LAVORO UMANO E UNITÀ DELL`ENERGIA* [1]

Transcript

LAVORO UMANO E UNITÀ DELL`ENERGIA* [1]
LAVORO UMANO E UNITÀ DELL'ENERGIA * [1]
di Sergej Andreevic Podolinskij
Titolo originale: “Menschliche Arbeit und Einheit der Kraft",
comparso nel 1883 sulla rivista socialista "Die Neue Zeit" diretta da Karl Kautsky
Traduzione Tiziano Bagarolo – Fernando Visentin
1. La teoria dell’energia
Se accogliamo la teoria dell’unità della forza, cioè della conservazione
dell’energia (1)[2], dobbiamo anche ammettere che nulla può essere creato dal
lavoro e che, di conseguenza, l’utilità del lavoro, il suo scopo, non può essere
che la trasformazione di certe quantità di forze. Come si producono queste
trasformazioni? Quali sono i modi più adatti di applicare il lavoro umano per
accrescere la quota di forze naturali disponibile per il soddisfacimento dei
bisogni umani? In questo studio cercheremo di rispondere a queste domande.
Sappiamo che il lavoro umano accumula nei suoi prodotti una quantità di
energia maggiore di quella che è stata spesa per produrre la forza lavoro dei
lavoratori [3]. Come e perché si verifica questo accumulo di energia?
Per rispondere è necessario soffermarsi sulla distribuzione dell’energia
nell’universo.
L’energia totale, la somma di tutte le forze fisiche dell’universo, è costante.
Non è così per la distribuzione di questa energia fra le varie parti dell’universo.
Alcuni corpi celesti inviano attraverso lo spazio ad altri corpi celesti cospicue
quantità di diverse forze fisiche, e per questo diciamo che i primi corpi, i soli,
posseggono una quantità d’energia maggiore dei secondi, i pianeti e i loro
satelliti. Questi ultimi, ricevono l’energia dai soli più vicini sotto forma di
radiazioni luminose, termiche o chimiche [4]. Un tale scambio di forze tra i
corpi che ne possiedono di più e quelli che ne possiedono di meno, deve
condurre necessariamente, dopo un tempo più o meno lungo, ad un equilibrio
globale dell’energia.
Tuttavia, tale equilibrio può realizzarsi solo attraverso tutta una serie di
trasformazioni delle forze fisiche. L’osservazione ci mostra che tutte queste
trasformazioni energetiche sono accompagnate dalla tendenza delle forze
stesse ad assumere una forma determinata, cioè la forma di calore diffuso in
modo uniforme nel cosmo. Quest’ultima forma di energia è la più stabile e la
più difficilmente riconvertibile. Invece tutte le altre - la luce, l’elettricità,
l’affinità chimica ecc. - si convertono più spesso, almeno parzialmente, in
calore, nel corso delle loro trasformazioni.
In questo modo, l’energia dell’universo si trasforma costantemente passando
da forme meno stabili a forme più stabili. Di conseguenza, ulteriori
trasformazioni dell’energia tendono a diventare più difficili. Dopo una lunga
serie di milioni di anni, tutta l’energia dovrebbe assumere una forma stabile,
quella di calore diffuso in modo uniforme nel cosmo. Quando ciò sarà
avvenuto, sarà impossibile ogni sorta di movimento meccanico percettibile e,
di conseguenza, ogni sorta di fenomeno vitale, perché una differenza di
temperatura è assolutamente necessaria per trasformare il calore in qualsiasi
altra forza [5]. Questa tendenza dell’energia verso un equilibrio universale si
definisce dissipazione dell’energia o anche, secondo la terminologia di
Clausius [6], entropia (2)[7]. Quest’ultimo termine esprime la quantità di
energia trasformata non più suscettibile di ulteriori conversioni. Ne derivano
questi due principi di Clausius: “L’energia dell’universo è costante. L’entropia
dell’universo tende a un massimo” [8].
Così, nel senso strettamente meccanico del termine, l’energia dell’universo è
certamente una grandezza sempre e assolutamente costante; ma quest’energia
in completo equilibrio non sarebbe poi in grado di provocare tutti quei
fenomeni del mondo inorganico e organico che ora osserviamo, e che in
sostanza rappresentano solo una espressione delle varie trasformazioni
dell’energia. La frazione di forze fisiche già convertita in calore diffuso in
modo uniforme rappresenta, per così dire, un residuo dell’attività dell’universo,
in
aumento
graduale
e
continuo.
E’ vero che noi continuiamo a ricevere sulla nostra Terra dal Sole quantità
enormi di forze fisiche ancora in grado di subire tutte quelle trasformazioni di
cui sono espressione i fenomeni fisici e biologici (3) sul nostro globo. Secondo
Secchi [9] un metro quadrato della superficie solare fornirebbe 5.770.540
chilogrammometri [10], ovvero 79.642 cavalli vapore [11] di lavoro (4). Alcuni
metri quadrati di superficie solare sarebbero sufficienti per azionare tutte le
macchine che esistono sulla Terra. Il lavoro totale del Sole è stimato pari a 470
quintilioni [12] di cavalli vapore. Se accettiamo la diffusa teoria che spiega
l’origine del calore solare con la condensazione (contrazione) del Sole stesso
[13], vedremo che occorrono 18.257 anni perché il diametro apparente del Sole
si riduca di un solo secondo e 3.820 anni perché la temperatura del Sole
diminuisca di un solo grado. Questa cifra non sembrerà affatto esagerata se si
considera che la materia solare si trova, verosimilmente, quasi del tutto il
quello stato di indifferenza chimica, prodotto dalla temperatura elevata, che
viene
definito
dissociazione
(5)[14].
Vediamo dunque che il pericolo che un giorno vengano a mancare sulla
superficie terrestre forze convertibili è ancora molto remoto; al tempo stesso,
osservando la cosa più da vicino, constatiamo che la distribuzione di queste
forze non è sempre la più vantaggiosa per le esigenze del mondo organico in
generale e per quelle del genere umano in particolare. Crediamo però che
l’umanità abbia, fino ad un certo punto [16], il potere di modificare questa
distribuzione dell’energia totale così da accrescerne la frazione disponibile per
gli
uomini.
Il realtà, la parte maggiore delle forze fisiche sulla superficie terrestre non si
trova affatto nella forma più utile al soddisfacimento dei bisogni umani.
Gli uomini hanno bisogno soprattutto di grandi quantità di sostanze nutritive,
di combustibili e di forze di lavoro meccaniche. Le forme più vantaggiose delle
forze fisiche sarebbero perciò: 1. l’affinità chimica [17] più o meno libera sotto
forma di sostanze nutritive vegetali e animali o sotto forma di sostanze
combustibili, e 2. il movimento meccanico, che può fornire la forza motrice per
le macchine al servizio dell’umanità.
Ora, vediamo che il globo terrestre, di per sé, ci offre relativamente pochissime
forze fisiche in queste forme così vantaggiose per l’umanità. Se è vero che
l’interno della Terra è ancora in uno stato di incandescenza, e ciò implica
l’esistenza di una grande quantità di elementi dissociati e, grazie all’altissima
temperatura, di una significativa quantità di lavoro virtuale, non ne traiamo
vantaggio, oppure ne subiamo gli effetti distruttivi nei terremoti e nelle
eruzioni vulcaniche. Siamo però parzialmente compensati di questi disastri
dalla fertilità eccezionale dei terreni vulcanici e da un sensibile aumento della
temperatura in vicinanza dei vulcani. “Sulle pendici dell’Etna” afferma Élisée
Reclus [18], “la terra è tanto fertile che i suoi prodotti sono sufficienti per una
popolazione tre o quattro volte più densa che nelle altre parti della Sicilia o
dell’Italia. Più di trecentomila abitanti si sono raccolti alle pendici di questo
monte che, da lontano, si giudica debba essere un luogo spaventoso e
pericoloso che, di tanto in tanto, si apre per inondare le campagne sotto un
diluvio di fuoco. Alla base del vulcano, invece, le città si susseguono l’una
all’altra
come
le
perle
di
una
collana”
(6).
Ma in genere gli strati superficiali della crosta terrestre sono costituiti da
composti chimici che non contengono quasi per nulla affinità chimica libera e
di conseguenza quasi nessuna forza motrice potenziale. Ciò vale anche per le
acque e l’atmosfera che circondano la crosta terrestre e con le quali siamo
sempre in contatto. Tutti i movimenti dell’aria e dell’acqua, l’alta e la bassa
marea, il movimento delle onde prodotte dal vento, la corrente dei fiumi, la
forza della pioggia che cade, il vento stesso ricevono la loro forza dall’energia
del Sole, oppure dalla forza gravitazionale della Luna e del Sole. L’affinità
chimica, accumulata sotto forma di carbon fossile nelle viscere della Terra, è
anch’essa un effetto del calore solare, un prodotto della radiazione solare nel
corso di molti millenni. Anche l’ossigeno libero dell’atmosfera, secondo le
nuove ipotesi geologiche, sarebbe stato inizialmente combinato col carbonio e
ne sarebbe stato liberato solo per l’azione della radiazione solare sulla
vegetazione
nel
corso
del
suo
enorme
accrescimento
(7).
Tutti questi esempi ci dimostrano chiaramente che l’energia della radiazione
solare è pressoché l’unica fonte di tutte le forze utili all’umanità che troviamo
sulla superficie terrestre.
Sappiamo però che la quantità d’energia irradiata dal Sole verso la Terra
sarebbe riflessa nella stessa misura nello spazio cosmico se questa energia non
subisse determinate trasformazioni che ne prolungano la permanenza e ne
consentono l’accumulo sulla superficie terrestre. Ciò accade nella misura in cui
i raggi solari, che ci arrivano come calore, luce e attività chimica, vengono
intercettati dalla materia che li trasforma in affinità chimica libera o in
movimento meccanico. In questo caso, una parte della radiazione solare non
viene più riflessa nello spazio secondo la nota legge di Kirchhoff (8)[20], ma
resta sulla superficie terrestre per un tempo più o meno lungo perché si
converte in forme che la preservano da una dispersione immediata. “L’energia
sale a gradi”, afferma in proposito il famoso fisico inglese William Thomson
[21]. Il miglior esempio sono le seguenti parole di Secchi: “I raggi solari che
colpiscono le piante non sono da esse riflessi nella stessa misura in cui accade
con le sabbie del deserto o le pietre delle montagne. In misura molto maggiore
essi sono trattenuti [sulla superficie terrestre, ndtr.] e la forza meccanica delle
onde luminose [22] viene utilizzata per scindere l’ossigeno dal carbonio e
dall’idrogeno, per scindere i composti saturi e stabili conosciuti con il nome di
acqua e di anidride carbonica” (9)[23].
Che cosa avviene in questo caso? Una parte del calore solare in quanto tale
scompare. In realtà, esso si accumula sulla superficie terrestre senza
aumentarne la temperatura, cioè senza aumentare le perdite [verso lo spazio,
ndtr.]. Restando invariate le perdite, la superficie terrestre riceve più energia;
ovvero, per una stessa quantità ricevuta, è minore quella dispersa. In qualunque
modo si consideri la cosa, si constata un accumulo di energia per azione delle
piante. Non di una forma di energia che si disperde, come il calore, l’elettricità
o la luce, ma di energia di un grado superiore che può conservarsi per secoli
sulla superficie terrestre e che è capace di tutte le altre trasformazioni. Così le
piante sono, sulla Terra, le nemiche principali della dispersione dell’energia
nello
spazio
[24].
2. L’energia convertibile sulla superficie terrestre
Vediamo così che l’energia radiante del Sole non ha ancora perduto sulla
superficie terrestre la capacità di convertirsi in altre forme più elevate; ma i
modi in cui ciò accade solo altrettanto limitati. Questa conversione si effettua
di preferenza come segue:
1. Con la produzione del vento, cioè col movimento impresso all’aria dal
cambiamento di temperatura.
2. Con l’innalzamento dell’acqua mediante evaporazione.
3. Con la dissociazione dei composti stabili, ad es. l’acqua, l’anidride
carbonica e l’ammoniaca, da parte delle piante.
4. Con il lavoro muscolare e nervoso di animali e uomini.
5. Con il lavoro delle macchine costruite dall’uomo che utilizzano come forza
motrice il calore solare in modo diretto o indiretto, come la ben nota macchina
solare di Mouchot [25].
Certamente, oltre ai processi summenzionati, esistono sulla Terra ancora grandi
quantità di energia convertibile tuttora non utilizzate dall’uomo [26].
In primo luogo, in ordine di grandezza, vi è l’energia del moto della Terra
stessa intorno al Sole e sul proprio asse: in entrambi i casi si tratta di forme
d’energia ancora convertibili o, come le definisce Thomson, di grado ancor più
elevato del movimento meccanico in genere. Secondo un calcolo ben noto,
l’improvviso arresto della rivoluzione della Terra intorno al Sole si tradurrebbe
nella produzione di una quantità di calore pari a quella che risulterebbe dalla
combustione di una massa di carbone quattordici volte superiore all’intera
massa terrestre. L’energia di rotazione della Terra sul proprio asse è anch’essa
più che cospicua. Tuttavia, questi moti di rivoluzione e di rotazione restano
entrambi pressoché senza influsso apprezzabile sulla distribuzione dell’energia
sulla crosta terrestre. In verità, per quel che attiene all’energia di rotazione, ciò
non è del tutto esatto, essendo noto che una parte di tale energia viene
convertita in calore dall’attrito con la massa acquea risultante dall’alternanza
delle maree, con aumento della temperatura dell’acqua e un rallentamento, per
quanto impercettibile, del moto terrestre (10). Inoltre impieghiamo le maree
come forza motrice di alcune macchine, ad es. mulini, trattenendo l’acqua
quando arriva al culmine con l’alta marea e sfruttando la forza dell’acqua che
cala con la bassa marea. Ma, in complesso, le maree sono ancora poco
utilizzate come forza motrice.
Abbiamo già visto che anche il calore interno del globo terrestre non svolge un
ruolo molto significativo nell’economia dell’energia sulla superficie terrestre.
Il magnetismo, espressione dell’energia endogena della Terra, rappresenta
certamente una discreta quantità di energia non trascurabile in quanto
impiegata nella navigazione e nella preparazione di numerosi apparecchi
scientifici; peraltro, la grandezza energetica del magnetismo terrestre non
risulta molto cospicua in confronto con l’energia solare presente sulla
superficie terrestre.
Le sorgenti calde [28] forniscono ugualmente una quantità di energia
convertibile non cospicua ma utilmente applicabile; il calore da esse erogato
può venir impiegato per molteplici fini tecnologici, ad es. per il riscaldamento
domestico, per cucinare ecc.; ancora non ne conosciamo alcuna applicazione
come forza motrice, la qual cosa è comunque del tutto possibile, anche se in
misura limitata.
L’affinità chimica libera è presente in misura piuttosto limitata sulla superficie
terrestre, al di là di quella summenzionata dell’ossigeno atmosferico[29].
All’interno del globo si trovano grandi masse di metalli e zolfo allo stato
libero, ma gli effetti della loro energia chimica si risentono meno alla
superficie.
Con riferimento alle forme di energia convertibile elencate all’inizio del
presente capitolo, si può osservare come il movimento dell’aria, cioè il vento,
configuri una forma di energia di grado assai elevato ed utile dal punto di vista
umano, cioè capace di fornire una cospicua quantità di lavoro meccanico.
D’altra parte non è difficile dimostrare che questo movimento dell’aria non è
che una parte di energia solare convertita ad un grado superiore. Per suscitare
la forza viva del vento il Sole impiega una quantità di energia molte volte
superiore, buona parte della quale finisce dispersa nello spazio cosmico; né può
essere diversamente, secondo le leggi della dissipazione, essa non può mai
essere convertita totalmente in movimento meccanico dell’aria, energia questa
di grado superiore. La stessa frazione di energia convertita in movimento viene
poi dissipata a sua volta, non essendo il vento nient’altro che il risultato della
tendenza al riequilibrio termico.
Quanto detto per la forza motrice eolica è applicabile anche all’energia
dell’acqua corrente e soprattutto, delle cadute d’acqua (cascate ecc.). La caduta
dell’acqua sulle pale della ruota di un mulino eroga una frazione di lavoro utile
così elevata, quale non potrebbero prestare né macchine a vapore o
elettromagnetiche, né organismi opportunamente collegati di animali da soma
o di uomini. Non va però dimenticata l’enorme quantità di energia solare che è
servita per sollevare l’acqua mediante evaporazione.
Risulta da tutto questo che la superficie terrestre, nonostante conservi una
imponente quantità di energia solare, non abbia affatto dell’energia più
convertibile, quale ad es. il movimento meccanico o l’affinità chimica libera;
non vi è calore in eccesso; affinità chimica libera, accumulata in grandi
quantità, si trova soltanto nei combustibili di origine organica. Si tratta di una
massa certamente cospicua. Secondo un calcolo approssimativo, le riserve di
carbon fossile inglesi assommano a 190 miliardi di tonnellate, e quelle
nordamericane a ben 4.000 miliardi (11). Anche questa riserva, come quella
degli altri combustibili organici (torba, petrolio ecc.), è stata costituita per
opera dell’energia solare nei vegetali vissuti in diverse epoche sulla superficie
terrestre. Si ritiene che le piante abbiano convertito nel corso dei secoli, sotto
l’influsso della luce solare, una sostanza satura e priva di affinità chimica libera
[30], l’anidride carbonica, in carbone, che contiene grandi quantità di tale
energia; nello stesso tempo, l’ossigeno atmosferico si sarebbe liberato dal
carbonio ad esso in precedenza legato, mettendo la propria energia chimica
convertibile in condizione di sostenere la vita degli organismi superiori,
animali ed uomini [31].
3. Accumulo di energia
Si può cominciare facendo riferimento al momento in cui la superficie del
pianeta era già raffreddata a tal punto che la crosta terrestre impediva un
apprezzabile influsso del calore interno sulla temperatura alla superficie.
Essendo il raffreddamento tanto avanzato da consentire la conversione
dell’acqua precedentemente dissociata in vapore, e di quest’ultimo per gran
parte in acqua corrente la quale, sciogliendo i sali fino allora condensati,
veniva a formare gli oceani negli avvallamenti della crosta terrestre, erano così
completati i principali processi chimici nella materia inorganica della crosta
terrestre. L’affinità chimica era già saturata in misura pressoché uguale
all’odierna, fatta eccezione dei processi della vita vegetale. Anzi, proprio per
effetto di questi ultimi, riteniamo che oggi la saturazione dell’affinità chimica
non arrivi più fino a quel punto, in quanto, come sopra ipotizzato, tutto il
carbonio che oggi è stratificato nella crosta terrestre, allora si trovava in
legame con l’ossigeno nell’atmosfera. Sappiamo cioè che le piante traggono il
proprio carbonio dall’anidride carbonica dell’atmosfera, né abbiamo motivo di
ritenere che abbiano fatto diversamente nel Carbonifero [32]. Siamo quindi
autorizzati a pensare che al principio della vita organica la quantità di energia
chimica insatura sulla superficie terrestre fosse insignificante, e che l’influsso
dell’energia convertibile presente all’interno del pianeta venisse continuamente
attenuato dal progressivo ispessimento della crosta terrestre. Certamente, la
Terra ricavava più energia dal Sole che non attualmente, ma ne dissipava pure
molta di più irradiando più energia nello spazio, essendo allora più calda di
adesso. Le enormi quantità di energia ricavata dal Sole incrementavano solo in
misura modesta l’energia della Terra, perché allora la radiazione solare capace
di effetti chimici non vi trovava le sostanze su cui poteva agire, come avviene
ora, ad es. mediante le piante (mediante saturazione dei legami insaturi), e lo
stesso valeva per i raggi termici e luminosi. L’assorbimento dei raggi termici
era pari alla loro dispersione, e quindi non aumentava la quantità di energia
convertibile sulla superficie terrestre. Fatta eccezione per il movimento
dell’aria calda e dell’acqua, l’energia solare non si converte in altre forme sulla
superficie terrestre, come si osserva tuttora sulla superficie sabbiosa, priva di
vegetazione, nel deserto del Sahara, o sulle distese di ghiaccio delle regioni
polari. Prescindendo dal calore racchiuso all’interno del globo, la quantità di
energia convertibile ricavata dal Sole allora disponibile sulla superficie
terrestre appare significativamente inferiore a quella odierna. Se infatti
facciamo entrare nel computo gli strati di carbon fossile depositati sulla
superficie terrestre (cosa del tutto legittima data l’origine organica di detti
depositi), ci troviamo oggi a possedere quantità assai più considerevoli
d’energia convertibile, ossia scorte consistenti, da un lato nell’affinità insatura
di enormi masse di carbonio, e dall’altro nell’affinità libera dell’ossigeno
atmosferico.
Considerando i modi di evoluzione di questo processo, si constata come
l’energia contenuta all’interno del pianeta espleti un ruolo decrescente nel
tempo nella formazione delle scorte energetiche del pianeta stesso. Il
quantitativo di energia ricavata dal Sole va anch’esso incontro ad un calo lento
ma costante [33]. Perché si realizzi un accumulo di energia sulla superficie
terrestre, malgrado un apporto che si riduce, è giocoforza subentri un processo
antagonistico alla dissipazione. Ciò che si vede anche nella realtà, in quanto
parte del calore ricavato dal Sole viene convertito - e in misura crescente - in
altre forme di energia: affinità chimica, lavoro meccanico ecc.
Attualmente la superficie terrestre possiede, in maggior misura che in passato,
la capacità di convertire forme inferiori di energia solare (calore) in forme
superiori (affinità chimica, moto): è necessario intendere correttamente tale
conversione, antagonistica al processo di dissipazione, per comprenderne la
grande difficoltà - a partire dalla trasformazione del calore in lavoro
meccanico, quando non sono numerose neanche le modalità di conversione
dell’energia solare in movimento meccanico.
E’ facile comprendere come la quantità di energia solare convertibile in affinità
chimica libera o in lavoro meccanico non sia sempre costante, ma possa essere
influenzata da vari fattori, compresa l’attività degli uomini.
Si può assumere come un dato incontrovertibile che l’esistenza dei vegetali
comporta, più di quella degli animali, la proprietà di realizzare un accumulo di
energia solare sulla superficie terrestre, come dimostrato con particolare
evidenza dai giacimenti di carbon fossile. Si potrebbe anzi assumere che,
malgrado le nuove teorie (di Claude Bernard [34] e di altri) sull’unità della vita
in entrambi i regni, vegetale e animale, gli animali dissipano tramite la
respirazione e la locomozione una cospicua quota del loro calore, e cioè
dissipano nello spazio molta energia solare, che verrebbe invece accumulata
dai vegetali. Risulta assai arduo determinare il corretto rapporto fra le due
grandezze ma è certo che l’uomo, mediante determinate azioni intenzionali,
può accrescere la quantità di energia accumulata nei vegetali e ridurre quella
dissipata dagli animali.
Introducendo la coltivazione dei vegetali in luoghi dove è assente o ridotta,
prosciugando le paludi, irrigando i deserti, utilizzando colture perfezionate,
usando macchine agricole, infine proteggendo le colture vegetali dai loro
nemici naturali, perseguiamo il primo dei summenzionati obiettivi.
Al tempo stesso, operiamo per il secondo obiettivo scacciando o distruggendo
gli animali nocivi alla vegetazione. In entrambi i casi otteniamo il risultato di
un aumento assoluto o relativo dell’energia solare che rimane sulla superficie
terrestre.
Ci troviamo qui dinanzi due processi paralleli, che insieme costituiscono il
cosiddetto “ciclo della vita” [35]. Le piante hanno la facoltà di accumulare
energia solare, mentre gli animali, nutrendosi di sostanze vegetali, convertono
parte di tale energia accumulata in lavoro meccanico e la dissipano nello
spazio. Se la quantità di energia accumulata dai vegetali è maggiore di quella
dissipata dagli animali, allora si verifica un accantonamento di energia, come
nel periodo di formazione del carbon fossile durante il quale, evidentemente, la
vita vegetale era nettamente preponderante su quella animale. Se, al contrario,
la vita animale avesse preso il sopravvento, le scorte di energia si sarebbero
ben presto dissipate e la stessa vita animale sarebbe regredita entro i limiti
fissati dal regno vegetale. Un certo equilibrio si dovrebbe stabilire così tra
accumulazione e dissipazione di energia: il bilancio energetico della superficie
terrestre verrebbe a costituire una grandezza più o meno stabile, ma
l’accumulazione netta di energia scenderebbe a zero, o comunque molto più in
basso che nell’epoca della preponderanza della vita vegetale.
In realtà, tuttavia, non si osserva una simile stasi del bilancio energetico della
superficie terrestre: la quantità di energia accumulata è tuttora prevalentemente
in accrescimento, la quantità di vegetali, animali, esseri umani è oggi senza
dubbio maggiore che in passato, molte regioni già sterili sono ora coltivate e
coperte di rigogliosa vegetazione, i raccolti tendono ad aumentare in quasi tutti
i paesi civili, il numero di animali domestici e soprattutto di uomini è
aumentato notevolmente; se in alcuni paesi si è ridotta la fertilità e la
popolazione, ciò si deve a macroscopici errori economici; si tratta piuttosto
dell’eccezione e non della regola, e nel complesso è incontestabile un generale
aumento della quantità di energia convertibile sulla superficie terrestre [36].
La causa principale di questo aumento globale è il lavoro fornito dagli uomini
e dagli animali domestici da essi impiegati [37].
Ecco alcuni esempi, tratti dalle statistiche agricole francesi, che confermano la
giustezza delle nostre affermazioni.
La Francia possiede attualmente circa nove milioni di ettari di boschi che
producono annualmente circa 35 milioni di metri cubi, cioè circa 81 milioni di
quintali metrici di legna. La produzione netta è dunque pari annualmente a
circa nove quintali (900 chilogrammi) di legna per ettaro. Un chilogrammo di
cellulosa contiene circa 2.550 unità di calore (calorie [38]); abbiamo di
conseguenza che l’accumulo annuo di energia per ettaro di bosco è pari a 900 x
2.550 = 2.295.000 calorie.
Le praterie naturali occupano in Francia una superficie di circa 4.200.000 ettari
e producono in media 105 milioni di quintali metrici di fieno all’anno, pari a
25 quintali per ettaro. L’accumulo di energia solare è dunque di 2.500 x 2.550
= 6.375.000 calorie per ettaro [39].
Vediamo così che l’accumulo di energia solare da parte della vegetazione,
senza concorso di lavoro, anche nelle condizioni più favorevoli, cioè nei boschi
e nelle praterie, varia da 2.295.000 a 6.375.000 calorie per ettaro.
Osserviamo invece un grande aumento dove viene impiegato del lavoro. La
Francia possiede circa 1.500.000 ettari di colture foraggiere che producono
mediamente ogni anno, dedotto il valore calorico delle sementi, 46.500.000
quintali metrici di fieno, pari a 31 quintali per ettaro. Di conseguenza,
l’accumulo annuo di energia è pari a 3.100 x 2.550 = 7.905.000 calorie per
ettaro. L’eccedenza di produzione rispetto alle praterie naturali è dunque di
1.530.000 calorie per ettaro; eccedenza che è il risultato del lavoro di
coltivazione. Il lavoro per ettaro assomma a circa 50 ore del lavoro di un
cavallo e 80 ore del lavoro di un uomo; ciò equivale nel complesso a circa
37.450 calorie. Vediamo dunque che ad ogni caloria di lavoro erogata nella
coltivazione delle praterie artificiali corrisponde un’eccedenza di energia
accumulata pari a 1.530.000 : 37.450 = 41 calorie circa [40].
Lo stesso si osserva nella coltura dei cereali. La Francia ha più di sei milioni di
ettari coltivati a frumento che producono in media, detratta la semente, 60
milioni di ettolitri di grano e circa 120 milioni di quintali di paglia. Ciò dà circa
10 ettolitri o 800 chilogrammi di grano e 20 quintali di paglia per ettaro. Gli
800 chilogrammi di grano valgono, sulla base del loro contenuto di amido,
crusca ecc., circa tre milioni di calorie che, insieme con i 2.000 x 2.550 =
5.100.000 calorie della paglia, danno la somma di 8.100.000 calorie prodotte
per ettaro.
L’eccedenza sulla prateria naturale è dunque pari a 8.100.000 - 6.375.000 =
1.725.000 calorie. Questa eccedenza è il prodotto di circa 100 ore del lavoro di
un cavallo e di 200 ore del lavoro di un uomo, per un valore di circa 77.500
calorie. Di conseguenza, ogni caloria investita come lavoro nella coltivazione
del frumento produce un accumulo di energia solare pari a 1.725.000 : 77.500
= 22 calorie circa.
Da dove viene questa eccedenza di energia, indispensabile per la produzione di
tale massa di sostanze nutritive e di combustibili? Possiamo dare una sola
risposta. Dal lavoro dell’uomo e degli animali domestici. Che genere di lavoro
abbiamo in questo caso? Lavoro che costituisce un impiego di energia
meccanica e mentale dell’organismo tale per cui viene accresciuto il bilancio
complessivo
dell’energia
sulla
superficie
terrestre
(12)[41].
Questo aumento può avvenire direttamente trasformando una frazione
aggiuntiva di energia solare in forme convertibili oppure, in modo indiretto,
prevenendo la dispersione nello spazio di quella frazione dell’energia che
andrebbe inevitabilmente dissipata in assenza di un intervento del lavoro. A
quest’ultima categoria appartiene il lavoro dei sarti, dei calzolai, degli artigiani
ecc.
E’ chiaro pertanto che il lavoro utile, secondo questa definizione, può essere
solo quello degli uomini o di certi animali che, come gli animali domestici,
operano sotto la guida dell’uomo o che, come le formiche, lavorano per conto
proprio o si dedicano a proprie specifiche forme di allevamento e di coltura
[43].
Il movimento dell’aria, il vento, non può invece essere definito lavoro utile,
perché lasciato al suo libero corso il vento non produce, mediante l’erogazione
della sua energia, un nuovo accumulo di energia sulla superficie terrestre. Vale
lo stesso per la forza motrice delle acque correnti.
Le piante, che accumulano l’energia nella materia che costituisce i loro corpi,
nella maggior parte dei casi non possono metterla in movimento
autonomamente, né possono spenderla in modo utile, cioè in modo da
accrescere in generale la forza presente sulla superficie terrestre.
Le macchine costruite dal lavoro degli uomini, lasciate a se stesse, qualora
potessero anche restare a lungo in movimento, non potrebbero fornire un
lavoro utile perché ci è impossibile immaginare un dispositivo in grado di
produrre un aumento progressivo dell’energia solare sulla Terra senza
l’intervento del lavoro muscolare dell’uomo.
Infine, anche il lavoro nervoso dell’uomo diventa lavoro utile per gli uomini
solo in quanto diventa lavoro muscolare. Non conosciamo infatti nessun altro
mezzo per ottenere col semplice lavoro nervoso uno scopo immediatamente
utile, cioè un aumento assoluto o relativo dell’energia disponibile per l’umanità
(13)[44].
Prescindendo dal lavoro muscolare animale e umano, risulta difficile fissare i
limiti del lavoro utile. Osservando un animale inferiore è difficile determinare
quali delle sue funzioni vadano ascritte alla categoria “lavoro”; sovente si
scambia per lavoro il movimento meccanico; di qui l’interrogativo se lo
svolazzo di una farfalla o lo strisciare d’una lumaca non possano considerarsi
come lavoro.
Dal nostro punto di vista potremmo certo rispondere negativamente: lo
strisciare d’una lumaca o il volo d’una farfalla non costituiscono lavoro, in
quanto si accompagnano a dissipazione, non ad accumulo di energia. Si può
obiettare tuttavia che la lumaca striscia per trovare nutrimento, e la farfalla
vola per trovare un luogo appropriato allo sviluppo dei propri bruchi; al che si
può ulteriormente replicare che la natura non ha fini e si limita a trarre i
risultati del proprio calcolo. L’intera esistenza della lumaca - tutto il suo
strisciare, la ricerca del cibo, la digestione degli alimenti e la sua capacità così
acquisita di convertire tutto ciò in nuovi movimenti - non converte la minima
quota d’energia solare in forme superiori, tali da accrescere, con ulteriori
trasformazioni, le scorte energetiche sulla superficie terrestre. La lumaca non
può dedicarsi all’agricoltura e di conseguenza non può aumentare l’accumulo
di energia solare nei vegetali. Si obietterà forse che la lumaca può favorire la
crescita vegetale, se non con la propria vita, con la propria morte. La lumaca,
in condizioni favorevoli, in presenza di abbondanti sostanze nutritive,
distrugge una cospicua quantità di vegetali, mentre in caso di penuria dei
vegetali ad essa confacenti, va incontro a morte per inedia, con ciò conferendo
ai vegetali la possibilità di crescere ulteriormente, e quindi di aumentare
l’accumulo di energia. Singolare obiezione questa, e non difficile da confutare:
se effettivamente la crescita delle piante aumenta in qualche luogo per la morte
delle lumache, appare molto plausibile che aumenti pure il numero dei nemici
di tale crescita. Le lumache morte non possono più proteggere le piante dai
loro parassiti, per cui è verosimile che il bilancio energetico rimanga invariato
[46].
Non va comunque dimenticato che il termine “lavoro” deve significare una
“attività positiva” dell’organismo, cui consegue necessariamente un accumulo
di energia. Anche per questo non si può mai ascrivere alla categoria di lavoro il
“fatto passivo” della sconfitta nella lotta per la vita.
Quest’esempio, che può sembrare stravagante, è stato addotto per impostare
correttamente fin dal principio la questione del risparmio di energia. Potrebbe
infatti sembrare che la lumaca o il bruco promuovano con la propria morte la
crescita vegetale già per il fatto di non distruggere più sostanze vegetali. Di un
capitalista si dice che risparmia quando non consuma tutto il proprio reddito.
Qui si è cercato di dimostrare che una lumaca non può fornire lavoro utile, in
quanto non accresce con la propria attività l’accumulo di energia, e lo stesso
vale dunque anche per i risparmiatori umani.
Speriamo di essere così riusciti a confutare la teoria del risparmio o, in altri
termini, del lavoro negativo. Infatti, il concetto di lavoro è sempre un concetto
positivo; esso consiste in una erogazione di energia meccanica o fisica tale da
produrre come risultato finale un incremento dell’energia accumulata.
Da questo punto di vista possiamo concludere che i vari movimenti degli
animali, che non hanno uno scopo determinato o hanno meramente quello della
ricerca del cibo ecc., non possono venir classificati come lavoro, in quanto non
comportano alcun aumento di accumulazione d’energia. Così ad es. l’attività
del ragno che si affatica a tessere la sua tela, o quella del formicaleone, ad onta
della loro eccellenza ingegneristica, non comportano ancora lavoro utile [47].
In senso stretto, è chiaro che la nostra definizione di lavoro si adatta solo al
lavoro agricolo degli uomini [48]. Perché un ettaro di terreno incolto o di
foresta vergine produce, senza l’intervento del lavoro umano, una determinata
quantità annua di sostante nutritive, ma l’impiego del lavoro umano può
moltiplicare per dieci o venti volte questa quantità. Certamente l’uomo non
crea né la materia né l’energia. La materia preesisteva interamente nel terreno,
nella semente, nell’atmosfera; tutta l’energia è stata apportata dal Sole. Ma con
l’intervento del lavoro umano, un ettaro di terreno può accumulare nella
vegetazione che lo ricopre una quantità di energia forse dieci volte maggiore
[di quella che verrebbe accumulata] in assenza di tale intervento. Non bisogna
credere però che tutta questa energia fosse già accumulata nel terreno e che il
lavoro umano non faccia altro che dissiparla maggiormente [49]. Non è così;
l’agricoltura impoverisce il terreno quando viene condotta in modi irrazionali
che comportano spreco. Anzi, un’agricoltura perfezionata dà risultati migliori
proprio nei paesi in cui prospera già da maggior tempo, come in Inghilterra, in
Francia, in Belgio, in Lombardia, in Egitto, in Cina, in Giappone ecc. Per
questo, crediamo di aver ragione affermando che l’agricoltura scientificamente
regolata è uno dei migliori esempi di lavoro veramente utile, di quel lavoro
cioè che aumenta la quantità di energia solare sulla superficie terrestre [50].
4. Il lavoro dell’organismo umano [51]
Dopo aver iniziato dalla distribuzione dell’energia nello spazio, siamo arrivati
alla superficie terrestre e al lavoro umano, fattore importante nella
distribuzione dell’energia sulla superficie della Terra. Ma fino ad ora non
abbiamo trattato lo sviluppo della capacità lavorativa dell’organismo umano,
senza la qual cosa sarebbe arduo spiegare l’accumulo di energia sulla
superficie terrestre ad opera del lavoro. Da dove l’organismo umano ottiene
l’energia necessaria al lavoro? Di quali dispositivi si avvale questa attività? A
quali fenomeni si accompagna?
Alla prima domanda si può rispondere dicendo che ogni lavoro meccanico
degli organismi animali trae origine dalla nutrizione. L’affinità chimica libera
delle sostanze nutritive che viene saturata nell’organismo dall’ossigeno
ispirato, si converte così in calore e una quota di questo si trasforma in lavoro
meccanico [52].
Uno dei primi e più significativi esperimenti sulla trasformazione in lavoro del
calore dell’organismo umano è stato attuato da Hirn [53].
Questi ha impiegato un cassone di legno ermeticamente chiuso, provvisto di
finestre per potervi vedere dentro, nel quale un uomo (oggetto
dell’esperimento) poteva trovare posto senza toccarne le pareti. L’aria per la
respirazione veniva immessa tramite un tubo e nello stesso modo venivano
prelevati i gas espirati. All’inizio dell’esperimento il soggetto restava a riposo;
nelle fasi successive effettuava, sempre dentro il cassone, una determinata
quantità di lavoro, salendo o scendendo dei gradini, grazie al seguente
meccanismo.
Nella parte inferiore del cassone era sistemata una ruota il cui asse veniva
posto in movimento dall’esterno del cassone mediante una cinghia. Mentre la
ruota girava, il soggetto, tenendosi con le mani ad una sbarra posta sulla parte
superiore del cassone, doveva eseguire con i piedi un movimento equivalente a
quello di salire una scala, e a tal uopo sulla ruota erano disposti dei gradini ad
intervalli prefissati. Quando la ruota veniva girata in senso inverso il soggetto
doveva discendere la scala e, ad es. dopo un’ora, il suo baricentro avrebbe
percorso in direzione contraria lo stesso cammino della circonferenza della
ruota.
La quantità di calore prodotta dal lavoratore è diversa nei tre casi - in
condizioni di riposo, durante la salita o durante la discesa dei gradini - e queste
differenze complessivamente si accordano con i requisiti della teoria
meccanica del calore [54]. Si è infatti constatato che, col soggetto a riposo,
ogni grammo d’ossigeno ispirato da 5,18 a 5,80 unità di calore (calorie), contro
solo 2,17-3,45 in condizioni di lavoro. Questo esperimento ha portato a
importanti risultati, ed ha consentito di determinare, seppure
approssimativamente, la grandezza del coefficiente economico della macchina
umana, cioè la quota di calore convertita in lavoro (14)[55]. La determinazione
di tale grandezza si deve ad Helmholtz [56], sulla scorta delle ricerche di Hirn
e
con
l’ausilio
di
alcune
ipotesi
generalmente
ammesse.
Un uomo adulto, in condizioni di assoluto riposo, produce in un’ora una
quantità di calore che, convertita in lavoro, potrebbe sollevarne il corpo ad
un’altezza di 540 metri, corrispondente a quella che un alpinista potrebbe
raggiungere nello stesso arco di tempo senza sforzi particolari, ossia nelle
stesse condizioni dell’esperimento di Hirn. In quest’ultimo caso, tuttavia,
l’attività respiratoria del lavoratore risulta quintuplicata. Da ciò segue
immediatamente che il coefficiente economico della macchina umana
corrisponde al 20%, cioè a 1/5 del calore totale prodotto dall’organismo. O,
detto altrimenti, l’uomo è in grado di convertire in lavoro muscolare la quinta
parte dell’energia totale ricavata dagli alimenti. E’ nozione comune che anche
le migliori macchine a vapore non raggiungono un simile rendimento. Questa
mirabile capacità di convertire in lavoro meccanico forme inferiori di energia si
ritrova in misura ancor più elevata in alcuni organi interni del corpo umano, ad
es. il cuore: Helmholtz ha infatti documentato che il cuore, per forza propria,
potrebbe in un’ora sollevarsi ad una altezza di 6.670 metri, mentre le più
potenti locomotive (ad es. quelle in funzione nelle ferrovie tirolesi) non
potrebbero sollevare il proprio peso al di sopra di una quota di 825 metri, dal
che consegue che le locomotive sono macchine molto meno potenti di un
apparato muscolare come quello cardiaco (15).
Le cause di questa potenza incomparabile dell’apparato muscolare si spiegano
in parte con le nuove scoperte di fisiologia muscolare ma in parte rimangono
tuttora oscure, e non è questo il luogo di discuterne più in dettaglio; ma
complessivamente anche all’uomo che lavora vanno applicate le leggi
principali delle macchine a vapore o di altre macchine termiche (cioè azionate
dal calore) [57].
Nel fare questi paragoni non bisogna peraltro dimenticare la complessità
dell’organismo umano, di gran lunga superiore a quella di qualsivoglia altra
macchina termica. Tutte le macchine artificiali traggono energia da una o
poche fonti, ad es. dalla combustione di materiali dati, da processi chimici
nelle pile ecc. Analogamente, il loro lavoro opera in una sola o poche direzioni.
Del tutto diverso ciò che si osserva nell’uomo. Sebbene anche per esso le fonti
si riducano sostanzialmente agli alimenti e ai gas ispirati, l’organismo umano
dispone di svariati mezzi per proteggere l’energia dalla dispersione, ai quali fa
ricorso in parte istintivamente, come risposta agli stimoli, ed in parte
coscientemente, con l’educazione, l’apprendimento, il perfezionamento. Così,
ad es., l’abitazione e i vestiti, che soddisfanno a dei bisogni immediati e
impediscono eccessive perdite di calore, comportano altresì un risparmio e una
più vantaggiosa distribuzione dell’energia nel corpo umano, obiettivo pure
raggiungibile con l’addestramento ad un impiego giudizioso di energia durante
il lavoro.
La versatilità del lavoro umano costituisce un’altra e più significativa
differenza tra organismo umano e qualsivoglia macchina termica. Anche a
prescindere dall’attività spirituale, già le prestazioni meccaniche dell’uomo
sono così numerose e svariate da poter essere ben difficilmente superate da
congegni meccanici. Tale molteplicità di movimenti conferisce appunto al
lavoro umano la capacità di modificare l’ambiente così da rendere possibile
come risultato ultimo un’accumulazione di energia, ad es. mediante tutta la
lunga serie dei lavori agricoli. Questa stessa molteplicità di movimenti della
macchina umana è la causa principale della elevata produttività del lavoro
umano.
Vanno peraltro prese in considerazione anche quelle cause che diminuiscono
significativamente il coefficiente economico della macchina umana,
apparentemente così elevato. In primo luogo, la necessità di soddisfare alcuni
bisogni puramente spirituali, che di per sé comportano una cospicua aggiunta
al bilancio energetico dell’umanità. Evidentemente, più è avanzato lo sviluppo
degli uomini, maggiore è il ruolo che assumono nella loro esistenza le esigenze
spirituali.
Ma non sono poche nemmeno le esigenze materiali al di là di quelle di cibo ed
aria da respirare, e non è facile stimare la quantità di energia da esse richieste.
Non disponendo di mezzi diretti per queste stime, ci atteniamo ad seguente
calcolo, certi inesatto ma per ora sufficiente al nostro scopo.
Nella maggior parte dei paesi civili la spesa per gli alimenti rappresenta una
metà circa del bilancio del ceto medio, l’altra metà essendo destinata
all’abitazione, al vestiario e al soddisfacimento dei bisogni spirituali. Va quindi
osservato che, benché il coefficiente economico calcolato in base alla quantità
di alimenti e all’ossigeno ispirato corrisponda a un rapporto pari a 1/5,
considerando la quantità totale di energia richiesta per il soddisfacimento dei
bisogni materiali e spirituali umani, detto coefficiente va ridotto della metà, al
rapporto di 1/10, tanto più che l’uomo è improduttivo per buona parte della
vita: nell’infanzia, nella vecchiaia e nel corso delle malattie.
Assimilando dunque l’organismo umano ad una macchina termica avente un
coefficiente economico pari a 1/10, diviene possibile valutare con più
precisione le condizioni della vita umana sulla Terra. Nei primi tempi della sua
presenza su questo pianeta, l’uomo non aveva ancora i mezzi per aumentare le
proprie scorte di energia. E’ quindi da ritenere che gli uomini vivessero
esclusivamente attingendo dalle scorte preesistenti; e infatti altro non facevano
che cacciare, pescare, raccogliere frutti e consumare tutti questi alimenti senza
prestare alcun lavoro utile, ovvero limitandosi a disperdere energia nello
spazio. Se l’uomo non avesse raggiunto uno sviluppo superiore a quello degli
animali selvatici, verosimilmente sarebbe stato sterminato dagli altri animali, o
comunque la specie umana sarebbe stata ridotta ad un numero appena
corrispondente alle condizioni globali della lotta per l’esistenza. Ma per effetto
di condizioni affatto peculiari, ed anzitutto di una più vantaggiosa
organizzazione del cervello e delle estremità superiori, l’uomo cominciò ad
impiegare la propria energia meccanica in direzioni tali da dar luogo ad un
complessivo accumulo di energia sulla superficie della Terra, rendendo così
possibile la sussistenza, l’incremento numerico e lo sviluppo dell’umanità.
L’uomo non è più legato alla quantità di scorte energetiche, ma le può
autonomamente accrescere. Se così sia stato fin dall’inizio, o sia anche ora in
tutti i casi, è altra questione, ma comunque questa possibilità è oggi presente.
Peraltro, è certo che ai primordi della civiltà la dissipazione di energia tramite
disboscamento, caccia sregolata ecc. dovette eccedere ampiamente il suo
accumulo mediante l’agricoltura e l’allevamento; ma con il tempo, le due
tendenze arrivarono a bilanciarsi, ed infine l’accumulazione di energia
mediante l’agricoltura cominciò ad essere preponderante sulla sua
dissipazione. Infatti, su 1.300-1.400 milioni di esseri umani, appena 100
milioni traggono nutrimento dai prodotti della caccia, della pesca e dalla mera
pastorizia, ossia da mezzi di sussistenza non prodotti dal lavoro umano. Il
resto, ossia 1.200-1.300 milioni, sono costretti a trarre nutrimento
dall’agricoltura, ossia da una accumulazione di energia che rappresenta il
risultato immediato del lavoro umano. Se dovesse perire l’odierna civiltà, con
oltre 1.000 milioni di lavoratori agricoli, i sopravvissuti incontrerebbero
enormi difficoltà a nutrirsi di prodotti spontanei della natura, e certamente non
riuscirebbero a sopravvivere senza dedicarsi essi stessi all’agricoltura. Ne
consegue che attualmente non meno di 1.000 milioni di individui devono
costantemente lavorare all’accumulo di energia solare sulla superficie terrestre
per soddisfare le esigenze dell’intera popolazione.
Si è visto che il coefficiente economico della macchina umana che lavora,
dell’umanità globalmente intesa, è pari a circa 1/10. Benché l’umanità possa
convertire in lavoro meccanico solo un decimo dell’energia ricevuta, tale
quantitativo è già sufficiente a mantenere un numero di uomini in aumento più
o meno costante; e benché l’evoluzione dell’uomo ne accresca le esigenze
spirituali, con l’ovvia conseguenza di una riduzione del coefficiente
economico, il lavoro totale dell’umanità complessivamente progredisce. Quali
sono le cause di questa apparente contraddizione?
Secondo le leggi della termodinamica, un qualsiasi processo che dà luogo a un
movimento meccanico può essere equiparato all’attività di una macchina
termica, cioè a una macchina che converte calore in lavoro. Del resto questi
concetti sono stati classicamente espressi da Sadi Carnot nel suo celebre lavoro
del 1824 (16)[58]: “Per intendere appieno il principio della conversione del
calore in movimento, bisogna raffigurarselo a prescindere da ogni meccanismo
o sostanza particolare, elaborare cioè un concetto valevole tanto per la
macchina a vapore quanto per ogni altra macchina termica, quali che siano i
suoi materiali o le sue modalità costruttive”. E più avanti, sempre con le parole
di Sadi Carnot: “In generale, dove esiste una differenza di temperatura, là può
aversi forza motrice”.
E’ noto, tuttavia, che il calore non può mai essere totalmente convertito in
lavoro, che nel migliore dei casi si può ottenere solo un 20% di lavoro utile,
mentre il calore restante viene prevalentemente dissipato. Per calcolare
correttamente la quantità di lavoro ottenuto bisogna che nella macchina si
svolga anche la conversione in senso opposto di lavoro in calore, in base alla
quale si calcola la quantità di calore equivalente al lavoro. Ciò rappresenta per
Sadi Carnot un ciclo operativo, o processo ciclico. A suo avviso, si può parlare
del rapporto fra lavoro ottenuto e calore convertito solo una volta completata la
chiusura del ciclo. Sadi Carnot definisce macchina perfetta una macchina che
compia questo processo ciclico di conversione del calore in lavoro e di
riconversione del lavoro in calore. Una tale macchina - mai costruita e solo
ipotetica - non è realizzabile dal punto di vista meccanico, in quanto dovrebbe
riscaldare la propria caldaia mediante il proprio stesso lavoro.
Se però osserviamo il lavoro dell’umanità, vediamo davanti a noi ciò che Sadi
Carnot ha definito una macchina perfetta [59]. Da questo punto di vista,
l’umanità è una macchina che non solo trasforma il calore e le altre forze
fisiche in lavoro, ma che è anche capace di un ciclo operativo reversibile, che
cioè converte il proprio lavoro in calore e in altre forze fisiche indispensabili
per soddisfare i suoi bisogni; ovvero che è capace, per così dire, di riscaldare la
propria caldaia con la riconversione del proprio stesso lavoro. In realtà, anche
ammettendo che una macchina a vapore possa funzionare per un anno intero
senza l’intervento di alcun lavoro muscolare umano, non può produrre tutti gli
elementi necessari per sostentare il suo lavoro per l’anno successivo. La
macchina umana, invece, avrà realizzato un nuovo raccolto, avrà allevato una
nuova generazione di animali domestici, avrà costruito nuove macchine e così
via. In una parola: l’umanità produce costantemente la materia e gli elementi
necessari per far procedere successivamente il lavoro. Essa, dunque, è molto
meglio di una qualsiasi macchina artificiale, in quanto soddisfa le condizioni di
perfezione definite da Sadi Carnot.
Il grado di perfezione della macchina umana non rimane però sempre il
medesimo ma cambia; e non soltanto in rapporto al coefficiente economico, ma
soprattutto alla sua capacità di compiere il ciclo operativo reversibile, cioè di
convertire il proprio lavoro in accumulazione di forze fisiche necessarie al
soddisfacimento dei bisogni. Certo, i bisogni del selvaggio sono di gran lunga
più facili da soddisfare di quelli dell’uomo civile, e pertanto il coefficiente
economico del primo è assai più grande, forse un 1/6 invece di 1/10.
Nondimeno, il lavoro del selvaggio è nei suoi risultati ultimi molto meno
produttivo di quello dell’uomo civile, giacché il selvaggio vive per lo più dei
prodotti spontanei della natura, mentre l’uomo civile soddisfa i suoi bisogni
con i prodotti del suo lavoro e in questo modo produce un accumulo di energia
solare sulla superficie terrestre la cui somma supera per lo meno di dieci volte
la forza erogata dai suoi muscoli.
Le condizioni necessarie per la prosecuzione del lavoro di una macchina
inanimata non dipendono immediatamente dal lavoro di questa macchina o
dalle sue proprietà. Tutte le macchine artificiali sono direttamente dipendenti
dal lavoro muscolare il quale deve fornire loro i combustibili che producono il
calore. Invece, le condizioni di lavoro o, se si preferisce, d’esistenza della
macchina umana, possono essere definite in modo abbastanza rigoroso:
L’esistenza e la possibilità di lavoro della macchina umana sono assicurate fino
a quando il lavoro di tale macchina si converte in una quantità di energia adatta
a soddisfare i nostri bisogni di tante volte maggiore dell’ammontare del lavoro
umano di quante volte il denominatore del coefficiente economico supera il
numeratore [60].
Ogni volta che la produttività del lavoro umano è minore dell’inverso del
coefficiente economico, ci sarà penuria e forse diminuzione della popolazione.
Quando viceversa l’utilità del lavoro è maggiore di tale numero, ci si può
aspettare un aumento del benessere e forse un aumento della popolazione [61].
5. Il lavoro quale mezzo per soddisfare i nostri bisogni [62]
Il grado in cui possiamo soddisfare le nostre esigenze mediante un accumulo di
scorte energetiche dipende da tutta una serie di fattori, che qui si esaminano, i
più importanti dei quali sono: le scorte energetiche esistenti sulla superficie
terrestre, il numero degli uomini, l’entità dei loro bisogni, la produttività del
loro lavoro, ovvero la capacità di questo lavoro di accrescere l’accumulo di
energia [63].
La disponibilità di significative scorte energetiche nei vegetali rese non poco
più facile la lotta degli uomini primitivi contro gli animali selvatici, nonostante
la maggior forza e capacità di procurarsi il cibo di questi ultimi. L’utilizzo del
fuoco, cioè della energia solare accumulata dalle piante, fu un potente alleato
per le prime e più difficili vittorie dell’uomo.
Se l’uomo ottenne questi successi quando era ancora in uno stadio di sviluppo
inferiore, ciò si dovette essenzialmente al fatto che già allora le scorte
energetiche che sapeva maneggiare erano maggiori di quelle accessibili ai più
poderosi animali. Infatti i più fieri predatori potevano contrapporre all’uomo
solo la loro forza corporea; l’uomo invece, pur essendo per natura di gran
lunga più debole, fronteggiava le belve con un intero arsenale di armi offensive
e difensive, di cui egli solo sapeva utilizzare il contenuto di energia
accumulata, comparativamente enorme [64]. Certo, inizialmente l’uomo sfruttò
il proprio successo per sperperare, più che per rinnovare le scorte energetiche
dissipate. Evidentemente, con tale gestione antieconomica, le scorte
energetiche a disposizione dell’umanità andavano progressivamente scemando.
Poiché l’entità della popolazione dipende da queste scorte, non c’è da stupirsi
nel trovare che forti concentrazioni demografiche erano rare nei periodi della
caccia e della pastorizia, e inoltre che solo la generalizzazione dell’agricoltura,
ossia l’impiego quasi esclusivo del lavoro meccanico umano per l’accumulo di
energia, rese possibile una rapida crescita della popolazione [65].
Per comprendere correttamente l’influenza del lavoro utile sulla accumulazione
di energia, e di conseguenza anche sull’incremento demografico, occorre
considerare più dettagliatamente la peculiarità del lavoro quale mezzo per
soddisfare i nostri bisogni.
Quanto sia difficile una corretta valutazione di questo punto senza far ricorso ai
metodi delle scienze naturali odierne si può dedurre dalle seguenti affermazioni
sul lavoro fatte da tre celebri economisti. Secondo Quesnay [66], “il lavoro è
improduttivo”; secondo Adam Smith [67], “solo il lavoro è produttivo”;
secondo Say [68], “il lavoro è produttivo, le forze naturali sono produttive, i
capitali sono produttivi” (17).
Si possono conciliare queste divergenze? Apparentemente si tratta di un
conflitto sul significato dei termini. Adam Smith, ad es., scrive: “Il lavoro
annuo di una nazione è il fondo che produce tutti gli oggetti necessari o
giovevoli alla vita, e tutti questi oggetti o sono il prodotto immediato del
lavoro, o sono stati acquistati col valore di tale prodotto”. E aggiunge Sismondi
[69]: “Riteniamo con Adam Smith che il lavoro sia l’unica fonte della
ricchezza […] e che inoltre unico fine della accumulazione (dei prodotti) sia
l’uso, e che la ricchezza nazionale si accresca soltanto con il consumo
nazionale”
(18).
Dal canto suo Quesnay scrive: “Non ci occupiamo dell’aspetto formale della
produzione - ad es. come facciano gli artigiani a lavorare un qualsivoglia
materiale - bensì della produzione reale della ricchezza. Parlo di effettiva
produzione perché non voglio negare che il lavoro dell’artigiano conferisca un
valore addizionale alla materia prima, ma non si deve scambiare una semplice
addizione di merci con la loro effettiva produzione” (19).
Oggi si può ricondurre questa contraddizione al fatto che il lavoro non crea
certamente alcuna materia, e che la produttività del lavoro può consistere solo
nell’aggiunta agli oggetti di qualcosa che non è stato creato dal lavoro: questo
“qualcosa” è, a nostro avviso, l’energia [70]. Sappiamo d’altro canto che
l’unico mezzo grazie al quale l’uomo è in grado di aumentare in ogni caso la
quantità di energia è l’impiego della propria forza lavoro. Ha dunque ragione
Quesnay quando afferma che il lavoro non crea nessun bene reale, proprio in
quanto non può creare la materia. D’altra parte ha ragione Adam Smith perché
l’aspetto di utilità dei beni, che soddisfa le nostre necessità, si ottiene soltanto
mediante il lavoro.
Certo, non va dimenticato che la superficie terrestre, anche a prescindere
dall’influsso del lavoro umano, possiede la capacità di accumulare una certa
quantità di energia in forme utili per gli uomini. Ma già gli antichi economisti
sapevano che queste scorte sono insufficienti a paragone di quelle fornite dal
lavoro. Così, ad es., James Steuart [71] scrive: “I prodotti spontanei della terra,
disponibili solo in quantità limitata e del tutto indipendentemente dalla volontà
degli uomini, si possono paragonare alla piccola somma di denaro che si dà a
un giovane affinché possa fare i primi passi sulla strada della vita e gettare le
basi di una attività con cui far fortuna autonomamente.” (20)[72]
Così da ogni parte si hanno prove che i prodotti spontanei della terra non sono
in grado di soddisfare tutte le nostre esigenze, e che siamo costretti ad
aumentare artificialmente il quantitativo di tali prodotti, mediante un lavoro
utile.
Le considerazioni fin qui esposte ci consentono le seguenti risposte alle
domande inizialmente formulate:
1. La quantità totale di energia che la superficie terrestre riceve dal suo interno
e dal Sole tende a diminuire. Nel contempo, però, aumenta l’accumulazione di
energia sulla superficie terrestre.
2. Questo aumento è causato dal lavoro degli uomini e degli animali domestici
[guidati dall’uomo]. Con il termine di lavoro utile si deve intendere l’impiego
della forza meccanica o fisica di uomini o di animali che porta
all’accrescimento del bilancio energetico della superficie terrestre.
3. L’uomo, considerato come macchina termica, possiede un coefficiente
economico determinato che tende a diminuire nella misura in cui aumentano i
suoi bisogni.
4. Al tempo stesso, però, la produttività del lavoro cresce in misura superiore
alla diminuzione del coefficiente economico, e ciò consente la soddisfazione di
bisogni crescenti.
5. L’esistenza materiale dell’umanità è assicurata finché ogni uomo ha a sua
disposizione mediamente una quantità di affinità chimica e di lavoro
meccanico complessivamente superiore al suo lavoro di tante volte quanto il
denominatore del coefficiente economico supera il numeratore [73].
6. Unità della forza ed economia politica
Siamo arrivati al punto in cui dobbiamo rispondere alla seconda domanda:
“Qual è il modo migliore di impiegare il lavoro umano per rendere disponibile
per il soddisfacimento dei bisogni umani una più grande frazione di forze
naturali?”
Il generale abbiamo già risposto: i mezzi migliori sono quelli che determinano
un maggiore accumulo di energia sulla superficie terrestre. La cultura
primitiva, che non è ancora tale perché non fa ricorso al lavoro utile,
all’accumulazione di energia, ma solo all’utilizzo delle forze accumulate
precedentemente dai processi vitali della natura, non può ritenersi un simile
mezzo. Il selvaggio, che si nutre di frutti e di radici, di caccia e di pesca, non fa
che dissipare nello spazio cosmico energia accumulata in precedenza [dalla
natura].
L’economia schiavistica è già un progresso; ma è ben lungi dall’essere
soddisfacente, giacché questa forma sociale, che si basa sulla guerra perpetua,
esclude una frazione importante dei lavoratori dalla partecipazione
all’accumulazione di energia, al lavoro davvero utile per il soddisfacimento dei
bisogni umani. Senza parlare del numero di lavoratori uccisi o feriti nel corso
delle continue lotte, accenniamo soltanto agli eserciti permanenti, ai proprietari
di schiavi e alle loro corti di sorveglianti, per mostrare quanti elementi inutili e
improduttivi contenesse la società schiavistica.
La servitù della gleba ha comportato un elemento di progresso. Il servo
possedeva almeno un pezzetto di terra che poteva lavorare senza temere
l’occhio del signore e senza sentire la sferza dei sorveglianti.
Ma come diventa insignificante questo progresso! Le piccole coltivazioni del
servo sono ben misere in confronto alle sterminate proprietà del signore. Il
tempo di lavoro libero dei servi non è che una breve ricreazione dopo i lunghi
giorni di corvée per il signore. Non ci si deve dunque meravigliare che la
produttività del lavoro della società feudale non abbia raggiunto mai la metà di
quella attuale
.
Vediamo ora il modo di produzione capitalistico. Questa forma di produzione
ha saputo utilizzare la divisione del lavoro e, non bastando questa, ha
cominciato ad impiegare su larga scala le macchine nell’industria e
nell’agricoltura. Ha ottenuto in tal modo risultati brillanti, superiori ad ogni
aspettativa.
Ma il capitalismo
ha anche il suo
rovescio.
Invece di accrescere l’accumulazione di energia sulla Terra, oggi le macchine
spesso accrescono l’inutile dissipazione delle forze di lavoro disponibili in
quanto, a seguito della sovrapproduzione, espellono dalla stessa produzione
una parte dei proletari. E’ invece necessario che ad ogni perfezionamento
meccanico o di altro tipo faccia seguito immediatamente una riduzione
generale dell’orario di lavoro che offra agli operai tempo libero per una nuova
produzione e la formazione intellettuale, artistica ecc. [74].
Un livello superiore e una distribuzione più equa della quantità e della qualità
dei beni alimentari comporterebbero inevitabilmente un accrescimento della
forza muscolare e nervosa dell’umanità. Ne seguirebbe un ulteriore aumento
della produzione e una maggiore accumulazione di energia sulla superficie del
globo.
Una statistica accurata e scrupolosa, i cui dati non siano nascosti o falsificati,
sarebbe il mezzo naturale per evitare il lavoro superfluo che viene sprecato
dall’attuale anarchia.
Una sanità pubblica razionale e un’igiene privata che soddisfi i requisiti
scientifici, dovrebbero portare col tempo la vitalità e la produttività umane a un
livello che ora incontriamo solo in casi eccezionali [75].
Sono queste a nostro avviso, nella forma di un abbozzo molto breve e forse
troppo schematico, le relazioni tra l’accumulazione di energia e le diverse
forme di produzione. Speriamo di poter tornare presto su queste questioni in un
lavoro
più
ampio
e
più
circostanziato
(21).
Note
* Avvertenza: le note indicate con un numero fra parentesi tonde sono note del
testo originale e sono riportate qui sotto [rubrica "note originali"]. Invece
quelle indicate con un numero fra parentesi quadre sono del curatore e sono
riportate nel post successivo [rubrica "note del curatore"].
Note originali
1) Si definisce energia la capacità di sviluppare forza.
2) Clausius, Théorie mécanique de la chaleur, I, p. 411, Paris, 1868.
3) La biologia è la scienza degli esseri viventi.
4) Secchi, Le Soleil, II, p. 258, Paris, 1875.
5) H. Sainte-Claire Deville[15], Leçons sur la dissociation, Paris, 1862.
6) É. Reclus, Géographie Universelle, Paris, 1873. Densità media della popolazione
al chilometro quadrato in Italia 94, nella regione etnea 550.
7) Sturry Hunt, Congresso della British Society, 1878[19].
8) La legge di Kirchhoff afferma che la quantità di calore irradiato è in relazione
diretta con la differenza di temperatura tra la fonte di calore e l'ambiente.
9) Secchi, Le Soleil, II, p. 300.
10) La prima intuizione di questo effetto spetta a Kant. Si veda la sua teoria dei corpi
celesti, Königsberg, 1785[27].
11) “Edinburgh Review” 1860, Coal Fields of North America and Great Britain, pp.
88-89.
12) Si veda, 1: Statistique de la France, 1874, 1875, 1878. 2: Dictionnaire des arts et
de l'agriculture di Ch. Laboulaye, 4a edizione, 1877. Articoli Agriculture di Hervé
Mangon, e Carbonisation. 3: Pelonze e Frémy, Traité de Chimie. 4: Hermann,
Grundzüge der Physiologie, 5a edizione, 1877[42].
13) Si confronti Marey, Du mouvement dans les fonctions de la vie, p. 205, Paris,
1868[45].
14) Si definisce coefficiente economico di una macchina il numero pari al rapporto
fra la sua prestazione lavorativa e il calore impiegato per ottenerla.
15) Verdet, Théorie mécanique de la Chaleur, II, p. 246.
16) Sadi Carnot, Réflexions sur la puissance motrice du feu, Paris, 1824, pp. 8 e seg.
17) Dictionnaire Encyclopédique du XIX siécle, articolo: Travail.
18) Collection des principaux économistes, V, p. 1.
19) Quesnay, Collection des principaux économistes. Physiocrates, II, pp. 187-88.
20) James Steuart, Principles of Political Economy, Dublin, 1770, I, p. 116.
21) Purtroppo, questa speranza del dotato Autore non ha potuto realizzarsi. Non gli è
stato concesso di sviluppare ulteriormente la sua feconda idea di applicare i risultati
delle ricerche fisiche all'economia politica, poiché subito dopo aver terminato
l'abbozzo qui pubblicato ha dovuto soccombere ad una affezione neurologica
incurabile.