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SENTENZE CONVEGNO:
1.Cass. 17955/2013 del 24/07/2013
2. Cass. 9709/2015 del 13/05/2015
3. Comm. Trib. Prov. di Milano 2028/2016 del 03/03/2016
4.Cass. Trib. 18392/2015 del 18/09/2015
Cfr.:
4.1Cass. 22023/2006 del 13/10/06
4.2Cass. 11226/2007 del 16/05/2007
5. Cass. 12844/2015 del 22/06/2015
6. Cass. 8130/2016 del 22/04/2016
7.Cass. 7343/2011 del 31/03/2011
8. Cass. 17953/2012 del 19/10/2012
9. Cass. 10739/2013 del 08/05/2013
10. Cass., sez. un., 12759/2015 del 19/06/2015
1) Cassazione civile, sez. trib., 24/07/2013, (ud. 28/09/2012, dep.24/07/2013), n. 17955
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PIVETTI Marco
- Presidente Dott. BOGNANNI Salvatore
- Consigliere Dott. GRECO Antonio
- Consigliere Dott. CIRILLO Ettore
- rel. Consigliere Dott. MELONI Marina
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 4040/2007 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente
domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
- ricorrente contro
MACCHINE & ACCESSORI IND. GRAFICA MACCHINGRAF SPA, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA P.ZZA MAZZINI 27,
presso lo studio dell'avvocato DI GIOIA GIOVANNI, che lo rappresenta e difende
unitamente all'avvocato CAPE' PAOLO MARIA giusta delega in calce;
- controricorrente avverso la sentenza n. 89/2006 della COMM.TRIB.REG. di MILANO, depositata il 19/09/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/09/2012 dal
Consigliere Dott. ETTORE CIRILLO;
udito per il ricorrente l'Avvocato VOLPE, che si riporta;
udito per il controricorrente l'Avvocato CAPE', che si riporta;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico,
che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
01. Con sentenza del 19 settembre 2006 la CTR - Lombardia ha rigettato l'appello proposto dall'Agenzia
delle entrate nei confronti della Soc. Macchingraf, confermando il parziale annullamento dell'avviso di
accertamento per maggiori imposte (IRPEG, ILOR, IVA) relative all'esercizio chiuso in data 31 dicembre
1999.
02. Per quanto qui interessa, a fronte del rilievo dell'antieconomicità del ricarico del 4% (in luogo di quello
del 10,09%) applicato alle cessioni effettuate dalla contribuente alla controllata Soc. Macchingraf Sud, il
giudice d'appello ha motivato la sua decisione sotto tre profili: a) la controllata godeva sì di agevolazioni per
il Mezzogiorno, ma ciò non escludeva la legittimità di politiche aziendali dirette ad agevolare ulteriormente
l'espansione dell'attività nel meridione d'Italia; b) il ricarico minimo applicato dalla controllante alla
controllata bene poteva rappresentare "strumento di incremento anche occupazionale e sociale oltrechè
aziendale", con esclusione di qualsivoglia intento elusivo; c) l'intero gruppo nulla aveva evaso, avendo
effettuato legittime scelte "per il decollo dell'attività in zona svantaggiata".
03. Ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, l'Agenzia delle entrate; la contribuente resiste
con controricorso.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
04. Con il primo motivo, denunciando difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), la ricorrente
fondatamente rileva che il meccanismo elusivo, contestato dall'Ufficio nei rapporti tra società italiane, è nei
fatti simile a quello previsto dal TUIR, art. 76 (ora art. 111), per i rapporti di controllo tra società residenti
nello Stato e società non residenti, secondo il generale principio del valore normale di mercato (art. 9) quale
spia dell'intento elusivo dinanzi a comportamenti antieconomici del contribuente. Nella specie, gli snodi
probatori, addotti sul piano logico e circostanziale a giustificazione della ripresa a tassazione, sono stati
effettivamente del tutto trascurati dal giudice d'appello nello scarno apparato argomentativo della decisione
di secondo grado.
05. In particolare, con specifico riferimento a tutto quanto trascritto in ricorso per autosufficienza, si
riscontrano sia l'omesso esame dell'andamento degli utili della controllante e della controllata negli anni
1998/2001, sia l'omessa valutazione del ricarico del 6,57% che, riconosciuto nel ricorso introduttivo come il
minimo economicamente gratificante, era sì inferiore a quello indicato dall'Ufficio ma comunque superiore a
quello (4%) concretamente applicato dalla Soc. Macchingraf alla Soc. Macchingraf Sud (controllata al
100%), prima della sua incorporazione nel 2002.
06. Dunque, mancando finanche graficamente qualsivoglia esame motivazionale dei rilievi del Fisco, il
primo motivo va accolto.
07. Con il secondo motivo, denunciando la violazione dell'art. 9, comma 3, T.U.I.R., la ricorrente
fondatamente sostiene che, con la laconica affermazione "l'intero gruppo nulla ha evaso", il giudice d'appello
non ha tenuto conto che il criterio legale del valore normale delle operazioni infragruppo rileva non solo nei
rapporti internazionali di controllo, ma anche in analoghi rapporti di diritto interno, ogniqualvolta con la
fissazione di un prezzo fuori mercato si miri a far emergere utili presso la società del gruppo che sconta,
anche per agevolazioni territoriali, la più bassa tassazione.
08. Il fenomeno giuridico ed economico dei gruppi aziendali operanti in collegamento nel territorio dello
Stato, almeno sino all'introduzione del c.d. "consolidato nazionale" nell'ordinamento tributario, ha raramente
ottenuto riconoscimento nel sistema fiscale (es.D.P.R. n. 602 del 1973. art. 43 ter; TUIR, art. 84, comma 3,
già art. 102 comma 1 ter, ; d.iva, art. 73 comma 3), il che ha comportato il diffondersi di operazioni aziendali
di tipo difensivo che, nate per la più conveniente allocazione dell'imponibile tra le società associate in Italia,
sono sfociate in vere e proprie operazioni elusive.
09. Tra esse rientrano le manovre sui prezzi di trasferimento interni, motivate dalla convenienza, in ambito
nazionale di trasferire la materia imponibile, agendo sui prezzi negoziati per le cessioni di beni e le
prestazioni di servizi "intercompany". Si tratta del fenomeno del c.d. "transfer pricing domestico".
10. Lo strumento è normalmente utilizzato da società controllanti o collegate, con sede nei territori del
Centro-Nord, che cedono merci o beni immateriali alle controllate o consociate aventi sede nel Mezzogiorno
ad un prezzo inferiore al valore normale così come definito dall'art. 9 cit.. Tali manovre, secondo le
determinazioni dell'amministrazione finanziaria, consentono di realizzare una contrazione dell'utile per
l'impresa settentrionale con reddito assoggettato alle aliquote ordinarie e di "gonfiare" l'utile dell'impresa
meridionale che gode delle agevolazioni fiscali stabilite dalD.P.R. n. 601 del 1973, art. 26, (Circolare del
26/02/1999 n. 53).
11. In estrema sintesi, si attuano in ambito nazionale le medesime forme di politiche sui prezzi, attuate assai
di frequente in ambito internazionale mediante transazioni infragruppo inferiori (o superiori) al loro valore
normale, onde spostare l'imponibile presso le imprese associate che, nei rispettivi territori, godono di
esenzioni fiscali e subiscono minore tassazione.
12. Sul piano dei rapporti internazionali infragruppo è intervenuto da tempo il modello di convenzione
OCSE (art. 9, comma 1) recepito nel nostro ordinamento tributario dal TUIR col combinato disposto dell'art.
110, comma 7 (ex art. 76) e dell'art. 9, comma 3, che, riguardo alle negoziazione "intercompany" con
aziende non residenti, abilita il Fisco italiano a disattenderne prezzi e corrispettivi, in virtù del valore
corrente dei beni e/o servizi scambiati, e a rettificare i dati reddituali con aumento dell'imponibile (cfr. da
ultimo C. 11949/12).
13. La specialità della disciplina nazionale sul "transfer pricing esterno o internazionale", originata dal
modello di convenzione OCSE ispirato al principio della libera e corretta concorrenza, fa sì che l'art. 110
TUIR (ex art. 76) non possa di per sè stesso trovare applicazione diretta al "transfer pricing interno o
domestico" (cfr.
anche Circ. cit.).
14. Tuttavia, si è ritenuto che la disciplina che regola il "transfer pricing internazionale", secondo cui i
componenti di reddito derivanti da operazioni "intercompany" con società non residenti sono valutati in base
al "valore normale" dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti, determinato ex art. 9 cit.,
costituisce una clausola antielusiva che non solo trova radici nei principi comunitari in tema di abuso del
diritto, ma anche immanenza in settori del diritto tributario nazionale (C. 22023/06).
15. Invero, i principi antielusivi diretti a evitare che all'interno di gruppi di società siano effettuati
trasferimenti di utili mediante l'applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti, onde
sottrarli alla tassazione ordinaria a favore di tassazioni agevolate territoriali, trovano radici sia nei capisaldi
comunitari sull'abuso del diritto (C. 10257/08, 8772/08; C.G. sul caso Halifax), sia nelle clausole antielusive
di diritto interno predisposte in via generale (cfr. TUIR, art. 9, sul "prezzo o corrispettivo mediamente
praticato per i beni o servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza ed al medesimo
stadio di commercializzazione") o per ipotesi e settori peculiari (es.L. n. 408 del 1990, art. 10, sui vantaggi
fiscali da operazioni societarie;D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, su talune fattispecie elusive).
16. Inoltre, vale sempre il principio cardine secondo cui, in presenza di un comportamento assolutamente
contrario ai canoni dell'economia e privo di adeguata spiegazione, è legittimo l'accertamento del fisco
(D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, eD.P.R. n. 633 del 1972, art. 54; cfr. C. 1821/01, 10802/02, 23634/08; v.
sull'antieconomicita delle percentuali di ricarico C. 20832/05, 21575/05, 23183/05, 1546/07 e, riguardo
all'IVA, C. 26167/11).
17. Come si è esattamente sostenuto in dottrina, riguardo alle manovre "intercompany" sui prezzi di
trasferimento interni, la giustificazione dovrà ricadere sul versante delle valide ragioni economiche
(analogamente a quanto richiesto dalD.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis), nella prospettiva di togliere ai
vantaggi fiscali "sistematici" la patina di elusività.
18. In tesi generale, non si può escludere che considerazioni di strategia generale inducano le imprese a
compiere operazioni di per sè stesse antieconomiche in vista ed in funzione di altri benefici.
Tuttavia occorre che le varie operazioni rispondano a criteri di logica economica, i quali, a loro volta, devono
essere funzionali a meccanismi di mercato in regime di libera concorrenza ("arm's lenght principle"),
giammai a elementi distorsivi del mercato e della concorrenza. Sicchè la finalità di risparmio non può
attuarsi semplicemente attraverso l'elusione degli oneri fiscali (C. 10802/02).
19. Ciò introduce il tema del divieto di abuso del diritto, che preclude al contribuente il conseguimento di
vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di
strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d'imposta, in difetto di ragioni diverse dalla
mera aspettativa di quei benefici. Tale principio, da un lato, trova fondamento in radici comunitarie a
salvaguardia delle risorse proprie dell'UE e nei principi costituzionali di capacità contributiva e imposizione
progressiva; dall'altro non contrasta con il principio dall'altro, non contrasta con il principio della riserva di
legge, traducendosi nel disconoscimento di effetti abusivi di negozi posti in essere allo scopo di eludere
l'applicazione di norme fiscali (cfr., sui tributi non armonizzati, S.U. 30055/08 e, sull'IVA, C. 6880/09 e
4503/09; v. anche C.G., 9 giugno 2011, n. 285, sul prezzo normale di mercato tra soggetti collegati).
20. Ne discende che, per la valutazione fiscale di varie prestazioni, costituenti anche componenti attive e
passive del reddito, deve essere applicato il principio, di carattere generale, stabilito dall'art.9 cit., che non ha
soltanto valore contabile, e che impone quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di mercato
per i corrispettivi presi in considerazione dalla parte contribuente (C. 10802/02). Nè vale, di per sè stesso,
invocare una peculiare scontistica infragruppo, poichè gli sconti ammessi sono solo quelli per le operazioni
concluse "in condizioni di libera concorrenza", ovverosia per le operazioni economiche concluse con
soggetti estranei al proprio gruppo economico (cfr. C. 7343/11 sull'art. 9 TUIR).
21. Conclusivamente, anche il secondo motivo deve essere accolto e, in ordine ad esso, si formula il seguente
principio di diritto: "Per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni,
costituenti il c.d. transfer pricing domestico, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dal
D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il
riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal
contribuente".
22. Accolto il ricorso e cassata la sentenza d'appello, la causa deve essere rimessa, anche per le spese, alla
commissione regionale competente che, in diversa composizione, procederà a nuovo esame della vertenza
valutando analiticamente i dati fattuali sopra indicati e attenendosi all'enunciato principio di diritto.
PQM
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza d'appello e rinvia la causa, anche per le spese del presente
giudizio di legittimità, alla CTR - Lombardia in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 28 settembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2013
2) Cassazione civile, sez. trib., 13/05/2015, (ud. 19/01/2015, dep.13/05/2015), n. 9709
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ADAMO Mario
- Presidente Dott. BIELLI Stefano
- Consigliere Dott. CIRILLO Ettore
- Consigliere Dott. OLIVIERI Stefano
- Consigliere Dott. VELLA Paola
- rel. Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 10815-2009 proposto da:
GCE MUJELLI SPA in persona dell'Amministratore Delegato e legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE
CASTRO PRETORIO 122, presso lo studio dell'avvocato RUSSO ANDREA, che
lo rappresenta e difende con procura notarile del Not. Dr. BERLIRI
CLAUDIO in VERONA rep. n. 22796 del 27/03/2009;
- ricorrente contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,
elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso
l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
- controricorrente avverso la sentenza n. 18/2008 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di
VERONA, depositata il 19/03/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
19/01/2015 dal Consigliere Dott. PAOLA VELLA;
udito per il ricorrente l'Avvocato RUSSO che si riporta integralmente
ai motivi ricorso e chiede l'accoglimento;
udito per il controricorrente l'Avvocato CASELLI che ha chiesto il
rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
MASTROBERARDINO Paola che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
A seguito di verifica fiscale relativa al periodo di imposta 2002, l'Agenzia delle entrate notificava alla G.C.E.
MUJELLI S.p.A., in data 21.4.05, avviso di accertamento relativo a costi ritenuti non deducibili per errata
duplice registrazione, spese amministrative analogamente ritenute non deducibili per difetto di competenza,
costi per consulenze (pari ad Euro 76.359,00) ritenuti non inerenti perchè non utili o vantaggiosi e non
essenziali per la produzione dei ricavi, ed infine ricavi non dichiarati (pari ad Euro 117.174,00) riconducibili
al fenomeno noto come transfer pricing (nella specie, per la vendita a società estere del gruppo a prezzo
molto più basso di quello praticato ai clienti indipendenti).
La società impugnava l'avviso eccependone la carenza di motivazione e deducendo, nel merito, che le spese
per consulenza erano in realtà effettivamente utili e che le diversità tra le forniture alle consociate e quelle ai
clienti indipendenti giustificavano il maggior sconto applicato alle prime.
Avverso la sentenza con cui la Commissione tributaria provinciale di Verona aveva accolto parzialmente il
ricorso, limitatamente al recupero per transfer pricing (ridotto ad Euro 30.465,00) proponeva appello la
contribuente, per insistere su tutti i profili disattesi dal giudice di prime cure.
Con sentenza n. 18/15/08 la Commissione tributaria regionale del Veneto ha rigettato l'appello, ritenendo
insussistente la carenza di motivazione dell'avviso (adeguatamente motivato e comunque preceduto dalla
notifica del p.v.c.), e corretti i recuperi operati dall'amministrazione finanziaria, tanto per le spese di
consulenza (la genericità della cui descrizione in fattura non aveva consentito di accertarne l'inerenza) quanto
per il transfer pricing (essendosi già provveduto ad una riduzione del recupero in forza della segnalata
diversità di condizioni tra le vendite alle consociate estere e quelle ai clienti indipendenti italiani).
Per la cassazione della sentenza d'appello, depositata il 19.3.2008 e non notificata, la società contribuente ha
proposto ricorso notificato il 29.4.2009, affidato a sei motivi, depositando altresì memorie ex art. 378 cod.
proc. civ..
L'Agenzia intimata ha resistito con controricorso.
Diritto
MOTIVI DI DIRITTO
1. Con il primo motivo di ricorso, la società G.C.E. MUJELLI S.p.A. deduce la "violazione e falsa
applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3", formulando il seguente
quesito di diritto: "dica l'Ecc.ma Corte di Cassazione se sia o meno nullo o comunque invalido, ai sensi della
L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, l'Avviso di accertamento dell'Agenzia delle entrate che si limiti nella
propria motivazione e richiamare per relationem il contenuto di un precedente atto dell'Agenzia stessa senza
allegarlo all'Avviso di accertamento, per quanto il precedente atto fosse conosciuto o conoscibile dal
contribuente".
2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la "insufficienza della motivazione circa un fatto controverso e
decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5", sulla scorta del seguente "momento di sintesi":
"incorre in insufficiente motivazione ... la sentenza (impugnata) che, ut innanzi alle specifiche e
circostanziate censure avanzate dalla parte appellata di nullità dell'Avviso di accertamento dell'Ufficio per
carenza di motivazione e per mancata allegazione dell'atto ivi richiamato in violazione del disposto di cui
alla L. n. 212 del 2000, art. 7 si limiti a statuire che l'atto in contestazione è idoneamente motivato, e che il
precedente atto ivi richiamato non doveva essere allegato in quanto già conosciuto dalla parte, senza
motivare in alcun modo per quale ragione e su quali basi abbia adottato una simile decisione?".
2.1. Entrambi i motivi, che in quanto connessi possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
2.2. Come da questa Corte più volte affermato (da ultimo, Cass. sent. n. 422 del 2015), è legittima la
motivazione per relationem dell'atto impositivo, che realizza semplicemente una economia di scrittura,
laddove il rinvio all'atto presupposto attesti la condivisione dell'Ufficio di elementi già noti al contribuente,
senza alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (Cass. n. 21119 del 2011 e n. 4523 del
2012). Tale conclusione è stata sostenuta anche nella vigenza della L. n. 212 del 2000, art. 7, che ha
introdotto l'obbligo di allegazione dell'atto richiamato nella motivazione di altro atto, ai fini del cui rispetto si
ritiene sufficiente che l'atto richiamante riproduca il contenuto essenziale di quello richiamato, per tale
dovendo intendersi l'insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell'atto o del documento che
risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione
consente al contribuente - nonchè al giudice, in sede di eventuale sindacato giurisdizionale - di individuare i
luoghi specifici dell'atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi
della motivazione del provvedimento (Cass. n. 1906 del 2008, n. 6914 del 2011, n. 9032 del 2013).
2.3. Va altresì considerato che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3, u.p., nel testo vigente ratione
temporis, stabilisce che (solo) "se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto nè ricevuto
dal contribuente, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama, salvo che quest'ultimo non ne riproduca
il contenuto essenziale". Analogamente, in tema di Iva il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma 5, prescrive,
a pena di nullità, che (solo) "se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto nè ricevuto dal
contribuente, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama, salvo che quest'ultimo non ne riproduca il
contenuto essenziale".
2.4. Partendo da tali dati normativi, deve confermarsi l'orientamento consolidato di questa Corte per cui
l'obbligo di motivazione è soddisfatto ogni qualvolta l'Amministrazione abbia posto il contribuente in grado
di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'an ed il
quantum debeatur, con la conseguenza che l'atto impositivo deve ritenersi adeguatamente motivato ove
faccia riferimento ad un "processo verbale di constatazione regolarmente notificato al contribuente" - come
pacificamente si afferma nella sentenza impugnata - o anche semplicemente consegnato all'intimato, con
l'ulteriore conseguenza che in tal caso "l'Amministrazione non è tenuta ad includere, nell'avviso di
accertamento, notizia delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti, nè di riportarne, sia pur
sinteticamente, il contenuto" (Cass. n. 16871 del 2014; cfr. Cass. n. 6232 del 2003, n. 4223 del 2006, n. 2462
del 2007, n. 7360 del 2011; conf. Cass. ord. n. 5645 e n. 25296 del 2014, anche nel caso in cui il p.v.c. sia
stato notificato non direttamente al socio, ma alla società, in forza dei poteri di consultazione e visione
spettanti al primo, ai sensi dell'art. 2261 cod. civ.).
2.5. Alla luce di quanto precede, vanno dunque esclusi sia l'errore di diritto, sia l'insufficienza motivazionale
della sentenza impugnata, avendo il giudice d'appello espressamente considerato che l'atto impugnato aveva
"posto il contribuente nella condizione di poter controbattere la pretesa tributaria nei suoi elementi
essenziali", e che il processo verbale di constatazione era stato "regolarmente notificato al contribuente".
3. Con il terzo mezzo, si deduce la "nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. - Error in
procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4", sulla scorta del seguente quesito di diritto:
"dica l'Ecc.ma Corte di Cassazione se incorra o meno nel vizio di ultrapetizione ... la sentenza (impugnata)
della Commissione Tributaria che decidendo di un giudizio di impugnazione proposto dal contribuente
avverso un Avviso di accertamento della Agenzia delle entrate, confermi la ripresa a tassazione operata dalla
Agenzia delle entrate sulla base di circostanze di fatto e diritto mai rilevate dalla Agenzia stessa nell'Avviso
di accertamento impugnato e quindi mai introdotte nel giudizio, come instaurato con il ricorso in
impugnazione del contribuente".
3.1. Il motivo presenta profili sia di inammissibilità che di infondatezza.
3.3. Esso consta, in primo luogo, di un quesito che difetta di specificità, in quanto non indica in concreto
quali siano le circostanze di fatto e di diritto (asseritamente) mai rilevate nell'avviso di accertamento e mai
introdotte nel giudizio. Invero, i quesiti inerenti censure in diritto, dovendo assolvere alla funzione di
integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l'enunciazione del principio giuridico
generale, non possono essere - come invece è nella specie - meramente astratti e teorici, ma devono essere
calati nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di comprendere dalla sola lettura degli stessi,
l'errore asseritamene compiuto dal giudice di merito e la regola ritenuta applicabile. Nè può assumersi che il
contenuto preteso dal quesito debba essere ricercato nel precedente svolgimento del motivo, poichè ne
resterebbe svilita - rispetto ad un sistema processuale che già prevedeva la redazione del motivo con
l'indicazione della violazione denunciata - la portata innovativa dell'art. 366-bis cod. proc. civ., consistente
proprio nell'imposizione della formulazione di motivi contenenti una sintesi autosufficiente della violazione
censurata, funzionale alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior
esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità (Cass. n. 16481 del 2014; n. 20409 del 2008).
3.4. In secondo luogo, dallo stesso raffronto tra il passaggio motivazionale del giudice d'appello riportato a
pag. 56 del ricorso (ove la ripresa a tassazione delle spese per consulenza viene giustificata con la
impossibilità di verificarne l'inerenza, "data la genericità della descrizione dell'autofattura") e l'avviso di
accertamento trascritto in parte qua a pag. 46 del ricorso (ove si rilevava la genericità del riferimento ai
"servizi commerciali, fiscali, amministrativi, tecnici e pubbliche relazioni che vi verranno resi da GCE AB Malmo Svezia" così descritti nell'autofattura "avente il prot. N. 309" e si chiedevano di conseguenza
documenti indicativi dei "tipi di servizi resi e i criteri di ripartizione dei costi") emerge chiaramente
l'inconsistenza del lamentato vizio di nullità per ultrapetizione.
4. Con il quarto motivo, parte ricorrente lamenta la "insufficienza della motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5", sulla scorta del seguente "momento
di sintesi": "incorre in insufficiente motivazione ... la sentenza (impugnata) che nel valutare la inerenza di
determinati costi rispetto alla attività di impresa si limiti a statuire che tale inerenza deve essere esclusa in
quanto non verificabile alla luce della documentazione in atti e senza affrontare minimamente - ed
argomentare sul punto - la questione della ripartizione dell'onere di allegazione e di prova tra l'Ufficio ed il
contribuente e senza comunque indicare in alcun modo quali siano i documenti agli atti che sono stati
esaminati e quali fossero le specifiche carenze degli stessi in ordine alla verificabilità del requisito della
inerenza dei costi".
4.1. La censura è inammissibile per difetto di autosufficienza.
4.2. Invero, a fronte di censure motivazionali afferenti l'esame di documenti, è necessario, per consentire al
giudice di legittimità il controllo della decisività del documento valutato, non valutato o insufficientemente
valutato, che il ricorrente precisi - mediante integrale trascrizione del contenuto dell'atto nel ricorso - la
risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale
specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l'esame diretto degli atti del giudizio di
merito, di delibare la decisività della risultanza stessa (cfr. ex multis Cass. n. 12984 del 2006, n. 15952 del
2007, n. 4849 del 2009, n. 4980 del 2014, n. 983 del 2015).
Alla luce di tale principio, la motivazione della sentenza impugnata, laddove afferma che "dall'esame della
documentazione in atti non è possibile verificare se queste spese" - ossia quelle relative alle consulenze
fornite dalla capogruppo - "erano o meno inerenti all'attività, data la genericità della descrizione
dell'autofattura", non risulta insufficiente, dal momento che sarebbe stato onere del ricorrente indicare e
trascrivere i documenti implicati, per inficiare la non condivisa valutazione di genericità effettuata dal
giudice di seconde cure.
5. Con il quinto mezzo, si deduce la "violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 (già
art. 75) del D.P.R. n. 917 del 1986 in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3", compendiata nel seguente quesito di
diritto: "dica l'Ecc.ma Corte di Cassazione se debbano ritenersi o meno inerenti ai sensi del D.P.R. n. 917 del
1986, art. 109 (già art. 75) - e quindi deducibili - i costi sopportati dal contribuente al fine di ottenere servizi
di consulenza (fiscale e/o amministrativa e/o contabile) per la propria attività di impresa in quanto correlati
ad una attività potenzialmente idonea produrre redditi. E pertanto, se incorra o meno in violazione di legge ...
la sentenza (impugnata) che non ha riconosciuto inerenti all'attività della società contribuente i costi per
servizi di consulenza (fiscale, amministrativa, contabile) per la propria attività di impresa ricevuti dalla
capogruppo".
5.1. Anche questo mezzo presenta profili pregiudiziali di inammissibilità, oltre che di infondatezza.
5.2. In primo luogo, la censura viene formalmente proposta come questione di diritto, ma investe in realtà il
profilo motivazionale della sentenza impugnata. Inoltre, il quesito non coglie nemmeno la effettiva ratio
decidendi, tesa ad escludere l'inerenza dei costi per servizi di consulenza (fiscale, amministrativa, contabile)
non già ex sè, ma a causa della genericità della loro descrizione.
5.3. Ferma restando l'inammissibilità, sotto il profilo della fondatezza delle censure mosse si richiama
l'orientamento di questa Corte (da ultimo, v. Cass. n. 21184 del 2014) che, partendo dal disposto del D.P.R.
n. 917 del 1986, art. 75, comma 1 ("i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le
precedenti norme del presente capo non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito
nell'esercizio di competenza;
tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell'esercizio di competenza non sia ancora certa
l'esistenza o determinabile in modo obiettivo l'ammontare concorrono a formarlo nell'esercizio in cui si
verificano tali condizioni") e quinto comma ("le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi
passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si
riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito"), ha
reiterata mente affermato che i costi, per essere ammessi in deduzione quali componenti negativi del reddito
di impresa, debbono soddisfare "i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o
determinabilità" (Cass. n. 10167 del 2012, n. 13806 e n. 1565 del 2014).
5.4. Con particolare riferimento al disposto del comma 5, si è chiarito che affinchè "un costo possa essere
incluso tra le componenti negative del reddito, non solo è necessario che ne sia certa l'esistenza, ma occorre
altresì che ne sia comprovata l'inerenza, vale a dire che si tratti di spesa che si riferisce ad attività da cui
derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito di impresa" (Cass. n. 6650 del 2006), al
riguardo essendo sufficiente la semplice contrapposizione economica teorica (ossia la cd. latenza probabile),
"avuto riguardo alla tipologia organizzativa del soggetto, che genera quindi partite passive deducibili se i
costi riguardano l'area o il comparto di attività destinati, anche in futuro, a produrre partite di reddito
imponibile. L'inerenza è quindi una relazione tra due concetti - la spesa e l'impresa - che implica un
accostamento concettuale tra due circostanze, per cui il costo assume rilevanza ai fini della quantificazione
della base imponibile non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di
reddito, bensì in virtù della sua correlazione con una attività potenzialmente idonea a produrre utili" (Cass. n.
12168 del 2009).
5.5. Trattandosi di una componente negativa del reddito, si è altresì precisato che "la prova della sua
esistenza ed inerenza incombe al contribuente" (Cass. n. 1709 del 2007), il quale a tal fine non può limitarsi
a dimostrare "che la spesa sia stata dall'imprenditore riconosciuta e contabilizzata, atteso che una spesa può
essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste una documentazione di supporto, dalla
quale possa ricavarsi, oltre che l'importo, la ragione della stessa" (Cass. n. 4570 del 2001). L'assolvimento di
tale onere probatorio esige invece, innanzitutto, che la prova dei costi deducibili sia adeguatamente
documentata - come non è stato ritenuto dalla corte territoriale nel caso di specie -, in modo tale che dalla
documentazione relativa si possa ricavare "l'inerenza del bene o servizio acquistato all'attività
imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene o servizio stesso" rispetto all'attività da cui derivano i
ricavi o gli altri proventi che concorrono a formare il reddito di impresa (Cass. n. 16853 del 2013); ed altresì
che sia dimostrata anche "la coerenza economica dei costi sostenuti nell'attività d'impresa, ove sia contestata
dall'Amministrazione finanziaria anche la congruità dei dati relativi a costi e ricavi esposti nel bilancio e
nelle dichiarazioni, in difetto di tale prova essendo perciò legittima la negazione della deducibilità di parte di
un costo sproporzionato ai ricavi o all'oggetto dell'impresa" (Cass. n. 7701 del 2013).
6. Con il sesto motivo, parte ricorrente deduce la "violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986,
art. 110, comma 7 e art. 9, comma 3, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3", sulla base del seguente quesito di
diritto: "dica l'Ecc.ma Corte di Cassazione se incorra o meno in violazione di legge ... la sentenza
(impugnata) che abbia confermato la validità dell'Avviso di accertamento dell'Agenzia delle entrate con cui,
nel valutare le componenti di reddito derivanti ad una società da operazioni di vendita di beni infragruppo,
sia stato identificato il "valore normale" dei beni oggetto della vendita nel prezzo applicato dalla società a
clienti ai quali i beni vengono venduti ad un diverso stadio di commercializzazione o comunque diverse
condizioni di vendita (che comportano diversi costi e diversi vantaggi economici per la società) rispetto alle
vendite di beni oggetto dell'accertamento".
7. Con il settimo ed ultimo motivo, si censura la "contraddittorietà della motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5", sulla scorta del seguente "momento
di sintesi": "incorre in contraddittoria motivazione ... la sentenza (impugnata) che nel valutare quale sia il
valore normale di riferimento dei beni venduti infragruppo, pur dando atto che nei confronti dei diversi
clienti italiani indipendenti e non facenti parte del Gruppo societario le condizioni di vendita sono del tutto
diverse, ritiene poi di applicare quale valore normale proprio il prezzo praticato a tali clienti italiani rispetto
ai quali ha riconosciuto che le condizioni di vendita sono diverse e ciò senza argomentare minimamente sul
punto".
7.1. Gli ultimi due motivi, in quanto connessi, possono essere esaminati congiuntamente; in particolare, la
fondatezza del sesto comporta l'assorbimento del settimo.
7.2. Entrambi attengono al tema del cd. transfer pricing, fenomeno consistente nell'attuazione di politiche sui
prezzi, per lo più in ambito internazionale, mediante transazioni infragruppo inferiori (o superiori) al loro
valore normale, finalizzate a spostare l'imponibile presso le imprese associate che, nei rispettivi territori,
godano di esenzioni fiscali e subiscano minore tassazione (Cass. n. 17955 del 2013, n. 11226 del 2007, n.
22023 del 2006).
7.3. Sul piano dei rapporti internazionali infragruppo, si fa riferimento all'art. 9 del modello di convenzione
fiscale O.C.S.E. del 1995 - 1996, per cui "quando le condizioni convenute o imposte tra le due imprese, nelle
loro relazioni commerciali o finanziarie, sono diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese
indipendenti, gli utili che in mancanza di tali condizioni sarebbero stati realizzati da una delle due imprese,
ma che a causa di dette condizioni non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e
tassati di conseguenza". Il criterio cardine per la valutazione dei prezzi di trasferimento tra le imprese
associate di un gruppo multinazionale è quindi costituito dal principio di libera concorrenza, che si instaura
tra "imprese indipendenti", e che sotto il profilo fiscale è correlato alla definizione del "valore normale" dei
beni o dei servizi. Invero, la mancanza di una effettiva alterità tra le imprese partecipanti a simili transazioni
comporta un'elevata probabilità che il corrispettivo venga fissato dalle parti non conformemente all'effettivo
valore del bene scambiato o del servizio reso, ma strumentalmente alla pianificazione fiscale del gruppo cui
le imprese contraenti appartengono (Cass. n. 24005 del 2013).
7.4. Il modello di convenzione O.C.S.E. è stato recepito dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, richiamato dall'art.
76, commi 2 e 5, (ora art. 110, commi 2 e 7) dello stesso decreto, ove in ultima analisi si stabilisce
l'irrilevanza, ai fini fiscali, dei valori concordati dalle parti nell'ambito di transazioni "controllate" e
l'inserimento automatico nelle transazioni medesime di valori legali, ancorati al regime della libera
concorrenza; con la conseguenza che, in simili vicende, non rileva il corrispettivo effettivamente convenuto,
bensì quello che sarebbe stato stabilito ove le imprese fossero state indipendenti l'una dall'altra, secondo il
cd. arm's lenght principle (Cass. n. 24005 del 2013). In particolare, l'art. 110, comma 7 cit.
fissa la regola del "valore normale" dei beni e servizi prestati mediante operazioni infragruppo, rinviando
all'art. 9, comma 3, dello stesso T.U.I.R., in base al quale "per valore normale, salvo quanto stabilito nel
comma 4 per i beni ivi considerati, si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i
servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di
commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in
mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in
quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle
mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d'uso.
Per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore".
7.5. La disposizione è stata generalmente interpretata come "clausola antielusiva" (Cass. n. 8847 del 2014),
in quanto volta ad impedire che, attraverso la manovra dei prezzi, la ricchezza prodotta nello Stato venga
artificiosamente trasferita in Paesi con regimi fiscali più favorevoli, attribuendo ai beni o servizi scambiati
tra le società del gruppo valori economici maggiori o minori - a seconda della convenienza del
corrispondente regime fiscale - rispetto a quelli ordinariamente praticati ai soggetti terzi, influendo in tal
modo sulla determinazione della base imponibile dei soggetti d'imposta residenti in Paesi diversi. Tale
meccanismo abilita l'amministrazione finanziaria italiana a disattenderne prezzi e corrispettivi, in virtù del
valore corrente dei beni e/o servizi scambiati, e a rettificare i dati reddituali, con aumento dell'imponibile
(Cass. n. 11949 del 2012). In altri termini, l'applicazione delle norme sul transfer pricing non combatte
l'occultamento del corrispettivo (evasione), ma le manovre che incidono sul corrispettivo palese (elusione),
consentendo il trasferimento surrettizio di utili da uno Stato all'altro, sì da influire in concreto sul regime
dell'imposizione fiscale (Cass. n. 24005 del 2013).
7.6. Questa Corte ha precisato che il principio stabilito dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3 - laddove
fa riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi - non ha soltanto valore
contabile, gravando sul contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697 cod.
civ., l'onere di dimostrare che le transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi normali
alla sua stregua, al fine di escludere che l'operazione possa considerarsi ispirata dalla finalità di evasione
delle imposte (Cass. n. 11949 del 2012, n. 10742 del 2013, n. 8849 del 2014). Al riguardo, si è ritenuto che
non sia sufficiente invocare una peculiare prassi scontistica infragruppo, poichè gli sconti ammessi sono solo
quelli per le operazioni concluse "in condizioni di libera concorrenza", ovverosia per le operazioni
economiche concluse con soggetti estranei al proprio gruppo economico (cfr. Cass. n. 7343 del 2011).
7.7. E' quindi evidente come il punto cruciale della controversia consista nell'individuazione del "valore
normale" in discussione, ovvero il prezzo di libera concorrenza. Al riguardo, tra i diversi criteri indicati dal
modello O.C.S.E. per la valutazione dei prezzi di trasferimento tra le imprese associate di un gruppo
multinazionale, il legislatore italiano ha prescelto quello del "confronto del prezzo" (comparable
uncontrolled price method).
Infatti, la prima parte dell'art. 9, comma 3, T.U.I.R., fornisce la definizione del "valore normale" con
riferimento al "prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari,
in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in
cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi". Si
tratta, all'evidenza, di una concezione che fa leva su una comparazione fortemente contestualizzata per profili
qualitativi, commerciali, temporali e locali, in modo da ricreare una mediana da cui sia espunto solo il fattore
destabilizzante della non concorrenzialità. La seconda parte della norma individua invece i criteri più
immediati per la determinazione del "valore normale" così come sopra definito, stabilendo che occorre fare
riferimento, in via prioritaria - ma solo se possibile - ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o
i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali,
tenendo conto degli sconti d'uso, o infine, per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi, ai
provvedimenti in vigore.
7.8. Nel caso concreto, lo stesso giudice d'appello ha dato atto delle "diverse condizioni di queste vendite nei
confronti delle consociate estere rispetto alla clientela nazionale", osservando tuttavia che, nel ridurre
equitativamente il recupero a tassazione, la Commissione tributaria provinciale aveva già tenuto conto
(testualmente) "delle diverse condizioni nei confronti delle consociate consistenti nelle maggiori quantità
trattate, all'assenza di provvigioni, al pagamento più veloce ecc.".
7.9. Il ricorrente, nel censurare il raffronto operato dall'amministrazione con i prezzi applicati dai "clienti
indipendenti italiani" - in quanto pacificamente caratterizzati da un "diverso stato di commercializzazione" rivendica di aver contestato sin dal primo grado di giudizio l'esistenza di due distinti listini, l'uno rivolto ai
"clienti Italia" (con rapporto di vendita al dettaglio, quantità modeste, consegne rapide, assistenza postvendita, tempi di pagamento lunghi, provvigioni ad agenti) l'altro alle consociate (con rapporto di vendita a
distributore, quantità rilevanti, consegne a 60 giorni, ordini a programma, inesistenza di costi per cataloghi e
provvigioni agenti) e, soprattutto, di aver segnalato l'esistenza di transazioni con clienti esteri, grandi
distributori come le consociate, ma a differenza di esse "terzi indipendenti" (ad es. il cliente Oxiturbo,
menzionato a pag. 71 e 75 del ricorso, ma anche altri, come si legge a pag. 80), rispetto ai quali avrebbe
dovuto effettuarsi il raffronto volto ad individuare il "valore normale", nell'accezione sopra detta. Tuttavia,
nella motivazione della sentenza impugnata non vi è alcun riferimento a tali clienti esteri non consociati che,
per caratteristiche e circostanze delle transazioni, avrebbero potuto costituire un più adeguato parametro di
misura e valutazione del "valore normale", ai sensi del citato art. 9, comma 3, T.U.I.R..
8. Alla luce di tutto quanto precede, questo Collegio ritiene che la sentenza di secondo grado debba essere
cassata, con rinvio al giudice d'appello in diversa composizione, che dovrà procedere ad un nuovo esame
della controversia, attenendosi al seguente principio di diritto: "ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9,
comma 3, il concetto di "valore normale" dei corrispettivi, nelle transazioni tra imprese appartenenti ad un
medesimo gruppo multinazionale, fa leva su una comparazione fortemente contestualizzata sotto il profilo
qualitativo, commerciale, temporale e locale, finalizzata ad individuare un valore medio da cui deve essere
espunto solo il fattore destabilizzante della non concorrenzialità. Nella ricerca del "prezzo o corrispettivo
mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e
al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o
prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi", costituiscono criteri prioritari i listini o le tariffe
del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, le mercuriali e i listini delle camere di
commercio e le tariffe professionali (tenendosi conto degli sconti d'uso), o infine, per i beni e i servizi
soggetti a disciplina dei prezzi, i provvedimenti in vigore. In mancanza, tale valore medio può essere
individuato sulla scorta di altri dati oggettivamente significativi e numericamente apprezzabili, che è onere
del contribuente allegare".
9. In conclusione, respinti i primi cinque motivi di ricorso, accolto il sesto ed assorbito il settimo, la sentenza
impugnata va cassata, con rinvio al giudice d'appello, che provvederà, in diversa composizione, anche alla
regolazione delle spese del presente grado di giudizio.
PQM
P.Q.M.
La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, dichiara assorbito il settimo e respinge i restanti, cassa la
sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Commissione tributaria
regionale del Veneto, che provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 gennaio 2015.
Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2015
3) Comm. trib. prov.le Milano, sez. XXII, 02/03/2016, (ud. 27/10/2015, dep.02/03/2016), n.
2028
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI MILANO
VENTIDUESIMA SEZIONE
riunita con l'intervento dei Signori:
GIUCASTRO MARCELLO - Presidente
SALVO MICHELE - Relatore
MICELI CONCETTA - Giudice
ha emesso la seguente
SENTENZA
- sul ricorso n. 2034/2014 depositato il 26/02/2014
- avverso AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (omissis...) IRES-ALTRO 2008
contro:
DIREZIONE REGIONALE LOMBARDIA UFFICIO CONTENZIOSO
proposto dal ricorrente:
E. S.P.A.
VIA (omissis...) 16153 G.
difeso da:
BARBONE DOTT. LORENZO- ROLLE DOTT.GIOVANNI E SALOM DOTT.MAURIZIO
C/O STUDIO RICCARDI-SALOM-TEDESCHI
VIALE (omissis...) MILANO MI
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 26/02/2014 la società E. Spa rappresentata e difesa dal dr. Lorenzo Barbone, dr.
Giovanni Rolle e dr. Maurizio Saioni, impugnava l'avviso di accertamento n. (omissis...) emesso dalla DRE
Lombardia Ufficio Grandi Contribuenti notificato in data 23/07/2013 per IRES anno di imposta 2008
Con l'avviso de quo, la DRE Lombardia a seguito di un'attività ispettiva iniziata con l'invio di un
questionario, proseguita con una richiesta di informazioni e produzione di documenti, verifica conclusasi con
la redazione di un PVC in data 23/10/2012 per gli anni di imposta 2007 e 2008, con l'avviso oggetto del
presente ricorso contesta tre rilievi rilievo n. 1 - omessa contabilizzazione di componenti positivi di reddito
in violazione dell'art. 110, comma 7, TUIR per € 4.518.619,30 per la disciplina sui prezzi di trasferimento
infragruppo, transfer price, a titolo di maggiori ricavi che la società avrebbe dovuto conseguire nella cessione
dei prodotti alle filiali estere;
rilievo n. 2 - omessa contabilizzazione di componenti positivi di reddito in violazione dell'art. 110, comma 7,
TUIR per € 360.582 ugualmente per rapporti infragruppo per il mancato riaddebito dei costi da royalty
sostenuti dalla società verificata nell'interesse e a beneficio di altre società del gruppo;
rilievo n. 3 - indebita deduzione di componenti negativi di reddito in violazione dell'art. 109, comma 2 TUIR
per € 30.100, non di competenza dell'anno 2008.
La ricorrente contesta l'operato della DR ritenendolo illegittimo e infondato per i motivi che si riportano in
via sintetica.
Nullità per vizio di motivazione, per mancata considerazione delle osservazioni difensive presentate dalla
contribuente e violazione dello statuto del contribuente.
Inutilizzabilità dei dati raccolti durante la verifica protrattasi oltre i termini previsti dallo Statuto del
contribuente con conseguente invalidità derivata per l'avviso di accertamento.
Con riferimento al primo rilievo- rileva la infondatezza per assenza dei requisiti caratterizzanti i
comportamenti elusivi, basato essenzialmente su minime differenze statistiche tra i margini di profittabilità
delle società contenute nel campione statistico, scelto con criteri non chiari e non condivisi, senza tenere in
alcun conto la particolarità dei prodotti commercializzati, complessi apparati medico-elettronici, sistemi
medicali, sia ad ultrasuoni (US) sia per la risonanza magnetica (MRI) con un elaborato sistema di
installazione e manutenzione, che rende evidentemente difficile trovare altri prodotti perfettamente
comparabili, inoltre l'Ufficio si è riportato ad un'errata impostazione di calcolo.
Per il secondo rilievo - espone di avere concluso in data 23/12/2005 un contratto di licenza con la P. relativo
all'utilizzo di brevetti nel campo degli ultrasuoni, dove l'Ufficio ritiene che l'uso di tale licenza spetti anche
alle controllate estere della società ricorrente proporzionato ai ricavi di vendita dalle stesse realizzate,
incurante della circostanza che le società partecipate non utilizzino tale brevetto e dal fatto che l'accordo
sottoscritto avesse in realtà una valenza transattiva, essendo inteso a prevenire l'insorgenza di liti per
l'utilizzo dei brevetti P., evidenzia in ultimo che le società partecipate non hanno firmato il contratto, anche
in questo caso è stato commesso un errore di calcolo.
Per il terzo rilievo- espone che la fattura di € 12.500 dell'ing. D.M.B. è stata riscontata il 31/12/2008, non è
mai stata inclusa dalla ricorrente fra i componenti negativi dedotti nell'anno 2008, condivide la parte residua
di € 17.600.
Conclude chiedendo, per i motivi ampiamente esposti in ricorso l'annullamento dei rilievi di cui al numero 1
e 2 e l'annullamento parziale per il rilievo 3, con vittoria di spese.
La DR Lombardia ritualmente costituitasi resiste alle censure dedotte dalla ricorrente, rileva la fondatezza
dell'accertamento, le osservazioni avverso il PVC sono state valutate, le stesse non sono state ritenute idonee
al superamento dei rilievi formulati nel PVC.
I giorni effettivi di permanenza presso la sede della società non sono state superiori a 60.
In merito al primo rilievo in materia di prezzi di trasferimento, ribadisce di avere operato correttamente al
fine di raggiungere la mera determinazione del valore normale di transazione non trattandosi
necessariamente di aggiramento di principi dell'ordinamento tributario derivanti dall'allocazione di materia
imponibile in Paesi a fiscalità privilegiata, bensì di pura e semplice sottofatturazione che consente la
riduzione dell'imponibile della casa-madre italiana. Evidenzia inoltre che la società accertata, per quanto
richiesta, non ha prodotto elementi per potere confrontare i prezzi di vendita praticati nei confronti di un
distributore terzo rispetto quello praticato nei confronti delle distributrici estere, sulla base delle risultanze
dell'analisi in sede di verifica correttamente ha proceduto alla rideterminazione dei prezzi di trasferimento
recuperando a tassazione l'importo di € 4.518.619,38.
Per il secondo rilievo -evidenzia come la ricorrente non ha prodotto documentazione che contrasti la
ricostruzione effettuata dall'Ufficio.
Per il terzo rilievo- ribadisce che dall'esame della contabilità non è stato riscontrato quanto dedotto per la
fattura di 12.500, né la società ha allegato al ricorso documentazione al fine di comprovare quanto asserito.
Conclude per il rigetto del ricorso con vittoria di spese. Risulta depositata memoria dalla ricorrente.
All'odierna pubblica udienza sono presenti le parti.
Il difensore della ricorrente si riporta al ricorso ed alla memoria insiste per l'accoglimento.
Il rappresentante della DR Lombardia si riporta ai propri atti e conclude per la conferma dell'accertamento.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il collegio esaminati gli atti osserva quanto segue.
Non sussiste carenza di motivazione la ricorrente è stata messa in condizione di individuare e ricostruire
puntualmente i motivi della pretesa proporre le proprie difese come ampiamente ha fatto, nessun diritto
risulta leso.
La DRE ha motivato e successivamente dedotto di avere esaminato le osservazioni della società ricorrente
prodotte, le stesse non sono risultate idonee al superamento dei rilievi formulati nel processo verbale di
constatazione, procedendo poi nelle motivazioni estremamente dettagliate per tutto il procedimento seguito,
la eccepita sanzione di nullità non è espressamente prevista dalla L. n. 212 del 2000 che si limita a disporre
che le osservazioni proposte siano valutate.
La verifica non si è protratta oltre il termine previsto dall'art. 12 della L. n. 212 del 2000 poiché i giorni di
effettiva permanenza presso la sede della società non sono stati superiori ai 60 giorni complessivi, in ogni
caso, per giurisprudenza consolidata, la violazione del termine di permanenza degli operatori dell'A.F. presso
la sede del contribuente previsto dal c. 5 art. 12 L. n. 212 del 2000 non infida la validità dell'accertamento,
poiché non si tratta di termine perentorio, in mancanza di specifica disposizione in tal senso (cass. Sent.
16323/14).
Si annulla il primo rilievo, nella prospettiva del transfer pricing si tratta di comprendere e determinare il
valore economico della transazione, prescindendo da un risparmio di imposta, per giungere ad un corretto
accertamento della base imponibile determinando il valore normale dei beni, art. 110, comma 7, TUIR.
La ricorrente ha sollevato censure precise al metodo applicato in sede di verifica e successivamente trasfusa
nell'accertamento, a cui l'Ufficio non ha dato puntuale risposta nell'atto di costituzione in giudizio mentre
avrebbe dovuto entrare nel merito poiché in un confronto statistico, la scelta del campione di riferimento è
fondamentale per giungere ad una corretta determinazione del risultato, maggiormente nel caso della
ricorrente che svolge un'attività particolare dato che trova conferma anche nella relazione sulla gestione. Nel
caso di specie, Il rilievo attiene a due distinte categorie di transazioni la vendita di prodotti finiti a parti
correlate e l'acquisto di componenti da parti correlate, la ricorrente ha ribadito che la controversia verte
esclusivamente sulle modalità di raffronto dei margini di sette distributori della società (quattro in Europa,
uno negli Stati Uniti, due in Asia) rispetto ai margini conseguiti dei terzi indipendenti. In particolare ha
ribadito che il procedimento seguito dai verificatori risulta in palese contrasto con la normativa e con gli
indirizzi della prassi internazionale in materia di prezzi di trasferimento, il contrasto riguarda:
a) Lacune ed eccessi nel rigetto dei comparables elaborati dalla società;
b) L'assenza di trasparenza nella selezione dei pretesi comparables alternativi elaborati dai verificatori;
c) L'adozione, nell'ambito dei comparables così elaborati o rielaborati di un valore puntuale in luogo di un
intervallo di valori (range);
d) La conseguente attribuzione di rilievo a differenze (tra prezzi applicati dalla società e quello "puntuale"
determinato dall'ufficio) che appaiono fisiologiche a marginali;
e) La mancata considerazione del fattore temporale o di possibili altre giustificazioni alla base dello
scostamento;
f) L'applicazione delle differenze riscontrate ad una errata base di calcolo;
g) L'indebita riclassificazione del bilancio di una delle filiali;
Altro elemento contestato è la variazione di percentuale poco rilevante rispetto ai prezzi fissati dalla
ricorrente, anche se la somma finale determinata di conseguenza, è consistente in valore assoluto, infatti, in
assenza di un'indicazione, sia pure generica, dell'interesse sotteso, presumibilmente economico, a tutte le
operazioni esaminate ed in assenza di una valutazione dei singoli beni, il confronto con i risultati desunti
dalla rilevazione di dati comparabili deve essere perfettamente condivisibile e necessita di risposte concrete,
verificabili, per ogni critica sollevata dalla parte, proprio perché una variazione modesta nel campione
selezionato potrebbe portare a risultati diversi, come un metodo statistico sia pure valido, apportando una
minima variazione, potrebbe produrre un risultato più favorevole. Inoltre, risulta fondata anche la doglianza
sulla circostanza che la verifica abbia applicato le differenze statistiche non all'importo delle cessioni poste
in essere tra la società verificata e le sue consociate, ma all'ammontare complessivo dei ricavi di queste, ed
anche questa circostanza non risulta puntualmente contestata dalla DRE.
In materia (transfer princing) si è già espresso il giudice di legittimità statuendo il seguente principio di
diritto, "ai sensi dell'art 9 comma 3, D.P.R. n. 917 del 1986 il concetto di "valore normale" dei corrispettivi,
nelle transazioni tra imprese appartenenti ad un medesimo gruppo multinazionale, fa leva su una
comparazione fortemente contestualizzata sotto il profilo qualitativo, commerciale, temporale e locale,
finalizzata ad individuare un valore medio da cui deve essere espunto solo il fattore destabilizzante della non
concorrenzialità. Nella ricerca del "prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della
stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel
tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo
più prossimi", costituiscono criteri prioritari i listini e le tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e,
in mancanza, le mercuriali e i listini delle camere di commercio e le tariffe professionali (tenendosi conto
degli sconti d'uso), o infine, per i beni e servizi soggetti a disciplina dei prezzi, i provvedimenti in vigore
(cass. sent. n. 9709/15)
Rilevato che, la DR come risulta come risulta dall'avviso di accertamento ed in particolare dalla costituzione
in giudizio (da pag. 10 a pag. 19) ha basato il principio e/o concetto di "valore normale" quale strumento
logico giuridico su presupposti errati e diversi da quelli previsti dall'art 9 comma 3 D.P.R. n. 917 del 1986.
Considerato che la nella valutazione del " valore normale" non ha tenuto conto della disposizione contenuta
nell'art 9 comma 3 D.P.R. n. 917 del 1986, e da quanto statuito dal giudice di legittimità (cass. s. n. 9709/15),
come avvertito annulla il citato rilievo.
Si conferma il secondo rilievo, i costi sostenuti dalla società verificata a titolo di royalties sono stati sostenuti
anche nell'interesse e a beneficio delle altre società del gruppo e ad esse avrebbero dovuto essere riaddebitati,
infatti dall'esame del contratto stipulato tra E. spa e P. in data 23 dicembre 2015, si legge testualmente che P.
concede ad E. spa e alle sue subsidiary, consociate, di utilizzare i brevetti oggetto del contratto a fronte della
corresponsione di € 1.895.000 oltre ad una royalty pari al 0,6% per l'esercizio 2008 per calcolata sui ricavi
complessivi conseguiti da E. spa e dalle altre società del gruppo, per la vendita degli apparecchi diagnostici
ad ultrasuoni. La semplice lettura del contratto chiarisce il punto e non lascia spazio ad alcun dubbio
interpretativo del corrispettivo legato alla possibilità di utilizzo e non all'effettivo utilizzo del brevetto, le
affermazioni del ricorrente risultano inconferenti e, soprattutto, non documentate in alcun modo, i ricavi
complessivi per determinare la percentuale dovuta a P. sono stati calcolati dalla stessa ricorrente
considerando anche dei dati risultanti dalla società che, a suo dire, non avrebbero utilizzato i brevetti di cui al
citato contratto, circostanza comunque asserita ma non documentata, inoltre appare assolutamente irrilevante
che le altre società non abbiano partecipato alla stipula del contratto, inoltre non vi è alcun riferimento
narrativo e documentale per la presunta natura transattiva dell'accordo.
Si conferma il terzo rilievo in atti non vi è prava certa che la fattura di € 12.500 non sia stata inclusa fra i
componenti negativi per l'anno 2008, l'importo di € 17.600 non è contestato dalla ricorrente.
La parziale e reciproca soccombenza delle parti giustificala compensazione delle spese di giudizio.
PQM
P.Q.M.
La Commissione accoglie in parte il ricorso annullando la ripresa di cui al 1 rilievo confermando le riprese di
cui ai rilievi n. 2 e 3. Spese compensate.
Così deciso in Camera di Consiglio in Milano il 27 ottobre 2015.
4)Cassazione civile, sez. trib., 18/09/2015, (ud. 26/01/2015, dep.18/09/2015), n.
18392
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PICCININNI Carlo
- Presidente Dott. BIELLI Stefano
- rel. Consigliere Dott. CIRILLO Ettore
- Consigliere Dott. VALITUTTI Antonio
- Consigliere Dott. OLIVIERI Stefano
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,
domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l'Avvocatura
generale dello Stato, che la rappresenta e difende.
- ricorrente principale; controricorrente a ricorso incidentale contro
s.p.a. ALCATEL LUCENT ITALIA (già s.p.a. ALCATEL ITALIA), con sede a
(OMISSIS), in persona del legale
rappresentante
L.S., elettivamente domiciliata a Roma,
via Giacomo Puccini n. 9, presso lo studio dell'avvocato professor
Perrone Leonardo e dell'avvocato Tardella Gianmarco, che la
rappresentano e difendono, anche disgiuntamente, giusta procura
speciale autenticata dal notaro in Milano Maria Bellezza in data 26
ottobre 2010 (n. rep. 75318);
- controricorrente; ricorrente incidentale avverso la sentenza n. 74/14/10 della Commissione tributaria
regionale della Lombardia, depositata il 7 maggio 2010, notificata il
9 giugno 2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26
gennaio 2015 dal consigliere dottor Stefano Bielli;
udito, per la parte ricorrente principale e controricorrente al
ricorso incidentale, l'avvocato dello Stato Gianni De Bellis, che ha
chiesto l'accoglimento del ricorso principale ed il rigetto del
ricorso incidentale;
udito, per la controricorrente al ricorso principale e ricorrente
incidentale, l'avvocato Gianmarco Tardella, che ha chiesto il rigetto
del ricorso principale e l'accoglimento del ricorso incidentale;
udito il P.M., nella persona del sostituto Procuratore generale dott.
DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del ricorso
principale e la declaratoria di inammissibilità del ricorso
incidentale.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza n. 74/14/10, depositata il 7 maggio 2010 e notificata il 9 giugno 2010, la
Commissione tributaria regionale della Lombardia (hinc: "CTR"), accoglieva l'appello principale
proposto dalla s.p.a.
ALCATEL ITALIA nei confronti dell'Agenzia delle entrate e rigettava l'appello incidentale
proposto da detta Agenzia nei confronti della s.p.a. avverso la sentenza n. 419/24/2007 della
Commissione tributaria provinciale di Milano (hinc: "CTP"), compensando tra le parti le spese di
entrambi i gradi, data la complessità della materia.
Il giudice di appello premetteva che: a) la s.p.a. ALCATEL ITALIA aveva impugnato un avviso di
accertamento con cui l'Agenzia delle entrate aveva determinato per il periodo d'imposta 2000 una
maggiore IRPEG di Euro 48.597.445,09, una maggiore IRAP di Euro 3.492.374,51 ed una
maggiore IVA di Euro 14.171.719,34 ed aveva inflitto una sanzione amministrativa unica di Euro
5.594.088,26, per effetto del cumulo giuridico con le sanzioni applicate in relazione alle annualità
1997, 1998 e 1999; b) avverso la sentenza della CTP - la quale aveva parzialmente accolto il ricorso
della società - avevano proposto appello principale ed incidentale, rispettivamente la s.p.a.
contribuente e l'Agenzia delle entrate.
Su queste premesse, la CTR, osservava, per quanto qui interessa, che:
a) l'avviso di accertamento era sufficientemente motivato, anche per relationem al processo verbale
di constatazione (conosciuto o conoscibile dalla società), a nulla rilevando l'accoglimento da parte
dell'Agenzia dei rilievi, delle motivazioni e delle conclusioni contenute nel suddetto processo
verbale; b) quanto al rilievo IRPEG 3 (relativo all'omessa contabilizzazione - con riguardo all'art.
54 del TUIR - della plusvalenza derivante dalla cessione a titolo oneroso di un ramo d'azienda alla
controllata s.p.a. Alcatel E-Business Distribution, con ripresa a tassazione di L. 95.212.040.453, sul
presupposto che il prezzo effettivo netto di quanto ceduto non era il dichiarato corrispettivo di L.
84.525.200.417, ma aveva un valore negativo, cioè pari a L. 10.686.840.036, come si doveva
desumere dal fatto che erano rimasti nella disponibilità della cedente le voci "crediti verso clienti",
di L. 120.199.015.352, e "debiti verso fornitori", di L. 24.986.074.899, nonostante fossero comprese
tra le attività e passività cedute), andava riformata la sentenza della CTP ed annullato il rilievo
medesimo, perchè: b.1.) le parti - allo scopo lecito di evitare alla cedente lo stralcio dei debiti e
crediti dalla contabilità - avevano concordato che la parte venditrice, per motivi di praticità
contabile, avrebbe incassato i crediti e pagato i debiti per conto dell'acquirente, alla quale avrebbe
versato mensilmente l'importo netto residuo, utilizzando un apposito conto indisponibile ed
inesigibile fino alla sua chiusura; b.2.) tale accordo era stato applicato, come risultava dalla
documentazione prodotta in primo grado, tramite "accredito degli incassi" e iscrizione nel bilancio
della cessionaria del credito degli importi non incassati al 31 dicembre 2000 (lire 23.988.719.718)
bilanciato dall'annotazione di un debito di pari importo nel bilancio della cedente, il tutto con
registrazione nell'apposito conto finanziamento con accredito finale del saldo residuo (come da
lettere di addebito prodotte in primo grado); b.3.) gli stessi verificatori, non avendo contestato alla
controllata s.p.a. Alcatel E-Business Distribution l'omessa dichiarazione di componenti positivi per
L. 95.212.040.453, non avevano preso in considerazione la plusvalenza; b.4.) il rilievo dell'ufficio
tributario era contraddicono, in quanto, da un lato, aveva negato l'effettivo trasferimento alla
cessionaria dei crediti e dei debiti e, dall'altro, aveva riconosciuto che il credito della cedente nei
confronti della cessionaria iscritto nel conto finanziamento per L. 120.199.015.352 era stato
progressivamente ridotto dell'importo del valore nominale - al momento della loro naturale
scadenza e indipendentemente da qualsivoglia incasso - dei crediti ceduti, tenuto conto (aggiungeva
la CTR) che Incedente aveva garantito la solvibilità di tali crediti, accollandosi al riguardo ogni
rischio; c) quanto al rilievo IRPEG 5 (con riflessi sull'IRAP e relativo all'indebita deduzione della
decima quota di ammortamento - per L. 41.295.000.000 e relativa al 2000 - dell'avviamento iscritto
a seguito della fusione avvenuta nell'anno 1991 tra l'incorporante s.p.a. Telettra, poi denominata
s.p.a. Alcatel Italia, e l'incorporata s.p.a. Alcatel Face, trattandosi di operazione ritenuta elusiva e
priva di valide ragioni economiche, con riguardo all'art. 10 della legge n. 408 del 1990, data
l'invariata differenza dei processi produttivi, il mantenimento della originaria destinazione dei siti
produttivi e della rete di commercializzazione e gestione della clientela e, quindi, senza sinergie ed
integrazione dei processi industriali), andava riformata la sentenza della CTP in ordine alla
affermata legittimità del rilievo medesimo, perchè:
c.1.) le sentenze definitive con cui erano stati annullati gli avvisi relativi alle quote di
ammortamento degli anni dal 1991 al 1994, conseguenti alla medesima fusione, integravano un
giudicato esterno incidente anche sull'annualità 2000, riguardando le stesse parti ed un punto
fondamentale comune del medesimo rapporto giuridico, costituito dalla legittimità dell'iscrizione in
bilancio dell'avviamento per fusione (incorporazione con annullamento delle azioni della
incorporata possedute al 100%) e, pertanto, dalla deducibilità della quota annua del suddetto
ammortamento; c.2.) comunque, l'onere della prova dei presupposti del disconoscimento degli
effetti della fusione, incombente sull'ufficio tributario, era rimasto insoddisfatto; c. 3) la
contribuente aveva dedotto, con dati non contestati, la sussistenza di valide ragioni economiche per
la fusione, consistite nel mutamento della titolarità del capitale azionario, nello sfruttamento della
complementarità di competenze tecniche e commerciali, nell'unificazione delle risorse,
nell'eliminazione delle funzioni aziendali superflue e nella riduzione sia dei siti industriali (da 33
nel 1990 a 18 nel 1996), sia del numero degli addetti (da 16.749 a 13.600 nel 1996); d) quanto al
rilievo IRPEG 1 (con riflessi sull'IRAP e relativo all'omessa contabilizzazione di elementi positivi
di reddito per L. 117.811.272.000, in ragione delle cessioni a valore inferiore a quello normale,
effettuate nei confronti di società consociate, con riguardo agli artt. 9 e 76 del TUIR, nel testo
all'epoca vigente), andava confermata la sentenza della CTP in ordine all'annullamento del rilievo
medesimo, perchè: d.1.) l'amministrazione finanziaria non aveva assolto l'onere di dimostrare che le
cessioni erano avvenute ad un prezzo inferiore al valore normale, al fine di eludere la normativa
tributaria trasferendo utili in modo da evitarne la tassazione in Italia; d.2.) l'analisi compiuta
dall'ufficio tributario al riguardo non era dettagliata, in quanto il concetto utilizzato di "famiglia di
prodotti" ai fini della comparazione dei prezzi non garantiva identità o similarità tra i prodotti
venduti;
d.3.) le deduzioni dell'ufficio tributario non avevano dimostrato un comportamento elusivo
manifestamente ed inspiegabilmente antieconomico e, quindi, non avevano trasferito sul
contribuente l'onere della prova di non aver praticato un prezzo inferiore a quello normale o di aver
posto in essere un comportamento non antieconomico; d.4.) comunque, non competeva al giudice
indicare il corretto criterio di indagine da seguire per il controllo delle operazioni in esame.
2.- Avverso la sentenza di appello Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato
a quattro motivi e notificato con plico spedito il 23 settembre 2010.
3.- La s.p.a. ALCATEL LUCENT ITALIA (già s.p.a. ALCATEL ITALIA) ha resistito con
controricorso e proposto ricorso condizionato, affidato a cinque motivi, con atto notificato con plico
spedito il 2 novembre 2010. Ha poi illustrato le proprie posizioni con memoria depositata ai sensi
dell'art. 378 cod. proc. civ..
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Con il primo motivo del ricorso principale, l'Agenzia delle entrate denuncia - in relazione all'art.
360 c.p.c., comma 1, n. 5, - l'insufficienza motivazionale della sentenza di appello nella parte in cui
conferma la sentenza della CTP in ordine all'annullamento del rilievo IRPEG 1 (con riflessi
sull'IRAP), relativo all'omessa contabilizzazione di elementi positivi di reddito per L.
117.811.272.000, in ragione delle cessioni a valore inferiore a quello normale, effettuate nei
confronti di società consociate, con riguardo all'art. 9, comma 3 e art. 76, comma 5, del TUIR, nel
testo all'epoca vigente. La CTR giustifica la sua decisione sul presupposto che: 1.)
l'amministrazione finanziaria non ha assolto l'onere di dimostrare che le cessioni erano avvenute ad
un prezzo inferiore al valore normale, al fine di eludere la normativa tributaria trasferendo utili in
modo da evitarne la tassazione in Italia; 2.) l'analisi compiuta dall'ufficio tributario al riguardo non è
dettagliata, in quanto il concetto utilizzato di "famiglia di prodotti" ai fini della comparazione dei
prezzi non garantisce l'identità o la similarità tra i prodotti venduti; 3.) le deduzioni dell'ufficio
tributario non hanno dimostrato un comportamento elusivo manifestamente ed inspiegabilmente
antieconomico e, quindi, non hanno trasferito sul contribuente l'onere della prova di non aver
praticato un prezzo inferiore a quello normale o di aver posto in essere un comportamento non
antieconomico; 4.) comunque, non compete al giudice indicare il corretto criterio di indagine da
seguire per il controllo delle operazioni in esame.
La ricorrente principale deduce che la CTR non ha ben motivato sul fatto decisivo e controverso
della correttezza del metodo di calcolo del valore normale e delle sue conseguenze. In particolare,
afferma che il giudice di appello non ha tenuto conto che: 1) la Guardia di finanza aveva applicato il
metodo del costo maggiorato (cosiddetto cost plus, in luogo del metodo del "confronto di prezzo"o
del metodo del "prezzo di rivendita"), perchè la contabilità della s.p.a.
Alcatel Italia e la circostanza che la società svolgeva normalmente al funzione di produttore e non
di rivenditore non consentivano un'utile applicazione di altri metodi; 2) nel processo verbale di
constatazione si erano presi in considerazione i due gruppi di beni in cui si articolavano, secondo la
contabilità della contribuente (con due distinti sistemi di rilevazione posti in essere dalla stessa
contribuente): "famiglie di prodotti" (cioè beni o servizi, compresi apparati di produzione, identici o
della stessa specie o similari come da dichiarazioni del dipendente ing. P.L. ovvero al loro interno
disomogenei e non comparabili, assimilati a puri fini statistici aziendali come dalle opposte
dichiarazioni del dipendente dott. C.C.), da un lato, e beni non raggruppati in "famiglie" (ma
identificati da appositi codici), dall'altro; 3) da un esame "a scandaglio" era risultato che ciascuna
"famiglia" di prodotti identificava uno specifico prodotto con codici identificativi per lo più
identici; 4) con riguardo a tali rilevazioni era risultato che la percentuale di ricarico (cd. cost plus
mark plus) applicata dalla s.p.a. Alcatel Italia alle consociate estere era inferiore a quella applicata a
terzi indipendenti nello stesso Paese o addirittura inferiore al costo di produzione; 5) per la
determinazione del valore normale non era necessario che i beni o servizi da comparare fossero
identici; 6) secondo le direttive OCSE (e la Circolare n. 32/9/2267 del 22 settembre 1980, che
recepisce tali direttive), è sufficiente che l'amministrazione fiscale dimostri di aver proceduto alla
determinazione del transfer price conformemente al principio di libera concorrenza; 7) l'onere
probatorio va modulato secondo il principio della vicinanza della prova (mentre nella specie la
contribuente, con comportamento valutabile ai sensi dell'art. 116 c.p.c., comma 2, si era limitata a
contestare il metodo seguito dall'amministrazione finanziaria, senza dimostrare la propria buona
fede).
1.1.- La contribuente eccepisce preliminarmente la formazione di un giudicato interno ostativo
all'ammissibilità del motivo di ricorso principale.
Secondo la controricorrente, l'applicazione della normativa antielusiva concernente il transfer
pricing (in base al cosiddetto arm's length standard), presuppone che l'amministrazione finanziaria
provi sia l'elusività delle operazioni (cioè la cessione ad un prezzo inferiore a quello normalmente
praticato nel libero mercato, al fine di sottrarre una parte degli imponibili alla tassazione in Italia),
sia la determinazione del valore normale (mediante comparazione tra i prezzi praticati e quelli del
libero mercato).
Poichè la CTR ha accertato in fatto che non è provato nè un comportamento manifestamente ed
inspiegabilmente antieconomico da parte della contribuente nè la sottrazione di utili in Italia a
favore di Paesi esteri con fiscalità più favorevole e poichè la ricorrente principale non ha censurato
tali accertamenti, limitandosi a dedurre il vizio motivazionale circa la correttezza del metodo di
calcolo del valore normale e delle sue conseguenze, la s.p.a. ALCATEL LUCENT ITALIA afferma
che si è formato un giudicato interno contrario agli elementi strutturali della norma antielusiva in
discorso.
L'eccezione non è fondata.
In primo luogo, va osservato che la ricorrente principale, nell'impugnare le vantazioni della CTR
sulla correttezza del metodo di calcolo del valore normale e sulle conseguenze di tale metodo, ha
chiaramente impugnato tutta la decisione del giudice di appello in ordine alla riscontrabilità nella
specie di un valore inferiore a quello normale. In particolare, la ricorrente principale Agenzia delle
entrate ha impugnato le asserzioni della CTR in ordine sia alla mancata dimostrazione della
cessione ad un prezzo inferiore a quello di mercato, sia all'attribuzione all'amministrazione
finanziaria dell'onere di provare l'intento elusivo (invece che al contribuente, in base al principio
della vicinanza di prova). L'oggetto del ricorso per cassazione riguarda proprio l'assunto della
ritenuta non antieconomicità della condotta della contribuente (cioè, la pratica di prezzi infragruppo
inferiori al valore normale). Inoltre (ove fosse possibile prescindere dal precedente, decisivo,
rilievo), la controricorrente trascura di considerare la peculiarità della normativa sul valore normale
nei rapporti tra consociate: in base alla più recente giurisprudenza di questa Corte, infatti, detta
normativa non integra una disciplina antielusiva, in senso proprio, perchè (a differenza di altre
norme specificamente antielusive) non prevede che l'amministrazione finanziaria debba provare
quello della maggiore fiscalità nazionale ed è perciò applicabile anche in difetto di prova da parte
dell'amministrazione finanziaria del conseguimento di un concreto vantaggio fiscale da parte del
contribuente. Detta disciplina, in altri termini, rappresenta una difesa più avanzata di quella
direttamente repressiva della elusione, in quanto è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sè.
Va perciò ribadito l'orientamento di questa Corte secondo cui, in tema di determinazione del reddito
di impresa, la disciplina di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, finalizzata alla
repressione del fenomeno economico del transfer pricing, cioè dello spostamento di imponibile
fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative
nazionali differenti, non richiede di provare, da parte dell'amministrazione, la funzione elusiva, ma
solo l'esistenza di "transazioni" tra imprese collegate ad un prezzo apparentemente inferiore a quello
normale, gravando invece sul contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova, ai
sensi dell'art. 2697 cod. civ. ed in tema di deduzioni fiscali (vedi, al riguardo, Cass. n. 9917 del
2008 e n. 19489 del 2010), l'onere di dimostrare che tali "transazioni" sono intervenute per valori di
mercato da considerarsi normali alla stregua dell'art. 9, comma 3, del menzionato decreto, secondo
cui sono da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati "in condizioni di libera
concorrenza", al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o
servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi e con
riferimento "in quanto possibile" a listini e tariffe di uso, non escludendosi pertanto l'utilizzabilità,
al descritto fine, di altri mezzi di prova (vedi in senso analogo, Cass. n. n. 11949 del 2012; n. 10739
e n. 10742 del 2013; n. 8849 del 2014). Occorre avvertire, in proposito, che, in linea generale non si
può escludere che considerazioni di strategia complessiva inducano le imprese a compiere
operazioni di per sè stesse antieconomiche in vista ed in funzione di altri benefici. Tuttavia è
necessario che le varie operazioni rispondano a criteri di logica economica, i quali, a loro volta,
devono essere funzionali a meccanismi di mercato in regime di libera concorrenza, non distorsivi di
tale regime (ex plurimis, Cass. n. 17955 del 2013).
1.2.- Nel merito, il primo motivo del ricorso principale è fondato.
La CTR, infatti, pur affermando che non risultava la cessione a prezzi inferiori al valore normale,
non ha preso in considerazione varie circostanze della fattispecie concreta, a suo tempo dedotte in
giudizio, che avrebbero potuto condurre ad una diversa conclusione esito, come: a) la relativa
impossibilità di applicare, nella determinazione del valore normale, il criterio preferenziale del
"confronto del prezzo" (data la dedotta particolarità dei beni e servizi prodotti dalla contribuente,
largamente infungibili e, quindi, difficilmente confrontabili sul libero mercato e data anche la
peculiarità della contabilità adottata dalla società, tale da ostacolare l'identificazione commerciale
dei beni e servizi); b) le dichiarazioni del dipendente ing. P.L. in ordine alle "famiglie di prodotti",
che conterrebbero beni o servizi, compresi apparati di produzione, identici o della stessa specie o
similari (dichiarazioni considerate evidentemente meno attendibili, ma senza alcuna motivazione al
riguardo, rispetto a quelle, opposte, rese dal dipendente dott. C.C., per il quale, invece, tali
"famiglie" recano al loro interno beni e servizi disomogenei e non comparabili, assimilati a puri fini
statistici aziendali; c) lo "scandaglio" effettuato dai verificatori, che potrebbe aver comprovato
l'identità o similarità dei beni o servizi compresi nelle suddette "famiglie".
Va sottolineato che la ricorrente principale non richiede a questa Corte una nuova valutazione dei
fatti (come inesattamente eccepito dalla controricorrente), ma correttamente denuncia l'insufficienza
della motivazione della sentenza di appello.
La sentenza, in quanto inficiata dal dedotto vizio motivazionale, va cassata con rinvio, sul punto, e
la CTR, in sede di rinvio, dovrà riconsiderare (in diversa composizione) le complessive risultanze
processuali alla luce dei suddetti elementi, eventualmente valutando anche la congruità dei criteri
seguiti nella determinazione del costo di produzione e del margine di ricarico di utile, nonchè
l'incidenza relativa delle "famiglie di prodotti e servizi" rispetto ai prodotti non raggruppati in
"famiglie" (accertando se anche per questi ultimi vi siano state cessioni significative a valore
inferiore a quello normale) e tenendo presente che la prova del comportamento antieconomico
idoneo a trasferire sulla contribuente l'onere della prova contraria è proprio il prezzo inferiore al
valore normale (l'art. 9 del modello di convenzione fiscale OCSE del 1995-1996, tendenzialmente
recepito dal legislatore italiano, precisa che la disciplina sul valore normale nei rapporti infragruppo
si applica "quando le condizioni convenute o imposte tra le due imprese, nelle loro relazioni
commerciali o finanziarie, sono diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese
indipendenti, gli utili che in mancanza di tali condizioni sarebbero stati realizzati da una delle due
imprese, ma che a causa di dette condizioni non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di
questa impresa e tassati di conseguenza").
1.3.- La contribuente chiede che, nel caso in cui si ritenga irrilevante l'ottenimento, da parte
dell'impresa residente, di un vantaggio fiscale derivante dalla pattuizione di prezzi di trasferimento
infragruppo transnazionali diversi da quelli di mercato, la Corte di cassazione formuli richiesta di
rinvio pregiudiziale interpretativo alla CGUE, ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, al fine di
accertare se le sopra evocate norme nazionali (art. 76, commi 2 e 5 e art. 9, comma 3, del TUIR)
siano in contrasto con l'ordinamento eurounitario (sotto il profilo sia dell'abuso del diritto; sia della
proporzionalità; sia della libertà di stabilimento e della non discriminazione).
L'istanza non può essere accolta. Infatti - a parte ogni altra pur possibile considerazione (come: la
natura non principalmente antielusiva della norma; l'esigenza di tutelare il potere impositivo
nazionale; il precedente, per molti versi analogo, costituito dalla decisione della CGUE del 21
gennaio 2010, in C-311/08, SGF) - il rinvio pregiudiziale sarebbe prematuro, dovendo il giudice di
rinvio previamente accertare la condizione essenziale per l'applicazione della normativa, cioè
l'esistenza di cessioni a prezzi inferiori al valore normale.
2.- Con il secondo motivo del ricorso principale, l'Agenzia delle entrate denuncia - in relazione
all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, - l'insufficienza motivazionale della sentenza di appello nella parte
in cui annulla il rilievo IRPEG 3, relativo all'omessa contabilizzazione - con riguardo all'art. 54 del
TUIR - della plusvalenza derivante dalla cessione a titolo oneroso, in data 28 settembre 2000, di un
ramo d'azienda alla controllata s.p.a. Alcatel E-Business Distribution, con ripresa a tassazione di L.
95.212.040.453, sul presupposto che il prezzo effettivo netto di quanto ceduto non era il dichiarato
corrispettivo di L. 84.525.200,417, ma aveva un valore negativo, cioè pari a L. 10.686.840.036,
come si doveva desumere dal fatto che erano rimasti nella disponibilità della cedente le voci "crediti
verso clienti" (o "fondo svalutazione crediti"), di L. 120.199.015.352, e "debiti verso fornitori", di
L. 24.986.074.899, nonostante che tali importi fossero compresi tra le attività e passività cedute.
La CTR giustifica la sua decisione osservando che: 1.) le parti - allo scopo lecito di evitare alla
cedente lo stralcio dei debiti e crediti dalla contabilità - avevano concordato (art. 7 del contratto di
cessione) che la parte venditrice, per motivi di praticità contabile, avrebbe incassato i crediti e
pagato i debiti per conto dell'acquirente, alla quale avrebbe versato mensilmente l'importo netto
residuo, utilizzando un apposito conto indisponibile ed inesigibile fino alla sua chiusura; .2.) tale
accordo era stato applicato, come risultava dalla documentazione prodotta in primo grado, tramite
"accredito degli incassi" e iscrizione nel bilancio della cessionaria del credito degli importi non
incassati al 31 dicembre 2000 (lire 23.988.719.718) bilanciato dall'annotazione di un debito di pari
importo nel bilancio della cedente, il tutto con registrazione nell'apposito conto finanziamento con
accredito finale del saldo residuo (come da lettere di addebito prodotte in primo grado); 3.) gli stessi
verificatori, non avendo contestato alla controllata s.p.a. Alcatel E-Business Distribution l'omessa
dichiarazione di componenti positivi per L. 95.212.040.453, non avevano preso in considerazione la
plusvalenza; 4.) il rilievo dell'ufficio tributario era contraddittorio, in quanto, da un lato, aveva
negato l'effettivo trasferimento alla cessionaria dei crediti e dei debiti e, dall'altro, aveva
riconosciuto che il credito della cedente nei confronti della cessionaria iscritto nel conto
finanziamento per L. 120.199.015.352 era stato progressivamente ridotto dell'importo del valore
nominale - al momento della loro naturale scadenza e indipendentemente da qualsivoglia incasso dei crediti ceduti, tenuto conto (aggiungeva la CTR) che la cedente aveva garantito la solvibilità di
tali crediti, accollandosi al riguardo ogni rischio.
La ricorrente principale deduce che la CTR non aveva considerato il fatto decisivo e controverso
della mancata effettiva cessione (unitamente al compendio aziendale) dei crediti e debiti inerenti
all'oggetto del trasferimento; il mancato trasferimento di tali crediti e debiti (essendo rimaste nella
disponibilità della cedente le voci "crediti verso clienti", di L. 120.199.015.352 - importo inserito
nel "fondo svalutazione crediti" -, e "debiti verso fornitori", di L. 24.986.074.899) integrava una
"simulazione" del contratto di cessione (dedotta implicitamente con l'avviso di accertamento), sulla
quale la CTR non aveva adeguatamente motivato.
In particolare, la ricorrente osservava che: a) non risultava corretta l'affermazione della CTR
secondo cui la cedente aveva garantito la solvibilità di tali crediti (l'avviso di accertamento aveva
invece precisato che la cedente si era impegnata solo a versare alla cessionaria un importo
corrispondente al valore nominale dei crediti, entro 30 giorni dalla naturale scadenza, ancorchè
ancora incassati); b) non v'era stato alcun effettivo trasferimento dei crediti e dei debiti (come
specificato nel processo verbale di constatazione), perchè non v'era stata alcuna modifica soggettiva
della loro titolarità e la cedente aveva continuato ad alimentare il fondo rischi anche in relazione a
detti crediti, rilevando perdite per inesigibilità; c) non era provata, e comunque era irrilevante, la
mancanza di una ripresa fiscale a carico della cessionaria, in corrispondenza della suddetta
simulazione.
2.1.- Contrariamente a quanto eccepito dalla controricorrente, non può ritenersi nuova (e dunque
inammissibile) la deduzione della simulazione da parte della ricorrente. Invero, l'ente impositore ha
sempre addebitato alla parte il mancato effettivo trasferimento dei crediti e debiti e, perciò, una
simulazione relativa (vedi la trascrizione del processo verbale alla pag. 29 del ricorso principale,
nonchè la circostanza che, comunque, il calcolo della plusvalenza presuppone il mancato
trasferimento dei crediti-debiti, come risulta dalla pag. 27 del medesimo ricorso. Nè l'addebito della
suddetta simulazione implica ulteriori accertamenti di fatto (tutto rientra nel thema probandum e
decidendum posto sin dalla proposizione del ricorso in primo grado, in base al processo verbale di
constatazione). Infine, l'eccezione di giudicato interno basata sulle stesse argomentazioni riferite
supra, al punto 1.1., è infondata per le ragioni esposte in tale punto.
Tuttavia, il motivo è ugualmente inammissibile, perchè non prospetta un vero e proprio vizio
motivazionale e non indica le ragioni della denunciata insufficienza della motivazione della
sentenza, ma si limita (appunto, inammissibilmente) a proporre una diversa interpretazione dei
suddetti rapporti tra le parti. Si noti che anche la valutazione circa la indicata garanzia della
solvibilità dei crediti sopra menzionati attiene all'interpretazione. Va sottolineato che la CTR ha
specificamente motivato sulla cessione dei crediti, ritenendo che la stessa amministrazione
finanziaria l'avesse sostanzialmente ammessa, in quanto il rilievo dell'ufficio tributario era
contraddittorio, perchè, da un lato, aveva negato l'effettivo trasferimento alla cessionaria dei crediti
e dei debiti e, dall'altro, aveva riconosciuto che il credito della cedente nei confronti della
cessionaria iscritto nel conto finanziamento per L. 120.199.015.352 era stato progressivamente
ridotto dell'importo del valore nominale - al momento della loro naturale scadenza e
indipendentemente da qualsivoglia incasso - dei crediti ceduti.
4.- In base ad un ordine di priorità logica, va preliminarmente esaminato (rispetto al terzo) il quarto
motivo del ricorso principale. La CTR, infatti, motiva la sua decisione con due distinte ed autonome
rationes: a) l'efficacia di un giudicato esterno (ratio impugnata con il terzo motivo di ricorso
principale); b) nel merito, l'insussistenza della prova di un'elusione fiscale (ratio impugnata con il
quarto motivo di ricorso principale). Appare evidente che, ove venisse rigettato il quarto motivo, la
decisione sarebbe sorretta da una autonoma ragione e renderebbe irrilevante l'esame del terzo
motivo, da ritenersi assorbito dal rigetto del quarto.
Con il quarto motivo del ricorso principale, l'Agenzia delle entrate denuncia - in relazione all'art.
360 c.p.c., comma 1, n. 5, - l'insufficiente motivazione, nel merito, della sentenza di appello sul
punto dell'annullamento del rilievo IRPEG 5, con riflessi sull'IRAP (in materia, pertanto, di imposte
non armonizzate), relativo all'indebita deduzione della decima quota di ammortamento - per L.
41.295.000.000 e relativa al 2000 - dell'avviamento iscritto a seguito del disavanzo derivato dalla
fusione avvenuta nell'anno 1991 tra l'incorporante s.p.a. Telettra (poi denominata s.p.a. Alcatel
Italia) e l'incorporata s.p.a. Alcatel Face; rilievo giustificato dall'ufficio tributario con la natura
elusiva e priva di valide ragioni economiche dell'operazione, con riguardo alla L. n. 408 del 1990,
art. 10 a suo avviso desumibile dall'invariata differenza dei processi produttivi, dal mantenimento
della originaria destinazione dei siti produttivi e della rete di commercializzazione e gestione della
clientela e, quindi, dalla mancanza di sinergie ed integrazione dei processi industriali. In particolare,
la CTR fonda la sua decisione anche sul preliminare rilievo che le sentenze definitive con cui sono
stati annullati gli avvisi relativi alle quote di ammortamento degli anni dal 1991 al 1994,
conseguenti alla stessa fusione, integrano un giudicato esterno incidente anche sull'annualità 2000,
riguardando le stesse parti ed un punto fondamentale comune del medesimo rapporto giuridico,
costituito dalla legittimità dell'iscrizione in bilancio dell'avviamento per fusione (incorporazione
con annullamento delle azioni della incorporata possedute al 100%) e, pertanto, dalla deducibilità
della quota annua del suddetto ammortamento.
La CTR fonda la sua decisione non solo sul rilievo del giudicato esterno (terzo motivo di ricorso:
vedi infra), ma anche con la considerazione, nel merito, che comunque l'onere della prova dei
presupposti del disconoscimento degli effetti della fusione, incombente sull'ufficio tributario, è
rimasto insoddisfatto, perchè la contribuente ha dedotto, con dati non contestati, la sussistenza di
valide ragioni economiche per la fusione, consistenti nel mutamento della titolarità del capitale
azionario, nello sfruttamento della complementarità di competenze tecniche e commerciali,
nell'unificazione delle risorse, nell'eliminazione delle funzioni aziendali superflue e nella riduzione
sia dei siti industriali (da 33 nel 1990 a 18 nel 1996), sia del numero degli addetti (da 16.749 a
13.600 nel 1996).
La ricorrente principale, a sostegno della dedotta insufficienza motivazionale, rileva che la CTR
non ha tenuto conto della seguente cronologia: - il 15 aprile 1991 la s.p.a. Telettra (poi denominata
s.p.a. Alcatel Italia) aveva acquistato dalla società olandese Alcatel B.V., la partecipazione
totalitaria nella s.p.a. Alcatel Face per L. 2.010,500.000.000; - il 5 giugno 1991 era stato depositato
presso il Tribunale di Milano il progetto di incorporazione della s.p.a. Alcatel Face; - il 31 ottobre
1991 si era perfezionata l'incorporazione, avente effetto dal 1 gennaio 1991, con annullamento delle
azioni dell'incorporata; - in base alle situazioni patrimoniali al 31 marzo 1991, si era creato un
disavanzo da annullamento di L. 1.673.500.647.000. Da tale ignorata cronologia, secondo l'Agenzia
ricorrente, si desumerebbe l'intento elusivo principalmente diretto al risparmio d'imposta, data la
scelta di realizzare una tortuosa ed onerosa pluralità di operazioni dirette alla fusione, in luogo
dell'immediata incorporazione, cioè senza previo acquisto dell'intero pacchetto azionario
dell'incorporanda. Inoltre, la CTR, sempre ad avviso della ricorrente principale, non aveva
considerato che l'integrazione dell'incorporante con l'apparato industriale e commerciale
dell'incorporata si era realizzata solo nel 1996, ben cinque anni dopo la fusione, e, quindi non aveva
alcun significato indiziario.
4.1.- Il quarto motivo non è fondato e va rigettato.
Le circostanze dedotte dalla ricorrente principale (la concentrazione cronologica delle operazioni)
non sono idonee, di per sè, a dimostrare l'elusione fiscale (detta concentrazione corrisponde, anzi, al
pronto perseguimento del risultato finale della fusione) Tutta l'argomentazione del motivo è basata
su due elementi di fatto (a. esistenza di un vantaggio fiscale; b. integrazione industriale e
commerciale realizzatasi solo nel 1996, cinque anni dopo la fusione (con originario mantenimento
della originaria destinazione dei siti produttivi e della rete di commercializzazione e gestione della
clientela) e su una valutazione (tortuosa ed onerosa pluralità di operazioni dirette alla fusione, in
luogo dell'immediata incorporazione). Nessuna di tali deduzioni appare dirimente: non l'esistenza di
un vantaggio fiscale (perchè); non il differimento dell'integrazione industriale e commerciale (anche
la sola immediata integrazione organizzativa può costituire una valida ragione economica delle
operazioni); non la tortuosità ed onerosità delle operazioni (non sono chiariti nè il motivo di tale
asserita "tortuosità", trattandosi di operazioni societarie frequenti per raggiungere gli effetti della
fusione, nè la pretesa "onerosità").
La L. n. 408 del 1990, art. 10 (nel testo originario, applicabile ratione temporis) dispone che "è
consentito all'amministrazione finanziaria disconoscere ai fini fiscali la parte di costo delle
partecipazioni sociali sostenuto e comunque i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di fusione,
concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale poste in essere senza valide ragioni
economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta". La
disposizione consente, perciò, all'amministrazione finanziaria di disconoscere i vantaggi tributari
conseguiti nelle operazioni di fusione societaria, quando concorrano le tre condizioni costituite: (a)
dall'assenza di valide ragioni economiche nell'effettuazione dell'operazione di fusione; (b)
dall'esclusività dello scopo di ottenere, attraverso l'operazione stessa, un risparmio d'imposta, e (c)
dalla "fraudolenza" che deve connotare i mezzi utilizzati per il raggiungimento del predetto fine
esclusivo. Come più volte affermato da questa Corte, l'onere di dimostrare la concorrente ricorrenza
di tali condizioni incombe all'amministrazione finanziaria che invochi l'applicazione di tale norma
antielusiva (ex plurimis, Cass. n. 16097 del 2007; n. 26805 del 2014). La necessità della
compresenza di tutte le tre predette condizioni perchè l'amministrazione finanziaria possa
disconoscere gli effetti fiscali implica che la scelta del soggetto passivo d'imposta di porre in essere
l'operazione negoziale fiscalmente meno gravosa non è sufficiente, da sola, ad integrare una
condotta elusiva (argumenta da Cass. n. 25758 del 2014, n. 438 del 2015, ancorchè in riferimento
ad altra norma antielusiva). Va poi avvertito che le "valide ragioni economiche" extrafiscali non
necessariamente si identificano in una redditività immediata, potendo consistere in esigenze di
natura organizzativa ed in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda (argumenta da
Cass. 4604 del 2014, anch'essa in riferimento ad altra norma antielusiva).
Nella specie, nulla è stato dedotto dalla ricorrente principale nè in ordine all'esclusività dello scopo
di ottenere, attraverso l'operazione stessa, un risparmio d'imposta, nè in ordine alla "fraudolenza"
che deve connotare i mezzi utilizzati per il raggiungimento del predetto fine esclusivo. La CTR,
anzi, specifica che la contribuente aveva dedotto, con dati non contestati, la sussistenza di valide
ragioni economiche per la fusione, consistite nel mutamento della titolarità del capitale azionario,
nello sfruttamento della complementarità di competenze tecniche e commerciali, nell'unificazione
delle risorse, nell'eliminazione delle funzioni aziendali superflue e nella riduzione sia dei siti
industriali (da 33 nel 1990 a 18 nel 1996), sia del numero degli addetti (da 16.749 a 13.600 nel
1996).
Occorre, perciò, concludere per l'insussistenza della dedotta insufficienza motivazionale.
4.- Con il terzo motivo del ricorso principale, l'Agenzia delle entrate denuncia - in relazione all'art.
360 c.p.c., comma 1, n. 3, - la violazione o falsa applicazione dell'art. 2909 cod. civ. nella parte in
cui la sentenza d'appello, in riforma della sentenza della CTP, annulla il rilievo IRPEG 5 (con
riflessi sull'IRAP), relativo all'indebita deduzione della decima quota di ammortamento - per L.
41.295.000.000 e relativa al 2000 - dell'avviamento iscritto a seguito del disavanzo derivato dalla
fusione avvenuta nell'anno 1991 tra l'incorporante s.p.a. Telettra (poi denominata s.p.a. Alcatel
Italia) e l'incorporata s.p.a. Alcatel Face; rilievo giustificato dall'ufficio tributario con la natura
elusiva e priva di valide ragioni economiche dell'operazione, con riguardo alla L. n. 408 del 1990,
art. 10 a suo avviso desumibile dall'invariata differenza dei processi produttivi, dal mantenimento
della originaria destinazione dei siti produttivi e della rete di commercializzazione e gestione della
clientela e, quindi, dalla mancanza di sinergie ed integrazione dei processi industriali. In particolare,
la CTR fonda la sua decisione anche sul preliminare rilievo che le sentenze definitive con cui sono
stati annullati gli avvisi relativi alle quote di ammortamento degli anni dal 1991 al 1994,
conseguenti alla stessa fusione, integrano un giudicato esterno incidente anche sull'annualità 2000,
riguardando le stesse parti ed un punto fondamentale comune del medesimo rapporto giuridico,
costituito dalla legittimità dell'iscrizione in bilancio dell'avviamento per fusione (incorporazione
con annullamento delle azioni della incorporata possedute al 100%) e, pertanto, dalla deducibilità
della quota annua del suddetto ammortamento.
La ricorrente principale rileva che gli accertamenti annullati dalle sentenze passate in giudicato
menzionate dalla CTR sono basati sulla violazione dell'art. 123 del TUIR, nel testo allora vigente (il
quale consentiva di rivalutare i beni patrimoniali dell'incorporata, determinando nuovi valori
fiscalmente rilevanti, mediante l'allocazione del disavanzo da fusione, purchè i nuovi maggiori
valori fossero giustificati e funzionali alla produzione del reddito in capo all'incorporante in futuri
esercizi, in modo da utilizzare il disavanzo di fusione per iscrivere plusvalenze esenti): detti avvisi
muovevano dall'interpretazione dell'art. 123 del TUIR (minoritaria in dottrina) secondo cui le
plusvalenze si riferivano solo a beni patrimoniali e non anche all'avviamento. Solo per gli anni
successivi - prosegue la ricorrente - era stata imputata alla contribuente, a seguito del processo
verbale di constatazione del 21 giugno 2001, la realizzazione di una fattispecie elusiva in violazione
della L. n. 408 del 1990, art. 10. Ne deriverebbe, per la ricorrente, che l'invocato giudicato non
riguarda l'elusività della condotta e che, pertanto, non integra un antecedente logico necessario
vincolante la decisione della CTR, relativa all'anno 2000.
4,1.- Come già osservato al punto 3., il rigetto del quarto motivo comporta l'assorbimento del terzo,
divenuto irrilevante. Pertanto non sussistono neppure ragioni per disporre la riunione con altri
giudizi pendenti tra le stesse parti davanti a questa Corte che presentano le medesime questioni di
giudicato.
5.- Con il primo motivo del ricorso incidentale condizionato, la s.p.a. ALCATEL LUCENT
ITALIA denuncia la violazione, in sede di determinazione delle imposte, del D.P.R. n. 917 del
1986, art. 102 per la mancata compensazione dei redditi accertati con le perdite pregresse
riconosciute spettanti dallo stesso ufficio tributario.
5.1.- Il primo motivo del ricorso incidentale condizionato è inammissibile, perchè censura l'avviso,
non la sentenza della CTR (non indica il mezzo d'impugnazione della sentenza).
6.- Con il secondo motivo del ricorso incidentale condizionato, la s.p.a. ALCATEL LUCENT
ITALIA denuncia la violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 54, 67 e 68 (nel testo vigente
ratione temporis), con riferimento alla ripresa a tassazione della quota di ammortamento
dell'avviamento.
6.1.- Il secondo motivo del ricorso incidentale, in quanto condizionato, è assorbito dal rigetto del
quarto motivo del ricorso principale.
7.- Con il terzo motivo del ricorso incidentale condizionato, la s.p.a. ALCATEL LUCENT ITALIA
denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 408 del 1990, art. 10 e della L. n. 724 del
1994, art. 27 con riferimento alla ripresa a tassazione della quota di ammortamento dell'avviamento
di cui al punto precedente.
7.1.- Il terzo motivo del ricorso incidentale, in quanto condizionato, è assorbito dal rigetto del
quarto motivo del ricorso principale.
8.- Con il quarto motivo del ricorso incidentale condizionato, la s.p.a. ALCATEL LUCENT
ITALIA denuncia - in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62 la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3, con riferimento alla
parte della sentenza di appello in cui si afferma la sufficienza della motivazione dell'avviso di
accertamento impugnato dalla contribuente.
La società deduce che l'ente impositore non aveva valutato i fatti e gli elementi probatori raccolti
dalla Guardia di finanza nè motivato le ragioni della rettifica della dichiarazione; in particolare
sottolinea che l'avviso era incomprensibile senza una concomitante lettura del processo verbale di
constatazione.
8.1.- Il quarto motivo del ricorso incidentale è infondato.
E' qui sufficiente ricordare la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui nell'avviso di
accertamento o di rettifica, la motivazione per relationem, con rinvio alle conclusioni contenute nel
processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, non è illegittima, per mancanza
di autonoma valutazione da parte dell'ufficio tributario degli elementi acquisiti, in quanto l'ufficio
stesso, condividendo le conclusioni del processo verbale, ha solo inteso realizzare una economia di
scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente (cui è
stato consegnato o notificato detto processo verbale), non arreca alcun pregiudizio al corretto
svolgimento del contraddittorio (ex plurimis, Cass. n. 15379 del 2002; n. 10205 del 2003; n. 21119
del 2011; n. 4523 e n. 16976 del 2012).
9.- Con il quinto motivo del ricorso incidentale condizionato, la s.p.a. ALCATEL LUCENT
ITALIA denuncia la nullità dell'atto di irrogazione delle sanzioni per violazione del D.Lgs. n. 472
del 1997, art. 16 in quanto non indica i fatti addebitati, gli elementi probatori e i criteri per la
determinazione delle sanzioni 9.1.- Il quinto motivo del ricorso incidentale condizionato è
inammissibile, perchè censura l'avviso, non la sentenza della CTR (non indica il mezzo
d'impugnazione della sentenza) e perchè comunque non è autosufficiente (non trascrive l'avviso).
10.- In conclusione, va accolto il primo motivo del ricorso principale e dichiarato inammissibile il
secondo dello stesso ricorso, con assorbimento del terzo; vanno poi dichiarati inammissibili il primo
ed il quinto motivo del ricorso incidentale condizionato e rigettato il quarto motivo dello stesso
ricorso, con assorbimento del secondo e terzo motivo. La sentenza impugnata deve essere cassata in
relazione al motivo accolto del ricorso principale, con rinvio, anche per le spese del presente
giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa
composizione.
PQM
P.Q.M.
Quanto al ricorso principale, accoglie il primo motivo, dichiara inammissibile il secondo, rigetta il
quarto, assorbito il terzo;
quanto al ricorso incidentale condizionato, dichiara inammissibili il primo ed il quinto motivo,
rigetta il quarto, assorbiti il secondo ed il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria
regionale della Lombardia, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 5 sezione civile, il 26 gennaio 2015.
Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2015
4.1.Cassazione civile, sez. trib., 13/10/2006, (ud. 22/06/2006, dep.13/10/2006), n.
22023
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SACCUCCI Bruno
- Presidente Dott. MAGNO Giuseppe V. A.
- Consigliere -
Dott. SCUFFI Massimo
- rel. Consigliere Dott. DI IASI Camilla
- Consigliere Dott. TIRELLI Francesco
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Amministrazione delle Finanze dello Stato - Agenzia delle Entrate
rappresentata e difesa ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato
con domicilio eletto in Roma Via dei Portoghesi 12;
- ricorrente contro
Ford Italia S.P.A., rappresentata e difesa giusta procura speciale a
margine dagli avv.ti GANGEMI Bruno e Claudio Visco con domicilio
eletto in Roma presso lo studio legale Macchi di Cellere e Gangemi Via G. Cubani 12 - Roma;
- controricorrente e ricorrente incidentale avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Roma
sez. 30, n. 2, pubblicata il 14.2.2000;
Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del
22/06/2006 dal Consigliere Relatore Dott. Massimo Scuffi;
Sentito il difensore della Ford Italia s.p.a.;
Udito il P.G., che ha concluso per il rigetto dell'appello principale
e l'accoglimento di quello incidentale.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con processo verbale di constatazione il nucleo PT della Guardia di Finanza concludeva una
verifica fiscale effettuata presso la spa Ford Italia per gli anni 1987-1992 dalla quale scaturiva, da
parte del 2^ Ufficio II.DD. di Roma, avviso di accertamento con recuperi a titolo di IRPEG ed
ILOR tra i quali la ripresa a tassazione di presunte sovrafatturazioni di autovetture acquistate da
società estere del gruppo.
L'Ufficio, infatti, ipotizzava un costo maggiore di quello normale da stabilire secondo le previsioni
del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 76 (TUIR) in quanto la Ford Italia si era accollata senza
compenso l'onere-gravante per legge sulla società costruttrice - delle riparazioni e manutenzioni
delle vetture nuove, venendo in tal modo a realizzare una riduzione dell'imponibile in Italia a
vantaggio di maggiori profitti di consociate operanti in paesi a più bassa fiscalità, nè del resto
risultando provato per atto scritto che di tali maggiori oneri la società avesse tenuto conto nella
determinazione del prezzo di acquisto.
Tale tesi confutata dalla società contribuente nelle sedi del contenzioso tributario, veniva respinta in
entrambi i gradi.
In particolare la Commissione Tributaria Regionale di Roma - confermando sul punto la decisione
della Commissione provinciale capitolina - argomentava che esisteva un valido accordo di gruppo
(secondo direttive impartite dalla Ford statunitense nel 1967 alle società consorelle acquirenti che si
obbligavano a sostenere le spese di riparazioni e manutenzione delle auto nuove acquistate nei
confronti di clienti e concessionari) il quale rappresentava un accollo della garanzia per vizi della
cosa in capo all'acquirente intermediario nei confronti degli acquirenti finali del bene: accordo che,
in base alla Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale, non richiedeva alcuna
approvazione scritta delle clausole limitative di responsabilità ex art. 1341 c.c. e forniva indizi
contrari all'assunto dell'Ufficio circa la mancanza di prova della presa d'atto di tali oneri nella
determinazione del prezzo di acquisto.
Rilevava infine che l'Ufficio non aveva dimostrato il presupposto che avrebbe reso fiscalmente utile
tutta l'operazione, cioè la più bassa fiscalità nel periodo in questione dei paesi nei quali la Ford
Italia acquistava le vetture.
Quanto alle altre riprese pure contestate (spese di manutenzione e riparazione relative a vetture di
servizio eccedenti il 5%, spese di manutenzione e riparazione contabilizzate nel conto profitti e
perdite eccedenti il limite deducibile, spese di rappresentanza eccedenti il limite deducibile, spese
promozionali non inerenti la produzione del reddito) che i Giudici di 1^ grado avevano ritenute
legittime, la Commissione regionale si asteneva dall'esaminare le censure della Ford dichiarandone
inammissibile l'appello - da essa qualificato incidentale - in quanto avente funzione di appello
principale (poichè indipendente da quello proposto dall'Ufficio sulle statuizioni in tema di
sovrafatturazione) e dunque da notificare alla controparte come previsto per ogni forma di
impugnazione: il che non era stato fatto.
Ricorre per la Cassazione della sentenza l'Amministrazione finanziaria e - per quanto occorra l'Agenzia delle Entrate - lamentando violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 76,
commi 2^ e 5^ (TUIR), artt. 1341 e 1490 c.c., Convenzione di Vienna dell'11/04/1980 nonchè
insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia.
Adduce che - fatta salva l'autonomia contrattuale trattandosi di transazioni internazionali - i rapporti
commerciali dovevano tener conto ai fini fiscali delle norme nazionali sulle valutazioni e - nel caso
di specie - delle disposizioni del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 76 (TUIR) sul valore
normale dei beni ceduti che tale non poteva essere se la Ford Italia assumeva interamente a proprio
carico l'onere economico di sostituzioni e riparazioni di veicoli viziati da difetti di fabbrica
rimborsando alle concessionarie ed alle officine autorizzate i materiali e la mano d'opera impiegata
in numerosissimi interventi.
Desume pertanto che, se detti costi non erano ripetuti dal fornitore, a rivenditrice veniva a
sopportare spese aggiuntive non essendovi prova della applicazione di una riserva di garanzia nella
determinazione del c.d. transfer pricing per cui la mancanza di una garanzia legale per vizi veniva a
riverberarsi sul valore normale di transazione con effetti quanto meno elusivi.
Infatti non essendo richiesta la riduzione del prezzo in funzione di tali oneri (o comunque non
risultando provato che esso fosse stato realmente decurtato della riserva-garanzia secondo le
indicazioni contenute nelle direttive della casa madre) i costi di acquisto rimanevano contabilizzati
all'iniziale supervalore sproporzionato rispetto a quello effettivo della merce con riduzione degli
utili della società italiana in favore di quelle estere.
Contrariamente a quanto argomentato dalla Commissione Regionale - dunque - la ripresa a
tassazione - secondo l'Amministrazione - non si basava su mere presunzioni ed astratti ragionamenti
bensì su presupposti contabili di fatto integrati con l'analisi economica dei rapporti infra-gruppo,
tanto più che non era stato esibito in sede di verifica alcun elemento comprovante i suddetti
obblighi negoziali nè la Convenzione di Vienna poteva salvaguardare la validità di contratti
irragionevolmente escludenti il ricorso alla garanzia per vizi.
Da quì la ribadita legittimità dei recuperi per illegittimo gonfiamento dei costi di acquisto che aveva
provocato grave danno alle casse dello Stato. Resiste la Ford Italia partitamente replicando alle
avverse censure e svolgendo ricorso incidentale contro la statuizioni di inammissibilità dell'appello
lamentando violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 23, 49 e 54, nonchè artt. 333 e 343 c.p.c.,
oltre ad insufficiente e contraddittoria motivazione posto che il criterio distintivo tra appello
principale ed incidentale era solo quello cronologico e l'appello incidentale - ai fini della sua rituale
proposizione - bastava fosse depositato presso la segreteria della Commissione Tributaria secondo
la disciplina del D.Lgs. n. 546 del 1992, come avvenuto nella fattispecie.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Vanno preliminarmente riuniti i ricorsi proposti contro la medesima sentenza a sensi dell'art. 335
c.p.c..
2. Tanto premesso, osserva la Corte sul ricorso principale che la tesi dell'Amministrazione
Finanziaria si fonda su presunte sovra fatturazioni di autovetture oggetto di operazioni infra-gruppo
tra la Ford Italiana spa (società posseduta per quasi l'intero capitale dalla Ford Motor Company
USA) e le consorelle europee (sources Ford), la prima operante come distributrice-venditrice nel
nostro paese dei veicolo acquistati dalle seconde che ne erano fabbricanti nei vari stabilimenti
produttivi localizzati soprattutto in Germania, Spagna e Gran Bretagna.
Poichè delle disposizioni del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, i componenti di reddito
derivanti da operazioni con società' non residenti nel territorio dello Stato, che - direttamente o
indirettamente - controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che
controlla l'impresa sono valutati in base al "valore normale" dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei
beni e servizi ricevuti determinato - a sensi del rinvio operato dal comma 2 - secondo i criteri dettati
dall'art. 9, che individua tale valore nel "prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni o
servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza ed al medesimo stadio di
commercializzazione" e la Ford Italia assumeva a proprio carico l'onere economico e finanziario di
sostituzioni e riparazioni dei veicoli viziati da difetti di fabbrica rimborsando a concessionarie e
officine autorizzate il costo dei loro interventi in spregio all'art. 1490 c.c. (spettando per legge la
garanzia dei vizi della cosa venduta al fabbricante-venditore)ed in difetto di prova di una riserva garanzia (convenzionale) operante sul prezzo di trasferimento per ridurlo in proporzione al fine di
riportarlo al suo valore normale, discendeva - secondo l'assunto dell'Amministrazione - una
supervalutazione dei beni rettificabile secondo i citati parametri normativi con ripresa a tassazione
dell'illegittimo gonfiamento dei costi che veniva a provocare.
Tale costruzione - ancorchè suggestiva - non può essere condivisa come del resto ritenuto nelle
decisioni emesse nei precorsi gradi di merito dai Giudici tributari di Roma.
L'Amministrazione fa anzitutto leva sulla mancanza - nei rapporti tra Ford Italia e le fornitrici estere
- di qualsiasi patto contrattuale limitativo della responsabilità del venditore per vizi originari dei
prodotti oggetto di compravendita facendone derivare la automatica operatività della garanzia legale
di cui non era dato sapere se ed in che misura decurtata dal prezzo intercompany.
Ora nella fattispecie non trova applicazione la legge italiana ma la Convenzione di Vienna
dell'11/04/1980 rettificata e resa esecutiva con L. 11 dicembre 1985, n. 765, ed entrata in vigore a
partire dall'01/01/1988.
L'art. 1, comma 1, della Convenzione ne stabilisce i criteri di applicazione che sono due.
La disciplina uniforme si applica quando la vendita è intercorsa tra parti che hanno la loro sede
(place of business) in due Stati contraenti diversi oppure quando le norme di diritto internazionale
privato (cioèdel foro) portano alla applicazione della legge di uno Stato contraente.
Dal tenore letterale della disposizione citata si evince dunque che la Convenzione si applica alle
vendite internazionali ed al fine di determinare il carattere internazionale della vendita, occorre fare
riferimento alla sede di affari delle parti: se questa si trova in due Stati diversi, la vendita ha il
carattere della internazionalità e, pertanto, è soggetta alle disposizioni della Convenzione.
Viceversa, qualora le parti abbiano la propria sede di affari in uno stesso Stato, la vendita è
considerata interna e, di conseguenza, si applicano le disposizioni della legge nazionale, per quanto
riguarda l'Italia il codice civile.
E' pacifico in causa che nel 1967 la casa madre con sede negli Stati Uniti emanava una direttiva, in
base alla quale tutte le società del gruppo Ford, che vendevano al pubblico i veicoli dovevano
sostenere le spese di riparazione in garanzia per i difetti di fabbricazione imputabili alle società
consociate produttrici dei veicoli medesimi.
La Direttiva era ed è tuttora funzionale nel regolare in modo uniforme i rapporti di scambio tra tutte
le società del gruppo Ford, che hanno la propria sede di affari in Stati diversi e dunque da
considerare inserita nei rapporti contrattuali di volta in volta concretamente istituiti.
Ciò significa che la vendita al pubblico dei veicoli effettuata dalle varie società del gruppo, resta
connotata dal carattere della internazionalità e quindi ciascuna società del gruppo Ford non può
applicare la legislazione interna del proprio Stato di appartenenza, ma deve applicare le disposizioni
della Convenzione.
L'art. 11 della ridetta Convenzione sancisce il principio della libertà di forma statuendo che "un
contratto di vendita non necessita di essere concluso o provato per iscritto e non è sottoposto ad
alcun altro requisito di forma. Esso può venir provato con ogni mezzo, anche per testimoni". La
parti possono così scegliere liberamente la forma negoziale per regolare i propri rapporti escludendo
o trasferendo, se del caso , la garanzia per vizi della cosa senza l'osservanza di alcuna formalità.
L'accordo di accollo di garanzia non necessitava, quindi, di formalizzazione alcuna nè esigeva per
essere opposto di pattuizione specifica e documentata mentre la normalità del prezzo di acquisto nei
rapporti infragruppo trovava ragione nel disposto dalla menzionata direttiva (come preso atto nel
PVC richiamato nel ricorso) secondo cui il corrispettivo fissato dalle società produttrici doveva
essere tale da comprendere una riserva correlata alle future spese di garanzia e di politica
commerciale destinate a rimanere a carico della società acquirente.
Come sul punto precisato dai Giudici di appello, a fronte di un accordo internazionale di gruppo che
forniva indizi probatori univoci in tal senso, era l'Amministrazione onerata di dimostrare in
concreto che la regola di assorbimento della garanzia non era stata rispettata e costituiva metodo
elusivo per scaricare i costi (riducendo gli utili) nel paese di più bassa fiscalità.
Lo scopo della disciplina dettata dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 76, comma 5 (TUIR)
(che regola il c.d. transef pricing) è di evitare che all'intermo del gruppo vengano posti in essere
trasferimenti di utili tramite applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti onde
sottrarli alla tassazione in Italia a favore di tassazioni estere inferiori.
Si tratta di clausola antielusiva che trova, non solo, radici nei principi comunitari in tema di abuso
del diritto (cioè strumentalmente piegato in funzione anomala e/o eccedente il suo normale
esercizio) richiamati soprattutto in materia doganale per contrastare operazioni compiute al solo
scopo di trarre benefici dalie agevolazioni daziarie: così Corte di Giustizia, sentenza 14 dicembre
2000 in causa C - 110/1999, Emsland-Starke GmbH) ma anche immanenza in diversi settori del
diritto tributario nazionale essendo consentito all'Amministrazione finanziaria di disconoscere - ad
esempio - i vantaggi fiscali conseguiti da operazioni societarie (L. n. 408 del 1990, art. 10) poste in
essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un
risparmio di imposta.
Questa Corte ha già avuto modo di precisare che l'onere della prova della ricorrenza dei presupposti
dell'elusìone grava in ogni caso sull'Amministrazione che intenda operare le conseguenti rettifiche
(ex multis 4317/2003).
Ciò trova conferma anche in materia di transfer pricing posto che le direttive OCSE
(Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) da tempo rivolte ad elaborare i
criteri di determinazione del prezzo di trasferimento nelle transazioni commerciali internazionali (in
pratica il prezzo di libera concorrenza dovendo emergere dal raffronto "esterno" di tale corrispettivo
con quello praticato in vendita similare effettuata tra imprese indipendenti oppure dal confronto
"interno" tra una impresa del gruppo e terzo indipendente), nel rapporto del 1995 hanno
espressamente sottolineato che, laddove la disciplina di ciascuna giurisdizione nazionale preveda
che sia l'Amministrazione finanziaria ad essere gravata dell'onere della provare le proprie pretese, il
contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi di trasferimento applicati, se non
prima che l'Amministrazione fiscale abbia essa stessa provato "prima facie" il non rispetto del
principio del valore normale.
Ebbene l'Ufficio, in ottemperanza ai richiamati principi, avrebbe dovuto, innanzitutto, accertare come evidenziato dalla sentenza impugnata - se veramente la fiscalità in Italia era all'epoca
superiore rispetto a quella in vigore nei paesi di provenienza dei veicoli compravenduti in secondo
luogo, determinare il valore normale dei veicoli acquistati da Ford Italia verificando, in concreto, se
i corrispettivi pagati dalla stessa alle proprie consociate estere fossero effettivamente superiori a tale
valore con indagine estesa alla sufficienza del margine di utile ricavato per coprire le spese di
riparazione in garanzia ed analisi delle condizioni del mercato automobilistico mediante confronto
dei prezzi praticati all'interno del gruppo Ford con quelli praticati da altre imprese concorrenti.
Peraltro la ripresa a tassazione operata sul rilievo della illegittima deduzione di imponibile non
risulta essere transitata da questi passaggi obbligati, in realtà l'Ufficio essendosi limitato a fare
riferimento alle particolari condizioni contrattuali esistenti tra le parti in tema di esclusione della
garanzia per i vizi di fabbricazione dei veicoli e da tanto deducendo la sovrafatturazione dei veicoli
acquistati dalla società italiana.
E ciò benchè tali meccanismi di vendita non fossero di per sè "anomali" bensì razionalmente
spiegabili ed economicamente giustificabili per esigenze di politica commerciale e di immagine
quali - come al riguardo spiegato nelle difese Ford - il favorire il cliente finale facultato a far valere
la garanzia nei confronti del proprio fornitore e non costretto a rivolgersi al produttore estero;
tutelare i rapporti tra fabbricanti e distributori riducendo potenzialmente il contenzioso suscettibile
di crearsi qualora la società commercializzatrice dovesse ogni volta rivalersi per ottenere rimborso
delle spese dalla società produttrice; creare nei soggetto onerato un ferreo controllo sulla necessità
ed entità delle riparazioni finalità queste tutte plausibili che concorrono a svilire ogni ipotizzato
intento elusivo privo - anche per questo verso - di pertinenti riscontri probatori.
Il ricorso dell'Amministrazione va pertanto rigettato in tutte le sue articolazioni.
3. Meritevole di accoglimento è - invece - il ricorso incidentale della Ford Italia che denunzia
l'errore di diritto in cui sarebbero incorsi i Giudici d'appello nel dichiarare inammissibile
l'impugnazione incidentale proposta nei confronto delle statuizioni di prime cure che avevano
ritenuto legittime le ulteriori riprese fiscali.
La sentenza della Commissione Tributaria Regionale ha erroneamente attribuito natura di appello
principale all'appello incidentale proposto da Ford per la natura autonoma dei capi della sentenza
impugnati senza considerare che la distinzione tra appello principale ed appello incidentale è basata
esclusivamente su un criterio cronologico: è principale l'appello proposto per primo, incidentale
quello proposto successivamente.
Invero nel vigente sistema processuale, l'impugnazione proposta per prima determina la
costituzione del rapporto processuale, nel quale devono confluire le eventuali impugnazioni di altri
soccombenti perchè sia mantenuta l'unità del procedimento e sia resa possibile la decisione
simultanea.
Di conseguenza le impugnazioni successive alla prima assumono necessariamente carattere
incidentale, siano esse impugnazioni tipiche (proposte cioè contro l'appellante principale) ovvero
autonome (dirette, cioè, a tutelare un interesse del proponente che non nasce dall'impugnazione
principale ma per un capo autonomo e diverso della domanda), solo il tempo costituendo criterio
per distinguere tra appello principale ed appello incidentale si da restare assolutamente ininfluente
che vi sia o meno dipendenza tra le proposte impugnazioni avverso la medesima sentenza.
Ora, poichè Ford Italia ha depositato il proprio appello successivamente all'appello principale
notificato dall'Amministrazione finanziaria, la sua impugnazione non poteva che avere natura di
appello incidentale.
Viene così meno anche la tesi sostenuta dalla Commissione Tributaria Regionale che, in virtù del
richiamo operato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 49, alle norme del codice di procedura civile, ha
rilevato la mancata notifica dell'appello all'Ufficio dichiarandone la inammissibilità.
La norma citata, nell'ultima parte, fa infatti salve le disposizioni previste dal D.Lgs. n. 546 del 1992,
recante la disciplina concernente il processo tributario che contiene una precisa disposizione, l'art.
54, che regola l'appello incidentale.
A tenore di tale disposizione le parti diverse dall'appellante devono costituirsi nei modi e nei
termini di cui all'art. 23 depositando apposito atto di controdeduzioni. Nello stesso atto, depositato
nei modi e termini suddetti, può essere proposto, a pena di inammissibilità, appello incidentale.
La disposizione in parola stabilisce dunque che l'appello incidentale deve essere presentato nei
modi e nei termini previsti per le controdeduzioni che vengono depositate presso la Commissione
Regionale entro sessanta giorni dalla notifica dell'appello principale.
Pertanto, solo l'appello proposto per primo (appello principale) deve essere notificato alle altre parti
per poi essere depositato presso la Commissione competente nei trenta giorni successivi mentre
l'appello proposto successivamente (appello incidentale) deve essere depositato direttamente presso
la Commissione competente nei sessanta giorni successivi alla notifica dell'appello principale.
E' di tutta evidenza, quindi, che l'art. 54 esige solo che l'appello incidentale sia depositato insieme
alle controdeduzioni ,come appunto avvenuto nel caso, escludendo che debba invece venire
notificato alla controparte.
In accoglimento del ricorso incidentale la sentenza andrà sul punto cassata con rinvio della causa per le occorrenti determinazioni sul merito dell'impugnazione - ad altre sezione della Commissione
tributaria regionale del Lazio che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
PQM
P.Q.M.
LA SUPREMA CORTE Riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso
incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia - anche per le spese
- ad altra sezione della Commissione Tributaria regionale del Lazio.
Così deciso in Roma, il 22 giugno 2006.
Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2006
4.2. Cassazione civile, sez. trib., 16/05/2007, (ud. 27/03/2007, dep.16/05/2007), n.
11226
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RIGGIO
Ugo
- Presidente Dott. RUGGIERO Francesco
- Consigliere Dott. NAPOLETANO Giuseppe
- Consigliere Dott. FITTIPALDI Onofrio
- Consigliere Dott. SCUFFI
Massimo
- rel. Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Amministrazione delle Finanze dello Stato - Agenzia delle Entrate
rappresentata e difesa ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato
con domicilio eletto in Roma Via dei Portoghesi 12;
- ricorrente contro
spa Ford Italia, rappresentata e difesa - giusta procura speciale a
margine dagli avv.ti Gangemi Bruno e Claudio Visco con domicilio
eletto in Roma presso lo studio legale Macchi, Di Cellere e Gangemi
Via G. Cubani 12;
- controricorrente avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale di Roma
sez. 22 n. 92 pubblicata il 20.12.2000;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
27.3.2007 dal Consigliere Relatore Dott. Massimo Scuffi;
Sentiti i difensori delle parti;
Udito il P.G., che ha concluso per l'accoglimento parziale del
ricorso.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con processo verbale di constatazione il nucleo PT della Guardia di Finanza concludeva una verifica fiscale
effettuata presso la spa Ford Italia per gli anni 1987-1992 dalla quale scaturiva, da parte del 2^ Ufficio II.DD
di Roma, avviso di accertamento con recuperi a titolo di IRPEG ed ILOR per l'anno di imposta 1991 tra i
quali la ripresa a tassazione di presunte sovrafatturazioni di autovetture acquistate da società estere del
gruppo, di spese per prestazioni di servizi infragruppo,di spese di rappresentanza e promozionali non
inerenti.
L'Ufficio ipotizzava un costo maggiore di quello normale da stabilire secondo le previsioni del D.P.R. 22
dicembre 1986, n. 917, art. 76 in quanto la Ford Italia si era accollata senza compenso l'onere- gravante per
legge sulla società costruttrice - delle riparazioni e manutenzioni delle vetture nuove, venendo in tal modo a
realizzare una riduzione dell'imponibile in Italia a vantaggio di maggiori profitti di consociate operanti in
paesi a più bassa fiscalità, nè del resto risultando provato per atto scritto che di tali maggiori oneri la società
aveva tenuto conto nella determinazione del prezzo di acquisto.
Rilevava poi che la Ford Italia aderiva ad un accordo internazionale con la casa madre americana secondo il
quale alcuni servizi di utilità generale per il gruppo venivano affidati alla spa Ford Europe che le
riaddebitava alle consorelle europee sulla base di un progetto di sviluppo annuale con suddivisione dei costi
tra le varie consociate.
Era peraltro emerso che talune prestazioni (riguardanti pubblicità, autosaloni, programmi sportivi, locandine
etc.) oltre ad essere fatturate dalla Ford Europe erano pure fatturate dalle stesse consociate tra cui la Ford
Italia che veniva così a creare una illegittima duplicazione dei costi. Aggiungeva infine che molte spese
contabilizzate dalla società come spese di pubblicità e dunque interamente dedotte nell'esercizio in effetti
erano da considerare di rappresentanza.
Il ricorso della società contribuente (investente anche altre riprese)veniva parzialmente accolto in primo
grado.
La Commissione tributaria regionale -adita con appello di entrambe le parti - argomentava che esisteva un
valido accordo di gruppo (secondo direttive impartite dalla Ford statunitense nel 1967 alle società consorelle
acquirenti che si obbligavano a sostenere le spese di riparazioni e manutenzione delle auto nuove acquistate
nei confronti di clienti e concessionari) il quale rappresentava un accollo della garanzia per vizi della cosa in
capo all'acquirente intermediario nei confronti degli acquirenti finali del bene: accordo che, in base alla
Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale, non richiedeva alcuna approvazione scritta
delle clausole limitative di responsabilità ex art. 1341 c.c. e forniva indizi contrari all'assunto dell'Ufficio.
Richiamava sul punto precedenti conformi di altre Commissioni tributarie e la sentenza penale di assoluzione
dei rappresentanti della società. Quanto alle altre riprese rilevava - sui costi infragruppo - che la asserita
duplicazione non era dimostrata posto che l'esistenza di un accordo internazionale per la fornitura di servizi
generali non escludeva che la Ford si fosse servita di altre ditte per alcuni tipi di servizi mentre -per le spese
di pubblicità quando anche fossero da considerare di rappresentanza, erano interamente deducibili visto
l'incerto confine tra i due concetti di spesa. Ricorre per la cassazione della sentenza l'Amministrazione
finanziaria e - per quanto occorra - l'Agenzia delle entrate - lamentando - con 1^ motivo - violazione degli
artt. 112 c.p.c., D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 76, comma 2 e 5, artt. 1341 e 1490 c.c., Convenzione
di Vienna dell'11.4.1980 nonchè insufficiente e contradditoria motivazione su punto decisivo della
controversia.
Adduce che - fatta salva l'autonomia contrattuale trattandosi di transazioni internazionali - i rapporti
commerciali dovevano tener conto ai fini fiscali delle norme nazionali sulle valutazioni e nel caso di specie delle disposizioni del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 76 sul valore normale dei beni ceduti che tale
non poteva essere se la Ford Italia assumeva interamente a proprio carico l'onere economico di sostituzioni e
riparazioni di veicoli viziati da difetti di fabbrica rimborsando alle concessionarie ed alle officine autorizzate
i materiali e la mano d'opera impiegata in numerosissimi interventi.
Desume pertanto che, se detti costi non erano ripetuti dal fornitore, la rivenditrice veniva a sopportare spese
aggiuntive non essendovi prova della applicazione di una riserva di garanzia nella determinazione del c.d.
transfer pricing per cui la mancanza di una garanzia legale per vizi veniva a riverberarsi sul valore normale
di transazione con effetti quanto meno elusivi.
Infatti non essendo richiesta la riduzione del prezzo in funzione di tali oneri (o comunque non risultando
provato che esso fosse stato realmente decurtato della riserva-garanzia secondo le indicazioni contenute nelle
direttive della casa madre)i costi di acquisto rimanevano contabilizzati all'iniziale supervalore sproporzionato
rispetto a quello effettivo della merce con riduzione degli utili della società italiana in favore di quelle estere.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla Commissione regionale - dunque - la ripresa a tassazione si basava su
presupposti contabili certi integrati con l'analisi economica dei rapporti infragruppo che giustificavano
l'applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 79.
Incongruo poi si appalesava il riferimento ai precedenti sulla stessa questione richiamati dalla Commissione
regionale perchè la sentenza di proscioglimento non poteva far stato nel processo penale ed il rinvio per
relationem alla motivazione contenuta nelle sentenze di altre Commissioni avrebbe dovuto farsi carico anche
di una autonoma confutazione dei motivi di impugnazione.
Denunzia - con 2^ motivo - violazione degli artt. 113 e 115 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 75, oltre a
vizi di motivazione atteso che la dimostrazione afferente la non inerenza delle spese per prestazioni di servizi
infragruppo non transitava necessariamente dalla prova documentale ma ben poteva essere il risultato di un
ragionamento che consentiva di risalire da fatti incontrovertibili alla certezza di evento qualificato come
illecito tributario gli atti impositivi avendo analiticamente individuato le fatture oggetto della consumata
duplicazione dei costi.
Si duole - con 3^ motivo - della violazione degli artt. 112, 113, 115 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 74,
nonchè di vizi di motivazione posto che dalla sentenza non era dato rilevare la ragione della qualificazione
delle spese di rappresentanza come spese di pubblicità quando diversa ne era la tipologia, le une avendo per
obbiettivo la diffusione dell'immagine aziendale sul mercato le altre di incrementare le vendite ed i correlati
ricavi e tra le prime (comprensive di spese di sponsorizzazione di manifestazioni sportive) rientravano
appunto quelle sostenute dalla Ford come tali indeducibili.
Deduce infine - con 4^ motivo - violazione degli artt. 112 c.p.c. D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 15, oltre a vizi
di motivazione avendo la pronunzia censurata dato atto che l'Ufficio aveva rinunziato agli altri punti di
rettifica quando sulle irrogate sanzioni - annullate in primo grado - non era stata fatta alcuna abdicazione
costituendo oggetto di gravame per effetto del loro richiamo nel contesto dell'appello. Resiste con
controricorso la Ford depositando memoria illustrativa.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1 Il 1^ motivo ripropone la tesi della sovrafatturazione delle autovetture oggetto di operazioni infragruppo tra
la Ford Italiana spa e le consorelle europee (sources Ford), la prima operante come distributrice - venditrice
nel nostro paese dei veicoli acquistati dalle seconde che ne erano fabbricanti nei vari stabilimenti produttivi
localizzati soprattutto in Germania, Spagna e Gran Bretagna. Poichè delle disposizioni del D.P.R. n. 917 del
1986, art. 76, comma 5, i componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel
territorio dello Stato, che - direttamente o indirettamente - controllano l'impresa, ne sono controllate o sono
controllate dalla stessa società che controlla l'impresa sono valutati in base al "valore normale dei beni
ceduti", dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti determinato - a sensi del rinvio operato dal comma 2 secondo i criteri dettati dall'art. 9 che individua tale valore nel "prezzo o corrispettivo mediamente praticato
per i beni o servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza ed al medesimo stadio di
commercializzazione" e la Ford Italia assumeva a proprio carico l'onere economico e finanziario di
sostituzioni e riparazioni dei veicoli viziati da difetti di fabbrica rimborsando a concessionarie e officine
autorizzate il costo dei loro interventi in spregio all'art. 1490 c.c. (spettando per legge la garanzia dei vizi
della cosa venduta al fabbricante-venditore), difettando - tra l'altro - la prova di una riserva garanzia(convenzionale) operante sul prezzo di trasferimento per ridurlo in proporzione al fine di riportarlo
al suo valore normale, da tutto ciò - secondo la tesi dell'Amministrazione - discendeva una supervalutazione
dei beni rettificabile secondo i citati parametri normativi con ripresa a tassazione dell'illegittimo gonfiamento
dei costi che veniva a provocare. Tale costruzione, che trova fonte nel verbale di pvc riguardante più periodi
di imposta, è stata già da questa Corte disattesa in relazione all'annualità 1990 (Cass. 22023/06)con
motivazione dalla quale non v'e ragione di discostarsi per l'annualità 1991 oggetto del presente giudizio.
Non sembra peraltro potersi applicare il principio della espansione automatica del giudicato (Cass. SS.UU.
13916/06) vertendosi in tema di accertamenti fondati su ricostruzioni contabili diversificate ancorchè
perseguenti un fine unitario e dunque difettando quella identità di elementi oggettivi immutabili da periodo a
periodo destinati ad assumere valore di vera e propria regola costante. Come messo in luce proprio dalla
sentenza richiamata nella memoria difensiva di parte controricorrente il giudicato relativo ad un singolo
periodo d'imposta non è idoneo a "fare stato" per i successivi periodi in via generalizzata ed aspecifica.
Idoneità siffatta va riconosciuta solo a quelle situazioni relative a "qualificazioni giuridiche" o ad altri
eventuali "elementi preliminari" rispetto ai quali possa dirsi sussistere un interesse protetto avente il carattere
della durevolezza nel tempo ma non si estende a tutti i punti che costituiscono antecedente logico della
decisione ed in particolare alla valutazione delle prove e la ricostruzione dei fatti (vedi anche Cass.
24067/06).
La controversia in oggetto - dunque - non può essere coperta dal richiamato giudicato e va comunque risolta
alla luce dei principi già indicati nella citata sentenza di questa Corte.
L'Amministrazione - anche per l'annualità di cui è contendere - fa leva sulla mancanza - nei rapporti tra Ford
Italia e le fornitrici estere - di qualsiasi patto contrattuale limitativo della responsabilità del venditore per vizi
originari dei prodotti oggetto di compravendita tacendone derivare la automatica operatività della garanzia
legale ex art. 1490 c.c. la cui sistematica inapplicabilità per le ragioni anzidetto veniva ad alterare junditus il
valore normale dei beni ceduti.
Ora nella fattispecie non trova applicazione la legge italiana ma la Convenzione di Vienna dell'11.4.1980
rettificata e resa esecutiva con L. 11 dicembre 1985, n. 765 ed entrata in vigore a partire dall'1.1.1988.
L'art. 1, comma 1, della Convenzione ne stabilisce i criteri di applicazione che sono due.
La disciplina uniforme si applica quando la vendita è intercorsa tra parti che hanno la loro sede (place of
business) in due Stati contraenti diversi oppure quando le norme di diritto internazionale privato(cioèdel
foro)portano alla applicazione della legge di uno Stato contraente.
Dal tenore letterale della disposizione citata si evince dunque che la Convenzione si applica alle vendite
internazionali ed al fine di determinare il carattere internazionale della vendita, occorre tare riferimento alla
sede di affari delle parti: se questa si trova in due Stati diversi, la vendita ha il carattere della internazionalità
e, pertanto, è soggetta alle disposizioni della Convenzione.
Viceversa, qualora le parti abbiano la propria sede di affari in uno stesso Stato, la vendita è considerata
interna e, di conseguenza, si applicano le disposizioni della legge nazionale, per quanto riguarda l'Italia il
codice civile.
En pacifico in causa che nel 1967 la casa madre con sede negli Stati Uniti emanava una direttiva, in base alla
quale tutte le società del gruppo Ford, che vendevano al pubblico i veicoli, dovevano sostenere le spese di
riparazione in garanzia per i difetti di fabbricazione imputabili alle società consociate produttrici ditali
veicoli.
La Direttiva era ed è tuttora funzionale nel regolare in modo uniforme i rapporti di scambio tra tutte le
società del gruppo Ford, che hanno la propria sede di affari in Stati diversi e dunque da considerare inserita
nei rapporti contrattuali concretamente istituiti.
Ciò significa che la vendita al pubblico dei veicoli effettuata dalle varie società del gruppo, è connotata dal
carattere della internazionalità e quindi ciascuna società del gruppo Ford non può applicare la legislazione
interna de proprio Stato di appartenenza, ma deve applicare le disposizioni della Convenzione.
L'art. 11 della ridetta Convenzione sancisce il principio della libertà di forma statuendo che "un contratto di
vendita non necessita di essere concluso o provato per iscritto e non è sottoposto ad alcun altro requisito di
forma. Esso può venir provato con ogni mezzo, anche per testimoni".
La parti possono così scegliere liberamente la forma negoziale per regolare i propri rapporti escludendo, se
del caso, la garanzia per vizi della cosa senza l'osservanza di alcuna formalità.
L'accordo di accollo di garanzia non necessitava, quindi, di formalizzazione alcuna nè esigeva per essere
opposto pattuizione specifica in vista delle limitazioni di responsabilità che comportava.
Pertanto, a fronte di un accordo internazionale di gruppo che forniva indizi probatori univoci nel senso sovra
descritto, era l'Amministrazione onerata di dimostrare in concreto che la regola di assorbimento della
garanzia costituiva, in realtà, metodo elusivo per scaricare i costi (riducendo gli utili) nel paese di più bassa
fiscalità.
Lo scopo della disciplina dettata dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 76, comma 5 (che regola il cd.
transef pricing) di evitare che all'interino del gruppo vengano posti in essere trasferimenti di utili tramite
applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti onde sottrarli alla tassazione in Italia a
favore di tassazioni estere inferiori.
Si tratta di clausola antielusiva che trova, non solo, radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto
(cioè strumentalmente piegato in funzione anomala e/o eccedente la sua normale portata entro i limiti
consentiti dall'ordinamento) particolarmente presenti in materia doganale per contrastare operazioni
compiute al solo scopo di trarre benefici dalle agevolazioni daziarie (così Corte di Giustizia, sentenza 14
dicembre 2000 in causa C - 110/1999, Emsland-Starke GmbH) ma anche immanenza in diversi settori del
diritto tributario nazionale essendo consentito all'Amministrazione finanziaria di disconoscere ad esempio - i
vantaggi fiscali conseguiti da operazioni societarie (L. n. 408 del 1990, art. 10) poste in essere senza valide
ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta. Questa
Corte ha già avuto modo di precisare che l'onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell'elusione
grava in ogni caso sull'Amministrazione che intenda operare le conseguenti rettifiche (ex multis Cass.
4317/03).
Ciòtrova conferma anche in materia di transfer pricing posto che le direttive OCSE (Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico) da tempo elaboranti i criteri di determinazione del prezzo di
trasferimento nelle transazioni commerciali internazionali (in pratica il prezzo di libera concorrenza dovendo
emergere dal raffronto "esterno"di tale corrispettivo con quello praticato in vendita similare effettuata tra
imprese indipendenti oppure dal confronto "interno" tra una impresa del gruppo e terzo indipendente), nel
rapporto del 1995 hanno espressamente sottolineato che, laddove la disciplina di ciascuna giurisdizione
nazionale preveda che sia l'Amministrazione finanziaria ad essere gravata dell'onere della provare le proprie
pretese, il contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi di trasferimento applicati, se non
prima che l'Amministrazione fiscale abbia essa stessa provato "prima facie" il non rispetto del principio del
valore normale.
Ebbene l'Ufficio, in ottemperanza ai richiamati principi, avrebbe dovuto, innanzitutto, accertare se veramente
la fiscalità in Italia era all'epoca superiore rispetto a quella in vigore nei paesi di provenienza dei veicoli
compravenduti.
In secondo luogo, determinare il valore normale dei veicoli acquistati da Ford Italia verificando, in concreto,
se i corrispettivi pagati dalla stessa alle proprie consociate estere fossero effettivamente superiori a tale
valore con indagine estesa alla sufficienza del margine di utile ricavato per coprire le spese di riparazione in
garanzia ed analisi delle condizioni del mercato automobilistico mediante confronto dei prezzi praticati
all'interno del gruppo Ford con quelli praticati da altre imprese concorrenti.
Peraltro la ripresa a tassazione operata sul rilievo della illegittima deduzione di imponibile non risulta essere
transitata da questi passaggi obbligati, in realtà l'Ufficio essendosi limitato a fare riferimento alle particolari
condizioni contrattuali esistenti tra le parti in tema di esclusione della garanzia per i vizi di fabbricazione dei
veicoli e da tanto deducendo la sovrafatturazione dei veicoli acquistati dalla società italiana.
E ciò nonostante tali meccanismi di vendita fossero non "anomali" bensì razionalmente spiegabili ed
economicamente giustificabili per esigenze di politica commerciale e di immagine quali il favorire il cliente
finale facultato a far valere la garanzia nei confronti del proprio fornitore e non costretto a rivolgersi al
produttore estero tutelare i rapporti tra fabbricanti e distributori riducendo potenzialmente il contenzioso
suscettibile di crearsi qualora la società commercializzatrice dovesse ogni volta rivalersi per ottenere
rimborso delle spese dalla società produttrice; creare nel soggetto onerato un ferreo controllo sulla necessità
ed entità delle riparazioni: finalità queste tutte plausibili che concorrono a svilire ogni ipotizzato intento
elusivo privo - anche per questo verso - di pertinenti riscontri probatori.
Il 5^ motivo di censura va dunque definitivamente respinto essendo da condividere il nucleo sostanziale della
decisione dei giudici di merito che - con congrua motivazione - hanno messo in luce l'assenza di prova della
costruzione elusiva sottesa alla pretesa fiscale rispetto alla quale il richiamo a precedenti conformi di altre
Commissioni ed all'assoluzione ottenuta in sede penale dai rappresentanti della Ford ha svolto una funzione
meramente rafforzativa di un giudizio autonomamente fondato e corroborato dalla riscontrata carenza
istruttoria.
2. Il 2^ motivo si appunta sulla motivazione della sentenza che avrebbe deciso in totale contrasto con le
risultanze degli atti attestanti la illegittima duplicazione di costi per spese dei servizi infragruppo perchè -pur
dato per ammesso che la Ford Italia aderiva ad un Accordo internazionale con la casa madre Ford Company
in forza del quale alcuni servizi di utilità generale restavano affidati alla Ford Europe con riaddebito alle
consorelle in base ad un progetto di suddivisione delle spese - non avrebbe tenuto conto che talune di queste
prestazioni (programma Oasis, contributi pubblicità autosaloni e programmi sporti vi Jocandinc) erano state
fatturate anche dalle consociatela cui la Ford UK).
La censura non coglie nel segno perchè omette di considerare che la ratio decidendi transita dalla
constatazione che l'esistenza di accordo di tal fatta non impediva alla Ford Italia di avvalersi di altre ditte per
alcuni tipi di servizi come accertato - con insindacabile valutazione di fatto - sulla scorta delle prodotte
fatture e comunque risulta privo della occorrente autosufficienza perchè facendo generico riferimento alle
pagine del pvc senza trascriverne il contenuto non consente di mettere a raffronto le causali per verificare se
effettivamente taluni dei servizi ricevuti da terzi rientrassero tra quelli indicati nel precitato accordo secondo
i criteri ivi utilizzati per il riparto.
3. Anche il 3^ motivo che denunzia la immotivata equiparazione tra spese di pubblicità e propaganda e spese
di rappresentanza ai fini di negare l'operata deducibilità nell'esercizio di competenza non è fondato. Non vi è
dubbio che sussiste una differenza tipologica tra i due tipi di spesa(le une hanno come obbiettivo preminente
l'incremento dei ricavi, le altre quello di diffondere l'immagine dell'azienda aumentandone il prestigio) ma
non è così netto il confine tra dette spese allorchè si debba poi in concreto verificare lo scopo per il quale
esse sono state sostenute.
Ciò perchè la nozione di pubblicità è concetto ampio, rappresentato dalla esigenza di informare i
consumatori circa resistenza di beni e servizi prodotti da una determinata azienda, con l'evidenziazione e
l'esaltazione delle caratteristiche e della idoneità a soddisfare i bisogni mediante strategie promozionali che
consentano di veicolare le scelte dei consumatori.
Per cui i costi allo scopo sostenuti non si esauriscono solo nell'accrescimento del prestigio della società ma
sono spesso tendenzialmente orientati a creare una vera propria aspettativa di incremento delle vendite,
specie oggi in cui il messaggio pubblicitario non svolge ormai più un ruolo puramente informativo limitato
alla notizia dell'esistenza di un prodotto già introdotto sul mercato ma ha la funzione anche di sensibilizzare
preventivamente l'interesse dei consumatori anche verso beni o servizi che ancora non sono offerti
concretamente e che semplicemente si preannunziano mediante iniziative e campagne di reclamizzazione
destinate pertanto a svolgere un ruolo decisivo sullo sviluppo degli affari (e dunque sul fatturato) dell'azienda
(vedasi in termini Cass. 14350/99 e Cass. 7803/00)-.
In tal senso la sentenza impugnata - dopo aver rimarcato l'incerto confine delle spese pubblicitarie promozionali e di rappresentanza - ha fatto proprie - aderendovi - le argomentazioni della difesa Ford
richiamate analiticamente nelle premesse di fatto secondo le quali le spese di lancio di nuovo prodotto di
sponsorizzazione e di incentivazione,contributi vari per mostre e manifestazioni avevano appunto lo scopo ancorchè indiretto - di incrementare il volume di affari dell'azienda esaltandone l'attività.
Pertanto la censura dell'Amministrazione sul punto va disattesa.
4. L'ultimo motivo di doglianza è rivolto alla parte della sentenza che ha preso atto della rinunzia dell'Ufficio
a contestare la pronunzia dei primi giudici in ordine a talune riprese includendo anche le sanzioni alle quali
l'Amministrazione non avrebbe inteso abdicare.
Tale lettura è peraltro fuorviante nella misura in cui tende inammissibilmente a censurare le conseguenze
inespresse di una constatazione - pacifica - di rinunzia alla pretesa sostanziale che comporta inevitabilmente
il venir meno delle correlate sanzioni che non possono certo sopravvivere autonomamente ad essa.
5. Il ricorso va pertanto rigettato in tutte le sue articolazioni.
Ricorrono giusti motivi s ante la natura della controversia p r compensare le spese del presente giudizio.
PQM
P.Q.M.
LA SUPREMA CORTE Rigetta il ricorso. Compensa le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 27 marzo 2007.
Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2007
5.Cassazione civile, sez. VI, 22/06/2015, (ud. 06/05/2015, dep.22/06/2015), n.
12844
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott.
CICALA Mario
- rel. Presidente - Dott. BOGNANNI Salvatore
Consigliere - Dott. IACOBELLIS Marcello
- Consigliere - Dott. CARACCIOLO
Giuseppe
- Consigliere - Dott. CRUCITTI Roberta
- Consigliere - ha
pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso
4092/2013 proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA
GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
- ricorrente contro SODISCO Società a responsabilità limitata unipersonale, in
persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
GERMANICO 197, presso lo studio dell'avvocato MEZZETTI MAURO, che la rappresenta e difende
unitamente agli avvocati STEFANO FAGETTI, ALESSANDRA BENEDINI giusta mandato speciale a
margine del controricorso;
- controricorrente - avverso la sentenza n.
92/02/2012 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di MILANO DEL 9/05/2012, depositata
il 14/06/2012; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/05/2015 dal Presidente
Relatore Dott. MARIO CICALA; udito l'Avvocato Polatiello Giovanni difensore della ricorrente che
insiste per l'accoglimento del ricorso e si riporta agli scritti; uditi gli Avvocati Benedirli e Fagetti
difensori della controricorrente che si riportano agli scritti e chiedono l'inammissibilità del ricorso.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
E' stata depositata la seguente relazione:
1. L'Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione, deducendo due motivi, avverso la decisione della
Commissione Tributaria Regionale della Lombardia 92/02/2012 del 1 giugno 2012 che rigettava l'appello
dell'Ufficio affermando la illegittimità di avviso di accertamento IVA-IRES IRAP per l'anno 2004.
2.La contribuente si è costituita in giudizio.
3. H ricorso è apparso al relatore fondato in base a quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte
(vedi da ultimo la sentenza n. 17955 del 24 luglio 2013) secondo cui per la valutazione a fini fiscali delle
manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il c.d. "transfer pricing domestico", va applicato il
principio, avente valore generale, stabilito dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, che non ha soltanto valore
contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi
e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente.
Ciò in applicazione del divieto di abuso del diritto, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi
fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti
giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d'imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera
aspettativa di quei benefici. Tale principio, da un lato, trova fondamento in radici comunitarie a salvaguardia
delle risorse proprie dell'UE e nei principi costituzionali di capacità contributiva e imposizione progressiva;
dall'altro, non contrasta con il principio della riserva di legge, traducendosi nel disconoscimento di effetti
abusivi di negozi posti in essere allo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali. Tra tali operazioni
rientrano le manovre sui prezzi di trasferimento interni, motivate dalla convenienza, in ambito nazionale di
trasferire la materia imponibile, agendo sui prezzi negoziati per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi
"intercompany". Si tratta del fenomeno del c.d. "transfer pricing domestico" (cfr. anche la sentenza n. 7716
del 27 marzo 2013).
La contribuente ha depositato memoria.
Il Collegio ha disposto il rinvio della controversia alla pubblica udienza.
Dopo la nuova discussione della controversia, il Collegio ha condiviso la relazione nella sua impostazione
"in diritto", che - a ben vedere- è accolta nella sentenza impugnata; che non esclude affatto che una
operazione di "transfer pricing domestico", fra società operanti in Italia, possa dar luogo ad una elusione
fiscale, e che nella valutazione del comportamento delle società coinvolte, si debba fare riferimento ai
principi di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9.
Il giudice di merito infatti si limita ad escludere che nel caso si specie la Amministrazione abbia fornito
idonea prova dell'operazione economica.
Questo profilo della sentenza impugnata è però correttamente contestata nel secondo motivo di ricorso ove si
indicano profili dell'operazione infragruppo che il giudice di seconde cure non ha adeguatamente valutato;
quali il notevole divario rispetto alle indicazioni OMI e la sospetta operazioni societaria posta in essere a
pochi mesi dalla conclusione del contratto.
Sarà dunque compito del giudice di merito procedere ad una nuova valutazione delle circostanze, anche
valutando se dalla operazione compiuta sia derivato un vantaggio fiscale per la contribuente.
PQM
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata nei limiti del
motivo accolto e rinvia la controversia ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della
Lombardia che deciderà anche sulle spese del presente grado.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile, il 6 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2015
6.Cassazione civile, sez. trib., 22/04/2016, (ud. 08/02/2016, dep.22/04/2016), n. 8130
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI AMATO Sergio
- Presidente Dott. DI IASI Camilla
- Consigliere Dott. GRECO Antonio
- Consigliere Dott. IANNELLO Emilio
- rel. Consigliere -
Dott. CRICENTI Giuseppe
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 15262/2013 R.G. proposto da:
VALPHARMA INTERNATIONAL S.P.A., in persona del suo legale
rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avv.
Francesco Falcitelli del Foro di Roma ed elettivamente domiciliato
presso lo studio dello stesso in Roma, Via Flaminia, 135, giusta
procura speciale a margine del ricorso,
- ricorrente contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,
elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso
l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
- controricorrente avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale delle
Marche n. 71/7/2012, depositata il 22/05/2012;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell'8
febbraio 2016 dal Relatore Cons. Dott. Emilio Iannello;
udito l'Avv. Francesco Falcitelli per la ricorrente;
udito l'Avvocato dello Stato Alessia Urbani Neri per la
controricorrente;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa
MASTROBERARDINO Paola, la quale ha concluso per l'inammissibilità
del ricorso o in subordine il rigetto.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Sulla base delle risultanze di un p.v.c. redatto in data 31/3/2008 dalla Guardia di Finanza di Pesaro,
all'esito di una verifica fiscale presso la sede in (OMISSIS) della Valpharma International S.p.A., l'Agenzia
delle entrate, Ufficio di Pesaro, notificava a quest'ultima distinti avvisi di accertamento con i quali
provvedeva a rettifica, ai fini Irpeg (dal 2004 Ires) e Irap, dei redditi dichiarati per gli anni 2003, 2004, 2005
e 2006, per la ritenuta indeducibilità dei costi e componenti negativi di reddito qui di seguito sinteticamente
indicati:
i) in relazione a tutti e quattro gli anni predetti, era esclusa, ai sensi dell'art. 110, comma 7, T.U.I.R., la
deducibilità - per la parte eccedente il valore normale commisurato nel 2% del fatturato dei costi (pari a Euro 443.691,69 per l'anno 2003; Euro 936.597,50 per l'anno 2004; C 893.191,58 per l'anno
2005; Euro 1.561.182,80 per l'anno 2006) per "prestazioni di servizi infragruppo" rese da Valpharma S.A.
con sede in (OMISSIS), avendo l'ufficio ritenuto configurabile nella fattispecie l'ipotesi da detta norma
prevista del c.d. transfer pricing;
ii) con riferimento agli anni di imposta 2005 e 2006 l'ufficio riteneva inoltre Illegittima la deduzione di costi
per "consulenze tecniche" pari, rispettivamente, a Euro 47.066,67 e a Euro 85.723,33, in quanto riconducibili
a quelli Incrementativi del valore delle immobilizzazioni Immateriali (software), deducibili, ai sensi dell'art.
103 T.U.I.R., in misura non superiore a un terzo del costo;
iii) con riferimento poi al solo anno di imposta 2006 l'ufficio escludeva, ai sensi dell'art. 102, comma 6,
T.U.I.R., la deducibilità delle "spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione" per
la parte eccedente il 5% del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili;
iv) in relazione allo stesso anno d'imposta era infine esclusa la deducibilità del costi per sopravvenienze
passive per un ammontare di Euro 1.282.207,28, in quanto imputabili, ai sensi dell'art. 109, comma 1,
T.U.I.R., per il principio di competenza, all'esercizio successivo.
I ricorsi avverso detti avvisi separatamente proposti dalla società - con i quali essa contestava la fondatezza
di ciascuno dei suindicati rilievi oltrechè la legittimità e l'omessa motivazione dell'aumento della sanzione
applicabile per l'anno 2005 - erano respinti dalla adita C.T.P. di Pesaro con altrettante sentenze depositate tra
il 6/3/2009 e il 7/4/2010.
2. I gravami separatamente interposti, con i quali la società Iterava le medesime contestazioni, erano poi
rigettati, previa riunione, dalla C.T.R. della Marche, con sentenza n. 71/7/2012 depositata in data 22/5/2012.
2.1. In particolare, quanto ai costi sostenuti per prestazioni rese dalla società sanmarinese Valpharma S.A.,
riteneva la C.T.R. legittima la riconduzione delle transazioni al fenomeno del transfer pricing, reputando
sussistenti nella fattispecie entrambi i presupposti richiesti dall'art. 110, comma 7, T.U.I.R. e, segnatamente,
sia l'esistenza di una situazione di controllo societario (nel caso di specie esercitato dalla società estera), sia il
superamento del valore normale delle prestazioni rese (determinato ai sensi dell'art. 9 del medesimo Testo
Unico).
2.1.1. Sotto il primo profilo, richiamata la circolare del Ministero delle Finanze n. 32/1980, reputava la
C.T.R. non vincolante, ai fini in esame, la nozione civilistica di controllo societario quale dettata dall'art.
2359 cod. civ. e che, piuttosto, avuto riguardo alle finalità della norma fiscale tesa a contrastare il
trasferimento degli utili da paesi ad elevata fiscalità a paesi nei quali la pressione fiscale è meno aggressiva,
ricorrendo a valori (prezzi) alterati rispetto a quelli normali e determinati nell'ambito di transazioni
infragruppo - essa postulasse un più ampio concetto di controllo nel quale ben poteva essere ricondotto il
caso di specie. Valorizzava in tal senso il fatto che, per espressa previsione contrattuale, la contribuente,
priva di per sè di alcuna struttura commerciale, aveva affidato alla società estera, titolare del 24% del
capitale della prima, l'incarico di provvedere in esclusiva alla commercializzazione dei propri prodotti,
risultando con ciò realizzata l'ipotesi contemplata nella citata interpretazione ministeriale che, fra le
circostanze ritenute sintomatiche dell'influenza anche solo potenziale di una società sulle decisioni
imprenditoriali di altra società, indica anche la vendita di prodotti fabbricati dall'altra impresa e
l'impossibilità di funzionamento dell'impresa senza il capitale, i prodotti e la cooperazione dell'altra.
2.1.2. Quanto poi al presupposto oggettivo (eccedenza dei costi dichiarati rispetto al valore normale delle
prestazioni rese) la C.T.R. respingeva la tesi difensiva secondo cui i dati messi a confronto dall'ufficio erano
eterogenei e non erano pertanto idonei a giustificare la valutazione di anormalità della provvigione
riconosciuta alla società estera nella percentuale del 10% del fatturato. Osservava al contrario che quelle
prese a raffronto (contratti di commercializzazione tra Valpharma S.a. e la società siriana Ararat Trading, e
tra Valpharma S.A. e Ricerchimica S.p.a.) erano transazioni fra loro certamente comparabili in quanto
attinenti alla commercializzazione di prodotti farmaceutici e che la fatturazione da parte di Ararat Trading
S.p.a. di commissioni di extra o over price non poteva concorrere alla comparazione riguardando essa
prestazioni ulteriori.
Quanto infine alla commisurazione del valore normale delle prestazioni in questione, la C.T.R. reputava
corretto il riferimento da parte dell'ufficio alla percentuale del 2% a tal fine indicata nella circolare
ministeriale quale parametro utilizzabile per le cessioni di beni immateriali, atteso che nel p.v.c. si dava atto
che la provvigione pattuita tra V.I. e V.S.A. era qualificata anche come royalty e considerato che, comunque,
la detta percentuale non appariva irragionevole o incoerente.
3. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la V.I. sulla base di sette motivi; resiste l'Agenzia
delle entrate depositando controricorso.
La società ha depositato "memoria e contestuale istanza per la sollecita fissazione dell'udienza".
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
4. Con il primo motivo la società ricorrente deduce - ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, - violazione o
falsa applicazione dell'art. 110, comma 7, T.U.I.R. in relazione alla ritenuta sussistenza dei presupposti
soggettivi richiesti per l'applicazione della disciplina sul c.d. transfer pricing. Sostiene al riguardo che,
benchè la norma del testo unico non richiami espressamente l'art. 2359 cod. civ., la nozione di controllo cui
essa fa riferimento debba da quest'ultima comunque desumersi e che di contro nessun rilievo possa attribuirsi
alla interpretazione ministeriale di cui alla circolare n. 32 del 22 settembre 1980, anche perchè condizionata
dalla diversa indicazione normativa allora esistente che richiedeva al riguardo l'esistenza di una "influenza
dominante", presupposto poi sostituito da quello del controllo societario. Rileva quindi che nel caso di specie
non sussiste alcuna delle condizioni richieste dalla norma codicistica per la configurabilità di una situazione
di controllo.
Soggiunge che, comunque, diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata essa ricorrente aveva
fatto riferimento anche alla sopra citata circolare per contestare la sussistenza nella specie di alcuna delle
situazioni sintomatiche di controllo societario in essa considerate. Rileva al riguardo che la stessa agenzia
aveva nel caso di specie espressamente riconosciuto l'indipendenza di V.I. rispetto a V.S.A..
5. Con il secondo motivo di ricorso la V.I. deduce - ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, - violazione o
falsa applicazione dell'art. 110, comma 7, in relazione alla ritenuta sussistenza dei presupposti oggettivi
richiesti per l'applicazione della disciplina suddetta.
Lamenta che i giudici di secondo grado; non hanno correttamente valutato che i contratti presi a raffronto,
stipulati dalla consociata V.S.A. con i singoli clienti, attengono a transazioni differenti e non sovrapponibili
all'accordo commerciale concluso nel 2002 con V.I. (in particolare, mentre il contratto tra Ricerchimica
S.p.a. e V.S.A. aveva ad oggetto i trasferimenti a Merck Generics delle registrazioni relative ad un dato
prodotto, quello concluso tra V.I. e V.S.A. concerneva la fornitura a Merck Generics di un prodotto
medicinale diverso); hanno omesso di rilevare gli errori di valutazione commessi dall'ufficio nella
individuazione della natura delle prestazioni oggetto dell'accordo predetto, ritenendo che lo stesso afferisse a
cessioni di beni immateriali per le quali la V.I. avrebbe dovuto corrispondere a V.S.A. delle royalties (come
tali regolabili sulla base delle indicazioni contenute net capitolo V punto 6 della menzionata circolare n. 32 del 1980) e non considerando che Invece tale accordo aveva ad
oggetto una specifica attività di procacciamento di affari svolta da V.S.A. in favore di V.I. (come tale
regolabile secondo le indicazioni contenute nel capitolo VI servizi infragruppo - della medesima circolare); non hanno valutato che, in ogni caso, le percentuali applicate
nei confronti di Ararat Trading e Ricerchimica S.p.a. dovevano essere sommate, ai fini della predetta
comparazione, a quelle relative ai compensi corrisposti a titolo di extra o over price, dal che sarebbe emerso
la piena comparabilità dei prezzi praticati.
6. Con il terzo motivo di ricorso la V.I. deduce - ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - violazione o
falsa applicazione dell'art. 112 cod. proc. civ. e del principio di tipicità dell'avviso di accertamento, per avere
la C.T.R. respinto la censura con la quale, nell'atto d'appello, si denunciava vizio di ultrapetizione della
sentenza appellata per avere i giudici di primo grado fondato il proprio convincimento su fatti diversi rispetto
a quelli posti a base degli avvisi di accertamento e segnatamente sul difetto dei requisiti di inerenza e di
certezza dei costi, oltre che di contiguità degli stessi.
7. Con il quarto motivo di ricorso la V.I. deduce - ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, - violazione o
falsa applicazione dell'art. 103 T.U.I.R. in relazione alla confermata valutazione degli interventi di
consulenza tecnica sul software aziendale eseguiti negli anni 2005 e 2006 alla stregua di "migliorie tese
all'aumento significativo dell'utilità del software" e alla ritenuta conseguente deducibilità dei costi relativi in
quote annuali costanti pari ad un terzo del costo complessivo, a fronte dell'opposta tesi difensiva secondo cui
si era trattato invece di interventi unicamente finalizzati a mantenere l'utilità medesima offerta dal software
di base e come tali da considerarsi quali spese correnti, in quanto ripetitive da un esercizio all'altro, e quindi
componenti negativi di reddito interamente deducibili nell'esercizio in cui essi vengono sostenuti.
Richiamati i principi contabili nazionali e internazionali rileva la ricorrente che le prestazioni
contrattualmente previste dalle parti non prevedevano significativi miglioramenti del software
originariamente acquistato (S.A.P. e Database Oracle).
8. Con il quinto motivo la ricorrente deduce - sempre ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, - violazione
o falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 12, comma 5, in relazione alla ritenuta
legittimità dell'applicazione di una sanzione aumentata del 75% su quella base applicabile, nel caso di
concorso di violazioni e continuazione.
Premesso che tale aumento era motivato, nell'avviso di accertamento relativo all'anno 2005, oltre che in
ragione della applicazione del cumulo giuridico delle sanzioni irrogabili per le violazioni contestate con
riferimento anche agli anni precedenti (2003 e 2004) e della rilevanza degli importi accertati, anche con il
rilievo che la società aveva posto in essere un comportamento artificioso, lamenta che i giudici d'appello, nel
respingere la censura proposta sul punto specifico, hanno omesso di indicare quale sia stato il
comportamento artificioso a tal fine valorizzabile.
Osserva al riguardo che, posto che negli avvisi di accertamento relativi ai precedenti anni l'ufficio non ha
operato alcun aumento della sanzione base, quello applicato nell'avviso relativo all'anno 2005 deve
presumersi riferito al solo ulteriore rilievo ivi contenuto concernente la deduzione dei costi sostenuti per
consulenze tecniche:
rilievo, questo, per il quale - assume - non si giustifica la valutazione in termini di artificiosità del
comportamento tenuto.
Lamenta comunque al riguardo anche la carenza nell'atto impositivo di alcuna motivazione esauriente
accettabile, in violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7.
9. Con il sesto motivo la ricorrente deduce ancora - ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, - violazione o
falsa applicazione di norme di diritto e, segnatamente, dell'art. 109 T.U.I.R. in relazione alla ritenuta
illegittimità del recupero a tassazione nell'anno 2006 di una sopravvenienza passiva dall'ufficio invece
ritenuta imputabile, per il principio di competenza, all'esercizio successivo.
Trattandosi di componente negativa di reddito, per un complessivo importo di Euro 1.282.207,28, derivante
dalla definizione di una controversia tra V.I. e la cliente Mitsubishi Pharma Corporation, ha rilevato la
C.T.R. che la stessa può considerarsi definita soltanto in virtù degli accordi sottoscritti nell'anno 2007,
essendosi in quello precedente le parti "scambiate corrispondenze e semplici bozze di accordo, sviluppatosi
secondo un iter imposto non soltanto dalla rilevanza della posta ma anche dal fatto che la contestazione ha
investito in un secondo momento un'ulteriore quantità di prodotti ("lotti fallati)"; soltanto nel 2007, dunque secondo la C.T.R. - "si è formato il titolo giuridico che tale componente ha reso certa... nell'an e nel
quantum".
Rileva di contro la ricorrente, passate in rassegna le tappe della vicenda, che già nel dicembre 2006,
attraverso uno scambio di e-mail e con l'approvazione da parte del consiglio di amministrazione, si era
perfezionato l'accordo con la controparte e che in tale contesto corretta doveva ritenersi la contabilizzazione
della sopravvenienza negativa già in quello esercizio, secondo un principio di prudenza imposto dall'art.
2423-bis c.c., comma 1, n. 1, e secondo anche quanto chiarito dei principi contabili nazionali e da autorevole
dottrina aziendalistica. Rimarca, al riguardo, che la certezza richiesta dalla norma non implica la definitività
dell'elemento reddituale, nè, quindi, l'incasso o li pagamento del corrispettivo.
Evidenzia infine di avere chiesto, sin dal primo grado di giudizio, dichiararsi l'estinzione dell'obbligazione
tributaria per compensazione al sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 8, comma 1, e che su tale richiesta i
giudici di merito non si sono pronunciati.
10. Con il settimo motivo la ricorrente deduce infine - ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, - violazione
o falsa applicazione dell'art. 102, comma 6, T.U.I.R. in relazione alla ritenuta indeducibilità integrale dei
costi relativi all'utilizzo di manodopera interna per la manutenzione di beni.
Secondo i giudici d'appello correttamente l'ufficio ha escluso che tali spese riguardino il personale, chiara
essendo la diversa qualificazione delle stesse risultante dagli atti societari ed essendo comunque indifferente
che, ai fini degli esposti interventi di manutenzione, sia stato in qualche misura, peraltro non provata,
Impiegato personale dipendente.
La C.T.R. ha altresì escluso la sussistenza del dedotto errore di calcolo per mancata ricomprensione del costi
di acquisto dei beni rilevando che la percentuale di deducibilità è "esattamente rapportata al costo
complessivo dei beni materiali ammortizzabili quale risultante all'inizio dell'esercizio dal registro dei beni
ammortizzabili".
Entrambe tali valutazioni sono censurate nei termini detti dalla contribuente che: quanto alla prima, rileva
che non esiste norma che giustifichi l'inserimento del costo della manodopera interna, impiegati anche
nell'attività di riparazione manutenzione dei beni dell'impresa e di proprietà di terzi, tra quelli il cui limite di
deducibilità è pari al 5% (rimarcando come i verificatori, a sostegno della ripresa fiscale, citino
esclusivamente la circolare 4 marzo 1982, n. 11, riguardante il diverso settore dell'autotrasporto per conto
terzi); quanto alla seconda lamenta l'omessa considerazione tra i richiamati costi anche di quelli sostenuti per
l'acquisto di beni effettuato nel corso dell'esercizio.
11. Nella sopra citata "memoria e contestuale istanza per la sollecita fissazione dell'udienza" la ricorrente,
oltre a insistere nei motivi di ricorso, ha altresì eccepito la nullità dell'atto impositivo perchè sottoscritto da
funzionario delegato da altro funzionario privo del necessario potere in quanto posto a capo dell'ufficio in
virtù di nomina illegittima, poichè effettuata ai sensi del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 24,
convertito con modificazioni dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale
con sentenza n. 37 del 25 febbraio 2015.
12. Va preliminarmente rilevata l'inammissibilità e, comunque, l'infondatezza dell'eccezione di nullità degli
avvisi impugnati per la prima volta sollevata dalla contribuente nel corso del presente giudizio, con memoria
del 10/9/2015.
12.1. Sotto il primo profilo appare preliminare e assorbente il rilievo per cui - come questa Corte ha avuto
modo di ribadire di recente proprio in relazione alla questione in questa sede prospettata - è inammissibile il
motivo di ricorso con il quale il contribuente deduce per la prima volta in Cassazione, senza aver presentato
il motivo nel ricorso originario, davanti alla C.T.P., che l'atto è firmato da un Incaricato con funzioni
dirigenziali e non da un dirigente a seguito di concorso pubblico in quanto "quand'anche si trattasse di
argomenti deducibili, indipendentemente dalle preclusioni che regolano il rito tributario, essi sarebbero stati
comunque introdotti in violazione dei principi che regolano il rito in Cassazione, non potendo in nessun caso
la Corte apprezzare le circostanze di fatto che costituiscono il presupposto sostanziale degli assunti del
contribuente, il cui onere di allegazione e prova in ordine a detti fatti appare comunque manifesto e
imprescindibile" (Cass. 20 ottobre 2015 n. 21307).
A fortiori tale inammissibilità deve predicarsi con riferimento a censura che, come nella specie, non è
Introdotta con il ricorso per cassazione ma con successiva memoria.
Al riguardo è utile anche rammentare che - come pure questa Corte ha in più occasioni evidenziato, da
ultimo anche con riferimento alla questione qui in esame - "alla sanzione della nullità comminata dal D.P.R.
n. 600 del 1973, art. 42, comma 3, all'avviso di accertamento privo di sottoscrizione, delle indicazioni e della
motivazione di cui al precedente comma 2, o al quale non risulti allegata la documentazione non
anteriormente conosciuta dal contribuente, al pari delle altre norme che prevedono analoghe ipotesi di nullità
degli atti tributari nelle diverse discipline d'imposta, non è direttamente applicabile il regime normativo di
diritto sostanziale e processuale dei vizi di nullità dell'atto amministrativo - che hanno trovato
riconoscimento positivo nella L. n. 241 del 1990, art. 21septies e sistemazione processuale nel D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 31, comma 4, (C.P.A.) nell'autonoma
azione di accertamento della nullità sottoposta a termine di decadenza, oltre che nella attribuzione del potere
di rilevazione ex officio da parte del Giudice amministrativo - atteso che l'ordinamento tributario costituisce
un sottosistema del diritto amministrativo, con il quale è in rapporto di species ad genus, potendo pertanto
trovare applicazione le norme generali sugli atti del procedimento amministrativo soltanto nei limiti in cui
non siano derogate o non risultino incompatibili con le norme speciali di diritto tributario che disciplinano gli
atti del procedimento impositivo, ostando, alla generale estensione del regime normativo di diritto
amministrativo, la scelta operata dal legislatore, nella sua piena discrezionalità politica, di ricomprendere
nella categoria unitaria della nullità tributarla indifferentemente tutti i vizi ritenuti tali da inficiare la validità
dell'atto tributario, riconducendoli, indipendentemente dalla peculiare natura di ciascuno, nello schema della
invalidità-
annullabilità, dovendo essere gli stessi tempestivamente fatti valere dal contribuente mediante impugnazione
da proporsi, con ricorso, entro il termine di decadenza di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, in difetto del
quale il provvedimento tributario pure se affetto da vizio nullità - si consolida, divenendo definitivo e
legittimando l'Amministrazione finanziaria alla riscossione coattiva della imposta. Consegue che si pone in
oggettivo conflitto con il sistema normativo tributario l'affermazione secondo cui, in difetto di tempestiva
impugnazione dell'atto impositivo affetto da nullità, tale vizio possa comunque essere fatto valere per la
prima volta dal contribuente con la impugnazione dell'atto consequenziale, ovvero che, emergendo il vizio
dagli stessi atti processuali, possa, comunque, essere rilevato di ufficio dal Giudice tributario, anche in
difetto di norma di legge che attribuisca espressamente tale potere" (v. Cass., Sez. 5, n. 22803 del
09/11/2015; Sez. 5, n. 18448 del 18/09/2015, Rv. 636451).
12.2. In ogni caso il rilievo deve considerarsi infondato anche nel merito, atteso che - come questa Corte ha
avuto modo di chiarire - in ordine agli avvisi di accertamento in rettifica e agli accertamenti d'ufficio, il
D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, impone sotto pena di nullità che l'atto sia sottoscritto dal "capo dell'ufficio" o
"da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato", senza richiedere che il capo dell'ufficio o il
funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale, ancorchè una simile qualifica sia
eventualmente richiesta da altre disposizioni. In esito alla evoluzione legislativa e ordinamentale, sono
impiegati della carriera direttiva, ai sensi della norma evocata, i "funzionari della terza area" di cui al
contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005. In questo senso la norma individua
l'agente capace di manifestare la volontà della amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna,
identificando quale debba essere la professionalità per legge idonea a emettere quegli atti (v. Sez. 5, n. 22800
del 09/11/2015; Sez. 5, n. 22810 del 09/11/2015).
13. E' infondato il primo motivo di ricorso.
13.1. La normativa sul transfer pricing ha la finalità di consentire all'Amministrazione finanziaria un
controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie intercorse tra società collegate
e/o controllate residenti in nazioni diverse, al fine di evitare che vi siano aggiustamenti artificiali di tali
prezzi, determinati dallo scopo di ottimizzare il carico fiscale di gruppo, ad esempio, canalizzando il reddito
verso le società dislocate in aree o giurisdizioni caratterizzate da una fiscalità più mite.
La disciplina italiana del transfer pricing è contenuta nell'art. 110, comma 7, T.U.I.R. a tenore del quale "i
componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che
direttamente o indirettamente controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società
che controlla l'impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni
e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione
si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi
con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali "procedure amichevoli" previste dalle
convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche
per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali
l'impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione
di prodotti".
La norma costituisce - in conformità con le linee guida fissate dall'art. 9 del modello di convenzione fiscale
OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sulla determinazione dei prezzi di
trasferimento per le imprese multinazionali e per le amministrazioni finanziarle (1995-2010) - una deroga al
principio per cui, nel sistema di imposizione sul reddito, questo viene determinato sulla base dei corrispettivi
pattuiti dalle parti della singola transazione commerciale.
Nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall'Italia, che seguono il Modello OCSE, invero, il
fenomeno del transfer pricing è affrontato nell'art. 9, il quale, nell'obiettivo di coordinare le concorrenti
potestà fiscali degli Stati rispetto alle fattispecie con elementi di estraneità, onde evitare la doppia
imposizione internazionale, attribuisce agli Stati contraenti la possibilità di assoggettare a tassazione anche
gli utili che sarebbero stati realizzati se le imprese residenti nei due Stati avessero regolato le loro relazioni
commerciali o finanziarie in base alle condizioni che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti.
Nelle ipotesi in cui tali corrispettivi risultino, dunque, scarsamente attendibili e possano essere manipolati in
danno del Fisco italiano, come nel caso degli scambi transnazionali tra soggetti i cui processi decisionali
sono condizionati, poichè funzionali ad un unitario centro di Interessi, i corrispettivi medesimi sono
sostituiti, per volontà di legge, dal "valore normale" del beni o dei servizi oggetto dello scambio, qualora tale
sostituzione ricada, in concreto, a vantaggio del Fisco italiano.
Più precisamente, al verificarsi di determinati presupposti soggettivi (impresa residente ed impresa non
residente e legame di controllo tra le due), il legislatore prevede la sostituzione del prezzo praticato con il
valore normale, ossia con un valore non alterato dalle strategie fiscali del gruppo e calcolato tenendo conto
del prezzi di mercato.
13.2. Fondamentale per l'applicazione della disciplina in esame è, dunque, il fatto che l'operazione sia posta
in essere tra imprese in rapporto di controllo.
Di tale concetto, però, nè la norma interna nè quella contenuta nel Modello OCSE forniscono una
definizione.
Per colmare tale lacuna parte della dottrina e della giurisprudenza di merito fanno riferimento alla nozione
civilistica di controllo di cui all'art. 2359 c.c., comma 1, in relazione alla quale possono considerarsi
controllate solamente: "1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili
nell'assemblea ordinaria; 2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare
un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra
società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa".
Altra parte della dottrina e - come sopra s'è detto - la sentenza qui impugnata considerano, invece, questa
nozione troppo limitativa sia sotto il profilo soggettivo, sia sotto quello oggettivo.
Reputa questa Corte che quest'ultima opzione interpretativa meriti di essere condivisa e che quindi infondate
siano le censure sul punto svolte dalla ricorrente.
Militano in favore della tesi estensiva ragioni di carattere testuale e soprattutto teleologiche, legate allo scopo
antielusivo della norma fiscale.
Sotto il primo profilo varrà anzitutto rimarcare che, come detto, la norma fiscale non rinvia per la definizione
del concetto all'articolo 2359 del codice civile: circostanza questa che non può apparire casuale e priva di
significato ove si consideri che numerose sono invece le norme, in ambito fiscale ed anche nello stesso
T.U.I.R., che, nel richiamare il concetto di controllo, lo definiscono espressamente: a volte per rinvio
espresso all'art. 2359 del codice civile v. D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 38-bis comma 5, in tema di
rimborso del credito Iva in ambito di gruppo; v. anche, all'interno dello stesso T.U.I.R., l'art. 73, comma 5quater, art. 98, ora abrogato, in tema di thin capitalization; l'art. 155; l'art. 167, in tema di società estere
controllate (CFC); l'art. 175; altre volte con limitato riferimento al comma 1, n. 1 del predetto art. 2359 v.
T.U.I.R. art. 96, comma 2, come modificato dal D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147, art. 4, comma 1, lett. a);
art. 117, comma 1, e art. 130, comma 1, in tema di consolidato; artt. 177 e 178 in tema di scambi di
partecipazioni infragruppo; altre volte ancora ne danno una autonoma e specifica definizione D.P.R. 26
ottobre 1972, n. 633, art. 73, u.c..
Manca dunque una nozione generale di controllo, ai fini fiscali, a cui riferirsi e, d'altro canto, lo stesso non
sempre integrale richiamo all'art. 2359 cod. civ., le volte in cui a questo il legislatore fa esplicito rinvio,
impediscono di considerarlo quale sicuro riferimento sussidiario.
Il silenzio serbato nella ipotesi in esame appare, dunque, espressivo di una precisa scelta della volontà del
legislatore di non vincolare la nozione di controllo fiscale a quella civilistica.
Indice testuale in tal senso è del resto anche rappresentato dal fatto che, per la identificazione del soggetto
interno cui applicare la disciplina di contrasto al fenomeno del transfer pricing in presenza di una situazione
di controllo, la norma usa il termine "impresa" (concetto ovviamente più ampio e comprensivo di società, cui
mal si attaglierebbe dunque il concetto di controllo quale definito dall'art. 2359 cod. civ., facendo questo
riferimento esclusivamente a rapporti tra due o più società).
La scelta appare poi sicuramente funzionale ai fini perseguiti dal legislatore fiscale, certamente diversi e non
sovrapponibili a quelli della norma civilistica e rispetto ai quali non può non tenersi conto nella
interpretazione della norma dell'esigenza di assegnare alla stessa un tasso di elasticità che la renda capace di
attagliarsi alle varie ipotesi in cui, indipendentemente dalla ricorrenza dei rigidi requisiti civilistici, possa
apprezzarsi l'influenza di un'impresa sulle decisioni imprenditoriali di un'altra.
In tale prospettiva appare evidente che un concetto di controllo circoscritto a vincoli contrattuali od azionari
risulta troppo riduttivo, non permettendo di sconfinare in considerazioni di fatto di carattere meramente
economico essenziali per disciplinare un fenomeno fiscale come quello del transfer pricing. Condivisibile
appare in tal senso il richiamo da parte della C.T.R. alle indicazioni fornite dalla Circolare ministeriale n. 32
del 22 settembre 1980 che, ancorchè ovviamente non vincolante per l'interprete, offre tuttavia una chiave di
lettura della norma che appare da un lato non smentita dal dato testuale e dall'altro coerente alle sue finalità
antielusive.
Secondo tale circolare "il concetto di controllo deve essere esteso ad ogni ipotesi di influenza economica
potenziale o attuale desumibile da singole circostanze" tra le quali - per quel che in questa sede Interessa "a) vendita esclusiva di prodotti fabbricati dall'altra impresa; b) impossibilità di funzionamento dell'impresa
senza il capitale, i prodotti e la cooperazione tecnica dell'altra impresa;... i) controllo di approvvigionamento
o di sbocchi;... m) in generale tutte le ipotesi in cui venga esercitata potenzialmente o attualmente
un'influenza sulle decisioni imprenditoriali".
13.3. Ciò posto non resta che rilevare che la C.T.R. ha adeguatamente motivato il convincimento espresso
circa la ricorrenza, nella specie, di una situazione di controllo alla luce in particolare della previsione
contrattuale in virtù della quale la contribuente, priva di per sè di alcuna struttura commerciale, aveva
affidato alla società estera, titolare del 24% del capitale della prima, l'incarico di provvedere in esclusiva alla
commercializzazione dei propri prodotti, ragionevolmente vedendo in ciò realizzata l'ipotesi contemplata
nella citata interpretazione ministeriale che, fra le circostanze ritenute sintomatiche dell'influenza anche solo
potenziale di una società sulle decisioni imprenditoriali di altra società, indica - come detto - anche la vendita
di prodotti fabbricati dall'altra impresa e l'impossibilità di funzionamento dell'impresa senza il capitale, i
prodotti e la cooperazione dell'altra.
La C.T.R. ha anche espressamente considerato al riguardo l'obiezione opposta dalla ricorrente circa la
riconosciuta (dall'ufficio) esistenza di una "indipendenza tecnica. rispetto alla società consociata, rilevando
che "tale indipendenza... è stata apprezzata in sede di verifica, unicamente sotto il profilo tecnico dichiarato
dalle parti e non è dunque estensibile... all'aspetto decisionale e concretamente gestionale dell'attività di
impresa".
Trattasi con ogni evidenza di un accertamento in fatto congruamente argomentato sotto il profilo logico
come tale non sindacabile in questa sede, tantomeno sotto il profilo della violazione di legge, l'unico
specificamente dedotto dal ricorrente con la censura in esame.
14. E' invece inammissibile il secondo motivo di ricorso.
La censura omette di indicare specificamente l'affermazione in diritto contenuta nella sentenza gravata che si
assume in contrasto con le norme che si pretendono violate.
Le contestazioni mosse dalla ricorrente afferiscono per vero più propriamente alla giustificazione offerta in
sentenza circa la determinazione del valore normale delle prestazioni rese dalla società estera controllante,
muovendo esse pertanto non già sul plano della interpretazione della norma e della corretta ricognizione
della fattispecie astratta da essa prevista, quanto piuttosto su quello della ricognizione della fattispecie
concreta quale emersa dalle risultanze di causa e, dunque, impingendo il diverso tema della coerenza e
adeguatezza della motivazione.
Peraltro anche sotto tale versante, a prescindere dalla sua incoerenza rispetto alla tipologia del vizio dedotto,
le critiche svolte si risolvono nella mera reiterazione di argomenti difensivi già specificamente considerati
dai giudici d'appello e posti ad oggetto di una valutazione esaustiva e congruamente motivata, alla quale il
ricorrente si limita a ben vedere a inammissibilmente contrapporre in termini sostanzialmente assertivi un
diverso giudizio di parte.
15. Anche il terzo motivo di ricorso è inammissibile, poichè non si confronta con la effettiva ratio decidendi
della sentenza impugnata.
L'accertamento impugnato, siccome desumibile dalla motivazione trascritta nello stesso ricorso per
cassazione (pag. 66) non contestava l'inerenza dei costi ma solo la loro congruità. In questa linea si è
coerentemente mosso anche il giudice d'appello che, emendando l'erroneo (e peraltro solo incidentale e
comunque aggiuntivo) riferimento al requisito dell'inerenza contenuto nella sentenza di primo grado, ha
confermato la legittimità dell'operato dell'amministrazione proprio in quanto fondato sulla divisata
sussistenza dei presupposti del c.d. transfer pricing, senza dunque attribuire - ma anzi espressamente
escludendo - alcun rilievo al difetto del requisito di inerenza dei costi. Donde l'evidente inconferenza della
censura della ricorrente che postula una inesistente concorrente incidenza nella decisione impugnata di
considerazioni legate a tale requisito.
16. E' altresì inammissibile il quarto motivo per difetto di specificità.
A supporto della insistita tesi difensiva della riconducibilità degli interventi eseguiti nel 2005 e nel 2006
sugli applicativi in uso alla contribuente a mera manutenzione degli stessi, questa si limita a richiamare i
principi contabili, nazionali e internazionali, senza tuttavia calarli nella fattispecie concreta, quale accertata
in sentenza, e senza dunque spiegare le ragioni per le quali questa andrebbe ricondotta a quelle categorie di
intervento in astratto considerate di carattere meramente manutentivo e non migliorativo o implementativo
del software di base già acquisito. Al riguardo la C.T.R. motiva adeguatamente il proprio opposto
convincimento, tra l'altro rimarcando la mancanza di emergenze idonee a fornire riscontri del dedotto
carattere ripetitivo delle spese, donde anche sotto tale profilo (propriamente motivazionale, estraneo dunque
al dedotto vizio di violazione di legge) un rilievo possibile di aspecificità della censura, in quanto omette di
confrontarsi appieno con la motivazione della sentenza ma si risolve, inammissibilmente, nella mera
assertiva proposizione di una valutazione opposta a quella espressa nella sentenza impugnata. 17. E' anche
inammissibile il quinto motivo di ricorso. Con esso invero la ricorrente denuncia come violazione di legge
quello che invece costituisce una tipica valutazione discrezionale affidata al giudice del merito, senza che
parte ricorrente formuli un'adeguata critica in punto di motivazione che possa superare l'altrimenti
inammissibile revisione del relativo giudizio. Risulta nuova e comunque palesemente infondata la denuncia
di violazione dell'art. 7 st. contr.. 18. E' invece fondato e merita accoglimento il sesto motivo di ricorso. Ai
sensi dell'art. 109, comma 1, T.U.I.R. ai ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali
le precedenti norme del presente capo non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito
nell'esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell'esercizio di
competenza non sia ancora certa l'esistenza o determinabile in modo obiettivo l'ammontare concorrono a
formarlo nell'esercizio in cui si verificano tali condizioni". Si ricava da tale disposizione che, ai fini della
imputazione dei componenti negativi di reddito, in mancanza di diverse disposizioni specifiche, la regola è
rappresentata dal principio di competenza e che la stessa può essere derogata, in favore del principio di cassa
solo laddove vi sia incertezza nell'an o indeterminabilità nel quantum. In altri termini, i componenti negativi
che concorrono a formare il reddito possono essere imputati all'anno di esercizio in cui ne diviene certa
l'esistenza - o determinabile In modo obiettivo l'ammontare - qualora di tali qualità fossero privi nel corso
dell'esercizio di competenza (Sez. 5, n. 3368 del 12/02/2013, Rv. 625271). La giurisprudenza di questa Corte
ha però al riguardo costantemente evidenziato che tale determinabilità non può essere rimessa alla mera
volontà delle parti, con una scelta discrezionale dell'esercizio cui imputare il costo (Cass. Sez. 5, n. 24526 del
20/11/2009, Rv. 610765), ma può essere desunta, oltre che dall'indicazione contrattuale del corrispettivo, da
strumenti ed elementi diversi (cfr., da ultimo, Cass. n. 13252 dei 26/06/2015; Sez. 5, n. 9068 del 06/05/2015;
v. anche Sez. 6 - 5, n. 18237 del 24/10/2012, Rv. 624228; Sez. 5, n. 24526 del 2009, cit.; Sez. 5, n. 10988 del
14/05/2007, che - in una fattispecie In cui la ricorrente assumeva che il costo ed il titolo giuridico
dell'utilizzazione di macchinari nel periodo 1985-1992 era stato determinato solo con una transazione
intervenuta nel 1992, sicchè non essendo il detto costo assolutamente determinabile prima di allora, in difetto
di accordo tra le parti, correttamente era stato correlato all'esercizio del 1992, quando cioè era divenuto
oggettivamente determinato - nell'enunciare il principio sopra riportato ha Invece ritenuto che l'obbiettiva
determinabilità sancita dalla legge non è collegata o collegabile alla manifestazione della volontà delle parti
sul costo, essendo, altrimenti, ad esse demandata la scelta di stabilire a quale esercizio di competenza
imputare la relativa componente del reddito d'impresa, sicchè il mancato accordo delle parti non significa
necessariamente che il costo non sia, prima dell'accordo stesso, obbiettivamente determinabile, potendo a tal
fine soccorrere strumenti diversi, quale la parametrazione ad altre operazioni simili, al valore di mercato dei
beni utilizzati in rapporto al numero delle ore di utilizzo del medesimi). La sentenza impugnata, nel
confermare la legittimità della ripresa a tassazione degli oneri imputati dalla società all'esercizio 2006
rappresentati dal debito restitutorio e risarcitorio sorto in dipendenza della vendita di prodotti difettosi, ha
adottato una regola di giudizio (e quindi di valutazione degli elementi acquisiti) non coerente con l'accolta
esegesi della norma quale sopra illustrata, avendo essa infatti, da un lato, considerato irrilevante l'ipotesi che
la sopravvenienza passiva potesse ritenersi certa nell'an e determinata nel quantum già nel 2006 in ragione
dello scambio tra le parti di corrispondenza e di bozze dell'accordo transattivo, declinando per tal motivo il
relativo accertamento sulla base delle emergenze processuali ("quand'anche potesse darsi per sicura
l'esistenza di una componente negativa del reddito..."), dall'altro, attribuito decisiva rilevanza alla formazione
del titolo giuridico ("... soltanto nell'anno successivo (il 2007) si è formato il titolo giuridico..."), così
delineando una direzione argomentativa esattamente opposta a quella invece indicata dalla norma che, per
esigenze di corretta e non strumentale contabilizzazione e Imputazione fiscale, lega il presupposto di
deducibilità alla certezza e determinabilità del costo e non necessariamente ad una formale e definitiva
manifestazione di volontà delle parti. 19. E' infine inammissibile il settimo motivo di ricorso. Anche in tal
caso, invero, viene prospettata come violazione di legge una mera contestazione di quello che emerge dalla
sentenza impugnata come un accertamento di fatto su base documentale circa l'identificazione della causale
di spesa, senza che parte ricorrente, anche in ossequio al principio di autosufficienza, formuli un'adeguata
critica in punto di motivazione che possa superare l'altrimenti inammissibile revisione del merito. 20. In
accoglimento pertanto del sesto motivo di ricorso la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla C.T.R.
delle Marche che, in diversa composizione, dovrà provvedere, nella determinazione dell'esercizio cui
imputare le sopravvenienze passive ivi descritte, a nuova valutazione dei dati fattuali acquisiti al processo
alla luce del principio sopra enunciato. Al giudice di rinvio è demandato anche il regolamento delle spese del
presente giudizio di legittimità.
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso; dichiara inammissibili il secondo, il terzo, il quarto, il quinto e il
settimo; accoglie il sesto motivo e, per l'effetto, cassa la sentenza Impugnata con rinvio alla C.T.R. delle
Marche, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2016.
Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2016
7.Cassazione civile, sez. trib., 31/03/2011, (ud. 16/12/2010, dep.31/03/2011), n. 7343
Intestazione
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D'ALONZO Michele
- rel. Presidente Dott. BOGNANNI Salvatore
- Consigliere Dott. GIACALONE Giovanni
- Consigliere Dott. VIRGILIO Biagio
- Consigliere Dott. BERTUZZI Mario
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,
elettivamente domiciliata in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12
presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che la rappresenta e
difende;
- ricorrente contro
la s.r.l. NYLSTAR, con sede in
(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro
tempore,
elettivamente domiciliata in Roma alla Piazza A. Mancini n. 4 presso
lo studio dell'avv. CECINELLI GUIDO che lo rappresenta e difende in
forza della "delega" a margine del controricorso;
- controricorrente Avverso la sentenza n. 31/29/05 depositata il giorno 8 marzo 2005
dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 16 dicembre 2010
dal Cons. Dott. Michele D'ALONZO;
sentite le difese delle parti, perorate dall'avv. danna GALLUZZO
(dell'Avvocatura Generale dello Stato), per l'Agenzia, e dall'avv.
Guido CICINELLI, per la società;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
SEPE Ennio Attilio, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso notificato il 28 aprile 2006 alla s.r.l. NYLSTAR (depositato il giorno 11 maggio 2006),
l'AGENZIA delle ENTRATE - premesso (mediante integrale riproduzione della "sentenza
impugnata affinchè valga come fatto") che con tre avvisi di accertamento l'Ufficio, sulla "base del
PVC... del Comando Regionale Polizia Tributaria... redatto in data 15 giugno 2001" "dal quale
emergeva" che "la NYLSTAR spa" aveva (1) "ceduto beni a consociate estere in rapporto di
collegamento, a prezzi inferiori a quelli applicati a società terze indipendenti, pur essendo identici i
prodotti ceduti", 2) applicato "una percentuale di riduzione del prezzo (remise) in ragione del 2, 3 o
4%" sulle "vendite effettuate nei confronti di alcune collegate estere domiciliate nell'Unione
Europea" e (3) "neutralizzato", "per l'anno 1998", il "reddito ai fini IRPEG...con perdite fiscali
pregresse... riferite al margine da commessa conseguito in seguito al conferimento di beni e servizi
nella STILTON SA con sede... in (OMISSIS)", "conferimento posto in essere senza una valida
regione economica ma al solo fine di conseguire componenti positivi di reddito compensabili con
perdite pregresse in scadenza", aveva rettificato (ai fini dell'IRPEG nonchè dell'ILOR/IRAP), "ai
sensi del combinato disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 96, comma 5, ed art. 9
(T.U.I.R.)", le "perdite" dichiarate da detta società negli anni d'imposta 1996, 1997 e 1998
"recuperando a tassazione l'omessa contabilizzazione e la dichiarazione di ricavi", in forza di
quattro motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 31/29/05 della Commissione Tributaria Regionale
della Lombardia (depositata il giorno 8 marzo 2005) che aveva recepito l'appello della società
avverso la decisione (90/36/03) della Commissione Tributaria Provinciale di Milano la quale, previa
riunione, aveva disatteso i ricorsi della contribuente.
Nel controricorso notificato il 24 maggio 2006 (depositato il 7 giugno 2006) la società intimata
(ancora in bonis) instava per il rigetto dell'impugnazione avversa.
Il 20 novembre 2007 la Curatela del Fallimento (dichiarato dal Tribunale di Monza con sentenza del
12 luglio 2 007) della s.r.l.
NYLSTAR depositava "atto di costituzione in giudizio"; la stessa Curatela, quindi, depositava
"memoria" datata 14 ottobre 2010 alla quale allegava "sentenza Commissione Tributaria Regionale
Milano" n. 9/34/08 e "controdeduzioni contribuente".
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. In via preliminare va rilevata (ex officio) l'inammissibilità della "costituzione" (atto depositato il
20 novembre 2007) della Curatela del Fallimento (dichiarato con sentenza posteriore alla notifica
del controricorso della società) della s.r.l. NYLSTAR attesa la nota (Cass.: lav., 21 maggio 2008 n.
12967; un., 21 giugno 2007 n. 14385; lav., 23 gennaio 2006 n. 1257; 3^, primo dicembre 2003 n.
18300) irrilevanza del verificarsi, nel corso del giudizio innanzi a questa Corte, di uno degli eventi
previsti dall'art. 299 c.p.c. e ss., (quindi anche della dichiarazione di fallimento di una delle parti),
poichè tali norme si riferiscono esclusivamente al giudizio di merito e non sono suscettibili di
applicazione analogica a quello di legittimità dominato dall'impulso d'ufficio, nonchè la, del pari
nota, inammissibilità (perchè non prevista da nessuna norma) dell'intervento di un terzo (nel caso,
essa curatela) nel medesimo giudizio Cass., 3^, 11 maggio 2010 n. 11375: "non è consentito nel
giudizio di legittimità l'intervento volontario del terzo, mancando una espressa previsione
normativa, indispensabile nella disciplina di una fase processuale autonoma, e riferendosi l'art. 105
c.p.c., esclusivamente al giudizio di cognizione di primo grado (in termini, ad esempio, Cass., sez.
un., 23 gennaio 2004, n. 1245)".
In ordine a detta "costituzione", inoltre e comunque, si deve altresì evidenziare la carenza di potere
rappresentativo da parte del difensore nominato per difetto di valida procura speciale (essendo stata
conferita non con "atto pubblico o scrittura privata autenticata" ma a margine dell'"atto di
costituzione", con sottoscrizione autenticata dal difensore nominato): al caso, infatti, è inapplicabile
(in quanto per il primo comma dell'art. 58 della legge infra indicata le modifiche al codice di rito
civile da essa apportate "si applicano" solo "ai giudizi instaurati dopo la data della... entrata in
vigore" della legge modificatrice) l'inciso "ovvero della memoria di nomina del nuovo difensore, in
aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato" aggiunto all'art. 83 c.p.c.,
comma 3, dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 9, per cui per detto conferimento vale il
principio; Cass., n. 11375 del 2010 cit., tra le innumeri) secondo cui "nel giudizio di cassazione, la
procura speciale non può essere rilasciala a margine o in calce ad atti diversi dal ricorso o dal
controricorso, poichè l'art. 83 c.p.c., comma 3, nell'elencare gli atti in margine o in calce ai quali
può essere apposta la procura speciale, indica con riferimento al giudizio di cassazione soltanto
quelli sopra individuati".
2. La Commissione Tributaria Regionale premette:
- gli "atti impositivi... sono stati emanati sulla base del PVC n. 11/02 del... Comando Regionale
Polizia Tributaria... dal quale emergeva che la NYLSTAR spa ha ceduto a consociate estere in
rapporto di collegamento, a prezzi inferiori a quelli applicati a società indipendenti, pur essendo
identici i prodotti ceduti" e, "inoltre", che "sulle vendite effettuate nei confronti di alcune collegate
estere domiciliate nell'Unione Europea... è stata applicata una percentuale di riduzione del prezzo
(remise)";
- "per l'anno 1998, poi, veniva contestato" che il "reddito ai fini IRPEG" era stato "neutralizzato con
perdite fiscali pregresse...
riferite al margine da commessa conseguito in seguito ai conferimenti di beni e servizi nella
STILTON S.A. con sede... in (OMISSIS)" ("conferimento che sarebbe stato posto in essere senza
una valida ragione economica, al solo fine di conseguire componenti positivi di reddito
compensabili con perdite pregresse in scadenza").
Le stesso giudice, quindi, ha accolto l'appello della società osservando:
A. "Sulle cosiddette remise" ("sconti che... per l'Ufficio, non essendo previsti contrattualmente,
sono ritenute fonte di elusione"), la Commissione Tributaria Regionale afferma:
- "vi sono state risposte, da parte dei responsabili della società e messe a verbale, che dovevano
essere valutate nel contesto macroeconomico all'interno dei quale le società del gruppo operano fra
di loro"; "nel caso", "può trovare applicazione" la "norma inerente la previsione contrattuale per gli
sconti d'uso di cui all'art. 9, comma 3, del cit. T.U.I.R." perchè "i verbalizzanti hanno riportato in
tabelle comparative questi sconti" ("chiamate remise") "tra le società del gruppo francesi, inglesi,
tedesche e spagnole": "osservando questa comparazione e quanto emerge dalla documentazione in
atti, si rileva che questi sconti hanno una valore costante sistematico e generalizzato (2, 3, 4%)" e
"pertanto all'interno degli scambi economici fra società del gruppo queste rèmise possono ritenersi
sconti d'uso, anche in mancanza di una previsione contrattuale", "previsione, invece necessaria per
scambi con società terze"; "alle società terze indipendenti questi sconti non sono stati applicati per
l'inferiore valore degli scambi";
- "la normativa tendente a contrastare l'elusione fiscale non detta regole e non interferisce nella
politica economica di una società inserita in un gruppo multinazionale, ma prevede forme di
verifica oggettiva": "analisi oggettiva che nel caso... appare molto spostata sul convincimento che
per gli anni in contestazione, partendo dagli sconti infragruppo vi sia stata solamente una serie di
operazioni elusive da parte della società": "vero, come osservato dai primi giudici, che vi sono
norme fiscali abbastanza omogenee nell'area di scambio Europea, ma nella attuale complessità
globale degli scambi economici, ed in particolare nel settore merceologico ove opera la Nylstar
s.p.a. Italiana, doveva tenersi nel debito conto la crisi che ha investito in questi ultimi anni il settore
anche con problematiche gravi per l'occupazione della manodopera": "quindi le perdite o i cespiti
negativi indicati nei bilanci della società, nonchè le cosiddette rèmise non possono ritenersi, una
operazione elusiva scientemente programmata".
B. Sul "conferimento inerente la società polacca Stilon S.A.", poi, il giudice di appello ritiene "non
convince (nte) quanto motivato nella sentenza" di primo grado perchè la stessa "pretende di dettare
regole o suggerire metodologie per l'acquisizione di partecipazione in società estere", ovverosia che
"i conferimenti dovrebbero avvenire esclusivamente attraverso una valutazione risultante
dall'ultimo bilancio" ("e, pertanto non essendo stata seguita questa metodologia vi è elusione perchè
ha permesso di recuperare perdite pregresse in scadenza") in quanto "questo potrebbe essere vero se
si osserva il conferimento esclusivamente sotto il profilo contabile, ma doveva essere considerata
anche la complessità tecnologica dell'operazione che inevitabilmente ha determinato valide ragioni
economiche".
La "società polacca", secondo il giudice a quo, "sotto il profilo tecnologico e finanziario era in una
situazione obsoleta e, stante i cambiamenti politici avvenuti negli anni immediatamente precedenti,
necessitava di un ammodernamento produttivo che la Nyistar s.p.a.
possedeva" (per cui "ha ritenuto di acquisire la partecipazione di maggioranza attraverso un
conferimento in natura, ovvero acquisto di macchinar e/o trasferimento di questi in (OMISSIS)"):
"è stata una strategia di espansione nell'Est Europeo decisa da un gruppo industriale anche per la
riconversione degli impianti inerenti alla produzione delle fibre dei PA 66 e del PES".
La Commissione Tributaria Regionale, "considerate anche le ipotesi elusive rilevate
nell'accertamento e riprese nella sentenza appellata", aggiunge che "l'acquisto diretto della
partecipazione avrebbe in ogni caso determinato dei costi, nonchè finanziamenti per ammodernare
gli impianti di quella società" ("sostegno finanziario che, stante quanto in atti, difficile da reperire
per il forte indebitamento già incombente in quel periodo sulla Nylstar spa italiana") e "di
conseguenza, ritiene che vi sia stata una opportunità gestionale dell'impresa con valide ragioni
economiche".
2. L'Agenzia impugna la decisione per quattro motivi.
A. Con il primo l'amministrazione fiscale - premesso che "la ricorrenza del rapporto di controllo...
descritto nell'art. 76 del cit. T.U.I.R. tra la NYLSTAR spa e le consociate aventi sede nell'Unione
Europea... non è in contestazione" - denunzia "violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del
1986, artt. 9 e 76" nonchè "omessa motivazione su punto... decisivo" esponendo:
- "le contestazioni mosse dalla contribuente attengono... alla insussistenza delle condizioni previste"
negli artt. 76 e 9 detti "per poter riscontrare l'avvenuto spostamento di materia imponibile dallo
stato italiano ad altri stati dell'UE" ("in particolare,... nel disconoscimento dell'esistenza di un
diverso... prezzo di cessione dei beni secondo che i destinatari fossero proprie consociate ovvero
soggetti non legati ad essa da alcun rapporto societario");
"la pretesa fiscale..., al contrario,... si fondava sull'accertata insussistenza della predetta differenza
di prezzi (quale risultante dalla documentazione fiscale inerente alle cessioni poste in essere nei
confronti di soggetti terzi indipendenti, aventi sede in Italia ed all'estero, e nei confronti delle
proprie consociate Europee), con conseguente ripresa a tassazione... del maggior reddito imponìbile
rappresentato dalla differenza de qua": "le cessioni dei beni eseguite in favore delle proprie
consociate", quindi, "sono state valutate secondo il loro valore normale e sottoposte a tassazione";
- "accanto a questa prima verifica, l'amministrazione ha accertato che alle cessioni poste in essere
nei confronti delle consociate Europee" ("effettuate ad un valore inferiore a quello praticato... ad
altri soggetti estranei") "veniva applicato un sconto nella misura del 2, del 3 e del 4% che, non
essendo qualificabile quale sconto d'uso ai sensi dell'art. 9 cit., contribuiva ad aumentare la
differenza tra prezzo normale e prezzo praticato alle... consociate";
- "la ripresa a tassazione eseguita ai sensi degli artt. 76 e 9 cit.
T.U.I.R.", quindi, "si fondava, oltre che sulla legittimità fiscali delle remise anche su un'autonoma
ed accertata differenza di prezzi che dai suddetti sconti prescindeva": "la CTR", pertanto, non si
poteva "limitare a fornire la propria (errata...) valutazione sulla qualificabilità quali sconti df uso
delle rimise operate in favore delle consociate, ma" doveva "esplicitare le ragioni in forza delle
quali ritenere infondata la pretesa fiscale anche in riferimento alla differenza di prezzo praticata alle
consociate rispetto al prezzo normale dei beni in questione": "ove ciò avesse fatto..., non avrebbe
potuto che concludere per la fondatezza della pretesa dell'amministrazione, attesa l'innegabile
discrasia tra i prezzi di cui si discute, quale risultante... dalla analitica ricostruzione contenuta nei
fogli 29 - 33" (riprodotti) "del PVC del 15 giugno 2001".
Per la ricorrente "la rilevata lacuna motivazione ridonda, inoltre, a violazione degli artt. 9 e 76 del
cit. T.U.I.R.".
B. Con il secondo motivo l'Agenzia contesta la statuizione con la quale "le remise applicate in
favore delle consociate sono state ritenute sconti d'uso" ("dunque da tenere in considerazione al fine
di determinare il prezzo di cessione ai sensi dell'art. 9 del cit.
T.U.I.R.") e denunzia ancora "violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 9 e
76", nonchè "omessa motivazione su punto... decisivo" osservando:
- "il riferimento agli sconti d'uso contenuto nel comma 3" dell'art. 9 "non può che essere inteso
quale pratica generalizzata utilizzata dal... cedente in favore di tutti i cessionari... e non quale
beneficio concesso solo alle proprie consociate estere" perchè "quest'ultima sarebbe una lettura
sostanzialmente abrogativa della previsione";
- "per essere ritenuti sconti d'uso, i minori prezzi praticati o devono avere le caratteristiche di usi
normativi o, quantomeno, devono risultare da una generalizzata applicazione nei confronti di tutti i
soggetti, prescindendo... dall'esistenza o meno di rapporti societari";
- "il riferimento al minor valore degli scambi con i soggetti terzi" ("che avrebbe giustificato la
mancata applicazione degli sconti") è "inconferente e... apodittico" perchè "privo di qualunque base
fattuale ed argomentativa", "non essendo, tra l'altro, mai stato neanche dedotto da parte avversa che
aveva impostato in altri...
termini la propria difesa in merito alla legittimità degli sconti praticati alle consociate estere".
C. Con il terzo motivo l'Agenzia - esposto che "quanto...
all'elusività dell'operazione relativa all'acquisizione ed al conferimento di beni nella società
STILON SA con sede in (OMISSIS)" il "nucleo della sentenza" impugnata "riguarda" (a) "il
necessario riammodernamento degli impianti della società polacca" e b) "la conseguente legittimità
della forma utilizzata per realizzare l'operazione" - denunzia "violazione e falsa applicazione del
D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis", nonchè "omessa motivazione su un punto... decisivo"
esponendo:
- "la statuizione... ha omesso di prendere in considerazione i numerosi elementi di fatto... addotti
dall'amministrazione" (quanto "rilevato" nel "nel PVC del 15 giugno 2001..., fogli 46 - 50",
riprodotti nel ricorso per cassazione), in specie che "la NYLSTAR spa, a differenza delle altre
società del gruppo, non disponeva di alcuno dei beni dalla stessa conferiti nella STILON SA i quali
sono stati all'uopo acquistati dalla medesima NYLSTAR spa, dalle società che ne avevano la
proprietà per essere conferiti nella... STILON SA";
- "la CTR, per negare l'elusività dell'operazione avrebbe dovuto...
spiegare il senso dell'acquisizione e dell'ammodernamento della STILON da parte di una società
(l'odierna intimata) priva dei beni conferiti (posseduti, invece, da parte delle società consociate che
alla stessa li avevano ceduti e che avrebbero... con minori costi potuto realizzare l'operazione)",
"argomentare in merito alla circostanza dell'avvenuto conferimento di beni ad un valore (L.
56.545.000.000) ben superiore all'importo corrispondente alla somma dei costi sostenuti per
l'acquisto degli stessi e per il loro riammodernamento (il tutto senza... alcuna perizia di stima pure
richiesta)" e considerare il "tenore del fax del 16 giugno 1998, rinvenuto dalla Guardia di Finanza
che, cosi come dedotto dall'Ufficio... in appello, a pag. 16, conteneva gli indirizzi forniti dall'ufficio
fiscale di Rhodianyl snc (una delle società parti della joint venture all'origine del gruppo Nylstar) al
gruppo SNIA (l'altra parte della citata joint venture) ed al gruppo Nylstar, suggerendo a questi
ultimi di valorizzare al meglio le perdite pregresse, di cui parte in scadenza presenti nel bilancio
della NYLSTAR spa utilizzando la medesima società per l'acquisizione della partecipazione di
maggioranza nella STILON SA".
D. Con il quarto (ultimo) motivo l'Agenzia ("per mero scrupolo difensivo") grava "l'affermazione
secondo la quale l'Ufficio avrebbe acriticamente recepito le conclusioni cui era pervenuta la
Guardia di Finanza" e denunzia "violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c."
("extrapetizione"), "violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42", nonchè
"omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo" esponendo:
- "la contribuente non aveva formulato alcuna specifica censura in tal senso, nè in primo grado nè in
grado di appello";
- "il rilievo" ("ove... ritualmente formulato") è "infondato" perchè "istruttoria del procedimento de
quo si compendia in meri accertamenti di fatto, rispetto ai quali l'attività demandata all'Ufficio si
circoscrive al coordinamento logico delle situazioni fattuali riscontrate dai verbalizzanti ed al
controllo degli effetti che ne scaturiscono alla stregua dei precetti normativi".
3. La contribuente, dal suo canto, oppone (in sintesi):
- il ricorso è inammissibile perchè la "ricorrente propone una nuova valutazione dei fatti... preclusa
in sede di legittimità";
- "per quanto attiene al motivo n. 1", che "dalla documentazione in atti... emerge" che essa "ha
fornito elementi idonei a dimostrare l'apoditticità degli assunti posti a base degli accertamenti, tanto
in relazione all'esistenza di un unico prezzo di filo poliammidico applicabile a tutto il mercato di
riferimento, quanto in ordine alla legittimità degli sconti";
- "per quanto attiene al motivo n. 2", che "non corrisponde al vero l'affermazione secondo la quale
lo sconto (remise)... non sarebbe stato applicato alla generalità dei soggetti con i quali operava" essa
società; "la Commissione, lungi dal privare di contenuto il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 9, comma 3,
ha affermato... la sua applicazione a tutti i soggetti, prescindendo evidentemente dall'esistenza o
meno di rapporti societari, che operavano in quello stadio di commercializzazione
(acquirenti/venditori) ed ha accertato che nell'ambito del gruppo Nylstar essi erano esclusivamente
le società consociate del gruppo medesimo"; le "remise consentivano di remunerare i rischi e i costi
connessi alla commercializzazione e alle incertezze del mercato che le società produttrici
scaricavano sui rivenditori";
- "per quanto attiene al motivo n. 3", che "l'emanazione dell'avviso di accertamento contenente
rilievi operati ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31 bis, deve essere preceduta, a pena di
nullità, da specifica richiesta di chiarimenti"; "l'Ufficio.. ha completamente omesso la procedura... e
per ciò solo i giudici... avrebbero potuto dichiarare la nullità dell'avviso di accertamento";
"l'Amministrazione, nel mandare a tassazione... la plusvalenza" relativa al "conferimento Stylon"
doveva "effettuare analoga variazione in diminuzione del reddito dichiarato"; "il disconoscimento
delle perdite fiscali non poteva avvenire attraverso la loro riduzione" ("essendosi... formate in
annualità non più suscettibili di accertamento"); "la conseguente ripresa a tassazione non poteva
superare l'importo della perdita in scadenza";
- "per quanto attiene al motivo n. 4", che essa "ha sempre eccepito la carenza di motivazione degli
atti impugnati e il vizio funzionale del procedimento" per cui "non ci è stata extrapetizione".
4. I primi tre motivi di ricorso - che, come emerge univocamente dalle osservazioni che seguono,
non si risolve in alcun modo nella richiesta di mera rivalutazione dei fatti - sono fondati; l'ultimo,
invece, deve essere respinto.
A. In tema di "valutazioni" del "costo dei beni", invero, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917,
(T.U.I.R.), art. 76, comma 5, (ora art. 110, comma 7) dispone, per quanto rileva, che "i componenti
del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che
direttamente o indirettamente controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla
stessa società che controlla l'impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei
servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento
del reddito".
La norma, come noto, mira a contrastare - sempre che dal controllo derivi, come chiarito dal suo
inciso finale, un "aumento del reddito" della società residente (ovvero, giusta la modifica apportata
con il D.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42, art. 1, anche "una diminuzione del reddito, ma soltanto in
esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle
speciali procedure amichevoli previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie
imposizioni sui redditi") - il fenomeno - oggetto specifico di interessamento da parte dell'CCSE
Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici che ha diretto agli stati aderenti
apposite "raccomandazioni" col "rapporto" del 1979 (successivamente rivisto ed integrato, ancora di
recente nel 2010) intitolato "Transfer pricing guidelines far multinational enterprises and tax
administraliom" ("guidance on the application of the arm's length principle for the valuation, for tax
purposes, of cross-border transactions between associated enterprises"), anche al fine di risolvere
eventuali dispute (mediante le "procedure amichevoli" dette) tra le amministrazioni fiscali dei
diversi stati (capitolo quarto: "Administrative Approaches to Avoiding and Resolving Transfer
Pricing Disputes") -, denominato "tranfer pricing" (o "tranfer price": prezzo di trasferimento),
(fenomeno) dato dall'artificiale aggiustamento del prezzo di scambio di beni e/o di servizi (possibile
tra le società considerate dalla norma in quanto facenti capo ad un unitario centro di interesse
economico; quindi, sostanzialmente, ad un unico centro decisionale), teso, fondamentalmente
(comunque nell'ottica del legislatore fiscale, non solo italiano) a spostare all'estero flussi di reddito
prodotti nello stato.
Per contrastare il fenomeno - avente comunque anche carattere elusivo fiscale (cfr., Cass., trib.: 16
maggio 2007 n. 11226 e 13 ottobre 2006 n. 22033, nelle quali si evidenzia che trattasi di "clausola
antielusiva" immanente "in diversi settori del diritto tributario nazionale essendo consentito
all'Amministrazione finanziaria di disconoscere ad esempio - i vantaggi fiscali conseguiti da
operazioni societarie (L. n. 408 del 1990, art. 10) poste in essere senza valide ragioni economiche
ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta") - la disposizione
nazionale impone (in via principale) allo stesso contribuente (atteso che, come segnalato anche
dalla dottrina, essa detta i criteri giuridici da seguire, in primis, ai fini della determinazione del
reddito da dichiarare, quindi a prescindere dall'azione di verifica dell'amministrazione fiscale,
esperita solo in seguito da questa) di considerare, per le peculiari operazioni dalla stessa
contemplate, il criterio del "valore normale" del bene (ceduto o ricevuto) e/o del servizio (prestato o
ricevuto) anzi che quello ordinario, previsto dall'art. 53 (ora art. 85) del cit. T.U.I.R., del
"corrispettivo" convenuto.
Da siffatta natura discende che la norma non contiene per nulla una presunzione (sia pure legale;
quand'anche iuris tantum, comunque questa suscettibile di prova contraria), di percezione di un
corrispettivo diverso da quello convenuto perchè, semplicemente, detta l'unico criterio legale da
adottare per la valutazione reddituale della particolare operazione economica, a prescindere, quindi,
dal corrispettivo effettivamente pattuito e, di conseguenza, con assoluta irrilevanza delle concrete
ragioni economiche per le quali lo stesso è stato fissato dai contraenti in misura minore.
B. "Per la determinazione del valore normale dei beni e dei servizi... ", poi, il secondo comma
(richiamato dal settimo) dello stesso art. 76 impone di applicare ("si applicano") "te disposizioni
dell'art. 9" del cit. T.U.I.R. (che recepiscono, tra quelli proposti dall'OCSE nelle surrichiamate
"guidelines", il metodo c.d.
"tradizionale" del "confronto dei prezzi" ("comparable uncontrolledprice method")), il cui terzo
comma (qui rilevante) recita:
(1) "per valore normale... si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e
servizi detta stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e ai medesimo stadio di
commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e,
in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi";
(2) "per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle
tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi" (c.d. "confronto interno") "e, in mancanza, alle
mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali" (c.d. "confronto
esterno"), "tenendo conto degli sconti d'uso".
La proposizione normativa sub (1), all'evidenza, fornisce la nozione giuridica di "valore normale"
dei "beni e dei servizi" da considerare nelle ipotesi previste dal settimo comma; quella
immediatamente successiva sub (2), a sua volta, detta i criteri di "riferimento" da osservare al fine
della "determinazione del valore normale" dello specifico bene e/o servizio.
Il nesso di reciproca integrazione che logicamente lega entrambe le proposizioni della disposizione
evidenzia che gli "sconti d'uso" dei quali la (seconda parte della) norma vuole si tenga "conto"
("tenendo conto") sono unicamente quelli praticati sui "listini" o sulle "tariffe" dello stesso
"soggetto che ha fornito i beni o i servizi" - come parimentì, ma solo "in mancanza" di quei "listini"
e/o di quelle "tariffe", sulle "mercuriali", sui "listini delle camere di commercio" e sulle "tariffe
professionali" - "in condizioni di libera concorrenza" (oltre che "al medesimo stadio di
commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e,
in mancanza, nei tempo e nei luogo più prossimi"), non già, e non anche, agli "sconti d'uso"
applicati come accertato dal giudice del merito per il quale, come riportato, nella specie "questi
sconti hanno una valore costante sistematico e generalizzato...
all'interno degli scambi economici fra società del gruppo") solo nei rapporti infragruppo essendo
evidente che siffatta pratica (capace, di per sè sola, di determinare l'anticipato "spostamento"
all'estero del corrispondente reddito prodotto in Italia), siccome "limitata" alle società dello stesso
gruppo economico, non rappresenta affatto il "prezzo o corrispettivo mediamente praticato" dal
soggetto "in condizioni di libera concorrenza", e, quindi, non è idoneo a fissare quel "valore
normale" che il legislatore prescrive di considerare perchè da esso ritenuto l'unico rappresentativo
del "prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie...".
Discende che le c.d. "remise", ovverosia le riduzione percentuali del prezzo praticate nei soli
rapporti economici ("operazioni") con società considerate nell'art. 110, comma 7, del cit. T.U.I.R.,
non costituiscono gli "sconti d'uso" contemplati dall'art. 9, comma 3, del medesimo T.U.I.R. perchè
le riduzioni percentuali del prezzo di "listino" e/o di "tariffa" che la norma prende in considerazione
quali "sconti d'uso" sono unicamente quelle usualmente praticate dal "soggetto" sui propri "listini" o
sulle proprie "tariffe" (se esistenti) per le operazioni concluse "in condizioni di libera concorrenza",
ovverosia per le operazioni economiche concluse con soggetti estranei al proprio gruppo
economico.
C. Anche la censura relativa al "conferimento inerente la società polacca" risulta fondata.
C.1. In ordine alla stessa va preliminarmente evidenziata l'inconferenza della statuizione
(favorevole alla società) contenuta nella sentenza n. 9/34/08 della Commissione Tributaria
Regionale della Lombardia (avente ad oggetto un avviso di accertamento per IVA- IRPEG ed IRAP
relative all'anno 1999), esibita dalla (curatela della) contribuente (che si esamina, nonostante la
rilevata inammissibilità dell'intervento della curatela stessa, sui" specie di attività difensiva propria
della società costituita attesa l'identità del suo difensore e di quello nominato dalla Curatela), perchè
tale sentenza (alla quale, comunque, non può essere riconosciuta la forza vincolante prevista
dall'art. 2909 c.c., in quanto priva del "certificato di passaggio in giudicato" prescritto dall'art. 124
disp. att. c.p.c.) ha affrontato e deciso unicamente il problema della "fittizietà" dell'operazione
economica in questione ma non contiene, neppure per implicito, alcun giudizio in ordine alla
eventuale natura elusiva della stessa.
C.2. Con le sentenze 23 dicembre 2008 nn. 30055, 30056 e 30057 - i cui principi (ribaditi in seguito
anche da questa sezione nelle decisioni 9 dicembre 2009 n. 25726, 22 ottobre 2010 nn. 21692 e
21693) debbono essere confermati sia perchè pienamente condivisibili sia perchè non contrastati da
nessuna argomentazione contraria della contribuente -, invero, le sezioni unite di questa Corte
hanno precisato che nel caso in cui (come nella specie) l'amministrazione finanziaria fondi il
"proprio accertamento sull'integrale disconoscimento di determinati costi e crediti di imposta" (sì
che "la domanda dell'amministrazione non può fondarsi su altro che su tale disconoscimento") "il
tema relativo all'esistenza, validità e opponibilità all'amministrazione del negozio da cui si assume
che originino tali costi e crediti è acquisito al processo per effetto dell'allegazione da parte del
contribuente" "ovviamente gravato dell'onere di provare i presupposti di fatto per l'applicazione
delle norme da cui discendono i costi ed i crediti vantati; in conformità del resto alla costante
giurisprudenza di questa Corte in tema di onere della prova, in materia tributaria, quanto alle norme
di beneficio (cfr. Cass. 14381/07,13559/07, SSUU 27619/06)", con la conseguente "sicura
rilevabilità d'ufficio delle eventuali cause di invalidità o di inopponibilità all'amministrazione del
contratto stesso" "sempre che, ovviamente, ciò non sia precluso, nella fase di impugnazione, dal
giudicato interno eventualmente già formatosi sul punto o (nel giudizio di legittimità) dalla
necessità di indagini di fatto".
C.3. Le stesse sentenze, di poi, hanno ritenuto di "aderire all'indirizzo di recente affermatosi nella
giurisprudenza della sezione tributaria (si veda, da ultimo,Cass. 10257/08,25374/08), fondato sul
riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antìelusivo" "con la precisazione che la fonte
di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella
giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano
l'ordinamento tributario italiano" atteso che "i principi di capacità contributiva... e di progressività
dell'imposizione" di cui all'art. 53 Cost., "costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in
senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere,
essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei
principi"), hanno affermato che "non può non ritenersi", quindi deve ritenersi "insito
nel'ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il
contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante
con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in
difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera
aspettativa di quel risparmio fiscale".
C.4. L'applicazione al caso degli esposti principi di diritto al "conferimento inerente la società
polacca Stilon S.A." evidenzia l'errore che inficia la sentenza impugnata per avere il giudice di
appello riguardato la concreta fattispecie unicamente tenendo conto della situazione della "società
polacca" (secondo la Commissione Tributaria Regionale, infatti, "doveva essere considerata anche
la complessità tecnologica dell'operazione che inevitabilmente ha determinato valide ragioni
economiche") nonchè la "strategia di espansione nell'Est Europeo decisa da un gruppo industriale
anche per la riconversione degli impianti inerenti alla produzione delle fibre dei PA 66 e del PES" e
non pure gli aspetti eventualmente elusivi dell'operazione perchè effettuata dalla società italiana
senza una valida ragione economica "propria" della stessa contribuente (con irrilevanza della
ragione sia della società polacca che di quella del gruppo), diversa dal mero risparmio d'imposta
tratto dall'assunzione del costo di un operazione costituita dal mero trasferimento (sub specie di
"conferimento" degli stessi) alla società polacca di beni acquistati da terzi (quand'anche se dello
stesso gruppo economico) invece che con il semplice conferimento (di diversa rilevanza fiscale)
della necessaria provvista finanziaria.
Peraltro ed infine il giudizio del giudice di appello si rivela del tutto apodittico (per mancata
esposizione dei conferenti elementi concreti di riscontro) in ordine alla affermata sussistenza, nel
caso, di "valide ragioni economiche" nonchè assolutamente generico non essendo individuabile il
soggetto (la società italiana ovvero quella polacca) del quale sono state ritenute "valide" le "ragioni
economiche" dell'operazione.
D. Il quarto motivo di ricorso dell'Agenzia è inammissibile perchè - a prescindere dal riscontro
dell'autosufficienza (art. 366 c.p.c.) della sua prospettazione, tenuto conto dell'avversa
contestazione circa l'avvenuta proposizione della conferente eccezione - l'"affermazione" del
giudice di appello per la quale "l'Ufficio avrebbe acriticamente recepito le conclusioni cui era
pervenuta la Guardia di Finanza", investita dalla censura, comunque non costituisce "punto
decisivo" della controversia perchè la stessa non ha prodotto nessun effetto sulla concreta
statuizione adottata perchè questa (come emerge dal punto 1. che precede) è fondata unicamente
sulla valutazione del merito della complessiva pretesa fiscale.
E. in definitiva la sentenza impugnata, affetta dagli evidenziati errori di diritto e di motivazione,
deve essere cassata e la causa, siccome bisognevole dei conferenti accertamenti fattuali (limitati,
beninteso, alle sole questioni investite dalle ragioni della cassazione), deve essere rinviata a sezione
diversa della stessa Commissione Tributaria Regionale che ha emesso la sentenza annullata affinchè
(1) riesamini le due pretese fiscali alla luce dei principi di diritto enunciati in precedenza sia quanto
ai criteri legali di "determinazione del valore normale dei beni e dei servizi" concernenti le
operazioni economiche concluse dalla contribuente con le "società non residenti nei territorio dello
Stato, che direttamente o indirettamente controllano l'impresa, ne sono controllate o sono
controllate dalla stessa società che controlla l'impresa" sia quanto alla natura elusiva dell'operazione
di "conferimento inerente la società polacca" e (2) provveda anche a regolare tra le parti le spese
processuali di questo giudizio di legittimità.
PQM
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi tre motivi del ricorso; dichiarai inammissibile il quarto; cassa la sentenza
impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di
legittimità, ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 dicembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2011
8.Cassazione civile, sez. trib., 19/10/2012, (ud. 05/07/2012, dep.19/10/2012), n. 17953
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MERONE Antonio
- Presidente Dott. CIRILLO Ettore
- Consigliere Dott. BOTTA Raffaele
- Consigliere Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi
- Consigliere Dott. TERRUSI Francesco
- rel. Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 607/2007 proposto da:
BLACK & DECKER ITALIA SPA in persona del Consigliere
Delegato,
elettivamente domiciliato in ROMA VIALE DI VILLA MASSIMO 57, presso
lo studio dell'avvocato DELLA VALLE EUGENIO, che lo rappresenta e
difende unitamente all'avvocato MACCONI GIANFRANCO con procura
notarile del Not. Dr. CARLO MARIA GIOVENZANA in MILANO, rep. n. 1319
173375 del 26/05/2006;
- ricorrente contro
MINISTERO DELL'ECONOMIA E FINANZE, AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI
LECCO, AGENZIA DELLE ENTRATE;
- intimati sul ricorso 4125/2007 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,
elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso
l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope
legis;
- ricorrente incidentale contro
BLACK & DECKER ITAL SPA in persona del Consigliere
Delegato,
elettivamente domiciliato in ROMA V.LE DI VILLA MASSIMO 57, presso lo
studio dell'avvocato DELLA VALLE EUGENIO, che lo rappresenta e
difende unitamente all'avvocato MACCONI GIAN FRANCO, con procura
speciale notarile del Not. Dr. CARLO MARIA GIOVENZANA in MILANO, rep.
n. 173375 del 26/05/2006;
- controricorrente a ricorso incidentale - avverso la sentenza n.
162/2005 della COMM.TRIB.REG. di MILANO, depositata il 12/01/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
05/07/2012 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;
udito per il ricorrente l'Avvocato DELLA VALLE, che ha chiesto
l'accoglimento;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso
principale e del controricorso incidentale.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In esito a un processo verbale di constatazione della g.d.f. del novembre 2001, l'agenzia delle
entrate di Lecco notificava alla Black & Decker Italia s.p.a. (oggi DeWalt Industrial Tools
s.p.a.) tre avvisi di accertamento con i quali, rettificando i redditi dichiarati per gli anni 1999, 2000
e 2001, riprendeva a tassazione le maggiori imposte dovute, per Irpeg e Irap, e irrogava le prescritte
sanzioni.
Erano state mosse alla società le seguenti contestazioni: (i) per tutti i periodi, omessa
contabilizzazione di ricavi - accertati col metodo di confronto del prezzo - riguardanti cessioni di
beni a società consociate estere, in violazione degli artt. 9 e 76 dell'allora vigente Tuir;
(ii) per il periodo 1999, altresì l'indebita deduzione di costi dal reddito d'impresa, ai sensi dell'art. 76
del medesimo Tuir, e l'indebita deduzione di minusvalenze per dismissione di cespiti;
(iii) per i periodi 2000 e 2001, ancora minori costi per operazioni c.d. di transfer price passivo.
Il ricorso proposto dalla società, contro i suddetti avvisi, veniva parzialmente accolto dalla
commissione tributaria provinciale di Lecco.
In particolare la commissione provvedeva alla riduzione della ripresa concernente il transfer price
attivo e all'annullamento delle riprese concernenti il transfer price passivo e l'indeducibilità dei costi
per eliminazione dei cespiti e per differenze di cambio.
La sentenza, appellata in via principale dalla società e in via incidentale dall'amministrazione
finanziaria, veniva confermata dalla commissione tributaria regionale della Lombardia, con
sentenza n. 162/31/2005, previo rigetto dell'appello principale e declaratoria di inammissibilità di
quello incidentale.
La società contribuente ha proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi.
L'amministrazione ha replicato con controricorso, contenente anche ricorso incidentale articolato in
un motivo.
La ricorrente principale ha depositato una memoria.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - I ricorsi - principale e incidentale - debbono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c..
Per primo va esaminato il ricorso principale.
2. - Al riguardo è da premettere che l'impugnata sentenza, per quanto ancora rileva, ha respinto
l'appello (anch'esso principale) della società:
(a) negando la natura equitativa della decisione di primo grado nella parte afferente la conferma seppur con riduzione forfetaria dei redditi accertati - della ripresa fondata sul transfer price attivo;
natura equitativa posta a base di un' apposita eccezione di nullità dalla contribuente allora sollevata;
(b) ritenendo corretto il metodo adottato ai fini della determinazione del reddito scaturente dalle
esaminate operazioni attive di transfer pricing, essendo stato accertato che ai beni venduti alle
consociate estere erano stati applicati, nei diversi paesi, prezzi identici indipendentemente dalle
quantità, e che soltanto in Italia la società aveva venduto beni a un prezzo superiore a quello
praticato alle consociate medesime. La commissione ha infine considerato:
(c) corretto il riferimento alla media annuale, ai fini della determinazione del quantum per le
transazioni avvenute nell'arco dell'anno;
(d) legittimo, per l'apprezzamento delle operate comparazioni, il ricorso agli elaborati statistici, in
quanto fedelmente riflettenti - questi elaborati l'andamento della società.
3. - Il ricorso principale della società medesima è articolato in quattro motivi, tutti afferenti la
ripresa a tassazione del transfer price attivo.
3/a. - Col primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 76, commi 2 e 5, e art. 9,
comma 2, del Tuir (nel testo prò tempore vigente), D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11 bis, art. 2697 c.c.,
D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 42; omessa o insufficiente motivazione sul punto decisivo della
non comparabilità delle transazioni campione e di quelle controllate, sotto il profilo del medesimo
stadio di commercializzazione dei beni scambiati; nullità della sentenza ai sensi del D.Lgs. n. 546
del 1992, art. 1, e art. 112 c.p.c., sotto il profilo dell'omissione di pronuncia.
Si sostiene che faceva nella specie difetto la comparabilità delle transazioni confrontate, sia sotto il
profilo del medesimo stadio di commercializzazione, sia sotto il profilo spazio-temporale, secondo
la corretta determinazione dei riferiti concetti desumibile dall'art. 9, comma 3, del Tuir interpretato
conformemente ai criteri guida elaborati dall'Ocse.
In particolare, si censura la sentenza: (a) da un lato, per aver ritenuto comparabili le transazioni
intervenute con imprese italiane indipendenti e le transazioni intercorse con le consociate estere,
senza considerazione delle diversità delle funzioni remunerate dai rispettivi cessionari e del
conseguente riflesso sul prezzo praticato; e (b) dall'altro, per aver comparato transazioni
caratterizzate da diverso stadio di commercializzazione (vendite a società distributrici (transazioni
controllate) e vendite a grossisti (transazioni campione)).
Previa sottolineatura del differente rischio d'impresa, quanto alle gestione delle rimanenze, della
commercializzazione del prodotto e dei crediti evidenziato come praticamente inesistente per
l'attività di produzione posta in essere in favore delle consociate estere, trattandosi di produzione
concordata annualmente e subito venduta -, la società invero sostiene che la circostanza che il
prezzo di vendita applicato alle consociate estere andasse a remunerare le funzioni svolte e i rischi
assunti da queste ultime - senza costituire un mero arbitraggio fiscale volto a trasferire reddito
all'estero - era chiaramente emersa da una perizia della KPMG prodotta in appello, giustappunto
finalizzata a identificare il profitto realizzato dal gruppo a livello mondiale. E che il profilo
afferente, del diverso stadio di commercializzazione dei beni (o dei servizi) scambiati, non era stato
colto nè considerato dal giudice d'appello, il quale aveva sostanzialmente omesso di pronunciarsi
sul corrispondente motivo di gravame, incorrendo nel vizio di cui all'art. 112 c.p.c., o comunque in
quello di omessa valutazione del materiale istruttorio, secondo il disposto di cui all'art. 360 c.p.c., n.
5.
3/b. - Col secondo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 76, commi 2
e 5, e art. 9, comma 2, del Tuir (nel testo pro tempore vigente), D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11 bis,
art. 2697 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 42; omessa o insufficiente motivazione sul punto
decisivo della non comparabilità delle transazioni campione e di quelle controllate sotto il profilo
del mercato rilevante.
Sostiene che, tale mercato essendo quello in cui si trovano, nelle transazioni controllate, gli
acquirenti, la suddetta comparabilità era nella specie mancata del tutto, dal momento che le
transazioni campione avevano riguardato cessioni fatte a imprese indipendenti italiane, ossia ad
acquirenti che non si trovavano negli stessi paesi degli acquirenti delle transazioni controllate. Nè
era stata dimostrata, o comunque argomentata, la similarità del mercato italiano e dei mercati esteri.
3/c. - Col terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 76, commi 2 e 5, e art. 9,
comma 2, del Tuir (nel testo prò tempore vigente), D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11 bis, art. 2697 c.c.,
D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 42; omessa o insufficiente motivazione sul punto decisivo della
non comparabilità delle transazioni campione e di quelle controllate sotto ulteriori profili rispetto
allo stadio di commercializzazione; nullità della sentenza ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1,
e art. 112 c.p.c., sotto il profilo dell'omissione di pronuncia. La censura investe il fatto che la
commissione regionale non avrebbe in tal guisa considerato i profili di non comparabilità ancora
risultanti dalla citata perizia asseverata dalla società KPGM relativamente (i) ai termini di
pagamento delle vendite; (ii) agli elaborati statistici per l'individuazione del prezzo praticato alle
consociate estere; (iii) agli sconti di fine anno praticati ai clienti italiani.
3/d. - Col quarto motivo, infine, si deduce ancora violazione e falsa applicazione dell'art. 76, commi
2 e 5, e art. 9, comma 2, del Tuir (nel testo prò tempore vigente), D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11 bis,
art. 2697 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 42; omessa o insufficiente motivazione sul punto
decisivo della inammissibilità di una pronuncia di mera riduzione della ripresa concernente il
transfer price attivo in mancanza di comparabilità delle transazioni; nullità della sentenza ai sensi
del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, e art. 112 c.p.c., sotto il profilo dell'omissione di pronuncia.
Il motivo attiene, in questo caso, alla statuizione di rigetto dell'appello nella parte in cui si
lamentava la natura equitativa, anzichè secondo diritto, della sentenza di primo grado.
IV. - Quest'ultimo motivo (il quarto), che per primo rileva secondo l'ordine logico avendo come
presupposto la non corretta considerazione di una deduzione di nullità della sentenza di primo
grado, è infondato.
Dalla sentenza risulta che l'appello era stato in parte qua incentrato su un'eccezione di nullità della
sentenza in quanto sostanzialmente "equitativa"; vale a dire pronunciata secondo equità, anzichè
secondo diritto.
La commissione ha escluso il suddetto predicato della statuizione perchè si era semplicemente
avuta, da parte della commissione provinciale, una rettifica forfetaria in diminuzione dei redditi
accertati.
L'assunto è corretto ed è sufficiente per escludere il fondamento dell'eccezione nella misura in cui
traduce l'elemento differenziale che intercorre tra l'equità come canone integrativo del prudente
apprezzamento in materia di prova (artt. 115 e 116 c.p.c.) e l'equità come parametro alternativo al
giudizio secondo diritto (c..d. equità sostitutiva: art. 114 c.p.c.).
L'esercizio da parte del giudice del potere di cui all'art. 115 c.p.c., non da luogo a un giudizio di
equità, ma a un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva o
integrativa, subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente
difficile per la parte interessata, provare nel suo preciso ammontare l'entità del credito (cfr. per
spunti, sulla distinzione che rileva in generale sul versante civilistico, Cass. n. 19756/2011; n.
10607/2010).
5. - I primi tre motivi, suscettibili di unitario esame in quanto tra loro connessi, sono invece fondati.
5/a. - Quale norma generale sulle valutazioni riferite al costo dei beni, l'art. 76, comma 5, del Tuir nel testo che qui rileva (ora art. 110, comma 7) - dispone, per quanto di interesse, che "i componenti
del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che
direttamente o indirettamente controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla
stessa società che controlla l'impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei
servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento
del reddito".
La norma mira a contrastare - sempre che dal controllo derivi, come chiarito dal suo inciso finale,
un "aumento del reddito" della società residente (come pure, giusta la modifica apportata con il
D.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42, art. 1, "una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli
accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali procedure
amichevoli previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi") il
fenomeno c.d. di transfer price (o prezzo di trasferimento).
Codesto fenomeno - cui l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha
dedicato apposite raccomandazioni, inviate agli Stati aderenti con il rapporto contenente le linea
guida, più volte rivisto e integrato (ancora di recente nel 2010) e, appunto, intitolato "Transfer
pricing guidelines for multinational enterprises and tax administration" - si sostanzia nell'artificiale
aggiustamento del prezzo di scambio di beni e/o di servizi (possibile tra le società considerate dalla
norma in quanto facenti capo a un unitario centro di interesse economico; e quindi, sostanzialmente,
a un unico centro decisionale) teso, fondamentalmente, secondo l'ottica assunta dal legislatore
fiscale, non solo italiano, a spostare all'estero flussi di reddito prodotti nello Stato.
Per contrastare il fenomeno - da questa Corte ritenuto di carattere anche elusivo fiscale (cfr. Cass. n.
11226/2007; n. 22033/2006) - la disposizione citata, dettando norme innanzi tutto destinate a
disciplinare la dichiarazione fiscale, impone (in via principale) allo stesso contribuente di
considerare, ai fini del reddito, per le peculiari operazioni ivi contemplate, il criterio del valore
normale del bene (ceduto o ricevuto) e/o del servizio (prestato o ricevuto), anzichè quello ordinario,
previsto dall'art. 53 (ora art. 85) del Tuir, del corrispettivo convenuto.
Da siffatta natura discende che la norma non contiene una presunzione (sia pure legale; e,
quand'anche iuris tantum, suscettibile di prova contraria) di percezione di un corrispettivo diverso
da quello convenuto, perchè, semplicemente, detta l'unico criterio legale da adottare per la
valutazione reddituale della particolare operazione economica; a prescindere, cioè, dal corrispettivo
effettivamente pattuito (cfr. Cass. n. 7343/2011) e con assoluta irrilevanza delle concrete ragioni
economiche per le quali lo stesso è stato fissato dai contraenti in misura minore.
5/b. - Sennonchè, per la determinazione del valore normale dei beni e dei servizi, il richiamato 2
comma dello stesso art. 76 impone di applicare "le disposizioni dell'art. 9" del citato Tuir. Le quali
recepiscono, tra quelli proposti dall'Ocse nelle surrichiamate linee guida, il metodo tradizionale del
"confronto dei prezzi" ("comparable uncontrolled price method").
E l'art. 9, comma 3, qui rilevante, definisce il modello legale stabilendo in proposito che (i) per
valore normale si intende "il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e servizi della
stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di
commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e,
in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi"; e che (ii) per la determinazione del valore
normale si fa riferimento, in quanto possibile, "ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i
beni o i servizi" (c.d. "confronto interno") ovvero, in mancanza, "alle mercuriali e ai listini delle
camere di commercio e alle tariffe professionali" (c.d. "confronto esterno"), tenendo conto degli
sconti d'uso.
In sostanza, nel dare concretezza al metodo di determinazione del prezzo di trasferimento, il giudice
rimane orientato dal su ripetuto criterio legale, e deve mantenersi nel binario dettato da esso. E
difatti deve considerare che la prima proposizione normativa fornisce la nozione giuridica di
"valore normale" dei beni e dei servizi, da applicare nelle ipotesi previste dal settimo comma; e che
quella immediatamente successiva detta i criteri di riferimento da osservare al fine della
determinazione del valore normale dello specifico bene e/o servizio.
5/c. - Nel caso di specie la commissione, affermando di condividere il metodo adottato ai fini della
determinazione del reddito della società, non ha fatto corretta applicazione delle citate previsioni.
Giacchè, da un lato, ha ritenuto integrato il fenomeno del transfer price attivo sulla base della
semplice, ma non decisiva, considerazione che "la società (...) ha applicato ai beni venduti alle
consociate estere (...) identici prezzi di vendita indipendentemente dalle quantità vendute"; e
dall'altro ha incentrato la decisione su un periodare irrilevante nella sua genericità; tale rivelandosi
l'assunto per cui "essendo quello italiano l'unico mercato diverso, deve ritenersi corretta l'adozione
del metodo di confronto di prezzo adottato dalla guardia di finanza, atteso che soltanto in Italia i
beni della società appellante sono stati venduti ad un prezzo superiore a quello praticato alle
consociate estere".
La commissione, invero, riferendo di generici raffronti infrannuali (sulla base di asserite medie di
periodo) e confermando comparazioni inesplicate dall'inconsistente rinvio a non meglio precisati
"elaborati statistici", non ha coerentemente stabilito, rispetto al modello legale, quale fosse il valore
normale dei beni scambiati.
Il nesso di reciproca integrazione tra gli elementi evidenziati, ritenuti rilevanti agli specifici fini
della determinazione del valore normale dei beni, risulta in tal modo incomprensibile in rapporto
alla previsione normativa che rileva.
L'applicazione degli esposti principi di diritto, incidenti sul corretto metodo di confronto dei prezzi,
evidenzia quindi l'errore che inficia la sentenza impugnata, per avere il giudice di appello riguardato
la concreta fattispecie sulla scorta di considerazioni apodittiche, essendo mancata l'esposizione dei
conferenti elementi di riscontro del mentovato "valore normale" di cui al ripetuto art. 9 del Tuir (e
delle linee guida dell'Ocse).
Sicchè la sentenza impugnata, affetta dagli evidenziati errori di diritto e di motivazione, deve essere
cassata, con rinvio, in quanto bisognevole dei pertinenti accertamenti di fatto, alla medesima
commissione regionale, diversa sezione.
In particolare il giudice di rinvio dovrà in tal senso riesaminare la pretesa fiscale alla luce dei
principi sopra enunciati, sia con riferimento alla condizione previa di comparabilità delle
transazioni poste a confronto, sia con riferimento ai criteri legali di determinazione del valore
normale dei beni e dei servizi concernenti le operazioni economiche concluse dalla contribuente e
oggetto di contestazione.
Il ricorso principale è in tale misura accolto.
6. - Venendo al ricorso incidentale, va anche in tal caso premesso che l'impugnata sentenza ha
dichiarato l'inammissibilità dell'appello incidentale, proposto dall'amministrazione finanziaria, in
quanto depositato oltre il termine di sessanta giorni di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 54 e 23.
In particolare la commissione ha osservato che l'appello principale era stato notificato in data
8.4.2005 e che l'atto di costituzione dell'amministrazione, seppure spedito per posta in data
7.6.2005, era tuttavia pervenuto nella segreteria del giudice d'appello (ed era stato quindi
depositato) in data 13.6.2005.
7. - Nell'unico motivo di ricorso incidentale, l'amministrazione deduce al riguardo la violazione e la
falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 22 (nel testo conseguente a C. cost. n.
520/2002), 23 e 54, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.
Sostiene che, potendo l'appellante incidentale costituirsi in giudizio anche mediante spedizione del
plico a mezzo posta, ai fini del rispetto del relativo termine di sessanta giorni doveva farsi
riferimento alla data di spedizione (7.6.2005), e non alla data di ricezione da parte della segreteria
del giudice d'appello (13.6.2005).
8. - Anche il ricorso incidentale devesi ritenere per quanto appresso fondato.
8/a. - Occorre sgombrare il campo dal riferimento a Cass. n. 9173/2011, al cui argomentare - nel
corso della discussione in udienza - sono state associate le conclusioni e della parte ricorrente
principale e del procuratore generale.
Tale decisione non è invero attinente, siccome relativa alla più generale problematica della
decorrenza del termine di costituzione in giudizio del ricorrente, nel giudizio dinanzi alle
commissioni tributarie, ove il ricorso sia spedito a mezzo posta; se cioè sia da ritenere riferibile,
detta decorrenza, al momento di perfezionamento della notificazione presso il destinatario, ovvero
al momento del compimento della spedizione da parte del notificante.
La citata sentenza conclude nel primo senso.
Ma, a disparte il fatto di essere contraddetta da un opposto orientamento (di cui è tuttora espressione
Cass. n. 8664/2011), non incide sulla specifica questione che qui rileva, giustappunto afferendo alla
sola esegesi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, in rapporto al termine stabilito per costituzione del
soggetto che ha già proposto il suo ricorso, avendolo notificato alla controparte.
Ai fini, invece, della costituzione dell'appellato viene in considerazione tutt'altra dinamica,
specificamente disciplinata dal citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23, in quanto richiamato dall'art.
54. Invero l'art. 54 unicamente prevede il deposito dell'atto di controdeduzioni, contenente anche
l'appello incidentale, nei (modi e) termini di cui all'art. 23; e dunque entro sessanta giorni dal giorno
in cui l'appello principale è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale.
Nel caso di specie, come detto, l'appello principale risulta essere stato notificato l'8.4.2005; mentre
l'atto di controdeduzioni, contenente l'appello incidentale, risulta inviato per posta il 7.6.2005 e
ricevuto dalla commissione regionale adita il 13.6.2005.
8/b. - Ora, in base al combinato degli articoli citati, non è previsto, ai fini della costituzione
dell'appellato, altro che il deposito dell'atto. E in particolare non è previsto, a differenza di quanto
accade nell'art. 22 (costituzione in giudizio del ricorrente), richiamato - quanto all'appello principale
- dall'art. 53, comma 2, il mezzo della spedizione dell'atto per posta.
Va difatti osservato che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, è stato riformulato nel senso di cui sopra
dal D.L. n. 203 del 2005, conv. in L. n. 248 del 2005, a seguito della declaratoria che aveva sancito
l'incostituzionalità del testo originario nella parte in cui - appunto - non consentiva, per il deposito
degli atti ai fini della costituzione in giudizio innanzi alle commissioni tributarie, l'utilizzo del
servizio postale (C. cost. n. 520/2002).
Dacchè, avendo la pronuncia investito (e il legislatore riformulato) il solo ridetto D.Lgs. n. 546 del
1992, art. 22, commi 1 e 2, è derivata una evidente disarmonia sistematica, in quanto, attualmente,
in base al testo normativo, la costituzione del ricorrente (e dell'appellante principale) può avvenire a
mezzo posta, mentre la costituzione della parte intimata (appellante incidentale), ai sensi degli artt.
54 e 23, dovrebbe avvenire solo col materiale deposito degli atti all'uopo necessari.
Una simile disarmonia non si giustifica razionalmente, posto che non v'è ragione per affermare che
adempimenti analoghi debbano avvenire con modalità differenti; e posto che vale anche per la parte
resistente (o appellata) la ratio che indurrebbe a prevenire una analoga eccezione di
incostituzionalità, traente base (artt. 3 e 24 Cost.) dalla considerazione che è irrazionale
assoggettare il deposito di un ricorso - e degli atti relativi ai fini della costituzione delle parti - a
un'unica modalità, consistente nella presentazione personale brevi manu, essendo il processo
tributario ispirato al modello della semplificazione delle attività processuali (così C. cost. n.
520/2002) ed essendo l'uso dei mezzi di trasmissione ampiamente ammesso nel sistema dei processi
civili e amministrativi proprio per la costituzione in giudizio e il deposito di atti e documenti (v. gli
D.P.R. n. 123 del 2001, artt. 9 e 18, sulla disciplina dell'uso degli strumenti informatici e telematici
nel processo civile, amministrativo e contabile; v. soprattutto l'art. 134 att. c.p.c., circa le possibilità
di consegna del ricorso e del controricorso in cassazione giustappunto a mezzo posta).
Consegue la necessità di attuare un'esegesi delle disposizioni del processo (anche) tributario che sia
idonea a garantire, per tale via, la tutela delle parti in posizione di parità, e che consenta di evitare la
frapposizione di ostacoli non giustificati da preminenti interessi pubblici rispetto alla funzione assegnata al processo - di generale tutela di situazioni soggettive (v. per la reiterata affermazione di
simili concetti, C. cost. n. 522/2002; n. 63/1977; n. 214/1974; n. 113/1963); ostacoli destinati a
culminare in irragionevoli sanzioni di inammissibilità (v. al riguardo C. cost.
n. 189/2000). Una esegesi siffatta impone di affermare - come unica prospettiva costituzionalmente
compatibile - il principio che anche la parte appellata può costituirsi in giudizio - e in tal modo
proporre appello incidentale - depositando l'atto di controdeduzioni o trasmettendolo in plico
raccomandato.
8/c. - Se tanto è, non può condividersi la conclusione dell'impugnata sentenza secondo la quale, ai
fini della tempestività della costituzione (e del conseguente appello incidentale), andrebbe fatto
comunque riferimento alla data di ricezione del plico da parte della segreteria del giudice ad quem.
Codesta conclusione, argomentata sul rilievo che manca una disposizione che, al riguardo, equipari
il momento di spedizione al momento di effettiva consegna (il deposito) dell'atto in segreteria, è
incongruente rispetto al generale principio che governa il rispetto di un termine di decadenza quanto
agli atti trasmessi per posta.
L'accoglimento oramai a livello di sistema (a partire da C. cost. n. 477/2002) del principio di
scissione degli effetti della notificazione, per il notificante, rispetto al notificato, allorquando venga
in gioco, appunto, il rispetto di un termine, impone come logica conseguenza di affermare che un
termine di tal genere è sempre rispettato in caso di tempestiva spedizione del plico, alla ovvia
condizione (qui pacificamente avverata) che l'atto pervenga (successivamente) al destinatario.
Il che d'altronde è confortato dal generale criterio normativo fissato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art.
16, comma 5, per ogni comunicazione o notificazione effettuata in seno al processo tributario a
mezzo del servizio postale.
9. - Fissati dunque i principi di diritto nel senso suesposto, anche il ricorso incidentale merita di
essere accolto.
Cosicchè pure in tale prospettiva l'impugnata sentenza va cassata con rinvio, affinchè la
commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa sezione, esamini nel merito altresì
dell'appello incidentale dell'agenzia delle entrate.
Il giudice di rinvio provvederà sulle spese del giudizio di cassazione.
PQM
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi tre motivi del ricorso principale e rigetta il quarto; accoglie il ricorso
incidentale; cassa l'impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del
giudizio di cassazione, alla commissione tributaria regionale della Lombardia.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 5 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2012
9. Cassazione civile, sez. trib., 08/05/2013, (ud. 28/11/2012, dep.08/05/2013), n. 10739
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRECO Antonio
- Presidente Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta
- Consigliere Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi
- rel. Consigliere Dott. CIGNA Mario
- Consigliere Dott. PERRINO Angelina Maria
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso n. 7834/09 proposto da:
Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore prò tempore, ex lege
domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l'Avvocatura
Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;
- ricorrente contro
Optima S.r.l., elettivamente domiciliata in Roma, via R. Romei n. 15,
presso lo Studio dell'avv. PESATURO ATTILIO, che la rappresenta e
difende anche disgiuntamente con l'Avv. Guglielmo Guerra giusta
procura speciale a margine;
- controricorrente e sul ricorso proposto da:
Optima S.r.l., elettivamente domiciliata in Roma, via R. Romei n. 15,
presso lo Studio dell'avv. Attilio Pesaturo, che la rappresenta e
difende anche disgiuntamente con l'Avv. Guglielmo Guerra giusta
procura speciale a margine;
- ricorrente incidentale contro
Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, ex lege
domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l'Avvocatura
Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;
- intimata avverso la sentenza n. 105/01/08 della Commissione Tributaria
Regionale dell'Emilia Romagna, depositata in data 15 dicembre 2008;
udita la relazione della causa svolta nella udienza del giorno 28
novembre 2012 dal Consigliere Dott. Ernestino Bruschetta;
udito l'Avv. dello Stato Marco La Greca, per la ricorrente Agenzia
delle Entrate;
udito l'Avv. Ludovica Pesaturo, in sostituzione dell'Avv. Attilio
Pesaturo, per la controricorrente Optima S.r.l.;
udite le conclusioni del P.M. nella persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha chiesto l'accoglimento del
ricorso, in subordine l'accoglimento del ricorso p.q.r., assorbito
l'incidentale.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 105/01/08 depositata in data 15 dicembre 2008 la Commissione Tributaria
Regionale dell'Emilia Romagna - in parziale riforma della decisione della Commissione Tributaria
Provinciale di Rimini n. 199/01/06 depositata in data 30 ottobre 2006 - annullava l'avviso di
accertamento n. (OMISSIS) IRPEG ILOR 2003 emesso dalla territoriale Agenzia delle Entrate nei
confronti della contribuente Optima S.r.l. nella parte in cui venivano ripresi a tassazione costi per
Euro 200.000 relativi al pagamento del marchio "Il cono d'oro" ritenuti dall'Ufficio indeducibili
perchè eccessivi oltrechè maggiori redditi per complessivi Euro 557.566,23 relativi ad "abbuoni" a
beneficio di controllate estere ritenuti non veritieri.
Secondo la CTR, con riguardo allaa ripresa a tassazione di Euro 200.000, l'Amministrazione non
aveva dato dimostrazione del minor valore del marchio "Il cono d'oro". Una dimostrazione che non
potevasi ricavare dalle sole allegate circostanze che il marchio, inventato solo tre mesi prima, non
fosse ancora stato registrato e pubblicizzato o anche dalle contrarie affermazioni di imprese
concorrenti. Con riguardo alla ripresa a tassazione di Euro 557.566,23 - ricondotta alla fattispecie
cosiddetta di transfer pricing - dalla CTR si riteneva che l'Amministrazione non avesse dimostrato il
regime fiscale di maggior favore dei Paesi esteri sede delle controllate. E, questo, perchè
l'ammontare degli sconti praticati alle controllate estere era da considerarsi plausibile e perchè
l'Amministrazione non aveva allegato il "valore normale" delle cessioni e mentre doveva
considerarsi "inconferente" la evidenziata sproporzione tra prezzi praticati a clienti e prezzi praticati
alle controllate.
Contro la sentenza della CTR, l'Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione affidato a
quattro motivi.
La contribuente resisteva con controricorso, a sua volta proponeva ricorso incidentale condizionato
affidato a due motivi.
Contro il ricorso incidentale condizionato, l'intimata Agenzia delle Entrate non presentava difese.
La contribuente si avvaleva della facoltà di presentare memoria.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Ex art. 335 c.p.c., riunisce i ricorsi principale e incidentale condizionato.
2. Col primo motivo di ricorso l'Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell'art. 360
c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt.
9 e 75, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, artt. 4 e 5, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, e
dell'art. 2697 c.c..
L'Agenzia delle Entrate, a riguardo, deduceva che la CTR era incorsa in errore addossando
all'Amministrazione l'onere della dimostrazione del "valore adeguato del costo" relativo al
pagamento del marchio "Il cono d'oro". Secondo l'Agenzia delle Entrate, difatti, l'Amministrazione
non poteva esser "tenuta a provare il valore normale del bene". E, ciò, particolarmente nel caso in
esame, "in cui era impossibile Enucleare criteri analitici di determinazione del valore normale della
transazione". Cosicchè avrebbero dovuto esser considerati "sufficienti" i "precisi elementi indiziari
circa la sussistenza di una rilevante divergenza tra il valore esposto in bilancio e valore effettivo",
forniti dall'Amministrazione, per ritenere che al contribuente spettasse "l'onere di provare l'inerenza
del costo o di parte di esso, fornendo tutti gli elementi atti a supportare la deducibilità". La
illustrazione del motivo terminava con il quesito: "se - in una fattispecie in cui l'Amministrazione
finanziaria abbia ripreso a tassazione ai fini IRPEG, IRAP e IVA i costi sostenuti per la cessione in
via esclusiva dell'uso di un marchio sostenendone l'evidente sproporzione rispetto al valore effettivo
- incorra nella violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 75 e 9, D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 4 e 5,
D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, e art. 2697 c.c., la sentenza della CTR la quale affermi che
l'Amministrazione finanziaria sia tenuta a provare il valore normale del bene, mentre le anzidette
disposizioni debbono essere correttamente interpretate nel senso che la stessa amministrazione
debba esclusivamente fornire precisi elementi indiziari circa la sussistenza di una rilevante
divergenza tra il valore esposto in bilancio e valore effettivo ovvero di un comportamento contrario
a criteri di coerenza e razionalità economica; in tale ipotesi, spetta al contribuente l'onere di provare
l'inerenza del costo o di parte di esso".
Il motivo è fondato.
Questa Corte, a riguardo, rammenta la sua costante giurisprudenza orientata nell'interpretare il
D.P.R. n. 917 del 1973, art. 75, comma 4, testo applicabile ratione temporis, nel senso che, poichè
trattasi di provare una deduzione, spetta al contribuente ex art. 2697 c.c., dimostrare, quando
l'Ufficio abbia dato conto di taluni elementi di irrealtà del valore dedotto, l'ammontare delle spese
per beni o servizi da dedursi (Cass. n. 19489 del 2010; Cass. n. 9917 del 2008). E, nel caso
concreto, l'Amministrazione aveva evidenziato come la novità del marchio, oltrechè l'assenza di
spesa pubblicitaria a sostegno dello stesso, ecc., deponessero nel senso della eccessività del costo dedotto a titolo di pagamento della privativa. La CTR, quindi, non ha correttamente applicato le
disposizioni, laddove, dal mancato assolvimento di un inesistente onere della prova posto a carico
dell'Amministrazione, ha fatto derivare la deducibilità del costo.
3. Col secondo motivo la sentenza è stata censurata à sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per
insufficiente motivazione circa la inesistenza di una rilevante divergenza tra il pagamento di Euro
200.000 del marchio e il valore "reale" dello stesso, senza alcuna considerazione per gli elementi
allegati dall'Amministrazione come, ad es., l'esser stato il marchio appena realizzato e non ancora
registrato e oltrechè per il fatto che non era stata sostenuta alcuna spesa per pubblicità.
Il motivo è da ritenersi assorbito dall'accoglimento del primo.
4. Col terzo motivo di ricorso l'Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell'art. 360
c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma
5, e del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 4 e 5. Secondo l'Agenzia delle Entrate, difatti, la CTR aveva
errato nel ritenere che, in materia di transfer pricing, regolata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76,
comma 5, testo applicabile ratione temporis, l'Amministrazione fosse anche tenuta all'onere della
dimostrazione della esistenza di un regime di miglior favore fiscale dei Paesi esteri in cui hanno
sede le altre Società del Gruppo. La circostanza del miglior regime fiscale, sempre secondo
l'Agenzia delle Entrate ricorrente, era, invece, da ritenersi estranea alla fattispecie del transfer
pricing, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, "Ciò in quanto la disposizione in esame
ha la finalità non già di valutare il carico fiscale complessivo gravante sull'operazione infragruppo,
ma piuttosto di procedere a una corretta determinazione del reddito imponibile allocabile in Italia".
L'illustrazione del motivo si concludeva col quesito: "se - in fattispecie in cui l'Amministrazione
abbia ripreso a tassazione ai fini IRPEG e IRAP i maggiori ricavi in capo a Società di capitali
derivanti da operazioni intercorse con Società controllate estere in applicazione del criterio del
valore normale di mercato dei beni oggetto di scambio in applicazione dell'art. 76, comma 5, cit.
T.U.I.R., incorra nella violazione di tale disposizione (e, conseguentemente del D.Lgs. n. 446 del
1997, artt. 4 e 5) la sentenza della CTR la quale affermi che l'Amministrazione finanziaria sia tenuta
a provare che in Italia viga un carico fiscale maggiore rispetto a quello del Paese di residenza delle
Società controllate con cui sono intercorse le operazioni, in quanto l'anzidetto art. 76, comma 5, cit.
T.U.I.R. deve esser correttamente interpretato nel senso che l'aspetto della potenziale elusività
complessiva dell'operazione non riveste alcuna rilevanza ai fini dell'applicazione dell'anzidetta
disposizione, soggiacendo le operazioni infragruppo unicamente al rispetto del valore normale".
Il motivo è fondato.
Deve esser preliminarmente evidenziato come il cosiddetto transfer pricing costituisca, dal lato
economico, un'alterazione del principio della libera concorrenza. E questo nel senso che transazioni
tra Società appartenenti ad uno stesso Gruppo, ma con sede in Paesi diversi, avvengono per prezzi
che non hanno corrispondenza con quelli praticati in regime di libero mercato. Il fenomeno, quindi,
da luogo ad uno spostamento di imponibile fiscale. E, pertanto, permette di sottrarre imponibile a
Stati con maggiore fiscalità. Cosicchè, proprio allo scopo di preservare la esatta pretesa impositiva
di ciascuno Stato, sono state adottate normative nazionali predisposte a eliminare il fenomeno
stesso del transfer pricing. Normative che recepiscono il principio del prezzo normale delle
transazioni commerciali, contenuto nel Modello OCSE art. 9, comma 1, Convenzione del 1995.
Principio recepito anche in Italia, nel testo applicabile ratione temporis, dal D.P.R. n. 917 del 1986,
art. 76, comma 5. La disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, prescinde dalla
dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale. Se si vuole, la disciplina in parola rappresenta
una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale
ragione, non occorre dimostrare. E questo, appunto, perchè la disciplina di che trattasi è rivolta a
reprimere il fenomeno economico in sè. Difatti, tra gli elementi costitutivi della fattispecie
repressiva del transfer pricing di cui dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, non si rinviene
quello della maggiore fiscalità nazionale. Non occorre, si ripete, provare la elusione. E' pertanto
necessario, da parte dell'Amministrazione, soltanto dimostrare l'esistenza di transazioni tra imprese
collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui
all'art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da
considerarsi normali à sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3. Disposizione per la quale,
come noto, son da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati "in condizioni di libera
concorrenza" con riferimento, "in quanto possibile", a listini e tariffe d'uso. Ciò che, quindi, non
esclude altri mezzi di prova documentali (Cass. n. 11949 del 2012; Cass. n. 7343 del 2011). La
CTR, quindi, non ha correttamente interpretato la disciplina, quando ha preteso
dall'Amministrazione la prova dell'elusione e particolarmente la prova di una fiscalità di favore
della legge straniera e della anormalità dei prezzi di transazione intergruppo.
5. Col quarto motivo di ricorso, l'Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell'art. 360
c.p.c., comma 1, n. 5, per insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia,
questo rappresentato dalla prova del valore normale dei beni ceduti relativamente alla fattispecie
cosiddetta di transfer pricing, che il giudice di merito illogicamente non avrebbe ritenuta assolta
nonostante gli indizi portati dall'Amministrazione, come p.es.
l'ammontare degli abbuoni.
Il motivo è assorbito dall'accoglimento del terzo.
6. Col primo motivo di ricorso incidentale, condizionato all'"accoglimento del secondo motivo del
ricorso" principale, la contribuente censurava la sentenza à sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,
per "omessa/insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso". La contribuente, a
riguardo, deduceva che la CTR aveva erroneamente riconosciuto all'Amministrazione la possibilità
di non riconoscere i costi "con riferimento a scostamenti evidenti e del tutto irrazionali". Fatto
decisivo e controverso doveva quindi intendersi quello "degli elementi sufficienti a sostenere la
razionalità" del costo del marchio "Il cono d'oro". Elementi che la contribuente affermava di aver
fornito.
Il motivo è da rigettarsi, intanto, perchè condizionato all'accoglimento del secondo motivo del
ricorso principale, rimasto, però, assorbito. Peraltro, col motivo in esame, non viene in realtà
censurato un vizio di motivazione. Bensì, inammissibilmente, si censura un error in iudicando
consistente in thesi nell'aver la CTR ritenuto che l'Amministrazione potesse sindacare il costo del
marchio "con riferimento a scostamenti evidenti e del tutto irrazionali" (Cass. n. 7394 del 2010;
Cass. n. 4178 del 2007).
7. Col secondo motivo del ricorso incidentale, "condizionato all'accoglimento dei motivi n. 3 e/o 4
del ricorso" principale, la contribuente censurava la sentenza à sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n.
4, per violazione dell'art. 112 c.p.c., per non aver statuito sulla eccezione circa l'inesistenza del
"rapporto di controllo" tra la contribuente e le Società straniere con le quali erano avvenute le
transazioni. L'argomentazione del motivo terminava col quesito: "se - in una fattispecie in cui l'AF
abbia ripreso a tassazione ai fini IRPEG e IRAP i maggiori ricavi in capo a società di capitali da
operazione intercorse con società controllate estere in applicazione dell'art. 76, comma 5, cit.
T.U.I.R., incorra nel vizio di omessa pronuncia e, quindi, nella violazione dell'art. 112 c.c., la
sentenza della CTR la quale, a fronte dell'eccepita carenza di prova in ordine: - alla sussistenza di
un rapporto di controllo; - alla costituzione in forma societaria di acquirenti straniere; ometta di
pronunciarsi sul fatto specifico trattandosi al contrario di una questione preliminare e decisiva
essendo il concetto di controllo un presupposto soggettivo della applicabilità della norma sopra
citata, che deve essere correttamente interpretata nel senso che solo le operazioni tra società
residenti e società estere (con esclusione quindi di entità non costituite sotto tali forme) nelle quali
la prima eserciti un potere di controllo a norma dell'art. 2359 c.c., possono esser oggetto di ripresa a
tassazione laddove venga secondariamente dimostrato il mancato rispetto del valore normale quale
stabilito dall'art. 9 del cit. T.U.I.R.".
Il motivo è inammissibile, giacchè con lo stesso, in realtà, viene messa in discussione
l'interpretazione giuridica del "concetto di controllo" adottata dalla CTR. La quale ultima ha
implicitamente ritenuto l'esistenza del controllo societario, senza omissioni di pronuncia sul punto,
tanto che il ricorso della contribuente venne in effetti accolto sulla errata giuridica considerazione
che l'Amministrazione non aveva provato il regime fiscale di maggior favore nè la anormalità dei
prezzi praticati. Ciò che, invero, presuppone l'esistenza del "gruppo" societario.
8. Non essendo necessario accertare altri fatti, la causa può decidersi nel merito col rigetto del
ricorso proposto dalla contribuente avverso l'atto fiscale.
9. Compensa le spese dei gradi di merito, condanna la contribuente a rimborsare le spese del
presente, liquidate come in dispositivo.
PQM
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, rigetta quello incidentale, cassa
l'impugnata sentenza, e, decidendo nel merito, respinge il ricorso della contribuente Optima S.r.l.,
per la parte qui all'esame, proposto contro l'avviso di accertamento n. (OMISSIS) IRPEG ILOR
2003; compensa integralmente le spese del merito, condanna la contribuente a rimborsare
all'Agenzia delle Entrate le spese del presente, che liquida in Euro 15.000,00 per compensi, oltre a
spese prenotate.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 28 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2013
10)Cassazione civile, sez. un., 19/06/2015, (ud. 12/05/2015, dep.19/06/2015), n. 12759 Vedi
massime correlate
Intestazione
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI
Luigi Antonio
- Primo Presidente f.f. Dott. CICALA
Mario
- Presidente di sez. Dott. RORDORF Renato
- Presidente di sez. Dott. RAGONESI Vittorio
- rel. Consigliere Dott. CURZIO
Pietro
- Consigliere Dott. DI IASI Camilla
- Consigliere Dott. DI BLASI Antonino
- Consigliere Dott. FRASCA
Raffaele
- Consigliere Dott. GIUSTI
Alberto
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso 11778-2014 proposto da:
MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro protempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,
presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e
difende ope legis;
- ricorrente contro
BASF POLIURETANI ITALIA S.P.A. (già Elastogran Italia s.p.a.), in
persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 30, presso lo studio dell'avvocato
GIZZI FABRIZIO, rappresentata e difesa dall'avvocato MARINO GIUSEPPE,
per delega in calce al controricorso;
- controricorrente per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n.
4372/2012 della COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE di ROMA;
uditi gli avvocati Antonio GRUMETTO dell'Avvocatura Generale dello
Stato, Giuseppe MARINO; è altresì presente l'avvocato Fabrizio
GIZZI;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
12/05/2015 dal Consigliere Dott. VITTORIO RAGONESI;
lette le conclusioni scritte del Procuratore Generale Aggiunto dott.
CICCOLO Paolo il quale chiede che le Sezioni Unite della Corte di
cassazione rigettino il ricorso.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data 17 novembre 2009 Basf Poliuretani Italia S.p.a. (già Elastogran Italia S.p.a.) e Basf
Interservice S.r.l. (oggi Basf Italia S.p.a. con socio unico, già Bast Italia S.r.l.) - società appartenenti
al Gruppo chimico internazionale Basf e che, a partire dal 2004, avevano optato per il regime del
consolidato fiscale nazionale - ricevevano l'avviso di accertamento n. (OMISSIS) (c.d. di primo
livello) notificato dall'Agenzia delle Entrate direzione regionale del Piemonte e contenente, tra
l'altro, la contestazione di presunti costi non inerenti, D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 109, comma 5,
per un ammontare di Euro 755.669,00, scaturenti da rapporti intersocietari instaurati tra l'allora
Elastogran Italia Sp.a. e Basf AG, anch'essa avente sede in (OMISSIS).
Alla notifica del suddetto atto, faceva seguito, in data 17 dicembre 2009, quella dell'avviso
accertamento di "secondo livello" n. (OMISSIS), impugnato dalle predette società dinanzi alla
Commissione Tributaria provinciale di Milano.
Nei confronti della descritta rettifica fiscale, in data 8 gennaio 2010 Basf Poliuretani S.p.a. e l'allora
Basf Interservice s.r.l., oggi Basf Italia S.p.a. presentavano istanza di accertamento con adesione e
tale procedimento si concludeva con esito positivo, avendo le medesime società e l'ufficio,
raggiunto un accordo sui rilievi contestati e, di conseguenza firmato l'atto di adesione, senza
tuttavia, addivenire al perfezionamento dello stesso, atteso il mancato versamento di quanto
pattuito.
Nel frattempo, in considerazione del fatto che la rettifica fiscale sollevata determinava un fenomeno
di doppia impostazione tra la Germania e l'Italia, il 23 dicembre 2009 Basf Poliuretani S.p.a. e,
successivamente, l'8 marzo 2011, Basf Interservice s.r.l., presentavano apposita istanza al Ministero
dell'economia e delle finanze - Direzione relazioni internazionali - di avvio della procedura
amichevole ex art. 6 della Convenzione europea sull'arbitrato (n. 90/436/CEE del 23 luglio 1990),
al fine di dirimere la situazione di doppia imposizione originatasi. Pertanto, con la presentazione, in
data 28 gennaio 2010, di copia del pool partner agreement, richiesta dallo stesso Ministero, si
avviava la citata procedura amichevole, confermata da una nota ministeriale che dava evidenza
della tempestiva presentazione dell'istanza e, quindi, della corretta instaurazione della procedura.
La Bsf Poliuretani Italia S.p.a. (già Elastogran Italia S.p.a.) e la Basf Interservice S.r.l. (oggi Basf
Italia S.p.a., con socio unico, già Basf Italia S.r.l.) recependo le indicazioni fornite dall'Agenzia
delle Entrate, con istanza depositata all'udienza del 15 giugno 2011, celebrata dinanzi Commissione
Tributaria Provinciale di Milano, e relativa al giudizio avverso il citato avviso di accertamento
IRES di "secondo livello " dichiaravano di rinunciare al ricorso e di optare per la procedura
arbitrale prevista dalla Convenzione n. 90/436/CEE, evidenziando oltremodo che tale rinuncia non
potesse essere considerata acquiescenza alle pretese impositive del Fisco, bensì come scelta di
procedura alternativa al contenzioso tributario. Per queste ragioni, il giudice adito dichiarava - con
sentenza n. 261/24/2011 depositata addì 27 luglio 2011 - l'estinzione del giudizio per cessata
materia del contendere.
In data 21 dicembre 2011, la società istante nonchè la Basf Italia S.P.A. ricevevano la
comunicazione di diniego/revoca della procedura arbitrale de qua prot. N. 10234/2011/DF/DRI da
parte del Ministero dell'economia e delle finanze. Questi informava i predetti contribuenti
dell'impossibilità di proseguire la procedura amichevole essendone venuti meno i presupposti, e ciò
sull'assunto che sarebbe stato perfezionato l'accertamento con adesione nei confronti dell'atto
impositivo per cui è causa. Di conseguenza, ad avviso del Ministero, sarebbe mutata la situazione
originaria posta a base della richiesta di applicazione dell'art. 6 della citata Convenzione e la
fattispecie in esame non avrebbe più potuto essere oggetto di controversia.
La società BASF Poliuretani Italia spa odierna controricorrente impugnava innanzi alla
Commissione tributaria provinciale di Roma ( RG 4732/12) tale comunicazione, deducendo, in via
preliminare, l'immediata impugnabilità della richiamata nota ministeriale, quale diniego di
agevolazione o di rigetto di domanda di definizione agevolata di rapporti tributari.
Di poi, nel merito, contestava la legittimità del provvedimento di diniego di attuazione della
procedura amichevole, stante il mancato perfezionamento dell'accertamento di adesione.
Con atto di controdeduzioni, deposito addì 2 luglio 2012, si costituiva in giudizio il Ministero
dell'economia e delle finanze eccependo che la conclusione della procedura di accertamento con
adesione precludeva alla società la richiesta di apertura della procedura amichevole e, comunque,
l'insussistenza della giurisdizione italiana in relazione alla predetta comunicazione in quanto
emanata da esso Ministero nella sua vesta di autorità competente italiana nell'ambito della
procedura amichevole.
Proponeva, quindi, l'odierno ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione,illustrato con
memoria, cui ha resistito con controricorso la società BASF Poliuretani Italia spa.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l'unico motivo di regolamento, il ricorrente Ministero deduce, in primo luogo, che la
Convenzione europea di arbitrato non rientra nella nozione del "diritto derivato" dell'Unione
europea, in quanto l'atto in questione è una convenzione internazionale multilaterale, soggetta alle
regole proprie dei trattati internazionali, e non a quelle dell'ordinamento comunitario.
Il Ministero ricorrente assume che la procedura amichevole di cui a detta convenzione si fonda su
preminenti interessi pubblici degli Stati che vi partecipano in quanto investe la potestà impositiva
degli stessi nè la circostanza che l'accordo, una volta assunto, svolgerà specifici effetti nei confronti
del contribuente può modificare tale situazione giuridica. I negoziati si svolgono infatti
esclusivamente fra le autorità competenti degli Stati sottoscrittori, rimanendo in capo alle imprese
coinvolte nel caso un mero diritto d'informazione sugli sviluppi della procedura .Non potrebbe,
quindi, sussistere sindacato giurisdizionale interno, in quanto esso costituirebbe un'interferenza
sulla sovranità degli Stati e violazione del ben noto principio dell'immunità.
La nota oggetto di gravame, in conclusione, non costituirebbe un provvedimento amministrativo
riconducibile ai moduli tipici di attuazione del tributo.
Contesta tali affermazioni la società contro ricorrente sostenendo che la materia oggetto del
contendere non riguarda atti adottati dallo Stato estero, bensì un provvedimento di diniego assunto
dall'autorità amministrativa italiana competente, che esclude la possibilità di accedere alla
"procedura amichevole" in ragione dell'asserita verificazione di una circostanza ostativa, quale
l'intervenuto accertamento con adesione (a suo dire, comunque inefficace per mancata esecuzione).
Invoca, a tale proposito, la normativa nazionale e sovranazionale che garantisce il diritto di difesa al
soggetto privato e sostiene l'impugnabilità dell'atto de quo dinanzi al giudice tributario, in
applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19.
In particolare rileva che la tesi dell'Agenzia risulta incompatibile con il diritto UE ed in proposito
prospetta anche l'opportunità di rinvio pregiudiziale, ai sensi e per gli effetti dell'art. 267 del
T.F.U.E. alla Corte di giustizia dell'Unione europea, per violazione della Carta dei diritti
fondamentali dell'UE, nonchè del principio di leale collaborazione postulato all'art. 4, par. 3, commi
2 e 3 TFUE. Da ultimo, evidenzia come la tesi di parte ricorrente porterebbe alla conseguenza
assurda che non vi sarebbe alcun organo giurisdizionale nazionale o internazionale deputato a
valutare la legittimità dell'operato dell'autorità nazionale.
Il ricorso appare infondato.
La tesi del ricorrente secondo cui la "procedura amichevole" coinvolgerebbe esclusivamente gli
interessi pubblici degli Stati nell'esercizio della loro sovrana potestà impositiva ed escluderebbe
ogni possibile intervento dell'autorità giudiziaria nazionale appare infondata.
La Convenzione Europea di Arbitrato, c.d. "Convenzione Arbitrale", è stata conclusa dagli Stati
membri dell'Unione Europea il 23 luglio 1990 con lo scopo precipuo di risolvere i casi di doppia
imposizione internazionale "economica" connessi ad un solo particolare settore tributario: quello
dei "prezzi di trasferimento". Essa quindi ha un ambito di operatività specifico e ristretto rispetto
alle Convenzioni contro le doppie imposizioni normalmente stipulate, che si applicano viceversa
anche a tutte le altre forme di doppia imposizione riferibili alle varie tipologie di reddito.
Si aggiunge che il Consiglio dell'Unione Europea, su proposta della Commissione, nell'ottobre del
2002 ha istituito il Forum congiunto sui prezzi di trasferimento GTPF Joint Transfer Pricing Forum)
con il compito di fornire un supporto agli Stati Membri nello specifico settore e garantire la
efficiente e fattiva applicazione della Convenzione arbitrale per la risoluzione dei casi di doppia
imposizione scaturenti da rettifiche in materia di prezzi di trasferimento.
Tra le iniziative più rilevanti del JPTF vi è stata l'adozione di un "codice di condotta" nel 2004,
sostituito nel 2009 da una nuova versione, tuttora vigente, che reca talune indicazioni di dettaglio
finalizzate ad uniformare ed a rendere efficiente l'applicazione della Convenzione Arbitrale.
Fatte queste premesse, va rammentato che l'art. 6 della Convenzione attribuisce al contribuente
l'iniziativa di reclamare l'osservanza dei principi stabiliti art. 4 della convenzione in materia di
rettifica degli utili d'impresa, di fronte all'autorità competente dello Stato contraente indicata
nell'art. 3 della Convenzione in cui è residente o ha stabile organizzazione. Tale richiesta impegna
l'autorità competente a cercare un accordo con l'autorità dell'altro Stato al fine di evitare la doppia
imposizione. La richiesta in questione può essere effettuata , indipendentemente dai ricorsi previsti
dalla legislazione nazionale degli Stati contraenti interessati.
In caso di mancato raggiungimento di un accordo entro due anni dalla richiesta, l'articolo 7 ,comma
primo, della Convenzione prevede che le autorità competenti istituiscono una Commissione
consultiva che deve dare un parere sul modo di evitare la doppia imposizione.
L'art. 7 in questione disciplina poi nel dettaglio i rapporti con il contenzioso interno.
In particolare il secondo paragrafo dell'art. 7, comma 1 prevede che le imprese possono avvalersi
delle possibilità di ricorso previste dal diritto interno degli Stati contraenti interessati; tuttavia,
quando un tribunale è stato investito del caso, il termine di due anni di cui al primo comma decorre
dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione pronunciata in ultima istanza nell'ambito di tali
ricorsi interni.
Il comma 2 dell'art. in questione stabilisce poi che " il fatto che la commissione consultiva sia stata
investita del caso non impedisce a uno Stato contraente di avviare o continuare, per il medesimo
caso, azioni giudiziarie o procedure per l'applicazione di sanzioni amministrative.
A sua volta il comma 3 statuisce che qualora la legislazione interna d'uno Stato contraente non
consenta alle autorità competenti di derogare alle decisioni delle rispettive autorità giudiziarie, il
par. 1 si applica soltanto se l'impresa associata di tale Stato ha lasciato scadere il termine di
presentazione del ricorso o ha rinunciato a quest'ultimo prima che sia intervenuta una decisione.
Questa disposizione lascia impregiudicato il ricorso, laddove questo riguarda elementi diversi da
quelli di cui all'art. 6.
Dalle disposizioni in esame si evince complessivamente il principio generale, salvo le eccezioni
previste, secondo cui il procedimento di accordo amichevole tra gli Stati non impedisce il
contemporaneo svolgimento delle azioni giudiziarie relative alle imposizioni innanzi agli organi
giudiziari nazionali.
Ciò posto, alla luce di quanto evidenziato, deve ritenersi che nell'ambito della procedura
amichevole ai sensi dell'art. 6 della Convenzione Arbitrale i due Stati non agiscono "iure
privatorum", bensì nell'ambito della propria potestà d'imperio in materia tributaria.
La Procedura Amichevole in esame si fonda infatti su preminenti interessi pubblici degli Stati che
vi partecipano in quanto investe la potestà impositiva degli stessi ed i negoziati si svolgono
esclusivamente tra le Autorità Competenti degli Stati sottoscrittori della Convenzione e l'accordo
amichevole viene sottoscritto e adottato esclusivamente da questi.
Ciò posto, resta però estranea alla presente controversia la questione prospettata
dall'Amministrazione se possa essere riconosciuta al Giudice nazionale la cognizione e la
delibazione del contenuto di tali atti e accordi, perchè - secondo la sua tesi - ciò costituirebbe una
interferenza della sovranità di uno Stato nei confronti dell'altro.
Nel caso in esame infatti la procedura amichevole non ha in effetti avuto corso dal momento che
con le due comunicazioni del Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanze,
Direzione Relazioni Internazionali, cioè la nota prot. 10234 del 21-12-2011, oggetto di gravame,
nonchè la precedente nota prot. 3474 del 21-4- 2011 oggetto dell'impugnazione innanzi alla
Commissione tributaria, l'Autorità italiana ha negato alla società richiedente di poter dar corso alla
procedura amichevole.
Come rilevato dal Procuratore generale, le cui conclusioni queste Sezioni unite condividono,
occorre tenere distinta la fase prodromica oggetto del ricorso relativa alla presentazione dell'istanza
di apertura della procedura amichevole ed alla valutazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi di
ammissibilità, che si svolge tutta nell'ambito del diritto interno (come può chiaramente evincersi dai
citati art. 6 e 7 della Convenzione e come confermato dalla circolare dell'Agenzia delle entrate
5/6/2012 n. 21 punto 5.8.) da quella successiva - il confronto fra le autorità competenti - nella quale
il contribuente non svolge un ruolo attivo ma è tenuto a prestare la propria collaborazione
descrivendo puntualmente il caso e fornendo sollecitamente le informazioni supplementari
eventualmente richieste (art. 10 Conv. punto 5.9 circolare).E' di palese evidenza, quindi, che le
questioni che possono insorgere nella prima fase - come nel caso di specie quella relativa agli effetti
dell'istanza di adesione non attuata - non possono essere aprioristicamente sottratte alla valutazione
giurisdizionale di organo giudiziario. E questo non può che essere il giudice dello Stato ove l'istanza
viene proposta, giacchè la Commissione consultiva si limita a dare un parere sul modo di eliminare
la doppia imposizione.
Resta da dire che l'impugnabilità della nota in questione non risulta esclusa - come sostiene
l'Amministrazione - dall'art. 7, comma 3 della Convenzione che esclude la possibilità di ricorso
innanzi al giudice nazionale qualora la legislazione interna d'uno Stato contraente non consenta alle
autorità competenti di derogare alle decisioni delle rispettive autorità giudiziarie in quanto nel caso
di specie la conclusione dell'accertamento con adesione risulta contestato onde sarà il giudice
investito della controversia a valutare l'esistenza o meno di tale circostanza.
Quanto al giudice italiano avente giurisdizione non è dubbio che sia quello tributario, vertendosi in
materia di tributi.
E' ben nota la giurisprudenza di questa Corte che ha ripetutamente affermato che, l'elencazione
degli atti impugnabili contenuta nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19 ha natura tassativa, ma
non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti, ove con gli stessi l'Amministrazione porti a
conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, esplicitandone le ragioni fattuali
e giuridiche, siccome è possibile un'interpretazione estensiva delle disposizioni in materia in
ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon
andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell'allargamento della
giurisdizione tributaria operato con la L. 28 dicembre 2001, n. 448. (Cass 17010/12).
Da ciò discende che ogni atto adottato dall'ente impositore che porti, comunque, a conoscenza del
contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e
giuridiche, è impugnabile davanti al giudice tributario, senza necessità che si manifesti in forma
autoritativa, e tale impugnazione va proposta davanti al giudice tributario, in quanto munito di
giurisdizione a carattere generale e competente ogni qualvolta si controversa di uno specifico
rapporto tributario (Cass 7344/12).
Nel caso di specie non è dubbio che il diniego di dare corso alla procedura amichevole comporta
che la società resistente sarebbe soggetta ad una doppia imposizione in Italia ed in Germania,
venendo quindi a dovere versare nel nostro Paese un tributo maggiore di quanto altrimenti dovuto in
caso di raggiungimento di un accordo tra i due Stati nell'ambito della procedura amichevole.
Da qui l'impugnabilità delle note in questione.
In ragione della decisione assunta, che investe prevalenti aspetti di diritto nazionale, non risulta
necessario alcun rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 T.F.U.E. restando quindi impregiudicata
la questione se in materia sussista o meno la competenza della Corte di Giustizia in relazione alla
esaminata Convenzione.
Il ricorso va in conclusione respinto dovendosi dichiarare la giurisdizione del giudice italiano, nella
specie della Commissione tributaria. Segue alla soccombenza la condanna al pagamento delle spese
di giudizio liquidate come da dispositivo.
PQM
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice italiano (Commissione tributaria) e condanna
l'amministrazione al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 3000,00 oltre Euro 200,00
per esborsi ed oltre spese forfettarie ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 12 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2015