DS_the tree of life

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DS_the tree of life
Il regista di La sottile linea rossa torna in sala con il suo film più ambizioso, visionario e spirituale. Dopo
Hereafter di Clint Eastwood e Biutiful di Alejandro Gonzalez Iñárritu, ecco a breve distanza un terzo film
che prova a mostrarci l'invisibile, coniugandolo alla realtà quotidiana. Terrence Malick ha sempre creato
film che suscitano grandi riflessioni ed emozioni viscerali, e che generano un'esperienza spettatoriale
inconsueta, ma spesso profonda. The tree of life è la sua opera al tempo stesso più intima e più epica,
è un viaggio nel tempo e nello spazio, in cerca di un valore e di un senso che ricollegano le
cosmogonie del macrocosmo al microcosmo di una famiglia.
scheda tecnica
durata:
95 MINUTI
nazionalità:
GRAN BRETAGNA, INDIA
anno:
2011
regia:
TERRENCE MALICK
sceneggiatura:
TERRENCE MALICK
fotografia:
EMMANUEL LUBEZKI
scenografia:
JACK FISH
costumi:
JACQUELINE WEST
colonna sonora:
ALEXANDRE DESPLAT
montaggio:
HANK CORWIN, JAY RABINOWITZ, DANIEL REZENDE, BILLY WEBER,
MARK YOSHIKAWA
effetti visivi:
DAN GLASS
casting:
FRANCINE MAISLER, VICKY BOONE
distribuzione:
01 DISTRIBUTION
Interpreti:
BRAD PITT (Il signor O'Brien), SEAN PENN (Jack da adulto), JESSICA
CHASTAIN (La signora O'Brien), FIONA SHAW (La nonna), JOANNA GOING (La moglie di Jack),
HUNTER MCCRACKEN (Il giovane Jack), LARAMIE EPPLER (RL), TYE SHERIDAN (Steve), Jackson
Hurst (Lo zio Ray), LISA MARIE NEWMYER (La prima donna in città), CRYSTAL MANTECON (Elisa),
TOM TOWNSEND (Randy), JENNIFER SIPES (La sesta donna), TAMARA JOLAINE (La signora
Stone), WILL WALLACE (Will), KIMBERLY WHALEN (La signora Brown), MICHAEL SHOWERS (Il
signor Brown), DANIELLE RENE (La terza donna), MARGARET HOARD (Jane), ZACH IRSIK (Il figlio
di Jack), BRAYDEN WHISENHUNT (Jo Bates).
la parola ai protagonisti
La troupe
Per farsi raccontare il set blindato di The Tree of Life, 24 Frames, la rubrica del “Los Angeles Times”,
ha raggiunto Emmanuel “Chivo” Lubezki, già direttore della fotografia di The New World e fedele
collaboratore di Alfonso Cuaròn.
“Un set diverso da tutti gli altri. È molto difficile parlare di questo film, perché quasi tutto ciò che potrei
dire sarebbe riduttivo, banale e semplicistico” racconta Lubezki. “È come una grande sinfonia, come la
grande musica. Entra in contatto con le profondità primordiali della mente umana.
Qualche volta è successo che gli attori stessero recitando i loro dialoghi, ma Terrence non fosse
interessato a loro, piuttosto a riprendere un riflesso, la cornice di una finestra o il vento. Alla fine, siamo
arrivati su di loro quando il dialogo era ormai finito. Gli attori ci avranno creduto pazzi... ma Sean Penn
è un regista a sua volta, sono certo che si chiedeva: Posso imparare qualcosa da questo metodo?
Mentre per Brad Pitt, credo gli siano stati necessari un paio di giorni o una settimana per entrare nello
spirito delle riprese.
Per Malick, la fotografia non va utilizzata per illustrare un dialogo o un'interpretazione” continua Lubezki
“ma per catturare le emozioni, cosicché il film diventa un'esperienza, con lo scopo di stimolare
tonnellate di ricordi, come potrebbe fare un profumo”.
Anche Alexandre Desplat (Benjamin Button, Il profeta, L'uomo nell'ombra, Il discorso del re) ha parlato
del suo lavoro per Terrence Malick: i due si sono incontrati nel 2007 in uno degli studi di registrazione
più celebri al mondo, gli Abbey Road Studios.
“Ho registrato in diverse sessioni, a Londra, Parigi, Los Angeles, fornendogli diversi spezzoni di musica
che lui ha aggiunto al film a sua discrezione” racconta Desplat, specificando di aver trascorso circa due
anni nella preparazione della colonna sonora di The Tree of Life. Malick ha fornito a Desplat riferimenti
in termini di sensazioni ed emozioni - “la luce, il silenzio, l'innocenza dell'infanzia” - mostrandogli alcune
clip e spiegandogli che voleva che il risultato finale fosse “come un fiume che scorre all'interno del film”.
Il risultato pare sia "meditativo, quasi uno stato di trance".
Desplat aggiunge che all'interno della colonna sonora ci sono “diversi brani di Berlioz, Ligeti, e molti
altri” (nel trailer compaiono La Moldava del compositore ceco Bedřich Smetana e Funeral march
dell'irlandese Patrick Cassidy) e conclude con un omaggio alla cultura di Malick e alla sua figura di
Leonardo del cinema:
“Terrence è uno studioso. Parla francese come me. Si nutre di filosofia tedesca e francese, letteratura
inglese, conosce l'astronomia e l'ornitologia, conosce perfettamente la musica, anche se tenta di
nasconderlo. Per dire, sa cantare il terzo movimento di una sonata di Beethoven... è un genio assoluto.
Per me Malick, rintanato nella sua casa di Austin, è un essere umano straordinario, è come i monaci
medievali, che furono pionieri della conoscenza.”
Di The Tree of Life ha parlato anche Douglas Trumbull, regista di Brainstorm nel 1983, leggendario
creatore degli effetti speciali per 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e Star Trek di Robert
Wise, nonché collaboratore di Spielberg per Incontri ravvicinati del terzo tipo e Ridley Scott per
Blade Runner. Intervistato da “The Australian”, Trumbull ha definito il film "un'opera cosmica, molto
spirituale", che anche se apparentemente sembra una storia di formazione, si sofferma sul posto
dell'uomo nell'universo e per stile e contenuto è “diverso da qualsiasi cosa si sia vista finora”.
Altri dettagli arrivano dal supervisore agli effetti visivi Dan Glass (Matrix Reloaded, Batman Begins),
intervistato da littlewihitelies: il film è stato girato in 35mm, digitale (RED camera) e IMAX. “Più che di
sceneggiatura si può parlare di una serie di note messe insieme nell'arco di circa 35 anni, e ci sono dei
suoi negativi effettivamente risalenti a quell'epoca che abbiamo inserito nel film. Malick ha lavorato a
questo progetto dagli anni '70 in poi.”
Visto il vastissimo materiale di partenza, la lavorazione degli effetti è stata suddivisa in quattro sezioni
chiamate “regni”: per la parte che riguarda l'astrofisica, ci si è avvalsi della consulenza di Michael
Benson, giornalista scientifico e filmaker, che ha fornito immagini avanzate da sonde e telescopi, con
l'aiuto dell'astrofisico Volker Bromm e di Donna Cox e Robert Patterson del del NCSA [National Center
for Supercomputing Applications. Per il “regno” della storia naturale, arriva la conferma che vedremo i
famigerati dinosauri annunciati in preproduzione.
Grant Hill e Dede Gardner (produttori)
"Terry ha creato un linguaggio cinematografico unico", nota Hill, che aveva già lavorato con Malick a La
sottile linea rossa. "Nessuno parla la lingua cinematografica che lui ha inventato. Possiede un dono
meraviglioso, quello di farti sentire nel film, come se conoscessi quei personaggi. E con The tree of
life, lui porta quel linguaggio cinematografico in un altro luogo, in modo da trasportare il pubblico in un
viaggio originale in cui la fiducia è fondamentale, consentendo di inserire le proprie esperienze di vita in
questa storia, che parla di una famiglia, ma allo stesso tempo anche della creazione del cosmo".
La Gardner ricorda che la visione de I giorni del cielo l'aveva sconvolta, tanto da farle desiderare di
lavorare nel mondo del cinema. "Io ero veramente emozionata dalla sceneggiatura e ho notato
soprattutto una cosa in base alla mia esperienza, ma credo proprio che ognuno avrà i suoi momenti
preferiti ed è proprio questa la cosa meravigliosa del lavoro svolto da Terry in The tree of life”.
La produttrice prosegue dicendo che "per me, la storia di questa famiglia e quello che racconta sulle
loro personalità, così come sulla vergogna, l'umiltà e la grazia sono molto più accessibili perché
collocate in un contesto ampio, un mondo senza tempo e senza confini. La cosa incredibile è il modo in
cui Terry riesce a inserire nel film tutti questi punti di vista importanti, mantenendo la sensazione che si
tratti di una storia familiare intima e avvincente".
Mentre il film si sposta nel tempo e nello spazio, crea le immagini dell'universo e della Terra che si
formano dal caos di un'esplosione, per poi crescere ed evolversi dando origine a incredibili forme di
vita. Malick ha consultato tanti scienziati per capire bene le forze legate alla fisica, l'astronomia e la
biologia, scienze fondamentali in quello che stava cercando di presentare. Inoltre, per la prima volta
nella sua carriera, ha lavorato molto con gli effetti visivi. Per far questo, ha collaborato a stretto contatto
con la squadra formata da Douglas Trumbull (noto per 2001: Odissea nello spazio) e dal veterano
supervisore degli effetti visivi Dan Glass (Matrix Reloaded, V per Vendetta). “Non penso di aver mai
visto nessun regista tentare di rendere in maniera credibile la nascita dell'universo in una pellicola",
afferma la Gardner. "Credo che sia qualcosa di magico, potrei guardarlo per ore. Ma a parte la bellezza
e il senso di meraviglia, la cosa impressionante è il modo in cui Terry inserisce tutto questo nel film,
permettendoti di vedere che questa famiglia, la personalità del padre e i conflitti che Jack sente dentro
di sé sono insignificanti ed effimeri rispetto al resto".
Jessica Chastain
L'attrice americana nota al pubblico di casa nostra soprattutto per apparizioni in serie televisive (E. R. e
Law and Order) parla del suo personaggio: "E' difficile interpretare un personaggio così spirituale e
puro. Ma poi ho capito che, per entrare nella sua mente, dovevo passare per l'amore che prova per i
figli. Era quello l'elemento chiave. La signora O'Brien ha sempre pensato di dover essere al servizio
degli altri e mostrarsi gentile con tutti per far funzionare le cose. E quando questo sistema non funziona
più, la sua fede vacilla e si deve porre delle domande. Perché siamo qui? C'è qualcosa dopo la vita?
Almeno siamo degli esseri reali? Penso che sia in questo momento che l'universo le risponde e ritengo
che ogni spettatore vedrà qualcosa di diverso in tutto questo".
Per prepararsi, la Chastain ha anche svolto delle ricerche sull'epoca. "Ho visto film degli anni trenta e
quaranta, in particolare quelli con Lauren Bacall, come mi aveva chiesto di fare Terry, perché a suo
avviso le persone di quel periodo parlavano in maniera diversa. Lui mi ha detto una cosa che condivido,
ossia che oggi comunichiamo in fretta perché abbiamo paura che qualcuno ci interrompa. Ma nelle
pellicole degli anni trenta, c'era una maniera diretta e lenta di parlare, che peraltro Terry ha mantenuto
anche nella sua vita reale".
In effetti, c'è un contrasto netto tra il modo di parlare della signora O'Brien e quello del marito,
interpretato da Brad Pitt. "Brad rappresenta la natura, mentre lei è la grazia, quindi lui è veramente
energico e aggressivo nel modo in cui parla, mentre lei non reagisce mai e le sue lezioni derivano più
dalle azioni che dalle parole, dalla maniera in cui tratta gli altri. E' stato magnifico lavorare con Brad in
questo modo", rivela l'attrice. "Era coraggioso e generoso, e non aveva paura di affrontare le scene più
difficili".
La Chastain ha lavorato a stretto contatto con i tre ragazzini, tutti attori non professionisti, che
interpretano i suoi figli. Ha passato diverse ore sul set con loro, mentre giocavano a nascondino,
ridevano e leggevano libri, dando vita a un legame materno che sembrava reale, anche in senso
drammatico. Penso che con Terry la recitazione diventi una forma di magia, c'è una completa
sospensione dell'incredulità. Alla fine delle riprese, il mio cuore si è spezzato quando mi sono ricordata
all'improvviso che loro non erano veramente miei figli", confessa l'attrice.
La Chastain sostiene di essere stata consapevole che stesse avvenendo qualcosa di importante. "La
pellicola era molto personale per ognuno di noi", sostiene l'attrice. "Tutti si sono posti le domande
presenti nel film che lo rendono qualcosa di più di un bel film. In realtà, si tratta di un'esperienza che ti
porta a riflettere sulla vita e le persone che ami, tanto da suscitare un cambiamento dentro di te".
Brad Pitt
"Terrence Malick è una persona talmente umile che credo si imbarazzerebbe a sentirsi chiamare
Maestro. Parlare con lui significa toccare argomenti molto profondi: è un cineasta capace di portare le
persone a interrogarsi su temi importantissimi."
Brad Pitt è entusiasta del lavoro con il leggendario regista statunitense e della conquista della Palma
d’Oro con The Tree Of Life. Interpreta un padre alle prese con un enorme dolore. Un uomo rigido, con
la consapevolezza e la frustrazione di aver perso le grandi occasioni della vita, che influisce sul
rapporto con i figli.
L'esperienza con Terrence Malick ti ha cambiato?
Il più grande cambiamento della mia vita lo devo all’essere diventato padre. In un certo senso, i film che
faccio diventano le estensioni cinematografiche di questo cambiamento. The Tree Of Life è un film
molto personale per Malick, ma mi ha dato occasione di sentirmi parte di un progetto grande e
ambizioso.
Qual' è la tua interpretazione del film?
Lo considero quasi uno studio sulla fragilità dell'esistenza, sul tentativo di trovare conforto attraverso la
religione e sulla ricerca di una spiegazione di tutto quello che ci circonda.
Forse la bellezza è proprio riuscire ad accettare l'impossibilità di conoscere ogni singola cosa,
adattandosi a un alone di mistero.
Che ruolo ha la religione cristiana in The Tree of Life?
È un film più spirituale che cristiano: abbiamo fatto molti dibattiti teologici durante le riprese, ma l'opera
non riflette una religione o una filosofia in particolare. Credo che le comprenda tutte perché rimanda a
una spiritualità universale che possa interessare gli spettatori di tutte le culture.
Cosa ha provato rivedendo il film a Cannes?
Mi ha sorpreso ancora una volta il genio di Malick, il suo straordinario modo di incrociare la grandezza
dell'Universo, il macrocosmo della la Natura, con il microcosmo della famiglia di cui seguiamo la storia.
Cosa l'ha convinta a partecipare al film? Solo la regia di Malick?
Da produttore riconosco al volo un buon progetto quando lo vedo. E poi il film mi dava la possibilità di
recitare questo padre oppressivo, con quel suo strano rapporto con i figli.... spero che i miei bambini
vedano The Tree of Life al più presto, perché credo di essermela cavata piuttosto bene come attore.
È un film in qualche modo autobiografico? Si rivede in qualche personaggio?
Pitt: È un film che parla a tutti, grandi e bambini. C'è senz'altro qualche suggestione che mi appartiene,
come l'amore per la natura, il ricordo della grazia e della purezza della madre, il sogno americano
incarnato dalla figura del padre. Ma non penso che un film così universale possa avere a che fare con
l'esperienza di un singolo individuo.
Suo padre era oppressivo come il suo personaggio nel film? E lei com'è con i suoi figli?
Mio padre non era assolutamente così. Quanto a me io li picchio regolarmente, i miei figli. (ride)
Gli effetti visivi
Anni fa, quando il progetto era soltanto nella sua testa, Malick ha iniziato a parlarne con Douglas
Trumbull, un pioniere nell'utilizzo fantasioso degli effetti speciali, celebre soprattutto per aver portato il
pubblico nello spazio profondo con il capolavoro di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio.
Trumbull è poi passato a creare degli effetti per il classico di Steven Spielberg Incontri ravvicinati del
terzo tipo, Blade Runner di Ridley Scott e la prima pellicola di Star Trek, oltre ad aver diretto pellicole di
fantascienza come 2002: la seconda odissea e Brainstorm generazione elettronica.
Sebbene non lavorasse a Hollywood da tanti anni, Trumbull era attratto dalla visione di Malick per The
tree of life. In particolare, Malick voleva che ogni immagine sembrasse naturale, il che significava
affidarsi il meno possibile ai computer utilizzando quella che Trumbull definisce "Non-computer grafica".
"Io e Terry abbiamo la stessa opinione sugli effetti visivi e le immagini, che devono risultare sempre
assolutamente naturali. Noi volevano esplorare nuovi territori cinematografici. I computer in questo film
ci sono, ne abbiamo utilizzati tanti e nel film vedrete degli effetti notevoli di computer grafica", spiega
Trumbull. "Ma, per esempio, i dinosauri sembrano proprio delle creature viventi, che sono sovraimposte
in un mondo assolutamente reale. Non si tratta di un universo falso con delle creature fasulle al suo
interno. Solo il 10-20% di quello che vediamo è realizzato al computer, ma lo spettatore non riuscirà a
capire quale parte dell'inquadratura è fatta in digitale e questo è perfetto per il mondo naturalistico di
Terry".
Trumbull si è innamorato del naturalismo di Malick quando ha visto I giorni del cielo, mentre stava
lavorando al film di Star Trek. "Quello che amo dei film di Terry è che rappresentano uno stile poetico.
Lui cerca costantemente di imparare qualcosa e questo fornisce una bella soddisfazione allo
spettatore. Prende una semplice storia umana e la inserisce in un quadro spettacolare, all'inizio e alla
fine dell'universo e nel corso dell'eternità della vita", dice Trumbull.
Poco dopo, Trumbull e Malick hanno iniziato una serie di conversazioni ipotetiche sul modo migliore in
cui realizzare alcune sequenze fondamentali nella visione di Malick. "Abbiamo deciso di creare molti
degli effetti intergalattici nella maniera in cui si faceva molti anni fa, utilizzando effetti ad acquerello e
cineprese ad alta velocità", spiega Trumbull. Hanno poi discusso di astronomia in generale: "Il
funzionamento dell'universo, la teoria del Big Bang, l'espansione cosmica, la relatività generale e come
tutto questo possa andare a braccetto. Terry desiderava esplorare queste idee come artista, non come
scienziato, per portare il cinema in territori nuovi. Mi ha parlato delle cose che desiderava vedere, come
le protostelle (le prime conglomerazioni di polvere e gas che poi sono diventate delle stelle), i dischi di
concrezione (un disco rotante di gas e polvere che si forma intorno alle stelle e ad altri oggetti spaziali
imponenti) e il sole che si trasforma in una Gigante rossa (una stella nelle sue ultime fasi di vita, che si
è espansa dopo il collasso del nucleo). E poi abbiamo discusso del modo migliore per riuscirci".
Trumbull ha organizzato un laboratorio segreto ad Austin, in Texas, soprannominato "Skunkworks",
dove ha iniziato a svolgere degli esperimenti. "Abbiamo lavorato con delle sostanze chimiche, pitture,
tinte fluorescenti, fumo, liquidi, CO2, bagliori, dischi ruotanti, dinamica dei fluidi, luci e fotografia ad alta
velocità per vedere quali risultati avremmo ottenuto. E' stata un'opportunità magnifica di sperimentare,
qualcosa che è molto difficile da fare nel mondo del cinema. Terry non aveva delle idee predeterminate
di quale avrebbe dovuto essere il risultato. Magari versavamo del latte in un imbuto stretto e lo
riprendevamo con delle cineprese ad alta velocità e delle lenti particolari, illuminandolo con attenzione
e utilizzando un frame rate che avrebbe fornito la giusta dose di movimento per farlo sembrare
cosmico, galattico, enorme ed epico. Lui non desiderava avere un approccio meccanicista già stabilito",
fa notare Trumbull. "Piuttosto, preferiva che avvenisse qualche fenomeno misterioso mentre la
cinepresa era in funzione. Possiamo dire che Malick stesse cercando il Tao, qualche evento
imprevedibile, dei momenti magici e inattesi che non si potevano pianificare. Spero che i risultati
abbiano dato vita a un cinema sperimentale e coinvolgente, in grado di andare oltre le parole e i limiti
del tipico film di Hollywood".
Circa quattro anni fa, il produttore Grant Hill ha deciso di coinvolgere anche Dan Glass, in modo da
farlo collaborare con Malick e Trumbull sulla parte tecnologica degli effetti visivi. L'offerta di Hill ha
preso alla sprovvista Glass. "Come professionista nel campo degli effetti visivi io non avrei mai
immaginato di poter lavorare con un realizzatore come Terrence. E' stato veramente eccitante".
Il processo si è rivelato molto diverso da quello che avviene nei maggiori film d'azione, fantasy e di
fantascienza, compresi Matrix Reloaded e Batman Begins. "Gli effetti visivi di solito sono pianificati
accuratamente fin dalle prime fasi di lavoro, ma Terry era più interessato a creare delle immagini che
comunicassero delle emozioni e un'atmosfera, insomma qualcosa di più spontaneo. Ha letto tante cose
e ha raggiunto un livello enorme di consapevolezza sulle conoscenze che abbiamo su questi
argomenti", rivela Glass. "Ha contattato diversi esperti e ci teneva a far sì che le immagini rispettassero
le teorie scientifiche più accreditate in questo momento. Quando giravamo queste idee, poi le
mandavamo agli scienziati per conoscere la loro opinione".
Il consulente scientifico Andrew H. Knoll, professore di storia naturale alla Harvard University, ha
parlato con Malick e con la sua squadra per alcuni anni sull'evoluzione della vita e sui processi legati
alla storia della pellicola. "Terrence Malick mi ha impressionato per il suo impegno profondo nel portare
avanti la sua visione artistica e per il rispetto dei fatti che rappresentano la filosofia del film", sostiene il
dottor Knoll. "Terrence ha lavorato per realizzare in maniera accurata le parti scientifiche, mentre
utilizzava la storia dell'evoluzione della vita come cornice per una vicenda familiare intima".
Glass ha portato il suo assortimento di macchine del fumo, tinte, sostanze chimiche e strumenti
cinematografici tipici della tradizione classica. “Tanti registi contemporanei avrebbero realizzato queste
scene in maniera molto diversa. Per esempio, il momento in cui una meteora colpisce la Terra poteva
risultare molto spettacolare. Ma Terry desiderava renderlo più contenuto, mostrando soltanto l'arco
della Terra mentre la meteora attraversa l'ombra della notte e poi colpisce, provocando una dispersione
di nuvole e materia che è stata creata con del latte in una vasca. Il risultato era molto naturale".
Questa stessa sensazione di naturalezza era presente quando si doveva ricreare l'epoca dei dinosauri.
Glass ha lavorato con tanto materiale filmato, dai boschi rossi della California settentrionale al Deserto
di Atacama in Cile. "In seguito, noi decidevamo dove piazzare le creature, ripensando continuamente
alle nostre scelte. Inserivamo una creatura che magari si vedeva soltanto per metà, in modo da
renderla più naturale. Le creature dovevano essere più modeste, non le consuete rappresentazioni dei
dinosauri che il pubblico si aspetta, ma come se ci trovassimo in mezzo a una scena di vita quotidiana.
Abbiamo lavorato a stretto contatto con il celebre paleontologo John “Jack” Horner della Montana State
University per essere il più possibili accurati".
I punti oscuri nella conoscenza umana hanno fornito a Malick, Glass eTrumbull ampio margine di
manovra per il loro lavoro. "Buona parte di quello che si vede nel film è più simile alla poesia o alla
pittura per come è stato realizzato", riassume Glass parlando del film. "Ma penso che la bellezza di
tutto questo sia il fatto di permettere a ogni persona di avere impressioni diverse rispetto a quello che
vede e apprezzarlo in maniera più personale".
Terrence Malick
Nato a Waco, Illinois, il 30 novembre 1943, ma cresciuto in Texas, Malick è un regista, sceneggiatore,
produttore cinematografico, attore e compositore statunitense. Timidezza, modestia e attenzione quasi
maniacale ai dettagli sono alcune peculiarità che gli vengono attribuite. Non è un caso che in
quarant’anni di carriera abbia realizzato solo cinque film e tra ognuno di essi sia intercorsa una pausa
temporale molto lunga. Sono infatti passati cinque anni dal suo primo film, La rabbia giovane a I
giorni del cielo, sette da La sottile linea rossa a The new world, sei da quest'ultimo a The Tree of
Life, senza contare i i vent’anni passati da I giorni del cielo a La sottile linea rossa, periodo in cui
Malick si trasferì a Parigi in una volontaria forma di esilio caratterizzata dallo studio della filosofia
orientale e dalle traduzioni dei testi del filosofo tedesco Martin Heidegger.
Non è un mistero che la realizzazione dell'ultimo lungometraggio, ora finalmente nelle sale, abbia
richiesto infatti tantissimo lavoro in fase di post produzione, prima di arrivare a un montaggio definitivo
che convincesse del tutto il regista (con ben cinque montatori all'opera). Oltre alla Palma d'Oro a
Cannes 2011 con il suo ultimo film, Malick ha vinto anche l'Orso d'Oro a Berlino nel 1999 per La sottile
linea rossa, il premio per la regia a Cannes nel 1979 per I giorni del cielo e il Festival di San
Sebastiano nel 1974 con il film d'esordio.
Recensioni
Gianni Rondolino. La Stampa
Non è un film facile The Tree of Life di Terrence Malick: va ben oltre la semplice storia di una famiglia
americana che vive in una piccola città negli anni 50, cerca invece di coniugare quella storia con una
visione del mondo in cui l'uomo è una semplice pedina di una scacchiera di dimensioni colossali, tanto
temporali quanto spaziali. Ma se si accetta questa visione, che si affaccia sullo schermo pochi minuti
dopo l'inizio del film, quando la madre riceve la notizia della morte improvvisa di uno dei suoi tre figli,
allora la vicenda assume un significato straordinariamente drammatico. Perché quella visione si
manifesta attraverso una lunghissima sequenza di immagini «astratte», che mostrano la nascita e la
trasformazione della Terra in un susseguirsi di elementi figurativi e musicali, non sempre individuabili, di
intenso coinvolgimento emotivo. Questa sequenza, che si inserisce nel tessuto narrativo del film
sconvolgendolo, fornisce allo spettatore una delle possibili chiavi di lettura della storia. La quale è
semplice e lineare: una famiglia piccolo-borghese, un padre autoritario, una madre dolce e sottomessa,
tre fratelli che si vogliono bene, uno dei quali, Jack, non accetta l'autorità violenta del padre e cerca di
ribellarsi. E sarà proprio Jack, che vedremo ormai maturo e solo, a condurre la vicenda attraverso una
serie di ricordi che tuttavia appaiono sullo schermo come attuali. Sullo sfondo, indirettamente, c'è la
sequenza «astratta», e i fatti quotidiani della vita famigliare si caricano d'una interpretazione che può
essere tanto religiosa quanto fatalistica. Da un lato c'è la religione che domina la vita della famiglia, ma
dall'altro c'è il comportamento del padre, duro e persino cinico. In più c'è una società che pare non
comprenda il vero senso dell'esistenza umana. Se si osserva attentamente il Jack maturo e solitario,
sullo sfondo di un ambiente dominato da architetture e luoghi anch'essi «astratti», la sua vita pare
segnata da un passato negativo, privo di vero amore. Come se Malick non solo volesse rappresentare
il rapporto esistente fra l'uomo e la natura, l'uomo e Dio, la scienza e la religione; ma anche la
solitudine esistenziale in un mondo dominato dal caos. E lo fa con straordinaria intensità visiva, che
raramente capita di vedere sullo schermo.
Carlo Carabba. Il Riformista
A chi ama discutere di cinema fino al litigio quest'anno è andata particolarmente bene. Quattro film
hanno diviso il pubblico nelle classiche fazioni avverse, bufala e capolavoro. In ordine di apparizione:
Somewhere di Sofia Coppola, Hereafter di Clint Eastwood, Habemus Papam di Nanni Moretti e ora
The Tree of Life di Terrence Malick. Di questi, a parere di chi scrive, solamente il film di Malick è un
capolavoro ed è possibile avvicinarlo agli altri tre e mostrare che riesce dove essi falliscono.
Somewhere e The Tree of Life vengono accostati soprattutto per un'apparente somiglianza formale.
Scelgono di narrare in assenza di plot, mostrando in successione scene che raccontano il quotidiano
senza inserirsi in una trama lineare, facendo uso di quelle atmosfere che molti amano dire rarefatte. Ma
la somiglianza, appunto, è solo apparente. La distanza è evidente già nei primi fotogrammi. La
macchina da presa fissa di Coppola inquadra una strada deserta dove a intervalli regolari passa una
Porsche (o quello che è). Il film di Malick inizia con la ripresa di raggi di luce in una dimensione che già
intendiamo al tempo stesso umana e cosmica mentre una voce fuoricampo spiega la distinzione tra
natura e grazia. Coppola parte da uno spunto autobiografico e vuole fare un film per mostrare i
problemi delle persone che hanno tanto, ma manca di coraggio e i problemi se ci sono non si vedono.
La bambina (una sua autorappresentazione) è perfetta, pattina, cucina, è forte con gli arroganti e umile
coi deboli. Il padre è scapestrato ma buono, simpatico e alla fine si pente. Così il film si riduce a un film
sul niente, ambientato nell'arco di un paio di settimane estive in cui niente accade. The Tree of Life è
un film sul tutto che decide di mostrare tutta una vita per mostrarle tutte.
Per chi ama Eastwood Hereafter è stato un duro colpo. Il film è mosso da un'intollerabile idea di
provvidenza da catechismo new age. Ci sono fantasmi buoni che salvano i fratelli da attentati in
metropolitana, un oltretomba rassicurante in cui andremo tutti, persino lo tsunami in fondo fa finire
relazioni che non funzionano e permette di incontrare il grande amore. The Tree of Life al contrario
rifiuta qualsiasi disegno provvidenziale, di giustificazione dell'operato divino. E piuttosto sconcertante
che la maggior parte dei detrattori del film non si siano resi conto, nonostante l'epigrafe iniziale e la
scena dell'omelia del prete, che il film è una riscrittura del Libro di Giobbe. I dieci minuti naturalistici,
contro la cui supposta gratuità si sono rivolte la maggior parte delle critiche, sono una trasposizione
visiva degli ultimi capitoli del testo biblico in cui Dio mostra a Giobbe le meraviglie del creato. Malick
mette in scena l'incolmabile distanza che c' è tra Dio e uomini, non scioglie i dubbi sull'esistenza di Dio
e di una vita oltre la morte, registra l'insufficienza delle due vie cui allude l'inizio del film. Tanto la natura
quanto la grazia non mettono al riparo dal dolore e non riescono a dare ordine al mistero dell' esistente.
E la visione finale probabilmente è solo un'allucinazione all'ombra dei grattacieli.
Più labile e nascosto il punto di contatto col film di Moretti, che pure per certi versi è ben degno di lode.
Pare che il vero centro di Habemus Papam sia la difficoltà, giunti a un momento relativamente avanzato
della propria vita, di accettare che il più sia stato fatto e che sia il tempo della saggezza e dello sguardo
saggio e distaccato. Piccoli quando recita Cechov e rifiuta il soglio sembra dire «voglio vivere». Il film di
Moretti però soffre di una certa irresolutezza. Lo spunto di partenza (la rinuncia al pontificato) è troppo
grande per essere ignorato e considerato solo uno spunto, il tema della fede è trattato appena, e
superficialmente. Ma tra le enormi differenze dei due film la positività della vita è il cuore anche di The
Tree of Life. Per trovare un film dell'ambizione e della grandezza di quello di Malick si deve risalire ai
tempi eroici del cinema, i Lumière, Griffith, Lang. Un film intentato che muove dal cosmo all'uomo e
dall'uomo al cosmo, rende in immagine la gioia e il dolore dell'esistenza, le contraddizioni dell'animo e
la tensione verso l'infinito, e, come la ginestra leopardiana, raffrontando la piccolezza dell'uomo e
l'immensità del creato racconta che tutto ciò che importa è vivere e amare.
Playlist
The Tree of Life è uscito nelle sale cinematografiche americane lo scorso 27 maggio, ma con un
numero limitato di schermi, destinati ad aumentare una volta testata l’effettiva riuscita commerciale del
film. Solo 4 copie a disposizione, per il momento, e una sbalorditiva media per sala, pari a 93,230
dollari, per un totale di 589,840 dollari incassati. Ebbene, quei 4 cinema che hanno proiettato il film neo
vincitore della Palma d’Oro a Cannes, hanno ricevuto non solo la copia della pellicola ma anche dei
precisi accorgimenti, scritti dallo stesso Malick, da prendere al momento della proiezione.
Il regista texano ha infatti inviato una lettera insieme a ogni copia del film, per assicurarsi che i
proiezionisti rispettino una serie di impostazioni tecniche fondamentali, “perché la proiezione
cinematografica sta diventando velocemente un’arte dimenticata”.
Per esempio: considerata l’assenza dei titoli iniziali, le luci devono essere spente ben prima che inizi la
prima bobina.
L'attenzione di Malick al dettaglio è impressionante, e immaginiamo che nella prima fase di uscita le
sue istruzioni siano seguite, ma non siamo sicuri che l'idea romantica del regista che ogni proiezionista
sia come Alfredo di Nuovo cinema Paradiso riuscirà a penetrare attraverso di la realtà degli annoiati,
mal pagati giovani mal addestrati che lavorano nei multiplex di tutto il paese, se il film dovesse
raggiungerli.
Un altra curiosità poco nota ma importante del film, è che all'interno di esso si trovano alcuni secondi di
girato tratti da Autumnal, un film astratto sperimentale del regista newyorkese Scott Nyerges.
Quest'ultimo non compare nei crediti, ma avverte che si tratta di un fatto comune: nel film di Malick,
come in molti altri, le idee visive degli artisti di avanguardia sono spesso usate in modo tacito. Si tratta
di un tipo di cinema che ha influenzato tutto, dalla pubblicità ai video musicali ai film, e che non ha mai
ricevuto riconoscimento sufficiente.
Tuttavia Nyerges, che si ispira al suo mitico maestro Stan Brakhage, a Maya Deren, Bruce Baillie,
Bruce Conner, Peter Hutton e Craig Baldwin, non incolpa Malick, che lo ha pagato profumatamente e
ha fatto a suo parere qualcosa di molto coraggioso, inserendo venti minuti di cinema sperimentale al
centro della narrazione. Le scene ricordano, fra le altre cose, la cinematografia di Koyaanisqatsi.
Paolo Mereghetti. Corriere della sera
Sarebbe piaciuto ai surrealisti quello che è successo a Bologna al cinema Lumière. Loro che
teorizzavano una visione «personalissima» del cinema e pensavano che l'ideale fosse entrare e uscire
dalla sala per non farsi condizionare dalla storia che veniva raccontata sullo schermo o, in mancanza di
meglio, suggerivano di schiacciare un pisolino per confondere sogni e visioni, loro avrebbero applaudito
all'errore che per nove giorni ha trasformato il film di Terrence Malick The Tree of Life in un'altra cosa.
In un altro film. Perché per tutti quei giorni le prime due bobine sono state viste nell'ordine sbagliato:
prima la seconda e poi la prima. Errori che possono succedere soprattutto se il film arriva dal
distributore nazionale con lo «scambio» incorporato: nella custodia col numero uno c'era la seconda
parte e viceversa. Ma errori che di solito si correggono dopo la prima proiezione o addirittura in corsa,
durante lo spettacolo. E invece a Bologna sono andati avanti per nove giorni così, senza che nessuno
si lamentasse. Forza delle suggestioni arrivate da Cannes probabilmente, dove il film di Malick ha vinto
la Palma d'oro ma è stato descritto come un film insolito, visionario, antinarrativo. Per qualcuno
addirittura «confuso» e «delirante». E il pubblico del Lumière, che è abituato alle proposte più estreme,
ha accettato in silenzio quello che passava sullo schermo. Anche se la citazione dal Libro di Giobbe
non era più all'inizio del film ma dopo venti minuti. Anche se il logo del distributore non stava più in testa
al film. Da Malick ci si poteva aspettare di tutto. In fondo anche Sean Penn non si era presentato alla
conferenza stampa perché insoddisfatto — si dice — del montaggio definitivo. Forse aveva visto anche
lui la versione proiettata a Bologna.
Emanuele Severino. Corriere della sera
Dice Leopardi che, nelle «opere di genio», «l'anima riceve vita, se non altro passeggiera, dalla stessa
forza con cui sente la morte perpetua della cose e sua propria» (Zibaldone, 261). Una vita illusoria, ma
che, sia pure per poco, rende possibile la sopravvivenza dell'uomo. Un tema centrale, questo, del
pensatore-poeta che ha aperto la strada all'intera cultura del nostro tempo.
La prima «opera di genio» è quella dei popoli più antichi: la festa, che è l'immagine della vita e dunque
della morte. L'immagine si libra al disopra del mondo: gli uomini festivi si identificano ad essa e si
sentono quindi salvi dalla morte. Più tardi la festa arcaica si dissolve e le sue membra diventano
religione, tecnica profana, arte. Oggi la festa si celebra soprattutto in quelle sue deformanti e impallidite
derivazioni che sono le folle delle partite sportive, della musica rock, delle visite dei pontefici romani e,
in minor misura, del cinema.
Si dice che nei precedenti film di Terrence Malick emerga l'indifferenza della natura rispetto alle vicende
umane: al loro orrore come ai pochi momenti di felicità. Ancora più crudele la natura, nei film di questo
regista, quando il massacro è circondato dalla struggente bellezza della terra, di cieli all'alba e al
tramonto, di fiumi, di mari. Se si uccidono dinanzi a una natura che mostra a sua volta il proprio volto
terribile, gli uomini possono sentire che in qualche modo essa partecipa ai loro tormenti. In ogni caso,
non li rende sopportabili.
Ma questa interpretazione va nella direzione sbagliata. Per lo meno è unilaterale. Certo, il timore è
l'inseparabile compagno dell'uomo, il dolore e la morte ne sono la radice. Ma, per quanto vissuta nei
suoi derivati, la festa non ha cessato di illudere gli uomini. In questa direzione va detto che nei film di
Malick la bellezza della natura non è l'indifferenza, incapace di rendere sopportabile il dolore, ma è la
forza con cui l'immagine festiva, facendo sentire la morte, dà vita all'«anima».
Se non si guarda in questa seconda direzione, l'ultimo film di Malick delude. Sembra battere,
sorprendentemente, una strada del tutto diversa da quelli precedenti. La strada biblica (nominata quasi
all'inizio del film). Per la quale chi segue la «via della Grazia» non avrà timore. Che poi è la strada di
tutte le religioni. Infatti il timore è vinto, cioè reso sopportabile, solo quando ci si convince di riuscire a
stabilire un'alleanza con quella che si ritiene la Potenza suprema — e il «Divino» è appunto questa
Potenza. Perché ciò accada è necessario che essa accolga il desiderio dell'uomo; e poiché nulla può
costringerla l'accoglierlo è una Grazia, un dono. Si può dire che Inalbero della vita» sia questa alleanza.
L'«anima» riceverebbe vita da questa alleanza. L'intera tradizione dell'Occidente lo pensa.
Se l'«uomo» è l'essere che crediamo di conoscere, la fede nella possibilità di questa alleanza è
inestirpabile. Per questo la religione si riaffaccia continuamente nella coscienza umana. La cultura
europea ha messo in discussione Dio, ma non il bisogno di allearsi con la potenza che si ritiene
suprema. Oggi, nonostante tutto, si tende a ritrovarla nella tecnica guidata dalla scienza moderna. In
Europa le masse avvertono più che altrove il disagio di un'esistenza che va sempre più allontanandosi
da Dio e che d'altra parte non si vede ancora sufficientemente garantita da una tecnica ancora troppo
confusa con la gestione capitalistica della tecnica.
Continuando a seguire questa linea interpretativa, che conduce il film di Malick nella direzione
sbagliata, esso può allora risultare sorprendente perché, prendendo le distanze dai contenuti dalla
cultura europea del nostro tempo, dà voce, sia pure con un linguaggio elitario e con uno scarto che
viene indicato qui avanti, ai contenuti tradizionali della religiosità americana. Non si tratta forse di un
regista provvisto di una rispettabile preparazione filosofica? Tale cioè da averlo messo in grado di
pubblicare la traduzione di una difficile opera di Martin Heidegger? Il che – si potrebbe osservare tra
parentesi – metterebbe in luce qualcosa di più importante, cioè la porta che Heidegger ha lasciato
aperta al Divino; e che in qualche modo ha tentato di tener aperta anche per Nietzsche, che invece si
rifiuta di venir sospinto lungo questa strada. Heidegger guarda infatti al passato della cultura europea
come a qualcosa da cui non si può prendere un definitivo congedo. «Solo un Dio ci può salvare», egli
scrive – a differenza di pensatori radicali come Nietzsche, appunto, o Giovanni Gentile, o, innanzitutto,
proprio Giacomo Leopardi, al quale Malick, si verrebbe a trovare vicino se lo sfondo del suo quadro
poetico fosse l'indifferenza della natura per il dolore e la felicità dell'uomo.
Il protagonista del film è un ragazzo che ama, anche morbosamente, la madre, dolcissima, e patisce
l'esteriorità della fede religiosa e il carattere soffocante e a volte brutale del padre, e perde il fratello e
non vede la ragione di esser buono quando Dio è cattivo; ma infine, fattosi adulto, varca la porta del
dubbio e tra sogno e veglia si riconcilia con un mondo dove la madre offre a Dio il proprio figlio, i morti
risorgono e tutti si amano.
Ma allora – vien fatto di dire -- che la fede sia una lotta continua col dubbio, la disperazione, il
cedimento al peccato, il cristianesimo lo sa da duemila anni. La tradizione religiosa americana
preferisce chiudere presto i conti con il dramma della fede: predilige la compostezza, dove però, il
dramma, più che risolto è tenuto via dallo sguardo. In tal modo, lo scarto del film di Malick rispetto a
quella tradizione si ridurrebbe a ben poco, cioè alla coscienza che quel dramma esiste. Sarebbe
dunque un film edificante. Che però parlerebbe un linguaggio che per un verso è d'avanguardia ed
enigmatico, per l'altro lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi ai tratti più toccanti dell'amore e a una
natura splendida e sovrana. La forma lussureggiante e innovativa dell'immagine non farebbe allora che
mascherare il contenuto edificante, cioè l'aspetto scontato del film.
Però l'interpretazione che abbiamo sin qui prospettato non rende giustizia a quell'immagine. La quale
non esprime l'indifferenza della natura per l'uomo, ma ha il carattere festivo di cui si parlava all'inizio.
Che il contenuto «americano» del film di Malick sia edificante e scontato non ha più importanza del
fatto che i contenuti dell'antica tragedia greca sono una serie di miti che tutti gli spettatori conoscevano
dall'infanzia, ben prima di recarsi al teatro dove se li vedevano riproposti. Sono i miti che parlano della
vita, dunque della morte. Prometeo, Edipo, la guerra di Troia. Ma come li riproponeva il teatro greco?
Riproducendo l'immagine festiva che solleva gli spettatori sopra la morte: l'immagine che è sentita più
reale e più rassicurante dello stesso carattere salvifico del mito che in essa viene riproposto.
E come il mito greco continua a salvare l'uomo evoluto della polis solamente quando esso si trasfigura
nell'immagine festiva del teatro, così il mito cristiano continua a salvare il credente dell'Europa moderna
soltanto quando anch'esso si esprime nell'immagine festiva della Divina Commedia, nella Cappella
Sistina, nella Passione secondo San Matteo: soltanto nella fusione di rito e arte. Nella minore
dimensione del cinema avviene qualcosa di analogo. In questo diverso senso, L'albero della vita è
davvero un'opera «edificante» (aedes tacere): «costruisce la casa» dell'immagine festiva e salvifica.
Evelina Santangelo. Il Fatto quotidiano
Basterebbe leggere le recensioni uscite sulle testate più varie, italiane ed estere, per avere una qualche
misura di quanto siano variegati, spesso inconciliabili, i giudizi sull'ultimo film di Terrence Malick, The
Tree of Life, Palma d'oro al Festival di Cannes. "Un capolavoro contenuto e quasi imprigionato in una
crisi mistica di arduo fascino" (Curzio Maltese, Repubblica). "Affascinante, ambiziosissimo, irrisolto"
(Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano). "Un film che rischia d'entrare di slancio nella disagiata
categoria dei capolavori mancati" (Valerio Caprara, Il Mattino). "Film folle e magnifico... grandissimo
cinema" (Peter Bradshaw, The Guardian). "Una parodia di Malick fatta da uno che lo detesta" (Sukhdev
Sandhu, The Telegraph). Giusto per citarne solo una piccolissima parte. Giudizi così divisi esigono, se
non altro, un atteggiamento aperto, affatto liquidatorio. Con quest'animo dunque sono andata a vedere
The Tree of Life.
Meraviglia, stupore, e anche un senso sconcertante di inadeguatezza dinanzi all'immensità e alla
potenza delle immagini, sono i sentimenti immediati che si provano sin dalle prime sequenze. Il
nocciolo umano del film - la vicenda di una famiglia texana degli anni ' 50 colpita da un lutto
inaccettabile e insensato come la morte di un figlio - è infatti calato (e reso più vero, direi) in una visione
cosmica e panica dove tutto ha un che di abissale: abissi microbiologici, abissi marini, abissi galattici,
abissi temporali, dalla notte dei tempi a una modernità vertiginosa e arrogante che compete con la
vertigine della natura o è forse -come suggerisce il protagonista, Jack (Sean Penn) - la più proterva
manifestazione di un inappagato desiderio di dominio, di quella hybris insomma (superbia,
prevaricazione) che è la peggiore delle colpe dell'uomo al cospetto di qualsiasi dio.
Ammirazione è poi il sentimento che meglio esprime quel che si prova dinanzi ai movimenti
imprevedibili della macchia da presa, che riesce a fissare i sentimenti più intimi nelle velature di un viso
o a suggerire lo slancio del desiderio d'assoluto in scalate verso il cielo tra chiostri di tronchi.
Un cinema veggente, l'ha definito qualche critico. Un cinema visionario, sicuramente, e onirico, che non
narra, ma preferisce suggerire piuttosto, attraverso analogie, assonanze, richiami emotivi, complice una
musica "portentosa", ora solenne come un requiem ora impalpabile come un richiamo fatto di puro
spirito. Ed è proprio su quel che questo film suggerisce che vorrei soffermarmi, partendo da quel
nocciolo umano, appunto, in cui è messo in scena un microcosmo familiare in un tempo preciso:
l'America della middle class degli anni '50 - con le sue grettezze, il suo pragmatismo omocentrico, il suo
culto del focolare domestico. In questo microcosmo cresce Jack, diviso dolorosamente tra gli
insegnamenti di un padre duro (Brad Pitt), o meglio indurito e frustrato, che pronuncia frasi come
questa: "Ci vuole una volontà di ferro per farsi avanti in questo mondo", e una madre che: "Se non ami,
- dice, - la tua vita passerà in un lampo". E, quando questa stessa madre (Jessica Chastain) suggerisce
come affrontare l'esistenza, non contempla che due precise possibilità: "Ci sono due vie per affrontare
la vita. La via della natura e la via della grazia. Sta a te scegliere quale delle due seguire".
SAREBBE un errore pensare che la "via della natura" coincida in tutto e per tutto con la via proposta
dal padre, che è semmai la via più modesta di un piccolo uomo inchiodato al suo mediocre destino. La
via della natura è piuttosto quella dell'infanzia che Jack vive insieme ai fratelli in un intreccio di conflitti
interiori, frustrazioni, rancori inespressi, desideri indicibili, piccole vendette cui fa da contraltare la
mitezza angelica del fratello destinato al sacrificio inesplicabile della sua morte precoce. Un
personaggio, quest'ultimo, che nei tratti fisici così come nei tratti umani è la quintessenza della grazia.
La grazia di una creatura bambina, resa ancora più innocente dal sacrificio che l'attende. Quella stessa
grazia di cui la madre è la manifestazione più sensuale ma non meno pura, di quella purezza e bellezza
disadorna, spirituale, che ricorda la Venere del Botticelli.
Né sembra ci possano essere dubbi che queste due figure così fortemente idealizzate, così estranee
alle dinamiche dell'esistenza quotidiana (a ogni forma di miseria o mediocrità), perché non corrotte
dalla vita, siano le creature che più si avvicinano a quell'integrità ideale cui non può che volgersi il
desiderio dell'uomo nella ricerca di senso. "Un giorno cadremo e verseremo lacrime... E capiremo tutto.
Ogni cosa". "Guidaci sino alla fine del tempo". Questo dice la voce fuori campo, mentre Jack (ormai
adulto) affronta il labirinto che lo porterà alla spiaggia dei giusti. E infatti il Dio cui si rivolge l'uomo di
Malick è proprio il Dio del Libro di Giobbe, il Dio abissale, dalla volontà insondabile, del Vecchio
Testamento, che esige sacrifici umani e non conosce pietà, né ha mai sperimentato d'altro canto la
miseria dell'essere uomo.
È proprio questo il punto, per chi abbia voglia di chiedersi quale orizzonte umano, spirituale, quale
orizzonte culturale si profili nel "capolavoro" di Malick. Non è semplicemente una questione di fede. E
meno che mai di ateismo. Quel che lascia davvero ammutoliti è proprio l'idea che il "senso" dell'umano
si possa manifestare in creature angeliche o angelicale, in bambini efebici e donne "non con uman
volto"; che il "senso" della vita si debba tornare a cercarlo in quell'Entità lì impenetrabile e distante, o
ancora nell'espiazione di un sacrificio di cui non è dato chiedere conto... e non piuttosto nel cuore
stesso dell'esistenza dove, proprio in quegli stessi anni '50, una donna, un'afro-americana (Rosa
Parks), si rifiutava di cedere il posto a un bianco in un autobus e un reverendo di nome Martin Luther
King predicava la giustizia terrena pronunciando parole come queste: "Se avremo aiutato una sola
persona a sperare, non saremo vissuti invano", "la legge e l'ordine saranno rispettati solo quando si
concederà la giustizia a tutti indistintamente". E davvero quella proposta da Malick l’ “avventura
impervia e radicale" di questo nostro tempo? È davvero quell' Entità il Dio cui rivolgere le nostre
domande di uomini che, credenti e non credenti o diversamente credenti, hanno conosciuto anche un
altro Dio capace di farsi uomo tra gli uomini... O non è forse, quell'avventura spirituale mirabile, un
modo altrettanto mirabile per mettere a posto le nostre coscienze?
Michele Faggi. Indie-eye.it
Quando la colossale storming visionaria di Douglas Trumbull si innesta dopo i primi venti minuti
dominati dalla fotografia di Emmanuel Lubezki, The Tree of life si incunea in un viaggio percettivo cosi
complesso da coinvolgere più storie del cinema; è come se la visione aerea di Martin Sheen alla fine di
Badlands, sguardo già lanciato oltre l’orizzonte del racconto, si liberasse in una forma di cinema
espanso alla ricerca della luce, a caccia di una rifrazione, quella in transito dal 35mm all’occhio della
Red One con un lavoro sui contorni luminosi che cambia spesso dimensioni e formato nel contrasto tra
la magniloquenza e la portabilità dell’osservazione cosi vicina a volti e corpi, ma anche il riflesso vitale
e arcaico che possiede la virtualizzazione dello sguardo nei mondi digitali, elaborati con lo stesso
stupore filosofico; l’ultimo lavoro di Terrence Malick, in questo senso, contiene mille e più film aperti, e
cominciando davvero dalla fine de “La Rabbia Giovane”, sembra dibattersi tra le dimensioni di un
cinema colossale e la prossimità di un racconto famigliare, cosi intimo da tendere alla forma
pulviscolare più che a quella del documento. E’ la stessa biforcazione dell’immagine che si manifesta in
molti dei film di Eastwood, quella che dovrebbe salvarci dal considerare il cinema di questi due grandi
cineasti come esempi di solida classicità, quando al contrario, per sfruttare un concetto caro a Pasolini,
il materiale fisico e sensoriale degli apparati audiovisivi, più che a causa di un disinnesco palese di
provenienza metacinematografica, diventa nel (loro) cinema corpo di una lingua spazio-temporale
complessa che altrimenti sarebbe “puramente astratta o spirituale”. Ed è probabilmente su questa
semplice biforcazione (filmare l’invisibile) che critica e pubblico si spaccano in un’incondizionata
reazione di odio-amore nei confronti di una deriva cosi libera dell’apparato cine-mnemonico.