il suo ricordo.
Ma i fiori distillati, anche se incontrano l’inverno,non perdono che l’apparenza; la sostanza ne
vive ancora dolce” (Sonetto 5, traduzione di Alessandro Serpieri). E nel sonetto successivo:
“Non lasciare dunque alla ruvida mano dell’inverno deturpare in te la tua estate, prima che ti sia
distillata: profuma un’ampolla, intesola un qualche luogo col tesoro della bellezza prima che essa
si uccida”.
Leggendo questo sonetto ho pensato ad una similitudine.
Anche il tempo, come la fragranza dei fiori, è destinato ad auto distruggersi e a morire.
Permane soltanto l’eternità, che, estraendone l’essenza, arresta il tempo della vita umana nella fiale
delle idee, intensificando e rendendo immortali le fugaci sensazioni.
Secondo il ricorrente canone neoplatonico, la salda realtà delle forme sfida così il divenire e rende
durevole la caducità della bellezza, salvata e custodita dalla poesia in una teca di parole.
Belle immagini, si dirà, incapaci però di spiegare in quale maniera il mondo dei sensi possa essere
realmente compreso.
Esistono idee immutabili, indifferenti alle variazioni del tempo e dello spazio, sottratte alla
generazione e alla corruzione o si danno unicamente pallide e vuote astrazioni, colorate e riempite
dai sensi, ma non autonome nei loro confronti? Più che a Platone non è allora meglio affidarsi a
Locke, per cui non c’è niente nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi, a Condillac, la cui
statua assume gradualmente facoltà umane a partire dall’olfatto, o ai behavioristi, seguaci del
principio del “Give me a nerve and a muscle and I will make you a mind?”
Non voglio qui riaprire di riaprire una millenaria diatriba che ha visto schierati Democrito, Epicuro
e Lucrezio contro Platone, Leibniz contro Locke e gli innatismi, sino a Chomsky, contro quanti
sostengono la genesi empirica e sensibile di tutte le nostre conoscenze.
E’ più interessante cercare di capire come e perché la filosofia, sin dalle sue origini greche, abbia
cercato di “salvare i fenomeni”seguendo due percorsi opposti, ma che s’intersecano.
Il primo consiste nel sottrarli all’esteriorità e alla casualità del loro apparire col farli passare
attraverso il filtro della mente, della ragione o dell’anima che li “distilla”, per poi dimostrarne
l’inferiorità.
Il secondo, nell’individuare neo sensi, alla maniera di Empedocle, quei varchi che mettono in
comunicazione biunivoca il mondo esteriore con quello interiore, consentendo a entrambi di
svilupparsi assieme, ossia all’intelligenza di crescere e ai sensi stessi di nutrirsi, di rimando, delle
sue elaborazioni: “Ora prendiamo a scrutare con ogni organo, come ciascuna cosa si manifesta,
senza dare maggiore credito a una visione piuttosto che all’udito, o al rimbombo di un suono più
che ai sapori distinti della lingua; non togliere credito alle altre membra dovunque ci sia un varco
(poros) per comprendere, e comprendi ciascuna cosa nel modo in cui si manifesta; secondo il
mezzo disponibile,infatti, l’intelletto si accresce negli uomini”
(Poema fisico,Frammento 1, vv, 206-6).
E’ però altrettanto importante capire come e perché la filosofia abbia anche provveduto,
sconfinando spesso nella mistica, allo sdoppiamento dei sensi corporei: affiancando a quello
esteriore un occhio interiore (che diventa tanto più perspicace, quanto più l’acume del primo declina
con l’età), all’orecchio un udito spirituale (capace di sentire voci demoniache o divine), al toccare
materiale un “tactus intimus” (in grado di farmi conoscere me stesso prima e meglio di ogni
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riflessione). Perfino l’olfatto e il gusto trovano in Agostino il loro corrispettivo nell’anima
(Confessioni, X, 6,8). (…)
Certo, Platone raccomanda al filosofo di concentrarsi dapprima su di sé, di non farsi distrarre dalla
molteplicità delle impressioni sensibili, di lasciar andare l’anima “tutta sola con se stessa” (si veda
Fedone, 78 D-79 E) lungo il cammino che la porta alla “pianura della verità”, dove potrà incontrare
la “realtà che realmente è, senza colore, senza figura, intangibile” (Fedro, 247 C). Plotino, a sua
volta, gli suggerisce di comportarsi come uno che aspetta di “udire la voce prediletta” e non presta
ascolto ai rumori di fondo del mondo sensibile (Enneadi, V, 1, 12, 15-21).
E anche Cartesio nella terza delle sue Meditazioni, imbocca, a suo modo, una strada analoga:
“Ora io chiuderò gli occhi, mi turerò le orecchie, distrarrò tutti i miei sensi, cancellerò anche dal
mio pensiero tutte le immagini delle cose corporee”.
Non si finisce così per scavare una caverna dell’interiorità specularmente opposta, ma
complementare a quella dei sensi cui gli uomini sono, per nascita, incatenati , un luogo consacrato
dove vengono solennemente depositate le essenze immateriali delle idee o la sostanza in estesa della
“res cogitans”?
E per spiegare la realtà in cui effettivamente ci troviamo non se ne fabbrica forse un’altra parallela,
creando un remoto, invisibile, intangibile e irrappresentabile duplicato del mondo?
E’, tuttavia, lecito domandarsi se, in questo caso, si tratta realmente di un cosmo dell’interiorità,
simmetrico a quello esteriore, o non, piuttosto, di luogo di decantazione della sensibilità, tappa
intermedia nella via che riconduce a un’esteriorità reinterpretata, ossia a un’oggettività, che non è né
esteriore, né interiore. La scelta di abbandonare i sensi costituisce, in effetti, solo la metà del
percorso che conduce a un punto di svolta da cui inizia la risalita verso la traduzione riuscita del
muto e ineffabile mondo dei segni sensibili nelle riccamente acquisite articolazioni dell’intelligenza.
Il problema, tuttavia, non consiste tanto nella svalutazione della sensibilità, quanto nell’affidarsi da
parte dell’intelligenza, “pilota dell’anima”, a realtà sovraumane: alla costellazione delle idee da
contemplare per orientarsi o alla garanzia di un Dio di verità al quale rivolgersi. (…)
Di Agostino si cita sempre l’espressione in “interiore homine habitat veritas,” ma si
dimentica che vi sono per lui tre gradini nella scala che porta alla verità.
Il primo è rappresentato dall’esteriorità (del foris), il secondo, appunto, dall’interiorità
(dell’homo interior) e l’ultimo da un’intimità in me che mi oltrepassa, perché Dio è
(interior intimo meo) “dentro di me più della mia parte più interna”: Confessioni, III, 6, 11.
Ne consegue che la verità coincide, nella maniera più radicale, con l’interior intimo meo , ma che
non manca neppure nell’esteriorità del foris, il quale può diventare il tramite sensibile, l’insieme di
segnali con cui le creature manifestano la gloria del Creatore.
Agostino infrange la tradizionale opposizione binaria tra interiorità ed esteriorità, di modo che
l’interiorità, nella quale gli stoici si ritiravano per ritemprarsi, conquista con lui uno strato ancora
più profondo.
Il voltare le spalle al mondo sensibile e il rivolgersi o all’invisibile e intangibile logos o a un Dio
onnipotente per evitare di essere infettati da quanto vi è di proteiforme, confuso, casuale e ineffabile
nell’esperienza deriva da una segreta paura che trasforma la ragione in un occhio o in un orecchio
interiori che incessantemente e minacciosamente ci scrutano e ci ascoltano? E’ nel giusto Nietzsche
quando nel “Tramonto degli idoli” pensa che si sia cercato nella ragione un tiranno per schivare il
più grave rischio del caos? Il fanatismo con cui tutto il pensiero greco si getta sulla razionalità
tradisce una condizione penosa: si era in pericolo, non c’era scelta: o andare in rovina o… essere
“assurdamente razionali”. (…) Si deve essere saggi, perspicui, chiari a ogni costo; ogni cedimento
agli istinti, all’inconscio, porta “a fondo”…
GIMLI
Inviato esterno
de la “Gazzetta dentro”
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