Diapositiva 1 - Arcipelago itaca

Transcript

Diapositiva 1 - Arcipelago itaca
letterature, visioni ed altri percorsi
ideatore e curatore: Danilo Mandolini
AVVERTENZA.
“Arcipelago itaca” blo-mag è un’iniziativa resa disponibile nel solo formato digitale e
distribuita via e-mail e tramite internet (www.arcipelagoitaca.it), a circa 1.000 tra
associazioni ed operatori culturali, riviste di letteratura e non, critici, scrittori ed
estimatori vari.
“Arcipelago itaca” blo-mag non è da considerarsi una testata giornalistica in quanto non
ha periodicità e non può pertanto essere ritenuta un prodotto editoriale ai sensi della
legge n. 62 del 07.03.2001.
Testi ed immagini contenuti in “Arcipelago itaca” blo-mag sono riprodotti, quando
possibile e per lo più, previo espresso consenso dei relativi autori (sono sempre e in ogni
caso citati gli autori e/o le fonti di reperimento).
Arcipelago itaca è un marchio registrato.
[…]
Ma ei non brama che veder dai tetti
sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,
e poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
Omero, Odissea - Libro I
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GRAND HOTEL IDOMENI
Lo scorso 23 maggio –
quando questa ventesima apparizione di “Arcipelago itaca” blo-mag vedeva l’inizio della sua lavorazione –
le autorità greche hanno ufficialmente dato il via alle operazioni di sgombero del campo profughi di Idomeni.
Questo: ancora nell’assoluta mancanza di chiarezza sulla sorte futura degli oltre ottomila ospiti
di questo luogo-non luogo nel tempo divenuto simbolo di razzismo, discriminazione e sofferenza.
http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/idomeni-profughi-migranti-bloccati-macedonia-grecia.aspx
Sedici immagini
liberamente raccolte sotto il titolo di GRAND HOTEL IDOMENI
– e rimandanti, con i relativi link, ad altrettanti articoli presenti sul web – e due scatti di Gordon Matta-Clark
commentano questa ventesima apparizione di
“Arcipelago itaca” blo-mag
In copertina
(http://tark.org.tr/europe-must-open-the-borders-1144/)
Echi
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
Guillaume Apollinaire
Da Calligrammes - Poèmes de la paix et de la guerre / 1913-1916
Traduzione di Norma Stramucci
Voci
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
Neapolitana membra di Vladimir D’Amora
Casa rotta di Valentina Maini
Con la nota di postfazione al volume di Stefano Colangelo
Impossibile ritorno di Lucilla Niccolini
Album di Claudio Salvi
Con “luoghi in attesa. O soltanto vuoti” di Giulio Mozzi
VETRINA SPECIALE
Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni.
Con contributi critici di Flavio Cogo e Simone Giusti
VETRINA
Abbonato al programma delle nuvole di Giampaolo De Pietro.
Con una nota di lettura di Danilo Mandolini
Echi
1 - 23
24 - 32
33 – X
33 - 42
43 - 50
51 - 61
62 - 82
83 - 97
Antologia dell’opera e della critica di e su:
Salvatore Ritrovato
SOLO INEDITI
Da Gabbie in codice di Antonio Bux
Da Liture di Riccardo Socci
Collage Jaroslav Seifert
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
Guillaume Apollinaire
Da Calligrammes - Poèmes de la paix et de la guerre / 1913-1916
Traduzione di Norma Stramucci
Voci
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
Neapolitana membra di Vladimir D’Amora
Casa rotta di Valentina Maini
Con la nota di postfazione al volume di Stefano Colangelo
Impossibile ritorno di Lucilla Niccolini
Album di Claudio Salvi
Con “luoghi in attesa. O soltanto vuoti” di Giulio Mozzi
VETRINA SPECIALE
Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni.
Con contributi critici di Flavio Cogo e Simone Giusti
VETRINA
Abbonato al programma delle nuvole di Giampaolo De Pietro.
Con una nota di lettura di Danilo Mandolini
Antologia dell’opera e della critica di e su:
98 - 145
146 - 151
152 - 157
158 - 159
Salvatore Ritrovato
SOLO INEDITI
Da Gabbie in codice di Antonio Bux
Da Liture di Riccardo Socci
Collage Jaroslav Seifert
Ventesima apparizione
http://www.ekathimerini.com/206959/article/ekathimerini/news/greek-opposition-leader-visits-idomeni
echi
http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/14/foto/migranti_cosi_passano_il_fiume_tra_grecia_e_macedonia135468138/1/#1
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
Da Calligrammes
Poèmes de la paix et de la guerre
1913-1916
di Guillaume Apollinaire
Traduzione di Norma Stramucci
ISTMI - Collana di traduzioni di opere in versi
€uro 16,00 - ISBN 978-88-99429-10-2
Il volume è composto da una scelta di trentadue componimenti
(testo originale e versione in italiano a fronte)
e da una nota introduttiva a cura della traduttrice.
Il libro è in formato 15 (base) x 21 cm (altezza),
consta di 144 pagine in carta Avorio Sahara g/mq 120
e di una copertina stampata in 4 colori su carta Acquerello Avorio g/mq 240.
A seguire
(oltre alla bio-bibliografia di Guillaume Apollinaire e di Norma Stramucci):
una selezione di dieci testi.
Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume
e alle modalità di acquisto dello stesso:
http://www.arcipelagoitaca.it/wpcontent/uploads/2016/08/scheda_da_calligrammes.pdf;
http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/
Guillaume Apollinaire
La vita
e le opere
1
Guillaume Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz
Apollinaris de Wąż-Kostrowicki, nacque a Roma il 26 agosto del 1880 e
morì a Parigi il 9 novembre del 1918.
Ebbe un’adolescenza turbolenta e con studi irregolari, trascorsa però
tra letture intensissime e numerosi viaggi.
Conobbe e frequentò molti artisti dell’avanguardia parigina di inizio
novecento. Tra questi: i poeti Giuseppe Ungaretti e Max Jacob e il
pittore Pablo Picasso. Partecipò attivamente alle discussioni sul
cubismo in gestazione. L'interesse per il moderno lo portò a sostenere
anche il Futurismo e la pittura metafisica di Giorgio De Chirico.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale scelse di arruolarsi come
volontario e combatté con il grado di Sottotenente. Nel 1916 venne
ferito ad una tempia e subì un delicato intervento chirurgico.
Nel luglio del 1918 sposò Jacqueline Kohl.
All’inizio di novembre di quello stesso anno si ammalò di influenza
spagnola. Il 9 novembre l’amico Giuseppe Ungaretti (che era accorso
per comunicargli la vittoria dell’Intesa) lo trovò in stato d'incoscienza,
e probabilmente già privo di vita, con accanto la moglie disperata.
Ricoverato d’urgenza all'ospedale italiano di Parigi, venne subito
dichiarato morto. È sepolto nel cimitero di Père Lachaise della capitale
francese.
Tra i numerosi lavori pubblicati nel corso della sua breve vita (si
occupò anche di narrativa, di teatro e di critica d’arte), Alcools (1913) e
Calligrammes. Poèmes de la paix et de la guerre 1913-1916 (1918) sono
considerati i suoi due capolavori in versi.
Tra le moltissime opere si ricordano,
per la poesia:
La vita
e le opere
•
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•
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Le Bestiaire ou cortège d’Orphée (1911);
Alcools (1913);
Poèmes à Lou (1915)
Vitam impendere amori (1917);
Calligrammes - Poèmes de la paix et de la guerre 1913-1916 (1918).
Pubblicazioni postume
•
•
•
•
La Poésie symboliste (1919);
Il y a (1925);
Poèmes secrets à Madeleine (1949);
Le Gu ninno cazzoetteur mélancolique (1952).
per la narrativa:
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•
•
•
•
2
Mirely ou le Petit Trou pas cher (1900);
Les Onze Mille Verges (1907);
L'Enchanteur pourrissant (1909);
L'Hérésiarque et Cie (novelle - 1910);
Le Poète assassiné (novelle - 1914);
Les Exploits d'un jeune Don Juan (1911);
La Rome des Borgia (1913);
La Fin de Babylone - L'Histoire romanesque 1/3 (1914);
Les Trois Don Juan - L'Histoire romanesque 2/3 (1915).
Pubblicazioni postume
•
La Femme assise (novelle - 1920).
per il teatro:
•
•
•
Les Mamelles de Tirésias(1917);
Couleurs du temps (1918);
Casanova (1918).
La nota introduttiva della traduttrice
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
Traducendo I Calligrammi di Apollinaire, nel rispetto dell’originale, al di là delle corrispondenze sintattiche
e semantiche, ho cercato nell’italiano le parole che più mi paressero ubbidire al senso di quanto non è
traducibile, quel filo d’anima che lega un granulo di significato all’altro granulo, ossia la stessa sostanza
poetica.
Nonostante l’apprezzamento espresso da Giovanni Raboni in una bella lettera (era il 2002):
A me sembra decisamente un buon lavoro, motivato da un atteggiamento di fondo giustamente non-esibizionistico
(capita molto spesso, a chi traduce ed è poeta in proprio…), ma non privo di soluzioni coraggiose […]
il timore di avere troppo osato è stato motivo di un’opera tenuta nel cassetto per ben più dei nove anni
raccomandati da Orazio. Ma Orazio, nella sua Ars poetica continua: Delere licebit quod non edideris. Ed io
distruggere non ho voluto. Ringrazio quindi Arcipelago itaca Edizioni, nella persona di Danilo Mandolini,
per avere dato l’opportunità alla mia voce di traduttrice di lanciarsi all’esterno, non tornando più indietro:
nescit vox missa reverti.
Propongo qui una scelta di trentadue componimenti (testo originale e versione in italiano a fronte) dove
l’intento dichiarato in apertura di questa nota credo abbia trovato l’occasione in assoluto migliore per
compiersi.
Dedico il mio lavoro (tutto e dunque anche quest’ultimo che “vede la luce” oggi) alla memoria di colui al
quale lo devo: il mio maestro – maestro anche di traduzione – Franco Scataglini.
Norma Stramucci, marzo 2016
3
***
I testi che seguono sono tratti da
Da Calligrammes - Poèmes de la paix et de la guerre / 1913-1916 di Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci
(Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016).
Selezione a cura di Danilo Mandolini
Da Calligrammes
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
4
Da ONDES
LES FENÊTRES
LE FINESTRE
Du rouge au vert tout le jaune se meurt
Quand chantent les aras dans les forêts natales
Abatis de pihis
Il y a un poème à faire sur l’oiseau qui n’a qu’une aile
Nous l’enverrons en message téléphonique
Traumatisme géant
Il fait couler les yeux
Voilà une jolie jeune fille parmi les jeunes Turinaises
Le pauvre jeune homme se mouchait dans sa cravate
[blanche
Tu soulèveras le rideau
Et maintenant voilà que s’ouvre la fenêtre
Araignées quand les mains tissaient la lumière
Beauté pâleur insondable violets
Nous tenterons en vain de prendre du repos
On commencera à minuit
Quand on a le temps on a la liberté
Bigorneaux Lotte multiples Soleils et l’Oursin du
[couchant
Une vieille paire de chaussures jaunes devant la
[fenêtre
Tours
Les Tours ce sont les rues
Puits
Dal rosso al verde tutto il giallo si spegne
Se cantano gli ara nelle loro finestre
Strazio di pihì
C’è da scrivere un poema sull’uccello che ha solo
[un’ala
Per telefono lo diffonderemo
Trauma enorme
Si piange per questo
Ecco una gaia ragazzina fra quelle di Torino
Il povero ragazzo soffiava il suo naso sulla cravatta
[bianca
Tu rimuoverai la tenda
E all’improvviso si apre la finestra
Ragni se le mani tessevano la luce
Bellezza pallore inconoscibili violetti
Inutilmente proveremo ad adagiarci nel riposo
Si comincerà a mezzanotte
Il tempo coincide con la libertà
Lumachine Lasca molteplici Soli e il Riccio del
[tramonto
Un paio di scarpe vecchie e gialle davanti alla finestra
Torri
Le torri sono strade
Pozzi
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
5
Puits ce sont les places
Puits
Arbres creux qui abritent les Câpresses vagabondes
Les Chabins chantent des airs à mourir
Aux Chabines marronnes
Et l’oie oua-oua trompette au nord
Où les chasseurs de ratons
Raclent les pelleteries
Étincelant diamant
Vancouver
Où le train blanc de neige et de feux nocturnes fuit
[l’hiver
O Paris
Du rouge au vert tout le jaune se meurt
Paris Vancouver Hyères Maintenon New-York et les
[Antilles
La fenêtre s’ouvre comme une orange
Le beau fruit de la lumière
Pozzi si fanno le piazze
Pozzi
Il cavo degli alberi che danno rifugio alle mulatte
[vagabonde
Gli Sciabini cantano a morirne
Per donne che ripudiano l’amore
E l’oca rimbomba col suo verso a nord
Dove si uccidono gli orsetti lavatori
Si raschiano le pelli
Diamante cristallino
Vancouver
Dove il treno bianco della neve e dei fuochi della notte
[fugge dall’inverno
O Parigi
Dal rosso al verde tutto il giallo si spegne
Parigi Vancouver Hyères Maintenon New York e le
[Antille
La finestra si apre come un’arancia
Il frutto pieno della luce
LUNDI RUE CHRISTINE
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
La mère de la concierge et la concierge laisseront tout
[passer
Si tu es un homme tu m’accompagneras ce soir
Il suffirait qu’un type maintînt la porte cochère
Pendant que l’autre monterait
Trois becs de gaz allumés
La patronne est poitrinaire
Quand tu auras fini nous jouerons une partie de
[jacquet
Un chef d’orchestre qui a mal à la gorge
Quand tu viendras à Tunis je te ferai fumer du kief
Ça a l’air de rimer
Des piles de soucoupes des fleurs un calendrier
Pim pam pim
Je dois fiche près de 300 francs à ma probloque
Je préférerais me couper le parfaitement que de les lui
[donner
6
Je partirai à 20 h. 27
Six glaces s’y dévisagent toujours
Je crois que nous allons nous embrouiller encore
[davantage
Cher monsieur
Vous êtes un mec à la mie de pain
Cette dame a le nez comme un ver solitaire
Louise a oublié sa fourrure
Moi je n’ai pas de fourrure et je n’ai pas froid
Le Danois fume sa cigarette en consultant l’horaire
Le chat noir traverse la brasserie
Ces crêpes étaient exquises
LUNEDÍ RUE CHRISTINE
Faranno finta di niente la portinaia e sua madre
Questa sera mi accompagnerai se sei un uomo
Sarà sufficiente che uno faccia la guardia al portone
Mentre l’altro sale
Sono accesi tre fornelli a gas
La padrona soffre di tubercolosi
Faremo una partita a tric-trac quando avrai finito
Ha mal di gola un direttore d’orchestra
Ti offrirò hashish da fumare quando verrai a Tunisi
Sembrano parole in rima
Una fila di piattini fiori e un calendario
Pim pam pim
Quasi 300 franchi devo dare d’affitto alla mia padrona
Preferirei tagliarmelo piuttosto che pagarla
Alle 20 e 27 partirò
In continuazione sei specchi si fissano
Mi sembra che stiamo a complicarci sempre di più
Caro signore
Siete un uomo che non vale due soldi
A un verme solitario assomiglia il naso di quella
[donna
Luisa ha dimenticato la pelliccia
Io non la indosso e non ho freddo
Il Danese fuma e controlla l’orario
Il gatto nero passa per la birreria
Erano buone queste frittelle
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
La fontaine coule
Robe noire comme ses ongles
C’est complètement impossible
Voici monsieur
La bague en malachite
Le sol est semé de sciure
Alors c’est vrai
La serveuse rousse a été enlevée par un libraire
La fontana gocciola
Nero il vestito come le unghie
Non è concepibile
Ecco signore
L’anello di malachite
C’è segatura per terra
E ciò dimostra che è vero
Un libraio ha rapito la cameriera rossa
Un journaliste que je connais d’ailleurs très
[vaguement
Un giornalista che conosco del resto molto poco
Jacques attento ti dirò cose essenziali
Écoute Jacques c’est très sérieux ce que je vais te dire
Compagnia di navigazione mista
Compagnie de navigation mixte
Il me dit monsieur voulez-vous voir ce que je peux
[faire d’eaux-fortes et de tableaux
Je n’ai qu’une petite bonne
7
Après déjeuner café du Luxembourg
Une fois là il me présente un gros bonhomme
Qui me dit
Écoutez c’est charmant
A Smyrne à Naples en Tunisie
Mais nom de Dieu où est-ce
La dernière fois que j’ai été en Chine
C’est il y a huit ou neuf ans
L’Honneur tient souvent à l’heure que marque la
[pendule
La quinte major
Mi disse guardi signore che cosa so fare in acqueforti e
[quadri
Io però ho solo una servetta
Dopo pranzo al caffè del Luxemburg
Una volta là mi fa incontrare un uomo grande e grosso
Che mi dice
Mi stia a sentire è divertente
A Smirne a Napoli in Tunisia
Ma dove mio Dio
Sono trascorsi otto o nove anni
Da quando sono stato l’ultima volta in Cina
L’Onore sta spesso nell’ora che segna il pendolo
La quinta maggiore
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
8
LE MUSICIEN DE SAINT-MERRY
IL MUSICANTE DI SAINT-MERRY
J’ai enfin le droit de saluer des êtres que je ne connais
[pas
Ils passent devant moi et s’accumulent au loin
Tandis que tout ce que j’en vois m’est inconnu
Et leur espoir n’est pas moins fort que le mien
E avrò pure il diritto di salutare la gente che mi è
[sconosciuta
Mi passa davanti e va tutta insieme lontano
Intanto tutto quello che vedo di lei mi è estraneo
Ma la sua speranza è forte quanto la mia
Je ne chante pas ce monde ni les autres astres
Io non canto questo mondo e neppure le altre stelle
Je chante toutes les possibilités de moi-même hors de
[ce monde et des astres
Io canto di ogni luogo che ho dentro al di là della terra
[e dei pianeti
Je chante la joie d’errer et le plaisir d’en mourir
Io canto la gioia di andarmene in giro e il piacere di
[morirne
Le 21 du mois de mai 1913
Passeur des morts et les mordonnantes mériennes
Des millions de mouches éventaient une splendeur
Quand un homme sans yeux sans nez et sans oreilles
Quittant le Sébasto entra dans la rue Aubry-le[Boucher
Jeune l’homme était brun et ce couleur de fraise sur
[les joues Homme Ah ! Ariane
Il jouait de la flûte et la musique dirigeait ses pas
Il s’arrêta au coin de la rue Saint-Martin
Jouant l’air que je chante et que j’ai inventé
Les femmes qui passaient s’arrêtaient près de lui
Il en venait de toutes parts
Lorsque tout à coup les cloches de Saint-Merry se
[mirent à sonner
Le musicien cessa de jouer et but à la fontaine
Il 21 maggio 1913
Nocchiero dei morti prostitute che danno piacere
[caduco
Milioni di mosche sventolavano fulgore
Quando un uomo che non aveva occhi naso e orecchie
Lasciando il Sébasto entrò in rue Aubry-le Boucher
Giovane e bruno e con il colore della fragola alle
[guance
Uomo Ah! Arianna
Suonava il flauto e la musica dirigeva i suoi passi
Si fermò all’angolo di rue Saint-Martin
Suonando l’aria che io canto e che ho inventato
Le donne che passavano gli si fermavano accanto
Ne arrivavano da ogni parte
Poi tutto a un tratto le campane di Saint-Merry si
[misero a disturbarlo
Il musicante smise di suonare e bevve alla fontana
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
Qui se trouve au coin de la rue Simon-Le-Franc
Puis Saint-Merry se tut
L’inconnu reprit son air de flûte
Et revenant sur ses pas marcha jusqu’à la rue de la
[Verrerie
Où il entra suivi par la troupe des femmes
Qui sortaient des maisons
Qui venaient par les rues traversières les yeux fous
Les mains tendues vers le mélodieux ravisseur
Il s’en allait indifférent jouant son air
Il s’en allait terriblement
Puis ailleurs
A quelle heure un train partira-t-il pour Paris
A ce moment
Les pigeons des Moluques fientaient des noix
[muscades
En même temps
Mission catholique de Bôma qu’as-tu fait du
[sculpteur
Ailleurs
Elle traverse un pont qui relie Bonn à Beuel et
[disparaît à travers Pützchen
9
Au même instant
Une jeune fille amoureuse du maire
Dans un autre quartier
Rivalise donc poète avec les étiquettes des
[parfumeurs
En somme ô rieurs vous n’avez pas tiré grand-chose
[des hommes
Che si trova all’angolo di rue Simon-Le-Franc
E dopo Saint-Merry fece silenzio
Lo sconosciuto riprese a suonare il flauto
E tornando indietro scese fino a rue de la Verreire
E vi entrò seguito dalla fila delle donne
Che uscivano dalle case
Giunte da vie traverse con gli occhi pazzi
Le mani protese al melodioso incantatore
Lui se ne andava incurante suonando la sua aria
Terribilmente procedeva
D’altronde in altro luogo
A quale ora un treno partirà per Parigi
In quel momento
Dai piccioni delle Molucche cadevano feci a noci
[moscate
Nello stesso momento
Missione cattolica di Bôma che ne hai fatto dello
[scultore
In un altro posto
Lei attraversa un ponte che unisce Bonn a Beuel e
[scompare mentre passa per Pützchen
In quell’istante preciso
Una giovane donna innamorata del sindaco
In un altro quartiere
Forza poeta fai a gara con le etichette dei profumieri
Insomma voi che beffeggiate granché dagli uomini
[non avete tirato fuori
Et à peine avez-vous extrait un peu de graisse de leur
[misère
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
Mais nous qui mourons de vivre loin l’un de l’autre
Tendons nos bras et sur ces rails roule un long train
[de marchandises
Tu pleurais assise près de moi au fond du fiacre
Et maintenant
Tu me ressembles tu me ressembles
[malheureusement
Nous nous ressemblions comme dans l’architecture
[du siècle dernier
Ces hautes cheminées pareilles à des tours
Solamente un po’ di grasso dalla loro miseria
Ma noi che ci consumiamo per vivere lontani l’uno
[dall’altro
Ci tendiamo le braccia e su questi binari corre un
[lungo treno merci
Piangevi sedutami accanto in fondo alla carrozza
E adesso
Che enorme sciagura tu mi assomigli
Noi due siamo uguali e come nell’edilizia dell’altro
[secolo
Quelle alte ciminiere simili a torri
Andiamo verso il cielo e non tocchiamo più terra
Nous allons plus haut maintenant et ne touchons plus
[le sol
Et tandis que le monde vivait et variait
Le cortège des femmes long comme un jour sans pain
Suivait dans la rue de la Verrerie l’heureux musicien
Cortèges ô cortèges
C’est quand jadis le roi s’en allait à Vincennes
Quand les ambassadeurs arrivaient à Paris
Quand le maigre Suger se hâtait vers la Seine
Quand l’émeute mourait autour de Saint-Merry
10
Cortèges ô cortèges
Les femmes débordaient tant leur nombre était grand
Dans toutes les rues avoisinantes
Et se hâtaient raides comme balle
Afin de suivre le musicien
E intanto che il mondo viveva e cambiava
La fila delle donne lunga quanto un giorno senza
[pane
In rue de la Verrerie camminava dietro al musicante
[festoso
Cortei o cortei
Come quando un tempo il re se ne andava a
[Vincennes
Quando gli ambasciatori arrivavano a Parigi
Quando il magro Suger s’affrettava verso la Senna
Quando la rivolta si spegneva attorno a Saint-Merry
Cortei o cortei
Le donne finivano per quante ne erano
In tutte le strade vicine
E sembravano pallottole tanto erano rapide
A seguire il musicante
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
Ah ! Ariane et toi Pâquette et toi Amine
Et toi Mia et toi Simone et toi Mavise
Et toi Colette et toi la belle Geneviève
Elles ont passé tremblantes et vaines
Et leurs pas légers et prestes se mouvaient selon la
[cadence
De la musique pastorale qui guidait
Leurs oreilles avides
L’inconnu s’arrêta un moment devant une maison à
[vendre
Maison abandonnée
Aux vitres brisées
C’est un logis du seizième siècle
La cour sert de remise à des voitures de livraisons
C’est là qu’entra le musicien
Sa musique qui s’éloignait devint langoureuse
Les femmes le suivirent dans la maison abandonnée
Et toutes y entrèrent confondues en bande
Toutes toutes y entrèrent sans regarder derrière elles
Sans regretter ce qu’elles ont laissé
Ce qu’elles ont abandonné
Sans regretter le jour la vie et la mémoire
Il ne resta bientôt plus personne dans la rue de la
[Verrerie
Sinon moi-même et un prêtre de Saint-Merry
Ah! Arianna e tu Pâquette e tu Amine
E tu Mia e tu Simone e tu Mavise
E tu Colette e tu bella Geneviève
Sono trascorse tremolanti e vane
E i loro passi svelti e lievi seguivano la melodia
Della musica pastorale che attraeva
La loro famelica voglia di ascoltare
Un attimo lo sconosciuto si fermò di fronte a una casa
[che si vendeva
Casa disabitata
Dai vetri in pezzi
Abitata nel sedicesimo secolo
La corte fa da rimessa alle vetture dei corrieri
Il musicante vi entrò
La sua musica che s’allontanava dava un che di
[struggente
Anche le donne invasero la casa
E tutte vi entrarono in un’orda confusa
Tutte tutte vi entrarono senza voltarsi
Senza rimpiangere quello che lasciavano
Le cose abbandonate
Senza rimpiangere il giorno la vita e la memoria
In poco tempo fu deserta rue de la Verreire
Solo io vi rimasi e un prete di Saint-Merry
Entrammo nella vecchia casa
11
Nous entrâmes dans la vieille maison
Ma non c’era nessuno
Mais nous n’y trouvâmes personne
Voici le soir
A Saint-Merry c’est l’Angélus qui sonne
Cortèges ô cortèges
C’est quand jadis le roi revenait de Vincennes
Adesso è sera
A Saint-Merry l’unico suono è l’Angelus
Cortei o cortei
Come quando un tempo il re se ne tornava da
[Vincennes
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
12
Il vint une troupe de casquettiers
Il vint des marchands de bananes
Il vint des soldats de la garde républicaine
O nuit
Troupeau de regards langoureux des femmes
O nuit
Toi ma douleur et mon attente vaine
J’entends mourir le son d’une flûte lointaine
Giunse una folla di gente con il berretto
Giunsero venditori di banane
Giunsero soldati della guardia repubblicana
O notte
Mucchio di sguardi languidi delle donne
O notte
Tu mio dolore e mia inutile attesa
Ascolto il suono in agonia di un flauto lontano
Da CASE D’ARMONS
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
13
TOUJOURS
A Madame Faure-Favier
SEMPRE
Alla signora Faure-Favier
Toujours
Nous irons plus loin sans avancer jamais
Sempre
Senza muoverci andremo più lontano
Et de planète en planète
De nébuleuse en nébuleuse
Le don Juan des mille et trois comètes
Même sans bouger de la terre
Cherche les forces neuves
Et prend au sérieux les fantômes
E di pianeta in pianeta
Di nebulosa in nebulosa
Il don Giovanni delle mille e tre comete
Non si stacca dalla terra
Per cercare forze nuove
E prendere sul serio i fantasmi
Et tant d’univers s’oublient
Quels sont les grands oublieurs
Qui donc saura nous faire oublier telle ou telle partie
[du monde
Où est le Christophe Colomb à qui l’on devra l’oubli
[d’un continent
E tanti universi dimenticano se stessi
Ci sono i grandi capaci di fare perdere la memoria
Chi dunque saprà farci dimenticare questa o quella
[parte di mondo
Dov’è il Cristoforo Colombo al quale si dovrà l’oblio
[di un continente
Perdre
Mais perdre vraiment
Pour laisser place à la trouvaille
Perdre
La vie pour trouver la Victoire
Perdere
Ma perdere veramente
Per lasciare il posto a ciò che può capitare
Perdere
La vita per trovare la Vittoria
Da LUEURS DES TIRS
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
14
LES FEUX DU BIVOUAC
I FUOCHI DEL BIVACCO
Les feux mouvants du bivouac
Éclairent des formes de rêve
Et le songe dans l’entrelac
Des branches lentement s’élève
I fuochi mobili del bivacco
Fanno luce a forme di sogno
Che nel viluppo dei rami
Lentamente si eleva
Voici les dédains du regret
Tout écorché comme une fraise
Le souvenir et le secret
Dont il ne reste que la braise
Ecco gli sdegni del rimpianto
Sbucciato come una fragola
Il ricordo e il segreto
Dei quali resta solo la brace
L’INSCRIPTION ANGLAISE
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
C’est quelque chose de si ténu de si lointain
Que d’y penser on arrive à le trop matérialiser
Forme limitée par la mer bleue
Par la rumeur d’un train en marche
Par l’odeur des eucalyptus des mimosas
Et des pins maritimes
Mais le contact et la saveur
È qualcosa di tanto tenue e lontano
Che a pensarci si arriva a farla consistente
Forma limitata dal mare azzurro
Dal rumore di un treno in cammino
Dall’odore degli eucalipti delle mimose
E dei pini marittimi
Ma il contatto e il sapore
Et cette petite voyageuse alerte inclina brusquement
[la tête sur le quai de la gare à Marseille
Et s’en alla
Sans savoir
Que son souvenir planerait
Sur un petit bois de la Champagne où un soldat
[s’efforce
Devant le feu d’un bivouac d’évoquer cette
[apparition
A travers la fumée d’écorce de bouleau
Qui sent l’encens minéen
Tandis que les volutes bleuâtres qui montent
D’un cigare écrivent le plus tendre des noms
E attenta la piccola viaggiatrice ha inclinato
[bruscamente il capo sul marciapiede della stazione a
[Marsiglia
Poi se ne è andata
Senza sapere
Che il suo ricordo sarebbe volato basso
Su di un boschetto della Champagne dove un soldato
[vorrebbe
Davanti al fuoco di un bivacco richiamare alla mente
[quell’apparizione
Attraverso il fumo di scorza di betulla
Che ha l’aroma dell’incenso minoico
Mentre le volute bluastre che salgono
Da un sigaro scrivono il più tenero dei nomi
Mais les noeuds de couleuvres en se dénouant
Écrivent aussi le nom émouvant
Dont chaque lettre se love en belle anglaise
15
L’ISCRIZIONE INGLESE
Et le soldat n’ose point achever
Le jeu de mots bilingue que ne manque point de
[susciter
Cette calligraphie sylvestre et vernale
Ma i nodi di serpi che si sciolgono
Scrivono anche il nome che commuove
Con ogni lettera che in tondo si dispone in
[bell’inglese
E il soldato non osa mettere fine
Al gioco di parole in due lingue che non manca di
[suscitare
Questa calligrafia boschiva e primaverile
Da OBUS COULEUR DE LUNE
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
16
IL Y A
C’È
Il y a un vaisseau qui a emporté ma bien-aimée
Il y a dans le ciel six saucisses et la nuit venant on
[dirait des asticots dont naîtraient les étoiles
Il y a un sous-marin ennemi qui en voulait à mon
[amour
Il y a mille petits sapins brisés par les éclats d’obus
[autour de moi
Il y a un fantassin qui passe aveuglé par les gaz
[asphyxiants
Il y a que nous avons tout haché dans les boyaux de
[Nietzsche de Goethe et de Cologne
Il y a que je languis après une lettre qui tarde
Il y a dans mon porte-carte plusieurs photos de mon
[amour
Il y a les prisonniers qui passent la mine inquiète
Il y a une batterie dont les servants s’agitent autour
[des pièces
Il y a le vaguemestre qui arrive au trot par le chemin
[de l’Arbre isolé
Il y a dit-on un espion qui rôde par ici invisible
[comme l’horizon dont il s’est indignement revêtu et
[avec quoi il se confond
Il y a dressé comme un lys le buste de mon amour
Il y a un capitaine qui attend avec anxiété les
[communications de la T.S.F. sur l’Atlantique
Il y a à minuit des soldats qui scient des planches
[pour les cercueils
Il y a des femmes qui demandent du maïs à grands
[cris devant un Christ sanglant à Mexico
Il y a le Gulf Stream qui est si tiède et si bienfaisant
C’è una nave che si è presa la donna che amo
Ci sono nel cielo sei palloni frenati e quando si fa
[notte li diresti larve dalle quali sembra che stiano
[per nascere le stelle
C’è un sottomarino nemico che ce l’aveva con il mio
[amore
Ci sono mille piccoli abeti spezzati dalle schegge di
[granata intorno a me
C’è un fantaccino che passa accecato dai gas
[asfissianti
C’è che abbiamo fatto tutto a pezzi nei camminamenti
[di Nietzsche di Goethe e di Cologne
C’è che soffro per una lettera che non arriva
Ci sono parecchie foto del mio amore nel portacarte
Ci sono i prigionieri che passano trasudando ansia
C’è una batteria coi serventi che si agitano intorno ai
[pezzi
C’è il portalettere che arriva al trotto dal sentiero
[dell’albero isolato
C’è si dice una spia che di qui si aggira invisibile
[come l’orizzonte del quale si è indegnamente
[rivestita e con il quale si confonde
C’è dritto come un giglio il busto del mio amore
C’è un capitano che attende con trepidazione le
[comunicazioni del T S F sull’Atlantico
Ci sono alcuni soldati a mezzanotte che segano assi
[per le bare
Ci sono donne che chiedono mais ad alta voce
[davanti a un Cristo che sanguina in Messico
C’è la corrente del Golfo che è così temperata e
[benefica
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
17
Il y a un cimetière plein de croix à 5 kilomètres
Il y a des croix partout de-ci de-là
Il y a des figues de Barbarie sur ces cactus en Algérie
Il y a les longues mains souples de mon amour
Il y a un encrier que j’avais fait dans une fusée de 15
[centimètres et qu’on n’a pas laissé partir
Il y a ma selle exposée à la pluie
Il y a les fleuves qui ne remontent pas leur cours
Il y a l’amour qui m’entraîne avec douceur
Il y avait un prisonnier boche qui portait sa
[mitrailleuse sur son dos
Il y a des hommes dans le monde qui n’ont jamais été
[à la guerre
Il y a des Hindous qui regardent avec étonnement les
[campagnes occidentales
Ils pensent avec mélancolie à ceux dont ils se
[demandent s’ils les reverront
Car on a poussé très loin durant cette guerre l’art de
[l’invisibilité
C’è un cimitero pieno di croci a 5 chilometri
Ci sono croci dappertutto di qua di là
Ci sono fichi di Barberia su quei cactus in Algeria
Ci sono le lunghe mani agili del mio amore
C’è un calamaio che avevo fatto con un razzo di 15
[centimetri e che non è mai partito
C’è la mia sella esposta alla pioggia
Ci sono i fiumi che non risalgono il loro corso
C’è l’amore che mi trasporta con dolcezza
C’è un prigioniero tedesco che sulle spalle si portava
[la mitragliatrice
Ci sono uomini nel mondo che mai hanno fatto la
[guerra
Ci sono degli Indù che guardano con meraviglia le
[campagne occidentali
Pensano con malinconia a quelli che si chiedono se
[rivedranno
Perché molto lontano durante questa guerra si è
[spinta l’arte dell’invisibilità
Da LA TÊTE ÉTOILÉE
SOUVENIRS
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
18
Deux lacs nègres
Entre une forêt
Et une chemise qui sèche
RICORDI
Due laghi negri
Tra una foresta
E una camicia che asciuga
Bouche ouverte sur un harmonium
C’était une voix faite d’yeux
Tandis qu’il traîne de petites gens
Bocca schiusa sull’armonium
Era una voce fatta di occhi
A trascinare la piccola gente
Une toute petite vieille au nez pointu
J’admire la bouillotte d’émail bleu
Mais le rat pénètre dans le cadavre et y demeure
Una vecchietta minuta dal naso a punta
Ammiro lo scaldino smaltato di blu
Ma il ratto penetra nel morto e ci resta
Un monsieur en bras de chemise
Se rase près de la fenêtre
En chantant un petit air qu’il ne sait pas très bien
Ça fait tout un opéra
Un signore in maniche di camicia
Si rade vicino alla finestra
Cantando un’aria che non conosce bene
Fa molto opera
Toi qui te tournes vers le roi
Est-ce que Dieu voudrait mourir encore
Tu che ti volti al re
Quasi che Dio volesse ancora morire
CHEVAUX DE FRISE
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
19
CAVALLI DI FRISIA
Pendant le blanc et nocturne novembre
Alors que les arbres déchiquetés par l’artillerie
Vieillissaient encore sous la neige
Et semblaient à peine des chevaux de frise
Entourés de vagues de fils de fer
Mon coeur renaissait comme un arbre au printemps
Un arbre fruitier sur lequel s’épanouissent
Les fleurs de l’amour
Durante il bianco e notturno novembre
Quando gli alberi lacerati dall’artiglieria
Avvizzivano ancora di più sotto la neve
E quasi sembravano cavalli di frisia
Avvolti da onde di filo di ferro
Il mio cuore rinverdiva come un albero a primavera
Un albero da frutto sul quale si dischiudono
I fiori dell’amore
Pendant le blanc et nocturne novembre
Tandis que chantaient épouvantablement les obus
Et que les fleurs mortes de la terre exhalaient
Leurs mortelles odeurs
Moi je décrivais tous les jours mon amour à
[Madeleine
La neige met de pâles fleurs sur les arbres
Et toisonne d’hermine les chevaux de frise
Que l’on voit partout
Abandonnés et sinistres
Chevaux muets
Non chevaux barbes mais barbelés
Et je les anime tout soudain
En troupeau de jolis chevaux pies
Qui vont vers toi comme de blanches vagues
Sur la Méditerranée
Et t’apportent mon amour
Roselys ô panthère ô colombes étoile bleue
ô Madeleine
Je t’aime avec délices
Si je songe à tes yeux je songe aux sources fraîches
Si je pense à ta bouche les roses m’apparaissent
Si je songe à tes seins le Paraclet descend
O double colombe de ta poitrine
Et vient délier ma langue de poète
Durante il bianco e notturno novembre
Mentre cantavano tremendamente le granate
E i fiori morti della terra esalavano
I loro mortali odori
Io ogni giorno descrivevo il mio amore a Madeleine
La neve appoggia pallidi fiori sugli alberi
E ammanta di ermellino i cavalli di frisia
Che si vedono ovunque
Abbandonati e sinistri
Cavalli muti
Non cavalli berberi ma dall’ispido pelo
E io ad un tratto li animo
In mandria di bei cavalli pezzati
Che vanno verso di te come onde bianche
Sul Mediterraneo
E ti consegnano il mio amore
Rosagiglio o pantera o colombe stella azzurra
O Madeleine
Io ti amo con delizia
Se sogno i tuoi occhi sogno sorgenti fresche
Se penso alla tua bocca mi appaiono le rose
Se sogno i tuoi seni il Paracleto discende
O doppia colomba del tuo petto
E viene a sciogliere la mia lingua di poeta
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
20
Pour te redire
Je t’aime
Ton visage est un bouquet de fleurs
Aujourd’hui je te vois non Panthère
Mais Toutefleur
Et je te respire ô ma Toutefleur
Tous les lys montent en toi comme des cantiques
[d’amour et d’allégresse
Et ces chants qui s’envolent vers toi
M’emportent à ton côté
Dans ton bel Orient où les lys
Se changent en palmiers qui de leurs belles mains
Me font signe de venir
La fusée s’épanouit fleur nocturne
Quand il fait noir
Et elle retombe comme une pluie de larmes
[amoureuses
De larmes heureuses que la joie fait couler
Et je t’aime comme tu m’aimes
Madeleine
Per ridirti
Ti amo
Il tuo viso è un mazzo di fiori
Oggi ti vedo non Pantera
Ma Tuttofiore
E ti respiro mia Tuttofiore
Tutti i gigli salgono in te come cantici di amore e di
[allegria
E i canti che s’involano a te
Mi conducono al tuo fianco
Nel tuo bell’Oriente dove i gigli
Si cambiano in palmeti che con le belle mani
Mi fanno segno di venire
Il razzo si apre notturno fiore
Quando si fa notte
E ricade come una pioggia di lacrime amorose
Di lacrime felici che la gioia fa cadere
E io ti amo come tu mi ami
Madeleine
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
LA JOLIE ROUSSE
LA BELLA ROSSA
Me voici devant tous un homme plein de sens
Connaissant la vie et de la mort ce qu’un vivant peut
[connaître
Ayant éprouvé les douleurs et les joies de l’amour
Ayant su quelquefois imposer ses idées
Connaissant plusieurs langages
Ayant pas mal voyagé
Ayant vu la guerre dans l’Artillerie et l’Infanterie
Blessé à la tête trépané sous le chloroforme
Ayant perdu ses meilleurs amis dans l’effroyable
[lutte
Je sais d’ancien et de nouveau autant qu’un homme
[seul pourrait des deux savoir
Et sans m’inquiéter aujourd’hui de cette guerre
Entre nous et pour nous mes amis
Je juge cette longue querelle de la tradition et de
[l’invention
De l’Ordre et de l’Aventure
Eccomi davanti a tutti un uomo pieno di senno
Che intende la vita e la morte per quanto un vivo può
[sapere
Che ha provato i tormenti e i piaceri dell’amore
Che talvolta è stato capace di imporre le sue idee
Che conosce più lingue
Che alquanto ha viaggiato
Che ha visto la guerra in Artiglieria e Fanteria
Ferito alla testa trapanato sotto cloroformio
Che ha perso i più cari amici nella orribile lotta
So dell’antico e del nuovo quello che un uomo solo
[potrebbe dei due sapere
E senza angosciarmi oggi di questa guerra
Tra noi e per noi amici miei
Io giudico questa lunga discordia della tradizione e
[dell’invenzione
Dell’Ordine e dell’Avventura
Vous dont la bouche est faite à l’image de celle de
[Dieu
Bouche qui est l’ordre même
Soyez indulgents quand vous nous comparez
A ceux qui furent la perfection de l’ordre
Nous qui quêtons partout l’aventure
21
Nous ne sommes pas vos ennemis
Nous voulons vous donner de vastes et d’étranges
domaines Où le mystère en fleurs s’offre à qui veut le
[cueillir
Il y a là des feux nouveaux des couleurs jamais vues
Mille phantasmes impondérables
Auxquels il faut donner de la réalité
Voi che nella bocca avete l’immagine di Dio
Bocca che è l’ordine stesso
Siate indulgenti nel paragonarmi
A quelli che furono la perfezione dell’ordine
Noi che ovunque cerchiamo l’avventura
Non vi siamo nemici
Vogliamo darvi terre grandi e strane
Dove a chi vuole coglierlo si offre il mistero in fiore
Là sono nuovi fuochi e colori mai visti
Mille imponderabili fantasmi
Che bisogna rendere veri
Guillaume
Apollinaire
Traduzione
di
Norma
Stramucci
Nous voulons explorer la bonté contrée énorme où
[tout se tait
Il y a aussi le temps qu'on peut chasser ou faire
[revenir
Pitié pour nous qui combattons toujours aux
[frontières
De l'illimité et de l'avenir
Pitié pour nos erreurs pitié pour nos péchés
Voici que vient l'été la saison violente
Et ma jeunesse est morte ainsi que le printemps
O Soleil c'est le temps de la Raison ardente
Et j'attends
Pour la suivre toujours la forme noble et douce
Qu'elle prend afin que je l'aime seulement
Elle vient et m'attire ainsi qu'un fer l'aimant
Elle a l'aspect charmant
D'une adorable rousse
Ses cheveux sont d'or on dirait
Un bel éclair qui durerait
Ou ces flammes qui se pavanent
Dans les roses-thé qui se fanent
22
Mais riez riez de moi
Hommes de partout surtout gens d'ici
Car il y a tant de choses que je n'ose vous dire
Tant de choses que vous ne me laisseriez pas dire
Ayez pitié de moi
Vogliamo esplorare la realtà vasta contrada dove
[tutto tace
C’è anche il tempo che puoi cacciare o far ritornare
Pietà per noi che sempre combattiamo alle frontiere
Dell’illimitato e dell’avvenire
Pietà per i nostri errori e peccati
Ecco che viene l’estate stagione violenta
Ed è morta la mia giovinezza come la primavera
O Sole è il tempo della Ragione ardente
E aspetto
Per inseguirla sempre la forma nobile e dolce
Che lei prende affinché io solo la ami
Arriva e mi attrae come il ferro la calamita
Ha l’aspetto che innamora
Di una adorabile rossa
Le diresti d’oro i capelli
Un bel lampo che non finisce
O le fiamme di superbia
Sulle rose-tee che si sfanno
Ridete pure di me
Uomini di ogni luogo e più forte se siete gente di qui
Perché esistono tante cose che non ho il coraggio di
[dire
Tante cose che non mi lascereste spiegare
Abbiate pietà di me
Norma Stramucci
È nata a Recanati, dove vive e svolge la professione di insegnante.
È maturata alla scrittura, e alla poesia in particolare (nonché alla traduzione della poesia straniera in
italiano), con la guida di Franco Scataglini.
Oltre a numerosi articoli e recensioni ha pubblicato: L’oro unto (con una Nota di Massimo Raffaeli, Tracce
1995), Erica (con l’Introduzione di Romano Luperini, Manni 2000), Del celeste confine (con una Nota di Mario
Luzi, Manni 2003), Il cielo leggero (con una Nota di Massimo Raffaeli, Azimut 2008), Lettera da una
professoressa (con l’Introduzione di Maurizio Viroli, Manni 2009) e Se mi lasci ti uccido. Variazioni sul tema
(AbelBook 2012).
Il volume di cui alle anticipazioni delle pagine precedenti rappresenta un ampio e significativo estratto dal
lavoro di traduzione integrale, svolto nell’arco temporale di più di un decennio, dei Calligrammes di
Apollinaire ed è altresì la prima pubblicazione dell’autrice in ambito traduttivo.
http://www.normastramucci.com/
23
http://www.thepeninsulaqatar.com/news/international/373842/greece-says-will-fix-idomeni-campoverflow-within-week
voci
http://www.ilpost.it/2016/03/07/idomeni-ultimi-giorni/
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
Neapolitana membra
di Vladimir D’Amora
1a edizione Premio "Arcipelago itaca"
per
una raccolta inedita di versi
€uro 11,00 - ISBN 978-88-99429-04-1
Il volume è composto da trenta testi di Vladimir D’Amora
preceduti dalla motivazione della 1a edizione del
Premio “Arcipelago itaca” per una raccolta inedita di versi.
Il libro è in formato 15 (base) x 21 cm (altezza),
consta di 52 pagine in carta Avorio Sahara g/mq 120
e di una copertina stampata in 4 colori su carta Acquerello Avorio g/mq 240.
A seguire (oltre alla bio-bibliografia di Vladimir D’Amora
e alla motivazione del Premio):
otto testi dell’autore.
Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume
e alle modalità di acquisto dello stesso:
http://www.arcipelagoitaca.it/wp-content/uploads/2016/04/schedaneapolitana-membra.pdf;
http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/
I testi che seguono sono tratti da Neapolitana membra di Vladimir D’Amora
(Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016).
Selezione a cura di Danilo Mandolini
Vladimir D’Amora
Dal 1974 napoletano che vive lavora scrive a Napoli, fu studioso di filologia classica, di Caravaggio e di
Nietzsche, e giornalista e traduttore: è lettore d’immagini, che non interpreta.
Ha pubblicato solo per la Galleria Mazzoli una specie di poesia marcata-come Pornogrammia - poesia la
quale, nella forma di libro, si aggiudicò un certo riconoscimento al Premio Poesia Città di Fiumicino 2015.
Come tanti, ma non come tutti, è connesso - nel web 2.0.
Fondò e diresse, con altri, “Vulgo.net”: una rivista multilingue solo digitale.
24
Da Neapolitana membra
Vladimir
D’Amora
Dalla motivazione
opera vincitrice ex aequo, Sezione C - Raccolta inedita.
1a edizione Premio nazionale editoriale di poesia
“Arcipelago itaca”
Un ritratto di Napoli fuori da ogni cartolina; una Napoli moderna, metropolitana, magmatica e metamorfica; un
ritratto privo di qualsiasi intento celebrativo, sentimentale e/o sentimentalistico.
Una Napoli che troverebbe il suo adeguato sottofondo nelle improvvisazioni jazzistiche dei Napoli Centrale e nelle
evoluzioni del sax e della voce di James Senese.
Questa è la Napoli descritta da Vladimir D'Amora, giovane e già affermato autore, che da una parte non nasconde
certo la sua propensione verso la scrittura di ricerca e lo sperimentalismo in generale, non ripudiando però, dall'altra,
l'eco lirica, la capacità di suggestione e suggerimento della parola, la volontà della poesia del dire e dell’essere capace di
ridefinire un mondo, di provare a ricostruirlo proprio dopo averlo destrutturato.
25
Renata Morresi - Manuel Cohen - Martina Daraio - Danilo Mandolini Alessio Alessandrini - Mauro Barbetti
Vladimir
D’Amora
*
quel filo fu napoli, beata tenebra nel balzo poiché in esso è nascosta la ragione di una sola anima.
lungo le verifiche di stato s'ammassano spazi, un porto sotto l'angolo di posti da cartolina e fiato.
anche un bacio solo bum bum bum nelle canzoni perché al di là del mondo è bianco, lo stile dell'asfalto tira.
26
Vladimir
D’Amora
*
Napoli oggi è nel suo inverno statico e pressante,
è una lettera morta che la luce sarà
domattina per chi luce ricordando il giorno,
nuovo giorno e per ogni e nuovo sole
sorgere di un lento battito, stretto ai pochi
gesti nel quotidiano lungo un anno.
Forse avremo bisogno dei ricordi
nella scrittura tutelata nella noia:
saremo come figli seduti alla distanza,
occhi e parole rosso-rabbia incerta
ai primi raggi. Avremo la ragione dei nati
a vivere tra braccia lungo viali e
primavere in questi anni tutti paralitici.
Sarà costante idea la bianca presa
e il latte speso in una città di polvere
biostorica mai tolta, già sottratta.
27
*
Vladimir
D’Amora
Napoli si lasciò cadere sul dorso sfatta,
con una briciola di voglia antica.
Come a stare: sola la continuità
di voci, corrose sui suoli dissestati
dal sangue vero velamine di sconti –
di lì a poco giunti gli amici del contingente
coi loro omaggi migranti a consumare
la convenzione innocua della sera. Terribile
fu lo sforzo che si levò dai vicoli: era quasi l'ora!
se al mattino aveano faticato perché restassero
ritocchi della cecità deposta per manciate
d'ore a rimarcare strisce di una vita,
in vendita.
Perspicua Napoli come un mestiere, non più
di una funzione l'idea di cambiarsi in un teatro
ove l'indiscernibilità del patico e della sfoglia
di tradizione arrancava per settimane il suo
passato.
28
Cosicché Napoli. Non si scorsero più occhi:
a medicare i ricordi non erano più sogni
né puntuale massa inavvertita, alienato
e putrido ogni dovere di queste operazioni
di fondazione. Slacciata sui costoni a getto sulla
riva apparecchiò, deterse mani e il
collo, scostò ogni riflesso. Giacque
Vladimir
D’Amora
*
A sera capitano ancora eventi di una speciosa traspropriazione a dire che la relazione che il politico è,
s'inabissa corta nelle frenetiche rivendicazioni di distanza.
Nel cerchio del Vomero ove circolano indifferenti i mercanti d'anime e quasi come a Seul il resto da finestre
inquadrate da architetti mai ringiovaniti, sono scorti i passi dell'imminente fine: è il reggerla, la novità che
ha trasformato l'immobile respiro in una esatta maniera della vita: internamente quelli coi capi vivi nelle
vasche umane, chiedono il potersi aggirare pesanti nei metri consentiti, quasi i corpi loro come dei muti
segnali si specializzassero nella sopravvivenza accelerando le trasmissioni di pochi punti di parola.
Le ossa che dalla bocca riescono sputate con la gagliardia feroce e quanto mancano i santi ed i filosofi non
imprestati da televisioni in queste abbreviate luci lo starnutire diverso è un gioco prodigioso e tu di un'altra
epoca diffranta.
29
Vladimir
D’Amora
*
scampia riscritta e falsa non si dettavano compiti sullo scalino due pezzi morti erano amiconemico, era la
piana cesura le ossa poi smarrivano gli occhi con ansie drogate nel vero e l’interveniente del vuoto di qua,
presso le luci, prezzi che alterano muri segnano figli e morti in città ché lasciano arti nei segni, le colle, le
vite malate, letami e cieli che allattano vane le forze colme di certi ricordi e sono due giovani frasi, lo
scorrere chiaro, tagliato, di un’indecisa spesa di cose.
30
*
Vladimir
D’Amora
Ridico il mio paese, Calvizzano,
del nord di Napoli spaiato
e catafratta pietra del doppio
vincolo, coi suoi dintorni
*
Era concettoso, riarso, lo squallore di quei vicoli,
le rincorse d'analisi,
lo stile provato nel fatto di ogni volto
chiuso, rudimentale. Ora
Napoli è la sua penuria, il dogmatico
accadere immemore, senza abiti
e senza intelligenza. Tutto
posteriore a tutti.
31
fissi fondali per corse in sé concluse,
che continuano col sangue giovane
alla morte, come al neon, come la carne
fosse cemento e vite
non si smuoveranno.
Al mio paese il passo è cieco,
colla schiuma al cuore d’ore
slegate e sudo e il mio paese,
venduto, si sparge in calcoli
bulimici rigurgiti del proprio
del livore.
Io gli fiutavo il legno delle case e il porco,
esaurita fola,
in quelle mani sunte
dalla pleonessia la colpa
della terra, roride e buone
a scorticare visi a seppellire i morti e me,
frutti sputati
ai cancri della specie.
Vladimir
D’Amora
32
*
Non era città
a ripetere nelle materie degli uomini l'acqua
piovuta. Era Napoli.
E questo deserto ordinato da milioni
di dei alla metà d’un impossibile
contatto con la luce. È con la naturale
violenza che il tempo lasciava
colluvie di margini stretti come
giudizi e per l'eterno stato.
Perché non erano nomi
equilibrati i progressi e il divenire
speciale dei tempi, le pose
restate su ossa pagate e minuscole, quasi
smorte. E quella
era città dalle curve in cui noi
che erigevamo umiltà e puntuali
stagioni di voglie tra noi applaudimmo
al resto dell’illesa costruzione alla
moda, dei minimi scarti del fondo, devoti
all’idea.
http://en.protothema.gr/idomeni-refugees-rage-over-closed-borders-grows-ngos-leave-the-camp/
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
Casa rotta
di Valentina Maini
ESTUARI - Giovane e nuova poesia italiana
Collana diretta da Manuel Cohen
€uro 13,00 - ISBN 978-88-99429-05-8
Il volume è composto da sessantuno liriche di Valentina Maini
e dalla nota di Postfazione di Stefano Colangelo.
Il libro è in formato 12 (base) x 19 cm (altezza),
consta di 80 pagine in carta Avorio Sahara g/mq 120
e di una copertina stampata in 4 colori su carta Acquerello Avorio g/mq 240.
A seguire (oltre alla bio-bibliografia di Valentina Maini):
nove testi dell’autrice
e la nota di Postfazione di Stefano Colangelo.
Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume
e alle modalità di acquisto dello stesso:
http://www.arcipelagoitaca.it/wp-content/uploads/2016/04/scheda-casarotta.pdf;
http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/
I testi che seguono sono tratti da Casa rotta di Valentina Maini
(Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016).
Selezione a cura di Danilo Mandolini
Valentina Maini
È nata a Bologna nel 1987 e ha vissuto in Italia e in Francia.
Laureata in Lettere e in Culture Letterarie Europee, con doppio diploma italo-francese, è dottoranda in
Letterature Comparate presso l’Università di Bologna con un progetto sull'immaginario della guerra civile
spagnola.
Ha pubblicato vari articoli scientifici, in particolare su Samuel Beckett e Amelia Rosselli, e alcuni suoi
racconti sono comparsi su riviste come "Inutile", "Atti Impuri", "TerraNullius", "Effe", "Verde", la rassegna
stampa di Oblique Studio.
È stata premiata in diversi concorsi letterari.
Attualmente vive a Parigi.
Casa rotta è la sua opera prima in versi.
33
Gordon Matta-Clark. Splitting 9, 1977. Gelatin silver print
http://www.cultframe.com/2011/05/laurie-anderson-trisha-brown-gordon-matta-clark-mostra-londra/
Da Casa rotta
Valentina
Maini
*
Entra come mano umidità
dalla finestra chiusa, crepa
la pelle della bambola, non usa
dare il benvenuto, non fa altro
che luce ferire.
*
Sanno dove muore la domanda
muovono veloci verso il punto di rottura
percorrono cateti per l’uscita dal triangolo
non fanno che tornare.
34
Valentina
Maini
*
Sforma la notte il giorno, disfa
la sua geometria compatta
di crisalide riemersa dalla pece,
inonda.
Non credi possa consolare
la luce fa le veci della chela,
se per tutti l’alba è lieve
come pesa
nell’angolo degli occhi l’acqua
cerca spazio: alzi la testa ad arrestare
la gravità dei fori, delle macchie
che importa del colore
bianco ferisce
il sesso, una balena.
35
Valentina
Maini
*
Ho in giro dieci padri altrettanti
ne ho persi per la strada vuota basterebbe
un custode nel palazzo, l’allarme elettrico
che scacci.
*
Dal quadrato luminoso non s’accende
nessun numero-rubrica, agisce solo come
esca, eppure non ferisce, fossimo
tutti pesci!
Fosse una finestra quella che vicina si apre!
Troppo ospitale la soglia non insegna
la strategia di fuga.
36
Valentina
Maini
*
Abbiamo attraversato centimetri, nemmeno continenti
ci siamo mossi con fatica, ci sembrava
di correre, era qualcun altro - siamo stati quasi fermi
se badiamo alla prospettiva generale se
diamo retta ai grandi numeri la sostanza
è vuota.
37
Valentina
Maini
38
*
Bruciano le banche alla televisione
lo schermo non illuminano non scalda
il fuoco nasce spento, colore: cenere
frequenza: mite, affluenza:
scarsa dice il direttore, non incidono
nessuna piaga nel corpo oro del creato
sventolano bandiere lucidate dai
papà-carezza-sulla-testa, fate bene
a ribellarvi con coscienza, per quanto
la violenza: eccessiva, motivazioni:
polimorfe, poco chiare. Prese di parola:
già sentite, ma perché non vi spremete
per uno schermo più sottile – che scompaia –
una fuga analogica dal pianto universale
l’organico rifiuto della manna,
cosa sottile
più non nutre, trasferisce
clona dati, non vuole partorire.
Valentina
Maini
*
Non getta ombra nella stanza
la guerra televisiva, oscura il tempo
di un boccone, scuote timida la testa
per dovere di indignazione. Nessuna crepa
nelle mura, non fora la parete: come tu
dall’altra parte che mi gridi - scordi:
chi tra noi è lo spettacolo,
chi lo spettatore.
*
Continua a nascere non arresta il flusso
delle gemme, si riempie è tutta
luce germinata senza condizioni necessarie
gli esperti allargano la bocca – lei cresce che continua a
crescere, senza ossigeno, temperatura sfavorevole contro
ogni previsione evolutiva
che il seme quasi non si vede.
39
Gordon Matta-Clark. Conical Intersect, 1975.
https://quattrocentoquattro.com/2014/12/15/gordon-matta-clark-in-cinque-opere-fondamentali/
Da Casa rotta
Valentina
Maini
40
Dalla Postfazione
di Stefano Colangelo
Presa in un conflitto con lo spazio, che non le fa più riconoscere ciò che la avvolge, e che dovrebbe invece
rimanerle familiare – le pareti, le stanze, i mobili di casa – una bambina attraversa lentamente le età
dell'uomo, acquistando e perdendo qualcosa passo per passo, come se un pavimento continuasse a cedere,
immediatamente dietro il suo camminare: se ne vanno dietro di lei le visioni, le proiezioni e i desideri che la
circondavano e la nutrivano. Queste poesie portano il titolo di Casa rotta. Perché rotta, e non distrutta, o
crollata? Forse il campo di significato di quell'aggettivo riporta al maneggiare una casa-giocattolo, allo
scuoterne la fragilità per impulso di conoscenza? E soprattutto, di quali resistenze, di quali forme di tenacia
riuscirà a fidarsi quella bambina, quando le capiterà di avvertire l'arrivo dell'ospite che viene da lontano –
della viaggiatrice che, nel vecchio aforisma Eliotropio di Adorno, agiterà la routine della casa, facendo di una
cena ritualmente borghese di benvenuto uno scintillante racconto di fate, come la messaggera di una vita
trasformata?
Nello sfidare l'assenza di luce, percorrendo le pareti con la punta delle dita, la cecità di questa bambina è
in tutto e per tutto la nostra. Anche il suo linguaggio, così stranamente disarticolato – la prima impronta
beckettiana, se è lecito ricondursi agli interessi critici dell'autrice, Valentina Maini – con quei suoi predicati
che si affacciano sull'impossibilità di esprimere, e insieme sull'attesa spasmodica di espressione, un po'
chiede di appartenerci, che lo vogliamo o no. Ci si impone. Ci porta continuamente dentro e fuori da una
casa reale e da una casa-giocattolo. E così anche la sintassi mentale di questo spazio martoriato di scosse, di
ricordi che rimbalzano, di odori abbandonati nel tempo trascorso, è costruita su azioni che tagliano la
percezione soggettiva con colpi decisi: «Non congiunge: priva / Non conosce: cerca di dimenticare». Man
mano che si cammina, non c'è una stanza che parli, non c'è un anfratto che comunichi; l'ossigeno è raro, la
temperatura è sfavorevole.
E come fare, allora, di questa casa della prigionia, di questa architettura così spietatamente orizzontale
della condizione umana un piccolo cosmo abitabile? Mircea Eliade scriveva che l'esperienza mistica
fondamentale, nelle culture dell'India antica, era espressa con l'immagine della rottura del tetto, e del
conseguente volo del corpo nello spazio. Ma qui il tetto non è una parete sottile: non ci si sottrae a questa aria
materica, sorda, che occupa un presente così inesorabilmente secco, ottuso, totalizzante. La casa qui ha più
muri che finestre e porte: più inciampi e spigoli che aperture e invasioni di luce.
Valentina
Maini
41
Eppure – e sarà un altro azzardo il voler chiamare in causa Amelia Rosselli, sulla quale Valentina Maini ha
scritto fin da studentessa pagine critiche di grande maturità – il cammino di questa bambina-esploratrice si
ricongiunge per via letteraria, ma anche per affinità istintiva, a tutte le «tènere crescite» dell'io femminile di
Serie ospedaliera, a quella sua particolare «ansia o angoscia» per tutti coloro che «facendola esistere la
distruggono». Probabilmente sarà dalla frequentazione attenta della poesia rosselliana che Valentina Maini
ha lavorato su una propria poetica degli spazi chiusi, quelli dell'ospitare come dell'ospedale, chiamando a
raccolta qui una prospettiva che va dai primordi di Emily Dickinson fino a certe prove recenti di Elisa Biagini
(L'ospite, o Da una crepa): la lettura capillare di uno spazio domestico che diventa insicuro, precario, lasciato
solo; circondato dai crolli, quasi tentato di cedere per sempre a un senso di implosione, di tempo e di
desiderio fatti andare via, precipitati, sbriciolati.
Nel suo crescere, la bambina di Casa rotta cerca indizi, connessioni che mettano rami di continuità nella
sua vita. Come nel Disperso di Cucchi, il suo tempo si sdoppia fra l'attualità di un trauma, di una perdita, e la
sua mancata elaborazione, che si reduplica in una permanenza, in una occupazione totale del tempo,
fatalmente dilatato. E più il trauma torna a occupare quel tempo – più è sognato, proiettato, schiacciato su
uno schermo – meno lo si riesce a decifrare.
Poi, a un certo punto, succede che il libro gira su se stesso, facendo perno su un testo a epigrafe, messo tra
parentesi e dunque pronunciato a un livello mentale insieme più dimesso e più profondo. La ragazza osserva
la sua casa crollata – o la rottura della sua casa-giocattolo - camminandole intorno, all'aperto, da fuori;
comincia a muoversi in mezzo a un noi, probabilmente in parte generazionale, sicuramente situato molto
lontano da dove lo si poteva rintracciare in precedenza. La ragazza ora chiede ragione, fino a denegare la
bambina che era; prende a scuotere tutto quell'enorme spazio stanco, familiare e abulico che la circondava. È
come se desse corpo a una nuova possibilità, alla lingua dell'altro, dell'esiliato, dell'ospite. Da una casa
dell'infanzia a una casa straniera. Qui il gesto del riconoscere non coincide più con quello del ricordare. La
bambina che aveva attraversato la cecità, la freddezza e il ruvido delle pareti, e conseguentemente il rumore
del loro crollo, ricostruisce ora il familiare nell'estraneo: «ho trovato pace nella casa / d'altri, nell'odore di
terrazzo / scucito dal riparo». Scriveva Jean Onimus, in un bel saggio sulla poetica domestica e sulle sue
metafore, che «l'essenziale è separarsi, poter delimitare una zona, un "territorio", come quello che riservano a
se stessi, per potersi sentire a casa, certi animali». Una specie di casa fatta da tante piccole nicchie, da tante
micro-case, ognuna con il proprio significato tattile, memoriale, allegorico. Un'intimizzazione progressiva del
proprio spazio, che è insieme paradossalmente, di quel medesimo spazio, una riscoperta; anzi, una
moltiplicazione - come si legge verso la conclusione di questa raccolta - «fino all'infinire». La Casa rotta di
Valentina Maini rappresenta forse un percorso di questo genere: ne costituisce pezzo per pezzo i gesti, il
ritaglio, l'idioma; ne oltrepassa la durezza, le difficoltà. Ce ne offre ancora, coraggiosamente, il senso, anche
quando quelle pareti che ci imprigionano non sembrano altro che le stesse parole, nelle quali tendiamo a
perderci.
Stefano Colangelo
Si è laureato in Lettere – indirizzo classico – nel 1993. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Italianistica
nel 2001, all'Università di Bologna, sotto la guida di Ezio Raimondi. È Professore Associato di Letteratura
italiana contemporanea dal settembre 2014.
Ha tenuto seminari di Esegesi dantesca, Retorica e Metrica per Ezio Raimondi, dal 1994 al 1996, e di
Composizione scritta in italiano, Poetica e retorica e Istituzioni di letteratura per Niva Lorenzini, dal 2002 al
2006. Come ricercatore ha tenuto corsi di Letteratura italiana contemporanea al Dams, seminari di Analisi
del testo poetico a Lettere, Corsi di Metrica, Comparative Metrics e, infine – in lingua inglese, dal 2012 al
2015 -, Metrics and Contemporary Verse Theory per la Laurea magistrale in Italianistica, Culture letterarie
europee e Scienze linguistiche. Nello stesso Corso di Studi insegna, dal 2015, Poesia italiana del Novecento.
Ha tenuto interventi, lezioni e seminari come Visiting Scholar e Visiting Professor in Italia (Università di
Pavia, Urbino, Milano Bicocca, Trento), in Francia (Université de la Sorbonne Nouvelle - Paris III), in
Germania (Otto-Friedrich-Universität Bamberg, Freie Universität Berlin), in Belgio (Universiteit Gent), negli
Stati Uniti (Brown University, Providence; Indiana University, Bloomington; University of California, Los
Angeles) e in Giappone (Senshu University, Tokyo).
Ha scritto sui mensili “Lyrica” e “Opéra International”, sui quotidiani “Il Sole 24 Ore”, “Liberazione" e “Il
manifesto”; sui periodici “Alfabeta2”, "L'Indice dei Libri del Mese", "Left-Avvenimenti", "Semicerchio” e
"Poesia".
42
Ha pubblicato: Metrica come composizione (in appendice una conversazione con Edoardo Sanguineti - Gedit
2002), Come si legge una poesia (Carocci 2003), Il soggetto nella poesia del Novecento italiano (Bruno Mondadori
2009) e, insieme a Niva Lorenzini, Poesia e Storia (Bruno Mondadori 2013).
Qui, ulteriori informazioni di dettaglio:
https://www.unibo.it/sitoweb/stefano.colangelo
http://www.ansa.it/sito/photogallery/primopiano/2016/03/07/un-bambino-nel-campo-profughi-di-idomeniin-grecia_020c3e4d-223a-450c-a368-5c0b38191817.html
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
Impossibile ritorno
di Lucilla Niccolini
1a edizione Premio "Arcipelago itaca"
per
un’opera prima di poesia
€uro 11,00 - ISBN 978-88-99429-09-6
Il volume è composto da ventisei liriche di Lucilla Niccolini
precedute dalla motivazione della 1a edizione del
Premio “Arcipelago itaca” per un’opera prima di poesia.
Il libro è in formato 12 (base) x 19 cm (altezza),
consta di 64 pagine in carta Avorio Sahara g/mq 120
e di una copertina stampata in 4 colori su carta Acquerello Avorio g/mq 240.
A seguire (oltre alla bio-bibliografia di Lucilla Niccolini
e alla motivazione del Premio):
otto testi dell’autrice.
Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume
e alle modalità di acquisto dello stesso:
http://www.arcipelagoitaca.it/wp-content/uploads/2016/04/schedaimpossibile-ritorno.pdf;
http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/
I testi che seguono sono tratti da Impossibile ritorno di Lucilla Niccolini
(Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016).
Selezione a cura di Danilo Mandolini
Lucilla Niccolini
Si è laureata in Lettere Classiche all'Università di Pisa-Scuola Normale Superiore.
Subito dopo la laurea ha insegnato Lettere nelle scuole italiane in Germania.
Attualmente è docente di Latino e Greco al Liceo Classico Rinaldini di Ancona.
Collaboratrice del “Corriere Adriatico” dal 1983, ha curato le pagine della Cultura e numerosi inserti
speciali, tra cui quello della riapertura del Teatro delle Muse ad Ancona e i fascicoli del 150° anniversario
della testata.
Ha curato l’allestimento e i testi di quattro edizioni del supplemento “Marche Meraviglia”.
Altre collaborazioni vanno dalla rivista "Campania" al periodico "1999 Marche", a "Mare Marche", alla
rubrica dei libri della redazione giornalistica del Tg Marche-Rai.
43
Da Impossibile ritorno
Lucilla
Niccolini
Dalla motivazione
opera vincitrice ex aequo, Sezione A - Opera prima.
1a edizione Premio nazionale editoriale di poesia
“Arcipelago itaca”
Una convincente prima prova poetica, questa di Lucilla Niccolini, del resto già affermata giornalista, che propone qui
una raccolta di versi incentrati sul sentimento filiale nei confronti di una madre ormai cambiata, invecchiata e
aggredita dalla malattia; un sentimento che viene portato a nudo, attraverso episodi minimi e riflessioni, in modo
ovviamente partecipato, ma anche trattenuto dal pudore; un pudore che riesce a spostare il punto di osservazione e a
renderci il quadro più ampio e generale.
La poesia è così capace, dal piano personale e individuale, di aprirsi al destino comune, di parlarci dello scorrere
inesorabile del tempo al quale tutti siamo soggetti e nel flusso del quale possiamo sovrapporci, riconoscerci nell'altro e
nel suo percorso.
44
Renata Morresi - Manuel Cohen - Martina Daraio - Danilo Mandolini
- Alessio Alessandrini - Mauro Barbetti
Lucilla
Niccolini
*
Dici grazie ogni volta
che mi volto
con le chiavi in mano.
Sulla porta rispondo:
E di che?
Mentre il nodo
in gola accompagna
le scale che già scendo
non mi fermo
non ritorno su.
Consumo il sentimento
della colpa
in questa penitenza
della pena.
45
*
Lucilla
Niccolini
46
Quando scoprii
un giorno
all'improvviso
che la figura dritta s'era
incurvata
fu come quando
ci dissero
che la Terra
non è un piano
ma una sfera
che gira vorticosamente
nello spazio.
Vennero meno
i punti cardinali
dell'amore.
Cominciò allora
questo disamore
il sentimento
dello scorrere
lento, condiviso
di cui soltanto tu
fingi di ignorare
il corso quando
chiedi infantile
“Sai quanti anni ho?”.
*
Lucilla
Niccolini
*
Solo della tua infanzia
resta il segno indelebile,
fotogrammi ricorrenti,
pochi, quelli più vividi
di tutta l'esistenza.
Furono segnalibro
della tua agenda
a ritroso
riapparsi nottetempo
per lasciarti agguerrita
la mattina al risveglio.
Ti facevano singhiozzare
di rabbia e di cordoglio
accanto a lui stremato
di venerazione impotente.
47
La sua visita
al cimitero
assomiglia
alla mia corvée
quotidiana.
La cura maniacale
rispetto
di un rituale
consolida
rinfranca
la coscienza
di un conto
pesante
da pagare.
Non fingiamo
sollecitudine.
La dètta l'imperativo
di un debito.
Parcella
sentimentale
o esenzione morale
dall'esubero
del dolore.
*
Lucilla
Niccolini
*
Tutto il tempo impiegato
a dedicarmi a te
è movente presunto
della rabbia
con cui
accolgo ogni volta
la verifica
allarmante
dell'abbandono
che subisci inerme.
48
Fuggo via.
Non sbatto la porta
ma ogni uscita
è una fuga, resa
a caro prezzo,
quello della tua
solitudine
che non ti spieghi.
Non saprò mai
cosa trattiene
il tuo ricordo vicino:
se l'offesa
delle mie insofferenze
o il sorriso che parco
riesco
a dispensarti
raramente.
E solo perché
tu non t'accorga
della sofferenza
che mi costa
appendere
ogni mio giorno
alla tua esistenza.
Lucilla
Niccolini
49
*
E se per un minuto
(magari di più!)
tornassi a essere
la guida
inappellabile
della famiglia?
Se tu recuperassi
l'aceto e l'ago
della tua ragione
non credo che sarebbe
un'ora facile.
Non saprei spiegarti
le ragioni
del mio tradimento.
Non vorresti ascoltarle,
mi guarderesti
stranita.
Sarebbe un'ammissione
di questa tua
nuova vita
che non sai.
*
Lucilla
Niccolini
50
Rimasi stupefatta
quando alla notizia
più tragica
della nostra
storia
(più ancora
dell'altra grande
morte)
ti chiedesti
guardandomi
all'improvviso
“Cosa mi devo
mettere?”
fedele a quella tua
etica dell'estetica
che ora raramente
riappare
inaspettata.
Dissolve per un po'
l'ansia del tuo ritiro.
Ravviva
la mia speranza
di un tuo
impossibile
ritorno.
http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/migranti-le-autorita-greche-danno-il-via-allo-sgombero-delcampo-profughi-di-idomeni_3010281-201602a.shtml
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
Album
di Claudio Salvi
LACUSTRINE
Collana diretta da Renata Morresi
€uro 12,00 - ISBN 978-88-99429-11-9
Il volume è composto da quarantotto liriche di Claudio Salvi
e dalla nota di postfazione (“luoghi in attesa. o soltanto vuoti.”)
di Giulio Mozzi.
Il libro è in formato 15 (base) x 21 cm (altezza),
consta di 60 pagine in carta Avorio Sahara g/mq 120
e di una copertina stampata in 4 colori su carta Acquerello Avorio g/mq 240.
A seguire (oltre alla bio-bibliografia di Claudio Salvi):
undici testi dell’autore
e “luoghi in attesa. o soltanto vuoti.” di Giulio Mozzi.
Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume
e alle modalità di acquisto dello stesso:
http://www.arcipelagoitaca.it/wpcontent/uploads/2016/08/scheda_album.pdf;
http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/
I testi che seguono sono tratti da Album di Claudio Salvi
(Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016).
Selezione a cura di Danilo Mandolini
Claudio Salvi
È nato a Milano nel 1976 e qui vive.
Suoi testi sono stati pubblicati in “Nazione Indiana”, “Vibrisse”, “GAMMM” e “Piazzaemezza”.
Alcuni suoi testi critici sono stati pubblicati in cataloghi e monografie di artisti.
Album è la sua opera prima in versi.
51
Da Album
Claudio
Salvi
Da Album
*
bisogna vedere adesso. stanco, ammaliato.
pauroso del volo.
f. argomenta contro tassisti, notai - canaglie.
la luna gialla è appena sopra il condominio.
scende la neve
uno se ne sta lì.
che ore sono - balbetto un po’, le otto. alzando l’indice.
ci metto due ore a fare dieci righe.
io che desidero vedermi la città da me e la vedo in foto.
52
ma sono i profumi, i rumori che non senti.
e tutto quello che non esiste: una casa per esempio. un prato.
di un viaggio in aereo − vuoti, tremori − si era tanto spaventata.
*
Claudio
Salvi
non ci vuole tanto.
un prato di erba finta ecco tutto.
e luci a forma di papavero.
un corridoio di legno dove qualcuno passa accanto a banchi schierati.
un uomo firma certi libretti.
in angolo una lampadina.
questa stinge le pareti.
poi la fila indiana di ragazzi e ragazze.
più niente da vedere.
eccetto la ragazza che corre avanti altri due passi e che tengo per il braccio.
non tenermi, ride, che faccio come il cane - e tira.
*
53
«quasi ogni giorno compro pane che consumo a fatica».
«costa un tanto a chilo, sono poche le cose che non dimentico».
dice il vicino.
«non esiste un orecchio disponibile al momento».
intanto un uccellino prende le briciole.
per i giardini nessuno si è visto.
forse il miraggio di un acquazzone.
il vicino tende le mani.
«ecco è finito».
Claudio
Salvi
*
siamo al ristorante emanuel. la spiaggia dietro la mia sedia. mi alzo, vado verso il mare. metà luna illumina
l’acqua. le barche a vela hanno luci in cima agli alberi e oscillano. tante persone stanno sul molo. due
bambini sulla riva, uno tira sassi e quando lo supero cerca qualcosa. salgo sul molo, vedo persone che
scendono su piccoli gommoni a motore. due olandesi guardano, lui beve da un bicchiere di carta e lei gli sta
abbracciata al fianco, una donna gli parla in inglese cattivo, ridono, l’olandese dice buona fortuna. la donna
scende su un gommone con le bambine, il gommone affonda quasi sotto il pelo dell’acqua, il motore non si
accende, quando partono l’olandese alza il bicchiere. il molo è lungo poco più di dieci metri e in fondo un
uomo pesca con un galleggiante luminoso e intorno dei bambini. l’acqua è nera. a metà costa le luci di paesi.
c’è calma. penso che questi sono i miei contemporanei e non voglio non so rendere quell’atmosfera. c’era
calma e c’erano le voci della gente. mi sono mescolato a loro e nessuno mi badava. ho visto la partenza. il
pescatore non ha fatto attenzione, dall’ultimo gommone le donne hanno salutato l’olandese. una è scesa
senza scarpe. i gommoni sono arrivati fino alle barche ferme, ho visto una luce illuminare il fianco di una
barca. andavano a letto.
54
Da Polaroid
Claudio
Salvi
*
due righe (?) - se guardi bene io sono in piedi. emily chiede di te. è lei che si siede. bel tempo fino a martedì.
*
questo è un liceo. chiusure, blocchi - un prato. un’auto in pieno sole. muovendoci attorno chiaro senso di
spazi nuovi.
*
dopo la pioggia - in cima. portofino è interamente in territorio italiano. cosa ne dici dello scorcio.
*
gli uccelli mangiano le ciliegie - io metto una radio in mezzo ai rami di questo ciliegio.
55
[…]
Da Sogno
Claudio
Salvi
*
misurare una cosa non vuol dire forse regolarla. non è una regola che richiedo adesso. è una
misura.
come in geometria.
così ho fatto la foto ai ragazzi arabi che giocavano a pallone con il muro di una chiesa.
ho fotografato un albero dal basso con la macchina fotografica. era pieno di fiori. poi sono
caduti.
bisogna fare ecc. - diceva. io ho detto un’altra cosa, non mi ricordo. poi siamo andati fuori, era
buio. ho detto un’altra cosa, avevo fame.
56
Da Altri scritti
Claudio
Salvi
*
l’effetto della fotografia è l’effetto di un mezzo trasparente. si vede ciò che l’occhio ha registrato in uno
spazio nuovo.
fotografa una foto di un giardino. in tutti i casi hai un’immagine. io la indico e dico − guarda che giardino −
ma chi vede dice - io vedo una foto.
e un altro dice - sì è un bel giardino.
in fondo non si fa altro che ripetere quello che c’è. le cose cambiano però quando qualcuno mette la copia in
mezzo a un numero di originali tra cui non si può distinguere.
adesso fotografa una porzione di un atlante. non c’è differenza tra la foto e l’atlante. allora come si può dire
che cos’è?
oppure non si conosce l’originale ma tu dici - questa è una foto.
io non so dire se è così o è una porzione di un atlante.
57
una foto può far vedere un giardino o un’altra cosa in un certo modo che non si può far vedere altrimenti.
Claudio
Salvi
*
in questa foto non c’è l’idea che mi sono fatto di un fantasma. ma chi dice che uno vuole vedere un
fantasma così come gli appare. uno vuole vedere in certi casi ciò che non si aspetta.
si vede un fantasma o un effetto che questo produce in stanza (muove un oggetto).
se è un effetto le persone dubitano dell’oggetto e non di ciò che causa il movimento? allora non dubitano
per niente del fantasma.
o è la foto che uno indica - è il fantasma.
è un effetto causato da qualcosa? di questo dubito, così della foto e di chi fotografa.
ma di cosa dubito? di me stesso in pratica.
che questo sono io −
ma un altro dice − sei tu
58
Da Album
Claudio
Salvi
“luoghi in attesa. O soltanto vuoti”
di Giulio Mozzi
Lo so, non è così che dovrebbe dire un postfatore, ma mi sento costretto a dirlo: c’è poco da aggiungere, ai
testi di Claudio Salvi, oltre a ciò che Salvi stesso scrive e (esplicitamente, nelle ultime pagine) ne scrive.
Si può tentare, per l’avvio del discorso, un brevissimo catalogo.
Abbiamo finestre, piogge che iniziano o durano o finiscono o sono appena finite, altre finestre; c’è il gesto di
indicare, abbastanza insistito (di indicare a qualcuno).
Va presa sul serio, la frase di Léon Brunschvicg che sta in apertura, letteralmente e metaforicamente. Salvi
non sembra percepire (e restituire) davvero personaggi (benché personaggi ci siano), oggetti (benché
oggetti ci siano), luoghi (benché luoghi ci siano, e della più comune quotidianità): “A me piace guardare un
buco per la forma che ha, non per quello che di umano porta”. E nemmeno, specificherei, per ciò che ci si
può vedere attraverso.
59
Ironicamente (credo: ma forse di un’ironia inavvertita dall’autore) s’intitola Polaroid, una sequenza di
questo libro. I fotografi dicono (cito luoghi comuni stracitati) che la fotografia non “rappresenta” la realtà,
ma ne “mette tra virgolette” un pezzo. Altri fotografi dicono (v.s.) che non è importante solo ciò che entra
nella fotografia, ma anche (e forse - e qui il luogo comune diventa vezzo) ciò che ne resta fuori.
Ecco: direi che ciò che mi appare, leggendo i testi di Salvi, è: le (impronunciabili) virgolette, il bordo (che, in
quanto bordo, non è né dentro né fuori: è in nessun luogo) della fotografia. Ovvero: il gesto di indicare. Il
rivolgere lo sguardo, non ciò che lo sguardo coglie (che sembra, e magari può essere davvero, casuale), non
ciò che lo sguardo non coglie.
Claudio
Salvi
Leggendo i testi di Salvi mi abituo a uno sguardo che è insieme molto assertivo (la forma del buco!) e per
niente assertivo. Questo suscita in me molte cose, mi fa venire il mal di testa, mi fa sentire la tentazione di
rovistare nelle cose che appaiono (palloncini, schermi bucati, bar, erba finta, vecchi cessi, minestroni), e io
resisto alla tentazione. In ciò trovo un guadagno. Non esattamente un benessere. Non esattamente un
piacere. Ma un aumento di conoscenza; sì, e un aumento di conoscenza della conoscenza.
Ciò che si chiama bellezza, in una parola.
Non ho molte patenti per parlare o scrivere di poesia (anzi: non ne ho nessuna… Oggigiorno, per parlare di
poesia, servono moltissime patenti, e raffinatissime), e quindi posso solo offrirvi la sensazione, l’esperienza
della lettura.
Non vedo niente (niente di particolare, niente di attraente), quando leggo Salvi, ma vedo.
Come dicevo in cima alla presente paginetta, c’è poco e anzi nulla da aggiungere a ciò che Claudio Salvi
scrive.
60
Giulio Mozzi
È nato il 17 giugno del 1960. Abita a Padova.
Si è diplomato presso il Liceo-Ginnasio “Tito Livio”. Dopo aver svolto diversi lavori si è principalmente
occupato, dal 1996 al 2001, di corsi e laboratori di scrittura e narrazione. Dal 1997 al 1999 ha inoltre
collaborato con la casa editrice Theoria. Dal 2001 ai primi mesi del 2009 è stato consulente per la narrativa
italiana di Sironi Editore. Nel 2006 ha dato vita, con un gruppo di generosi amici, alla casa editrice in rete
vibrisselibri, ora di fatto cessata. Dal 2008 al 2014 è stato consulente di Einaudi Stile Libero. Dal 2009 al 2013
ha collaborato con l’Istituto per la sperimentazione didattica ed educativa (Iprase) della provincia di Trento.
Attualmente è consulente di Marsilio Editori per la narrativa italiana. Nel 2010 ha iniziato una
collaborazione amichevole con Laurana Editore, dalla quale è nata la “Bottega di narrazione”.
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Tra le sue numerose pubblicazioni (riguardanti svariati “ambiti dello scrivere” e realizzate anche con
diversi editori di rilevanza nazionale), le più recenti sono: [con Clementina Sandra Ammendola, cura]
Abitare. Un viaggio nelle case degli altri (libro d’inchiesta, prefazione di Marianella Sclavi. Terre di Mezzo
2010); [con Amedeo Savoia, cura] Il diario di tutti. Un esperimento di “scrittura privata” svolto dagli stidenti delle
scuole superiori della provincia di Trento (prefazione di Gustavo Pietropolli Charmet, Iprase 2010); Madrigali
rudimentali (poesia, sfogliabile in rete, 2010); La stanza degli animali (prosimetro, :duepunti edizioni 2010);
[con Valter Binaghi] 10 buoni motivi per essere cattolici (saggio, Laurana 2011); Il male naturale (racconti, nuova
edizione con postfazione dell’autore e un saggio di Demetrio Paolin, Laurana 2011); [con Marco Signorini e
Silvia Montemurro] Ricordami per sempre (fotoromanzo, Museo di fotografia contemporanea 2011); Consigli
tascabili per aspiranti scrittori (Terre di Mezzo 2012); La felicità terrena (nuova edizione con un racconto in
meno e due in più, una postfazione dell’autore e uno scritto di Carlo Dalcielo, Laurana 2012); Sono l’ultimo a
scendere (nuova edizione, con aggiunte e antologia della criticia, Laurana 2012); Dall’archivio (in versi,
Aragno 2013); [con Stefano Brugnolo] L’officina della parola. Dalla notizia al romanzo: guida all’uso di stili e
registri di scrittura (Sironi 2014); Favole del morire (con una postfazione di Lorenzo Marchese, Laurana 2015).
Qui, ulteriori informazioni di dettaglio:
https://vibrisse.wordpress.com/giulio-mozzi/
http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/12/foto/idomeni_primi_vagiti_nel_fango_il_neonato_nella_tendop
oli_dei_migranti-135321461/1/#1
Patrizia Cavalli
Vetrina speciale
A partire da questa ventesima apparizione di “Arcipelago itaca” blo-mag
si inaugura un nuovo spazio denominato, appunto,
Vetrina speciale.
Una delle più recenti opere di un poeta italiano contemporaneo e vivente sarà oggetto
di una nota inedita redatta da due critici.
A seguire i due contributi critici appena indicati:
una selezione di testi tratta proprio dall’opera in versi al centro dello speciale.
Per questa prima occasione un grazie particolare va a
Flavio Cogo e a Simone Giusti
per la grande disponibilità ed attenzione dimostrate.
Franco Buffoni
Patrizia Cavalli
Su Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni.
Di Flavio Cogo
AVREI FATTO
LA FINE DI
TURING
Di Franco
Buffoni
Avrei fatto la fine di Turing è un volume autobiografico in cui Buffoni ricostruisce i rapporti e i sentimenti nei
confronti dei genitori, visti attraverso ricordi, sensazioni ed episodi vissuti a partire dall’infanzia. Il poeta
sottolinea che il tema profondo del libro “consiste nel rapporto tra inizio e fine della genitorialità, ma anche
nel suo opposto: la necessità di sopprimerla per potere sopravvivere”, concetto che nella sua crudezza si
dipana in tredici dei quattordici capitoli del libro (la prima, Per placare Monaldo, chiaro riferimento al padre
di Giacomo Leopardi, assume un significato universale che va oltre l’autobiografismo).
Buffoni esplicita il significato del titolo del libro e dell’omonima poesia nelle Note, poste alla fine della
raccolta: Alan Turing è un matematico e crittografo inglese, “uno dei padri dell’informatica”, “il cui
contributo fu decisivo nel decrittare i codici segreti nazisti e quindi nel determinare le sorti della guerra”
che “morì suicida, dopo essere stato sottoposto a castrazione chimica in quanto omosessuale” (p. 121). Nella
poesia Avrei fatto la fine di Turing Buffoni sottolinea il rischio in cui sarebbe incorso il poeta, grazie al padre e
alla “pavida e sottomessa acquiescenza” della madre, se la sua omosessualità fosse stata svelata. A
rimarcare il recente passato di repressione di gay e lesbiche in Italia, Buffoni è esplicito:
Avrei fatto la fine di Turing
O quella di Giovanni Sanfratello
In mano ai medici cattolici
Coi loro coma insulinici
E qualche elettroshock. […] (p. 17)
62
Ricorda Sanfratello nelle Note: “rapito dai famigliari a Roma nel 1964 […] «curato» con elettroshock e coma
insulinici […] ritornò in «famiglia» in stato vegetativo” (p. 121), rammentando e denunciando le
oppressioni subite dagli omosessuali ad opera del potere civile, medico-psichiatrico e religioso.
La seconda parte di Avrei fatto la fine di Turing riassume la vera sostanza del padre e dei rapporti conflittuali
col poeta e la sua omosessualità:
[…] Perché era un piccolo borghese
Il mio padre amoroso
Non si sarebbe mai sporcato le mani.
Controllando l’impeto iniziale
Vòlto allo strangolamento
Del figlio degenerato,
Ai funzionari appositi
Avrebbe delegato
La difesa del suo onore. (p. 17)
AVREI FATTO
LA FINE DI
TURING
Di Franco
Buffoni
Il padre è incapace di amare il figlio, privo di spontaneità persino nelle dimostrazioni d’affetto, è una figura
urlante, smarrita nel suo passato di ufficiale che ha subito passivamente la Seconda Guerra Mondiale, la cui
virilità non si distingue da quella convenzionale degli anni ’50. Buffoni rende palese la distanza e la
conflittualità con la figura paterna fino ad arrivare alla consapevolezza del possibile parricidio senza senso
di colpa alcuno:
Me ne nutro, ci sguazzo in questa faccia
Ancora da ragazzo che mi vedono, e agglutino
Nel sacco insieme a un cane e a un gallo,
Senza vipera o serpente.
Non ho ucciso niente. (p. 39)
Il poeta chiarisce il significato oscuro di questi versi nelle Note: “Essere gettati a fiume in un sacco assieme a
un cane, un gallo, una vipera (o un serpente) e una scimmia era la punizione che Roma infliggeva ai
parricidi” (p. 122).
Il contrasto col padre si attenua all’approssimarsi della morte di quest’ultimo: la cruda constatazione della
malattia e la decadenza fisica prendono il sopravvento sull’ostilità e il conflitto, senza però attenuarne
l’assoluta lontananza:
63
Ogni volta che fisso negli occhi un albero
Sento che mio padre mi guarda
E non è affatto piacevole. (p. 56)
Vita col padre e la madre è il capitolo che lega la prima parte del libro dedicata al padre alla seconda dedicata
alla madre. Scampoli di vita quotidiana, segnata dai litigi, urla e tensione che caratterizzano i rapporti tra i
genitori fino ad arrivare all’odio accompagnato da un’ostentata indifferenza e formalità che cela un carico di
rancore e violenza sopita. In questo capitolo Buffoni situa la perdita della verginità (Tra le dita il bruciore, p.
63) ricordando lo sbigottimento dei genitori e la poesia Ritratti dove appare la prima descrizione materna,
basata sul confronto di due foto dei genitori, preludio alla seconda parte del volume. La madre diciottenne
xx
dall’ “espressione pacata”:
AVREI FATTO
LA FINE DI
TURING
Di Franco
Buffoni
[…] Nel ritrattino alla Vermeer,
Che fa pendant
Con la piccola luce di collera negli occhi
Del babbo adolescente
Che ricordo bene al naturale. (p. 64)
Sei sono i capitoli dedicati alla madre. A differenza della figura paterna, quella materna non viene trattata
cronologicamente: questa sezione si apre con la madre già in là con gli anni, e si chiude con le impressioni
lasciate da una madre anziana e nel contempo giovane, frammiste ai ricordi dell’infanzia.
L’ottavo capitolo, dal significativo titolo Dulcissima, testimonia l’attenzione amorosa riservata alla madre
negli ultimi anni di vita di questa, dove le incombenze della cura, della presenza e della premura verso la
fragilità che deriva dalla malattia sono espresse con leggerezza a partire dai comportamenti:
Quando non ci saranno più le mie chiamate
Tra le sette e le otto
E se ritardo un labbro che leggermente trema. […]
Attenzioni dunque, che sono accompagnate da una promessa:
[…] Quando non dovrò più tenerti
Bassa la pressione
Quanto tempo che avrò
Per scrivere di te. (Dulcissima, p. 69)
64
La madre, figura nutrice che sostiene la “vita vera” della casa, si prestò a ricoprire il ruolo di madrina di
guerra, scrivendo “A un ragazzo sconosciuto / […] con l’incoraggiamento dei comandi / E delle canossiane”, attività
imbarazzante che costringeva entrambi a mobilitare le ronde “Per impedire l’incontro / In caso di licenza” (p.
82) e ricorda i nomi dell’attrice Luisa Ferida (“Luisa Ferida ti sentivo pronunciare / Un nome caldo dalle
profondità del regime”) e di Edy Campagnoli, annunciatrice televisiva, presente nel ritratto “Datato
millenovecentocinquantasei / Incorniciato in tinello”, “Agile modella” “Rapinata come anziana sola / Da due finte
ispettrici della Asl” (p. 83), rimarcando così il decadimento, sia fisico, mentale e sociale, a cui conduce la
vecchiaia. Amara è la constatazione:
Muoiono i nostri cari
Lasciandoci i resti dei loro
Matrimoni sbagliati. (p. 85)
AVREI FATTO
LA FINE DI
TURING
Di Franco
Buffoni
I capitoli XI-XIII svelano la fase terminale della vita della madre, affrontata serenamente, dove il ricordo
vivo e presente non cade nel patetico, dove lo scorrere del tempo comprende piccoli episodi, notizie e
digressioni, rendendo tangibile al lettore il dolore provato dal figlio nell’affrontare il lento ma inesorabile
cammino della madre verso l’epilogo. In Mancava solo che per compiacermi, la morte è affrontata con una
delicatezza e sensibilità rare. Nel raccontare la caduta nel coma della madre, i versi ci restituiscono
un’atmosfera di intimità familiare:
Mancava solo che per compiacermi
Ti alzassi per fare colazione
E poi tornassi a letto a finire di morire
La mattina del 27 dicembre.
Respiro lungo da sonno imbronciato,
Gentilezze da figlio a casa per le feste.
«Ti preparo il tè», e la convinzione
Di avere udito un grugnito d’assenso.
Invece il coma ti aveva già saldato
Il respiro ai sensi: «Il tè si fredda»
Mentre guardavo le mail… […] (p. 95)
65
Il significato del capitolo XIV, Cristo-Mercurio e Venere-Maria, è chiarito dall’autore nelle Note: per affrontare,
superare e sopprimere la genitorialità il figlio all’inizio “quasi esce dal ventre del padre per rientrare
nell’explicit nella madre, assurta a mitologica Venere-Maria” (p. 121): perciò non comparirà più il padre,
figura oramai inutile. La madre aleggia sull’infanzia delle fiabe colorate a matita, con i suoi misteri e la
consapevolezza della crescita, i cui giochi vengono interrotti al grido “È pronto!” (La ringhiera tace, p. 112), e
dalla voce che lo accompagna scalino per scalino.
Avrei fatto la fine di Turing è un’opera originale, che affronta in maniera nuova i rapporti famigliari,
attraversati da conflitti, amore, incomprensioni, violenze e affetti, e che per schiettezza e sensibilità non
trova riscontri nella poesia italiana; un libro destinato a diventare un piccolo classico.
Meglio amare, meglio scrivere.
Su Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni.
Di Simone Giusti
AVREI FATTO
LA FINE DI
TURING
Di Franco
Buffoni
“Nella Londra degli anni Cinquanta non era facile, e nemmeno sicuro, essere un omosessuale dichiarato o
praticare l’omosessualità; se scoperte, tali attività potevano portare a pene severe, all’incarcerazione o, come
avvenne nel caso di Alan Turing, alla castrazione chimica mediante somministrazione obbligatoria di
estrogeni. Le posizioni dell’opinione pubblica erano, nel complesso, di condanna come quelle della legge”.
Ho cominciato a leggere Avrei fatto la fine di Turing con queste parole di Oliver Sacks ancora in mente. Fresco
di lettura di In movimento (On the Move. A Life, traduzione di Isabella C. Blum, Adelphi 2015), mi è stato
sufficiente aprire il libro di Buffoni e scorrerne l’indice per capire che mi sarei trovato coinvolto in un
grumo di cognizioni ed emozioni simile a quello che avevo ancora in mente e nel corpo dopo aver letto
l’autobiografia di uno dei miei intellettuali prediletti, della cui vita privata fino a quel momento non sapevo
niente fino a quando, all’improvviso, mi sono trovato immerso in scene come questa:
«Non sembra che tu abbia molte ragazze» disse. «Non ti piacciono?».
«Ma sì, mi vanno benissimo» risposi io, desideroso di chiudere la conversazione.
«Preferisci forse i ragazzi?» insistette lui.
«Sì – ma è solo una sensazione – non ho mai “fatto” niente». E poi aggiunsi, timoroso: «Non dirlo a
mamma, non lo sopporterebbe».
Invece mio padre glielo disse, e il mattino dopo lei scese con la faccia stravolta dalla collera, una faccia che
non le avevo mai visto prima. «Sei abominevole» disse. «Vorrei che tu non fossi mai nato». Poi se ne andò e
non mi parlò più per diversi giorni.
66
Una situazione che solo uno scrittore laico e profondamente permeato di cultura scientifica poteva risolvere
– con grande sollievo del lettore – con un ragionamento sul potere dell’educazione e della cultura:
Siamo tutte creature della nostra educazione, della nostra cultura e dei nostri tempi. E io ho avuto più volte
bisogno di ricordare a me stesso che mia madre era nata negli anni Novanta dell’Ottocento, che aveva avuto
un’educazione ortodossa e che nell’Inghilterra degli anni Cinquanta il comportamento omosessuale era
trattato non solo come una perversione, ma come un reato perseguibile. Devo anche ricordare che il sesso è
una di quelle materie – come la religione e la politica – in cui persone altrimenti moderate e razionali
possono nutrire sentimenti intensi e irrazionali. Mia madre non intendeva essere crudele o augurarmi la
xxx
morte. Adesso mi rendo conto che era stata presa alla sprovvista e sopraffatta, e che probabilmente
rimpianse le parole che aveva pronunciato o forse le segregò in una parte isolata della sua mente.
Esse però mi tormentarono per buona parte della mia vita ed ebbero un ruolo fondamentale nell’inibirmi e
permeare di sensi di colpa quella che avrebbe dovuto essere un’espressione libera e gioiosa della sessualità.
AVREI FATTO
LA FINE DI
TURING
Di Franco
Buffoni
67
Armato di questa storia, ho cominciato dunque ad aggirarmi nei dintorni del libro di Buffoni, consapevole
– me lo dicevano il prestigio della collana editoriale, la complessità dell’indice, la cura del peritesto, lo
stesso titolo, incisivo al limite della violenza – di trovarmi di fronte a un testo importante, forse decisivo per
la carriera di uno scrittore che da alcuni anni cerca di fondere autobiografismo – sempre più narrativo,
sempre meno criptato – e saggistica, azione poetica e azione politica.
Nelle Note in fondo al libro si può trovare la chiave di accesso (una delle chiavi, poiché ciascuno entra ed
esce da qualunque varco riesca a individuare), l’amore filiale, il rapporto di un figlio con i suoi genitori e,
più in generale, di un giovane con le figure adulte di riferimento. Un uomo (un bambino, un ragazzo e poi
un adulto) che fa i conti con l’educazione dei propri genitori, con la loro cultura, che, più o meno
subdolamente – attraverso il canale privilegiato delle emozioni amorose – irretisce, forma, orienta e vincola
la vita che sta cercando una sua definizione.
Franco Buffoni sa – e lo dice nelle Note – che suo padre non sarebbe mai stato in grado di accettare la sua
omosessualità e, se il figlio l’avesse esplicitata, avrebbe certamente provveduto a farlo “curare”, con la
complicità della moglie e madre (della sua “pavida e sottomessa acquiescenza”). E Franco avrebbe fatto la
fine di Turing, appunto, prima messo alla berlina, già condannato all’atto stesso dell’accusa, e poi recluso –
anche se in un luogo di cura, in un manicomio per esempio – e infine suicida. Perché quella degli anni
Cinquanta e Sessanta - e anche per tutti i Settanta – è una società che non esita a mettere le mani addosso a
una persona, se ritiene che quella persona sia semplicemente sbagliata. E i genitori altro non sono che la
famiglia, la cellula della società, chiamata a dare forma all’individuo, a prepararlo a farsi a sua volta cellula,
anche – anzi, necessariamente – a prezzo della sua libertà individuale.
E così, sembra quasi naturale – e invece va considerata una scelta straordinaria, potente, rivoluzionaria –
trovare all’inizio del libro, in prima posizione, una poesia che si intitola Per placare Monaldo: il figlio migliore
della civiltà letteraria italiana a confronto con il suo aguzzino e coi suoi alleati.
Occorre fingere per placare Monaldo
Abbozzare
Smettere di accusare il vecchio tonto
Di clericale codinaggio,
Piuttosto concentrarsi sullo Stato di Milano
AVREI FATTO
LA FINE DI
TURING
Di Franco
Buffoni
68
Sulla cultura libertina
Di Settala e Cardano
Tra scienza e medicina… O meglio
Su ciò che è stato lo Stato di Milano…
Perché dal catechista amico del Giusti
V’è ormai ben poco da aspettarsi,
Palese è il voltafaccia,
Col ritorno dei viennesi s’è dato
Alla distribuzione del viatico agli infermi
E agli inni sacri.
È Leopardi contro Manzoni, il contino Giacomo – la vittima per eccellenza di una genitorialità-prigione che
non prevedeva fine, destinata a durare per sempre, fino alla morte o alla fuga – contro il conte Alessandro,
l’amico del Giusti, da cui nulla ci si può aspettare. È, anche, la cultura laica e liberale, individualista, contro
la cultura cattolica e clericale. Parafrasando una celebre canzone inglese degli anni Ottanta (“Keats and
Yeats are on your side / While Wilde is on mine” - The Smiths, Cemetery Gates, 1986), potremmo cantare,
mettendoci nei panni dell’io lirico che si rivolge al padre, che “Manzoni è dalla tua parte, ma Leopardi è
dalla mia”. Da una parte l’amore libero, che trae origine dai sensi, dal corpo senziente, dall’altra l’amore
controllato, sottomesso ai bisogni di sicurezza di una parte della società. L’amore che travolge e trasforma
contro l’amore che moltiplica e conserva.
La prima parte del libro è ingombrata dal padre di Franco, Piero Buffoni (1914-1980), di volta in volta
interlocutore (in absentia) o personaggio protagonista di una piccola saga familiare in cui gli tocca recitare la
parte del “babbo” e poi, più avanti, del marito, portando così sulla scena l’altra protagonista di questo Avrei
fatto la fine di Turing, la madre.
Così apro il libro al contrario e trovo un altro inizio: l’ultima poesia, Perché io che per te da bambino.
Perché io che per te da bambino
Un piccolo dio ero stato
E crescendo Cristo-Mercurio
Con te Venere-Maria,
Poi divenni il tuo
Padre e marito
Pur restandoti figlio,
Nella nostra costellazione famigliare
Per trent’anni al sole giocando
Sorgente
Con te luna calante.
AVREI FATTO
LA FINE DI
TURING
Di Franco
Buffoni
69
Trent’anni, dal 1980 al 2010, sono gli anni che separano la morte del padre da quella della madre. È la storia
di una lenta trasformazione del figlio in padre e marito, della madre in figlia e moglie. Ed è ancora un
dialogo coi morti, disturbati stavolta affinché ascoltino la storia di una lunga relazione di cura parentale.
La storia di una vita – e del rapporto cruciale di tutta una vita – narrata nel breve spazio di undici versi,
grazie anche a quei due composti quasi alchemici, Cristo-Mercurio e Venere-Maria, che costringono il
lettore a leggere e rileggere il testo alla ricerca di ulteriori spiegazioni. Seguendo la pista della VenereMaria, per esempio, possiamo ritrovarci a Milano, alla Pinacoteca di Brera, dove si trova la pala in cui Piero
della Francesca ha rappresentato una Madonna sovrastata da una grande conchiglia a cui è appeso un uovo
di struzzo (o una perla?), quasi fosse una nuova nascita di Venere. È la bellezza che non perisce, ed è anche
la capacità di generare senza alcun intervento maschile (in barba all’eterosessualità). Cristo-Mercurio,
invece, rimanda alla tradizione alchemica e alle nozze tra Sole e Luna, il cerchio (lo spirito maschile, la
capacità di conferire all’anima una coscienza individuale) e la coppa, a forma di falce di luna (lo spirito
femminile, la vitalità e la fecondità).
È così che io mi sono avventurato nel corpo del libro, dopo averne letto la testa e la coda, il padre e la
madre, i due princìpi che solo raramente si incontrano (forse perché le famiglie non sono luoghi ameni:
“Muoiono i nostri cari / Lasciandoci i resti dei loro / matrimoni sbagliati”), e sempre con risultati
straordinari, come nel caso in Ghiani-Fenaroli, capolavoro di poesia civile.
Un tempo, negli anni Ottanta, i critici dicevano, giustamente, che la poesia di Buffoni aveva ascendenze
laforghiane, palazzeschiane, poiché dissimulava con l’ironia – e anche con la voluta opacità del discorso – il
motivo di fondo della sua scrittura. Oggi, invece, potremmo dirla una poesia leopardiana, che riesce a
cantare la vita senza infingimenti, la propria vita, ridotta in episodi, ricordi, stralci a partire dai quali, grazie
a una versificazione che non esiterei a definire classica (sia pure di un classicismo interno alle logiche e alla
storia del versoliberismo), è possibile costruire una visione del mondo, un sistema – rigorosamente
asistematico – di pensiero. L’augurio è che attraverso la lettura sia possibile che le immagini, le storie, le
metafore si innestino nella mente e nel corpo di chi legge. E poi, a partire da lì, possano originare un
pensiero autonomo, libero, autenticamente poetico e democratico.
I testi che seguono sono tratti da Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni
(Roma, Donzelli 2015).
Selezione a cura di Danilo Mandolini
Da Avrei fatto la fine di Turing
Franco
Buffoni
Avrei fatto la fine di Turing
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Avrei fatto la fine di Alan Turing
O quella di Giovanni Sanfratello
In mano ai medici cattolici
Coi loro coma insulinici
E qualche elettroshock.
Perché era un piccolo borghese
Il mio padre amoroso
Non si sarebbe sporcato le mani.
Controllando l’impeto iniziale
Vòlto allo strangolamento
Del figlio degenerato,
Ai funzionari appositi
Avrebbe delegato
La difesa del suo onore.
Franco
Buffoni
Un sollecito nemico
«Solo questa per avisarti come ne’ dì passati
io ricevetti una tua, per la quale io intesi
tu avere avuto erete, della quale cosa intendo
come hai fatto strema allegrezza: […] con ciò
sia che tu ti sé rallegrato d’averti creato
un sollecito nemico, il quale con tutti li
suoi sudori disidirerà libertà, la quale non
sarà sanza tua morte».
(da una lettera di Leonardo
al fratellastro Domenico)
71
Erano i giorni d’agosto, le lumache lasciano il guscio,
Diventano vermi arancioni con gli occhi e le antenne:
Non sembrano più nate al loro prima
E tanto è il giorno che chiedono
E tanto era il giorno come fossi stato
Sempre senza te,
Fuori e dentro il guscio
Per non somigliarti.
Franco
Buffoni
Vittorio Sereni ballava benissimo
Vittorio Sereni ballava benissimo
Con sua moglie e non solo.
Era una questione di nodo alla cravatta
E di piega data al pantalone,
Perché quella era l’educazione
Dell’ufficiale di fanteria,
Autorevole e all’occorrenza duro
In famiglia e sul lavoro,
Coi sottoposti da proteggere
E l’obbedienza da ricevere
Assoluta: «È un ordine!»,
Riconoscendo i pari con cui stabilire
Rapporti di alleanza o assidua
Belligeranza.
Ordinando per collane la propria libreria.
72
Franco
Buffoni
Il filamento di platino
Il primo giorno del suo non risvegliarsi
Quasi sembra che a staccarsi dalle foglie
Dica di no
Ci pensi su, riscopra
La natura tra le bombe.
Ieri stringeva il pugno alzato
Lo scagliava contro i vetri dell’androne,
Oggi è frastornato, vede solo
Palloni fuoruscire
Dal muro in verticale delle tombe,
Bianchi e rossi come capi mozzati
Ricadere sul selciato.
Ma poi i cipressi lo terranno quieto
Sussurrandogli i nomi dei venti,
Il filamento di platino sciogliendogli tra i denti.
73
Franco
Buffoni
Le gocce in fila
Così fino a diventare una signora vecchia
Nella casa che le assomiglia,
La tappezzeria senza colore con gli strappi nascosti dai fiori
La badante che dorme nella stanza del figlio che non torna
E nel bagno degli anni cinquanta le gocce in fila sul marmo nero.
74
Franco
Buffoni
Traducevo Katherine Mansfield
Stavo traducendo Katherine Mansfield
O meglio traducevo del bambino
Che morì alla Mansfield
E poi riapparve a lei tutta la vita,
Quando nella mia domenica stranita
Irruppe la cronaca
Col referendum sulla legge 40.
Sono a favore, sempre a favore
Se alla fine incontro comunque
Sorrisi e carezze a un bambino.
Sono contrario, sempre contrario
Se alla fine incontro percosse
Ipocrite patrie
Potestà e prime
Comunioni con la fila
Dei maschi
E quella delle femmine.
75
*
Franco
Buffoni
Nella poltrona che ti conteneva
La sera prima di morire
Ho trovato una corona del rosario
Finita sotto il cuscino.
Forse all’improvviso ti eri volta
Verso la porta: arrivavo
Ogni tanto, e tu
Cambiavi espressione:
Ti tornava la luce negli occhi,
Uscivi dalla poltrona.
La castagna
76
Ho il riccio spinoso ma il cuor generoso
Mi mangiano cotta bruciata o ballotta
Mi trovo in campagna mi chiamo…
Mi disorienta non saperti al mare
In questa frazione dell’estate
Con le carte in mano e le tre amiche
Uscite a borse a fiori. E spalle nere piene,
Gambe a uncino, frasi dalle sdraio.
Mi disorienta non doverti chiamare
Per mentirti ogni giorno parole.
Che la tua terra sia
Di forma perfetta una castagna.
*
Franco
Buffoni
Poi basta una mattina di vero sole
Aprendo le griglie della sala
Luccica al raggio la cima del pino
Ed è la luce del cinquantanove
Coi tre vestiti dell’estate
Pronti per il Corpus Domini
Uno da passeggio seta a fiori
Per la processione
Uno da sera in tinta unita, scuro
O bianco, uno da casa se veniva gente.
Le nostre infanzie
77
Di quando il ventre ti fioriva di me
E lì il nostro tempo si è fermato.
Le nostre infanzie con le fiabe al Caran d’Ache
Nella scatola di metallo
E l’ultima già in età adulta,
Fino al tuo dolore animale
Che si fa quieta disperazione.
Quello è il passaggio che mi fa impazzire,
La trasformazione della fiaba in vita.
Franco
Buffoni
*
Mancava solo che per compiacermi
Ti alzassi a fare colazione
E poi tornassi a letto a finire di morire
La mattina del 27 di dicembre.
Respiro lungo da sonno imbronciato,
Gentilezze da figlio a casa per le feste
“Ti preparo il tè”, e la convinzione
Di avere udito un grugnito di assenso.
Invece il coma ti aveva già saldato
Il respiro ai sensi: “Il tè si fredda”
Mentre guardavo le mail…
78
“Brava! Sei stata brava!”,
Te lo dissi subito, tenendoti la mano
Appena smettesti con quel soffio leggero.
Tu che di lodi ne avevi ricevute
Sempre poche.
“Beh, almeno i figli
Li ho fatti intelligenti!”,
dicevi alle sue spalle
Dopo l’ennesima tirata sulla tua
Superficialità.
Magari incapaci di distinguere
Chi sogna da chi è in coma.
Franco
Buffoni
*
Perché io che per te da bambino
Un piccolo dio ero stato
E crescendo Cristo-Mercurio
Con te Venere-Maria,
Poi divenni il tuo
Padre e marito
Pur restandoti figlio,
Nella nostra costellazione famigliare
Per trent’anni al sole giocando
Sorgente
Con te luna calante.
79
Franco Buffoni
È nato a Gallarate nel 1948. Vive a Roma.
Saggista (L’ipotesi di Malin, Marcos y Marcos 2007) e traduttore (Poeti romantici inglesi, Mondadori 2005), ha
insegnato per trent’anni letteratura inglese e letterature comparate.
Nel 1989 ha fondato e tuttora dirige “Testo a fronte”.
Tra i suoi libri di narrativa: Più luce, padre (Sossella 2006), Zamel (Marco y Marcos 2009), Il servo di Byron
(Fazi 2012), La casa di via Palestro (Marcos y Marcos 2014) e l’ultimo Il racconto dello sguardo acceso (Marcos y
Marcos 2016).
Il suo esordio in poesia risale al 1978 ed avvenne, con presentazione di Giovanni Raboni, su “Paragone”.
Sono seguiti: Nell’acqua degli occhi (Guanda 1979), I tre desideri (San Marco dei Giustiniani 1984), Quaranta a
quindici (Crocetti 1987), Scuola di Atene (L’Arzanà 1991), Suora carmelitana (Guanda 1997), Il profilo del Rosa
(Mondadori 2000), Guerra (Mondadori 2005), Noi e loro (Donzelli 2008), Roma (Guanda 2009), Jucci
(Mondadori 2014), O Germania (Interlinea, 2015) e i recentissimi Avrei fatto la fine di Turing (Donzelli 2015) e
Pettorine arancioni e altre poesie (Carteggi Letterari 2016)
Il suo lavoro in versi è stato raccolto in Poesie 1975-2012 (Mondadori 2012).
80
www.francobuffoni.it
Flavio Cogo
Laureato in Letteratura italiana contemporanea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, a partire dal 1999
(ricerche biobibliografiche per R. Reali, Le pitture murali. L’edilizia civile a Lendinara e Badia Polesine, Venezia
Marsilio 1999) si occupa di storia e letteratura italiana contemporanea e collabora con artisti, scrittori, case
editrici e istituzioni culturali.
Ha pubblicato le monografie: Elio Vittorini editore 1926-1943 (presentazione di R. Ricorda, Bologna,
ArchetipoLibri 2012) e Mario Stefani e Venezia. Cronache di un grande amore (prefazione di Alberto Toso Fei,
Mestre-Venezia, I libri di Gaia 2013).
Tra i suoi scritti: Vittorini e una traduzione minore: The Life of Our Lord di Charles Dickens (in Elio Vittorini. Il
sogno di una nuova letteratura, a cura di L. Gasparotto, Firenze, Le Lettere 2010); Vittorini e i Musulmani in
Sicilia (in Un tremore di foglie. Scritti e studi in onore di Anna Panicali, a cura di A. Csillaghy, A. Riem Natale,
M. Romero Allué, R. De Giorgi, A. Del Ben, L. Gasparotto, Udine, Forum 2011); La ricezione delle traduzioni
anglo-americane di Vittorini (in “Otto/Novecento”, n. 2, 2012); Venezia Viet Nam 1965-1975: un decennio di
solidarietà (in “Mekong”, n. 2, 2012); Il Vietnam nella coscienza degli Italiani. Il caso di Venezia in 1973-2013. XL
anniversario delle relazioni diplomatiche Italia-Viet Nam. Saperi, diplomazia, cooperazione (a cura di S. Scagliotti e
L. Riccardi, premessa di A. Perugini, Torino, Quaderni Vietnamiti 2013).
Ha curato le revisioni dei cataloghi dell’artista Andrea Morucchio (Andrea Morucchio, Venezia, Pixart 2012;
Andrea Morucchio Catalogo ragionato 2000-2012, Venezia, Pixart 2012; Andrea Morucchio 2000-2013, Venezia,
Bugno Art Gallery 2013), nonché la produzione, le ricerche storico-iconografiche e i testi della mostra Viet
Nam Venezia Venice Viet Nam 1965-1975 del 2007.
81
Fa parte della redazione della rivista “Mekong”.
Ha creato la pagina facebook dedicata al poeta Mario Stefani:
https://www.facebook.com/mariostefanievenezia/
Ha creato la pagina facebook dedicata allo scrittore, traduttore e editor Elio Vittorini:
https://www.facebook.com/ElioVittoriniEditore19261943/
Per l’artista olandese Channa Boon nel 2015 ha scritto l’atto breve Venice Unsmasked (titolo provvisorio).
Simone Giusti
È insegnante, formatore di insegnanti e consulente esperto di politiche e pratiche dell’istruzione.
La sua attività di ricerca si è concentrata sulla lettura delle opere della tradizione letteraria, sulla didattica
della letteratura, sulla teoria della traduzione e sugli approcci narrativi applicati alla ricerca sociale.
Tra le sue pubblicazioni più recenti: Cambio verso (Effequ 2016), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci 2015),
Per una didattica della letteratura (Pensa 2014). Per Loescher condirige (insieme a Natascia Tonelli) la collana
scientifica “QdR / Didattica e letteratura”. Pubblica regolarmente sulla rivista online “La ricerca”
(http://www.laricerca.loescher.it/).
Il suo sito/blog è: www.simonegiusti.eu.
Altri siti web collegati alla sua attività: www.laltracitta.it.
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http://www.panorama.it/news/esteri/unicef-i-bambini-migranti-senza-cibo-tra-grecia-e-macedonia/
Vetrina
ABBONATO
Su Abbonato al programma delle nuvole di Giampaolo De Pietro.
AL
PROGRAMMA
DELLE
NUVOLE
Di Danilo Mandolini
Di
Giampaolo
De Pietro
83
Abbonato al programma delle nuvole (Forlì, L’arcolaio 2013, 13,00 €) di Giampaolo De Pietro è un’opera di
poesia che non può non essere definita come di grandissimo respiro. I soggetti offerti al lettore, le tonalità
utilizzate, persino gli scarti – i minimi movimenti del comporre in versi – paiono infatti davvero vari e
variegati. Nonostante una complessità, dunque, difficile da dire compiutamente e di cui gli aspetti appena
evidenziati sono solo alcune delle molteplici componenti colpisce, innanzitutto, la compattezza e
l’uniformità della pronuncia nei molti “frangenti” del libro (quattro sono le sezioni che organizzano più di
cento testi) e come questa – la pronuncia, cioè – riesca a rimanere chiaramente la stessa anche quando il
versificare passa dalla misura breve (sia essa verticale, che orizzontale) a quella lunga o allungata (a tratti,
diremmo, anche narrativa).
Va subito sottolineato, però, che la complessità alla quale ci si è riferiti in apertura di questo pezzo non è, in
ogni caso, tale da pregiudicare la fruizione di Abbonato al programma delle nuvole da parte di un qualsiasi
appassionato di poesia. Seppur anche vasto nelle sue numerose e possibili declinazioni (altresì riferibili alle
scelte linguistiche, di sovente originali, che probabilmente hanno, insieme ad altri “inneschi”, dato il là al
lavoro ed alimentato in progress lo stesso) l’apparire ostico di questo più recente volume di versi di
Giampaolo De Pietro sembra come sciogliersi – meglio: pare come semplificarsi con estrema naturalità – se
si cerca di familiarizzare al meglio con il potenziale, si passi l’espressione, leitmotiv dell’intera opera. Agli
occhi di chi compone questa nota di lettura risulta difatti difficile riuscire a sottrarsi al fascino della
dinamica che sembra sottendere alla creazione della maggior parte dei testi di Abbonato al programma delle
nuvole.
I versi di questa produzione pubblica del nostro si inseriscono con puntuale insistenza e rinnovata
profondità – attraverso il volgere delle pagine – nelle fessure infinitesimali che il divenire (umano; ma
anche della materia tutta) determina nel suo quasi sempre muto accadere. A tratti pare addirittura crearle,
queste fessure alle quali si è appena accennato, e ciò si verifica grazie alla “messa in scena” di un
contrappunto davvero sorprendente, di un contrasto formidabile il quale non può non essere qui
evidenziato.
Il frequente accostamento, all’interno di molti singoli versi, di termini che evidenziano, diciamo così, ambiti
ABBONATO
AL
PROGRAMMA
DELLE
NUVOLE
Di
Giampaolo
De Pietro
84
evocativi e di significato di dimensioni e portate tra loro “drammaticamente” differenti, contribuisce infatti
a determinare come la sottolineatura di una “frattura” che non può sfuggire al lettore più attento e che non
può, inoltre, non sedurre. A titolo dimostrativo (sono veramente molti i tratti del volume connotati da
questa peculiarità), si riporta qui di seguito parte di un passaggio in versi che è emblematico di quanto
appena evidenziato: «E se ne stessimo tracciando … / un tempo fra il tempo e il fiato?». Ecco: avvicinare
due sostantivi, “tempo” e “fiato”, che rimandano, sì, in qualche modo ed entrambi, alla dimensione umana,
ma che sondano due “territori” dalle estensioni (e anche dai contenuti direttamente o indirettamente a
questi stessi termini riconducibili) totalmente differenti tra loro, crea un rapporto di prossimità che
diremmo essere tanto sproporzionato e inaspettato quanto, di conseguenza, singolare. Singolare perché,
soprattutto, tende a moltiplicare le occasioni che possono stimolare, finanche indurre, il fruitore di questa
poesia ad abbandonarsi alle riflessioni più disparate e più profonde. Va aggiunto che questo particolare
“movimento” del versificare di De Pietro è reso anche attraverso altre modalità leggermente diverse, ma
dagli esiti sempre e comunque sorprendenti. Ancora un assaggio che riguarda, questa volta, l’accostamento
di vocaboli (che sono “entità viventi” e non) in grado di colpire il lettore alla stessa stregua del caso in
precedenza sottolineato: «Quella nuvola ha / il profilo liscio di / balena e le ali da / passero…».
Ed Abbonato al programma delle nuvole sembra scorrere – avanti ed indietro, senza soluzione di continuità –
proprio lungo questo confine fatto di fessure esplorate ed aperte dal comporre dell’autore; lungo una linea
sottilissima e tanto accennata ed irregolare in principio, quanto palese e precisa poi.
Il poeta indugia, insiste lungo questo limite che è, frequentemente, anche tra il visibile e l’invisibile; scruta
dentro gli interstizi che vede e che crea con la determinazione e la leggerezza di chi sa che, in ogni caso, non
avrà risposte alle domande che si pone; indaga con la consapevolezza che proprio nel percorso che la
poesia traccia (nel suo essere forma di espressione artistica che, appunto, non fornisce risposta a domanda
alcuna) risiede tutta la forza di una ricerca che è imprescindibile tout court, che non può di fatto
prescindere, verrebbe da aggiungere, dalla precarietà della condizione umana.
Nella creazione di questo grande mosaico in movimento sono coinvolti i sentimenti, il percepire fallace
dell’uomo, la natura, gli oggetti, lo stesso osservare… Tutte, insomma, le principali manifestazioni del
vivere (o comunque un vastissimo repertorio di queste) che tra l’altro scopriamo, spesso, tra loro intrecciarsi
ed interagire.
È necessario annotare, in chiusura di questa nota, che le scelte linguistiche alle quali è stato fatto prima
riferimento (soprattutto l’uso di termini e di modalità espressive poco comuni, nonché il ricorso frequente
alle reiterazioni) risultano assolutamente funzionali all’esaltazione del leitmotiv in merito al quale si è già
abbondantemente disquisito. Queste stesse scelte linguistiche ed il mood di vivace ironia che ne deriva e che
percorre ampi tratti del volume sono altre solide fondamenta alla base della grande fruibilità dell’intero
lavoro.
ABBONATO
AL
PROGRAMMA
DELLE
NUVOLE
Di
Giampaolo
De Pietro
85
I testi che seguono sono tratti da Abbonato al programma delle nuvole di Giampaolo De Pietro
(Forlì , L’arcolaio 2013).
Selezione a cura di Danilo Mandolini
Da Abbonato al programma delle nuvole
Giampaolo
De Pietro
Da ABBONATO AL PROGRAMMA DELLE NUVOLE
*
Vorrei lavorare
sui piccoli rumori
del tempo, badando
ai piccoli rumori
di tempo, che registrerei
con un apparecchio specifico
Un antiorologio.
*
86
La vita sorride agli angoli.
Dopo avermi detto sei bello
ma non in conseguenza
te ne eri andato.
La scritta là dietro
la pioggia, la città pure, ma
davanti agli occhi, o innanzi,
oceaniche linee
d’attesa e trasporto.
Smonta l’ombra,
fa l’accorta mal
accolta, c’è molto lavoro.
Giampaolo
De Pietro
Abbonato al programma delle nuvole
Quella nuvola ha
il profilo liscio di
balena e le ali da
passero, si sta
assottigliando.
Ce n’è un’altra
più rapace ha ali
divise. Abbonato
al programma
delle nuvole, per
il cane la porta
che si apre è
la scena madre.
87
*
Gli stessi spazi di
sabato e domenica.
Le finestrelle azzurrate
dei lunedì mattina
le occhiute forme di vita su marte
le scelte di mercurio e il nome di un gatto
il pianeta ch’è giove dei fiori tutti
e la venere dei nostri tenere e temere insieme.
Il dì dei dì di quando il traffico non esiste più
nelle città(e alla campagna si dedica un temporale,
un futuro e una quiete).
L’invenzione della musica nella nostra casa nuova.
Da PANE DELLE STESSE COSE
Giampaolo
De Pietro
88
*
Scrivere viene
scrivere se ne va
scrivere resta un po’
rimane come a una mano
il freddo all’altra il rifugio
va’ e viene, torni e sciopera
e non c’è tangenziale che prenda
non ama la velocità che invece
prova ad accettare, senza prendersi
del tutto il suo pressare, ma soltanto
il lato fallimentare o quello ideale tutt’
al più si perderà la carta la voce il testimone, e non è
universale
e un aggettivo trovato in finale quando nemmeno più
serviva,
scrivere non è un’iniziativa ché ora che mi viene è una parola
bruttina,
invece adesso ha una misura, così costante da parer vera,
vera e trattenuta, ma è uno sbaglio immantinente risultato,
scrivere non è niente, ha più risorse il pianto, forse, più
sorgenti il riso. ripeto a fiato.
Scrivere proviene da un’altra stella, che crolla tra il vetro e la
carta.
*
Giampaolo
De Pietro
Buona parte d’ombra.
Non ci sono occasioni perdute
Non ci sono occasioni migliori
Ore buone, uomini miei; questo
ci dice di noi il tempo orso bruno
in corrispondenza con l’orso polare
del tempo che resta sempre in mezzo
come la cosa terrestre che abbiamo
chiamato occasionalmente tempo perso.
Buona parte
deriva fatta.
*
89
Il pane delle stesse cose il frusciare delle tue rose di stanze il salterellare del canarino e del mare il sospirare sulle stesse linee chiare
sorella verde chiara
ho il tuo nome tra le dita
come margherite della mia mano
l’azzurro lo si vede dal corpo
che scende le scale o le sale.
Da NUVOLE IN CIELO - CAPELLI DI VIRGINIA WOOLF IN FOTO
Giampaolo
De Pietro
Tenere tracce dei consigli
(da una foto di Virginia Woolf a diciott’anni)
– Chiuse gli occhi – per riaprirli chissà quando e dove.
Come, se non con gli occhi stessi?
Con lo spazio scritto prima ancora di prendere, e scrivere,
decidersi a riempire il bicchiere d’acqua che segnerà, una
volta lasciato lì senza bere, la sospensione del tempo, il paese
di una abitazione, paese delle età sospese.
La scrittrice a diciott’anni, decise, chiuse gli occhi. non per
dire, forse neanche per ascoltare. Magari, mimetizzarsi, sì,
con le parole – non con quelle d’ascrivere, né quelle da
scriversi. Quelle che mimavano il solo, e il multiplo, il sole e
una parola sola. Alla lettera, e la sedia alata di chi studia con
l’aria la storia intorno, gli occhi delle storie di sé come
un’altra, un altro – occhi d’onde.
Forse, la scrittrice pensò a un bacio, un bacio intenso nel
tempo. Un bacio, al tempo, imperfetto.
90
“Così sono le città, come le vuole il vento”.
Così io mi sento. Come mi muove l’atmosfera che non
riesco a intravvedere, immaginando.
Sotto, sopra, un filo.
L’aria, diciott’anni, dal respiro
(Bicchiere d’acqua lasciata in segno di sospensione, bicchiere
che non evapora).
Giampaolo
De Pietro
*
Scala infinita
della schiena.
Non so
come va la vita,
ho il sonno leggero
e il vento addolcito
per libera
interpretabile
reazione.
O spaziatura del mare,
per isole del verbo resistere.
Gentili case che porgete
vostri balconi al sorger mattutino
ai passanti migliori,
vi voglio bene
e grazie per(e a)i vostri fiori.
91
Giampaolo
De Pietro
Buster(ebbe) Keaton
(improvvisato, di profilo, in quaranta ammicchi)
Sapevo poco del suo viso, se non quel che ne avevo visto
fuoco fumando un poco. La voce, poi, n’era del tutto ignota,
me insieme. Ora, avrei voluto scriverne. Una tesi sul suo viso
disteso alla sera dei conti o alla resa, fin che
quadra con il partire linea per sempre di ogni primo adito, a
fiutare.
E dei movimenti nel ventre io vuoto ventriloqui
di uno stesso margine che sarebbe forse cantabile,
inenarrabile.
A un punto, e una linea di ruga sottile l’improvato sorriso.
In trovarsi del fiato, ritrovarsi mutato col tempo
quasi mimetizzato al tv color-reale.
92
Giampaolo
De Pietro
*
Hai la tua mappa.
Punteggiatura, arca di segni.
Non ti fermare se ti fermi
piegati e come pregare a
tempo vivere un sorriso è.
Di volta in volta, (a) piccoli fiori.
È questo il ritmo l’unico da
piuma a polso ritmo d’ascrivere.
Sai che i libri aspettano. Non tutti, magari.
Che lei preparò come un trattato sonoro della ripresa.
Di a da in con su per tra fra – del fiato
(la preposizione è articolata solo prima del fiato stesso).
E se le fotografie fossero mappe del fiato?
E se ne stessimo tracciando una fra le altre
un tempo fra il tempo e il fiato? E per.
(la preposizione è semplice prima e per il fiato stesso)
93
Da VEDI, È UN IMPROVVISO - (ALFABETO, MIGLIO)
Giampaolo
De Pietro
*
“Io, più volte la ripeto e più significato le do”.
Piccolo, le case sono grandi, i palazzi esterni
che magari ti spaventi un poco, anche solo a
passarci sotto, otto e più volte coinvolto e
consapevole magari di un limite per tutti, tu
piccolo a smarrire di fronte alle apparenze
già effettive di per loro
emozionato è un conto
dentro è un canto pure
che si fa sentire fino a disperderlo
ed uscire dentro di te il confine
ascolta a spazio non dato
si canta pure a solo insieme.
94
Giampaolo
De Pietro
*
Ore a fare
verde
chiedere l’
atto di ritagliare
fiato
al vento
(è un verso di mio padre)
Tratteggiamo alberi
albeggiamo lunghi
e a dire primavera, soli & apostrofi.
95
Giampaolo De Pietro
È nato a Catania alla fine degli anni settanta.
La sua prima raccolta di poesie, Tre righe di sole (Archilibri, Salarchi Immagini), è del 2008; alcuni di quei
versi sono stati poi tradotti e pubblicati in riviste di lingua tedesca e slovena.
La foglia è due metà è il titolo del suo secondo libro, per il progetto Buonesiepi libri (2012), vincitore del
Premio Baghetta 2013.
È tra i redattori di Incerti editori.
Abbonato al programma delle nuvole (L’arcolaio 2013) è la sua penultima raccolta di versi. Del 2015 è il
poemetto Se i fantasmi vengono dalle statue con illustrazioni di Rossana Taormina (collana Isola).
96
Danilo Mandolini
È nato ad Osimo (AN), dove vive, nel 1965.
Ha pubblicato, in versi: Diario di bagagli e di parole (Edizione privata 1993), Una misura incolmabile (Edizioni
del Leone 1995), l’anima del ghiaccio (l’aliante 1997), Sul viso umano (Edizioni l’Obliquo 2001), La distanza da
compiere (Edizioni l’Obliquo 2004), Radici e rami (Edizioni l’Obliquo 2007) e A ritroso - Versi e prose (Edizioni
l’Obliquo 2013) che raccoglie, riscrivendola in buona misura, un’ampia selezione di tutta la sua precedente
produzione.
Sue poesie e suoi racconti brevi sono apparsi in antologie, riviste e blog letterari.
I suoi lavori hanno ottenuto riconoscimenti in numerosi premi letterari nazionali.
Nel 2010 ha ideato ed iniziato a curare “Arcipelago itaca”: un progetto di diffusione della poesia
contemporanea e non solo che nel frattempo è divenuto anche casa editrice (www.arcipelagoitaca.it).
Anamorfiche è il titolo della sua raccolta inedita di versi di prossima pubblicazione.
97
http://www.dw.com/en/idomeni-refugees-await-word-from-brussels/a-19115700
Salvatore Ritrovato
È nato nel 1967. È poeta, critico e saggista.
Ha scritto i seguenti libri di poesie: Quanta vita (Book 1997), Via della pesa (Book 2003; nuova edizione,
puntoacapo 2015), Come chi non torna (Raffaelli 2008), Dedo (e-book, «Quaderni di RebStein» - XIV 2009),
Cono d’ombra, ispirato a un viaggio in Bosnia-Erzegovina (con film-documentario, regia di A. Laquidara,
Transeuropa 2011), L’angolo ospitale (La Vita Felice 2013).
Ha tradotto dal francese, dallo spagnolo, dal latino e dal greco antico.
È stato tradotto in spagnolo, francese e olandese, su antologie e riviste.
Ha condotto trasmissioni radiofoniche sulla poesia e lavorato nel campo della piccola editoria come
correttore, traduttore e consulente, e nei giornali, come redattore culturale.
Collabora a varie riviste di poesia contemporanea, e co-dirige l’annuario di poesia contemporanea
internazionale Punto (puntoacapo).
Per quanto riguarda il suo lavoro critico, si ricorda: Dentro il paesaggio. Poeti e natura (Archinto 2006), La
differenza della poesia (puntoacapo 2009), Piccole patrie. Il Gargano e altri sud letterari (Stilos 2011) e All’ombra
della memoria. Studi su Paolo Volponi (Metauro 2014).
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Insegna Letteratura Italiana moderna e contemporanea all’Università di Urbino, dove vive.
I testi che seguono sono tratti dalle opere qui evidenziate in grassetto.
Selezione a cura di Danilo Mandolini
Da Quanta vita
Salvatore
Ritrovato
Il foglio bianco
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A volte lascio inviolato il foglio come lo avevo preso
coriaceo ed elastico che sembra una membrana di bosso,
nudo ma tumultuoso.
Lo so ha spiato tutti i miei silenzi, le mie mosse,
l’umido scricchiolio dei passi,
i cedimenti del pensiero, le orgogliose
fessure delle travi.
E astuto come un topo ha frugato nella stiva
tossendo e spurgando streptococchi per settimane
e disgustando sul mio palato («E già, cosa speravi?»
tu gli domandi) l’amore dell’oblio.
La vita, l’io, i morti, cosa resiste
nell’accesso a queste stanze? un portachiavi
che unisce, grazie a lui, segreti opposti?
Ed ora quanto lo odio vedendolo tacere
candido e in agguato, e vivere dei miei
incrollabili rimorsi!
Da NELL’ORA INCERTA
Salvatore
Ritrovato
100
Il prestanome
«Ma scusa», interrompo il timoniere,
«laggiù, sulla poppa, quel disperato
che si tuffa...» E impassibili
assistono tutti, galleggiando
attonito lo sguardo
nei morsi rantolanti dei flutti.
«È perché non ha le ali.
O le ha perse, Icaro, sulla coffa
cercando, chi sa, le Diomedee.»
Va sempre così. Un giorno qualunque
un giorno senza pietà
senza disperazione
in un’aria che sa di muffa
qualcuno pensa di sciogliere il nodo
delle correnti con le quali
ha navigato. «Saggio il timone,
a guidare chi lo guida. A vincere
– ed alza gli occhi al belvedere –
la curiosità con l’intenzione.
Io pure, che sono un timoniere,
io dei miei anni
non sono che un prestanome.»
Da COLPI DI SCENA
Figura
Salvatore
Ritrovato
101
La vita è ingrata, indisponente.
Come un faro indolente
che avverte i marinai:
«L’attracco a Metaponto».
Chi lo capta da lontano, chi vira
prima di scorgerlo, a babordo,
chi controlla, all’ultimo minuto
il salvagente; resta quel sogno
grato e infedele che descrisse Omero
per primo, in questo mondo:
«Straniero, non vieni forse da Cillene?
non narri sempre, solo, storie di galere?»
Ulisse si congeda dai Feaci
(seconda versione)
...ma farò presto, amore, non disperare.
Ora non amo più Nausicaa ed ogni notte
fuggo dal suo letto come un gatto
selvatico alla luna piena.
Finora ho corso solo le rotte di una fiera
e ho perso tutti i miei compagni (oh li risento:
«Odisseo, torna qui, con il riscatto!»).
Ma come faccio? Vorrei essere forte
come te, sapere quanta vita e quanta rissa
di enigmi in queste tele ho lasciato, ma sono
ancora qui - e sono vecchio. Amore,
non mi dimenticare, continua a dare l’acqua
alle petunie sul davanzale, prepara
il letto sotto l’albero di pesco, prima di sera.
Da INTROSPEZIONI DI PAESAGGI
Salvatore
Ritrovato
Proprio la stagione peggiore questa
per un viaggio lungo, le mani
brucate dalle verruche,
indocili, sanguinanti,
le voci che cantano agli orecchi
soffiando i loro motivetti nel fumo
dei candelabri, gli sguardi persi
nel buio appeso ai laqueari.
La stagione peggiore per reprimere le sommosse.
Rancori, passioni, istinti primordiali
ad ogni angolo scintillano, come lame affilate
affondano nella carne, di taglio,
sghembe, storte, si aggrovigliano,
incrociano le strade.
102
Da INCOGNITE
Salvatore
Ritrovato
103
Sulla tolda
Così andavamo parlando sommessamente
come due gendarmi sulla tolda
soppesando a turno l’antichità
del legno e i corridoi
delle prossime rotte.
Qua è tutto il nostro museo
e le immagini degli splendidi
gesti velati dalla sorte;
qua forse anche le nostre
fortunate madri, le nostre
amanti, l’eterna estate,
dicevamo, quando all’improvviso
un freddo, il gelo fitto nei reni
ci serrò i denti ed ostruì i vivaci
ricordi già alle porte.
Uno di noi, quello senza mantello,
donato già agli eredi,
con un mazzo ovviamente
di chiavi e uno di crisantemi,
tolse gli occhi al cielo e disse:
«Tante previsioni andranno storte
ma quest’anno, scommetto,
nessuno caccerà l’inverno
facilmente,
io son troppo vecchio
e neppure tu vivrai in eterno».
Su Quanta vita
Salvatore
Ritrovato
104
[…]
Se … collegassimo la sezione conclusiva con la prima … chiuderemmo l’arco allegorico che riporta il tema del viaggio alla
scrittura, con le ovvie reminiscenze mallarmeane che il naufragio del pensiero sul bianco della pagina implicano. Tuttavia, il libro
non ripiega in una apatica autoreferenzialità, ma attraverso la metafora dominante apre uno spazio metafisico dove il simbolismo
si intreccia con la fiction narrativa, l’ermetismo con la coralità epica dei personaggi, la verticalità moderna dell’interrogazione con
l’orizzontalità classica della descrizione e del mito (prevalenti nella sezione Colpi di scena).
Il naufragio mallarmeano della prima poesia fa da prologo alla desolazione tipicamente novecentesca rappresentata in seguito; il
dramma si stempera infatti nell’assenza di disperazione e nella subdola tranquillità della bonaccia: «Il territorio adesso è tutto
nostro, libero, / naufragare in una distesa bruciata di sale». Anche quando sulla scena appare il «mostro» e con esso si ingaggia la
battaglia, la vicenda si snoda in una sorta di epoche poetiche che la sottrae al tempo per portarla in una dimensione prettamente
metaforica, avallata dal titolo stesso della poesia: La visione. La citazione iniziale di Eliot dal terzo dei Quattro Quartetti, d’altronde,
riporta le parole di Krishna ad Arjuna: «Avanti, o voi che credete di viaggiare; […] Mentre il tempo è sospeso, considerate il futuro
/ e il passato con mente imparziale. / Nel momento che non è d’azione né d’inazione / potete accogliere questo: “in qualunque sfera
dell’essere / la mente di un uomo possa essere intenta / al tempo della morte” - ecco l’unica azione / (e il tempo della morte è ogni
momento) […]». Gli eventi o i minimi episodi evocati dalle riflessioni e dalla descrizione dei personaggi insinuano così,
nell’elegante prosaicità del verso e nella colloquialità apparente del tono, ombre lunghe di interrogazioni sull’esistenza.
Non sfugga il prezioso ordito fonico e semantico, ricco di rime, assonanze e allitterazioni, calibrate e dissimulate con tanta
perizia da apparire occasionali, che connota la raccolta. Si prenda ad esempio la poesia Passeggero, dove si incontra dapprima, ai
versi terzo e quinto, la rima fra prato e incerato, alternata a quella fra carminio e alluminio, pure risolta entro un passaggio descrittivo
che ne attutisce l’evidenza; al profilo accentuato di questi versi, segue poi, a debita distanza, il contrappunto fra sordo e ricordo e
boccaporto e orto e fra motore (seguito dall’assonante allitterazione liberazione) e ore e cuore, per limitarci ai rilievi finali del verso,
trascurando perciò le assonanze interne e orizzontali di alcuni versi.
L’autoreferenzialità implicita nell’apertura di un simile campo metaforico si incrina nella deliberata volontà di alludere, per il
tramite di una rappresentazione traslata, non soltanto all’esperienza interiore dell’autore, ma alla sua storia e al suo tempo. Le
figure che appaiono in questo «diario di bordo» dilatano e oggettivano teatralmente lo spazio lirico dell’io. Sarà, a volte, un minimo
scarto lessicale («Posso a stento riconoscere nelle foto / i miei compagni»), una sottile allusione («Conosco una donna che lo
guardava / scegliere sempre quel posto», si dice in riferimento al personaggio di Icaro), un titolo (come 2 novembre) o il filiale
ricordo, nella Prima preghiera, di chi si stenta a credere morto, a smascherare dietro questi simulacri poetici un possibile riferimento
biografico.
Né parrà oziosa e paradossale l’insistenza sul realismo di una poesia così manifestamente metafisica. Basti ricordare che il titolo
del volume è flagrante omaggio a Luzi: «debito sentimentale, e legame musaico», a detta dell’autore, con una raccolta, Dal fondo
delle campagne, della stagione più fortemente implicata nella realtà e nella storia, all’interno della ricerca letteraria del più grande
autore italiano di formazione simbolista. Se poi si ritornasse alla citazione del Bartoli e al «bello e innocente ingannare che l’arte fa
la natura» si paleserebbe la consapevolezza di un autore programmaticamente, nel tempo in cui il paradigma della complessità
pare ineludibile e in cui gli stessi concetti di natura – o realtà, diremmo noi – ed arte, intesa in modo ampio come attività umana, si
fanno sfuocati e non più chiaramente disgiungibili (essendo la parete che li divide, la coscienza, sempre osmotica e permeabile su
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Salvatore
Ritrovato
entrambi i versanti), sceglie un percorso «obliquo» per riportare la parola poetica al cuore della realtà o, almeno, ai suoi
“fondamenti invisibili” (per ricorrere ad altra formulazione luziana). La ferma volontà di «tenere la parola “vita” nel titolo della
raccolta» è attestazione preliminare alla comprensione dell’alto valore attribuito alla scrittura. L’accentuato e fittizio realismo
linguistico che impronta il dettato, con l’abbondante presenza di un lessico tecnico e gergale (tiro di canna, torba, cuora, tremagli dei
natanti, scotte, orzare, cavicchio, alzaia, rostri sono vocaboli ed espressioni che compaiono in un’unica breve poesia), non risulterà solo
una strategia per ampliare, come eccesso di focalizzazione, lo spazio figurato dell’opera e la sua prospettiva di significazione, ma,
nello stesso momento, nostalgia della “vita” esprimibile, poeticamente, solo in modo traslato.
[…]
Marco Merlin, in “Atelier”, n. 6, A. II, giugno 1997.
***
105
[…]
La poesia di Salvatore Ritrovato trova espressione in due componenti indissolubilmente legate: la diagnosi della situazione
attuale e la fuga verso un Eden incontaminato, nel tentativo di recuperare un rapporto più autentico con la realtà. La prima
richiede un preciso atteggiamento da parte del poeta che deve sporcarsi le mani per mettere a nudo l’inconsistenza di un’epoca,
trovarle imbrattate di «sugo, uovo / briciole: dispersi avanzi di generazioni», per togliere le croste «le croste alle parole» e tirar «via
l’ultima patina / che insidia». Egli avverte l’attrazione verso un registro alto, un paludamento solenne, «snob» come una «jaguar
d’epoca», ma è consapevole che un tale strumento non riuscirebbe a percorrere le vie della contemporaneità. Il poeta, dunque,
opera un chiarimento preventivo, che da concezione del mondo si traduce in scelta stilistica senza soluzione di continuità:
l’adozione di un lessico “elegiaco”, nel senso della retorica classica, come espressione di un imperativo morale.
Il mondo è uno stagno putrido, fetido, ma tranquillo: vi regna una «strana pace». Lo scrittore lo presenta con un atteggiamento
misto tra una rassegnata meraviglia e un desiderio di fuga, rilevabile sotto il profilo lessicale da qualche raro impasto tra aulico e
colloquiale («marmitte elisie»): non esiste ribellione, insofferenza o tragedia. La cifra fondamentale è la morte, l’«avello / asettico
della teca climatizzata», presente nella dimensione privata e nelle vita sociale. Come nullius nuncius, egli non riesce a smuovere la
coltre di insignificanza, che distrugge il desiderio e la vita, né con la poesia né con l’amore. Tutto ristagna, non ci sono vie di fuga.
Il male non è redimibile, è connaturato nella storia, nei rapporti umani, perché manca l’ubi consistam, il senso dell’esistere e
dell’agire. L’uomo si sente heideggerianamente estraneo a questa realtà dominata dal relativismo.
E questo relativismo si traduce in “essere-per-la-morte”, poiché non esiste alcuno spazio per la progettualità né per l’ideale.
Forte allora, come secondo elemento poetico, è la tentazione della fuga verso l’Eden, il Paradiso Terrestre attraverso diverse
rappresentazioni: il viaggio, l’infanzia, la natura.
La prima, compiuta lungo le coordinate dello spazio-tempo e della memoria, si attua entro una prospettiva che non prevede
approdi definitivi, ma soltanto un movimento continuo, che pone in dubbio la stessa identità dell’uomo.
La seconda “via di fuga” va individuata nell’infanzia: «L’infanzia devi riempirla di gioia se non vuoi fuggire / e riempirla, mi /
dico, in quest’aria primaverile». Pertanto, di fronte alla realtà la memoria cede e il tempo si immerge nella natura, terza “via di
fuga”, e si accorge improvvisamente che il baratro fra il Paradiso perduto e la contemporaneità affonda le radici nel non-mito, non
nella letteratura, non nelle fasi evolutive dell’essere umano, ma in un preciso momento storico ossia nella Modernità che ha
causato un’invalicabile barriera tra il tempo dell’uomo, scandito da cerimonie, da pause, da ritmi, e il tempo della natura, segnato
dalle stagioni. L’individuo contemporaneo non conosce più le cadenze annuali come i tempi della seminagione, della mietitura, né
le simbiosi con gli animali e con le piante né le feste legate al ciclo di produzione, di distruzione e di rinnovamento. Si genera allora
uno “spaesamento”, una dislocazione mentale che altera i punti di riferimento e la facoltà di conoscere e di nominare. La «ferita»
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Salvatore
Ritrovato
non si rimargina né con il ripiegamento interiore né con l’evasione dalla realtà e neppure con la ricostruzione di un mondo ideale,
perché «dove la salita fa un triedro ora è un paese diverso»: «siamo così lontani e così diversi in quella terra / che si raffredda e
nessuno sa, dentro, di respirare».
Unico territorio abitabile, anche in momenti di una disincantata riflessione, sembra essere quello della poesia. Non resta che
«l’accettazione a volte gelida, a volte furente della finitezza, quasi con l’atteggiamento di chi, perdendo la propria fede, rimarchi
ancora più nettamente i motivi dell’agnosticismo» (Alberto Casadei).
IL FOGLIO BIANCO è la poesia di apertura della raccolta Quanta vita (1997) tra il foglio bianco e il libro non esiste alcun
rapporto di determinazione, ma solo libertà, anzi libero arbitrio. Dunque, l’atto della scrittura come scelta? E questa scelta
comporta una trasgressione e, quindi, implica una colpa? Il poeta non lo sa, non deve rispondere; egli lavora con l’immaginazione.
Perciò dà al foglio bianco le sembianze di un astuto e ineffabile nemico della sua scrittura, che spia i dubbi e i rimorsi dell’io e
scorge le crepe in fondo alle quali si svolge un dolore non detto o differito. Il soggetto che muove la scrittura, sin dalla prima
raccolta è un pronome dimidiato, offeso e umiliato. […]
In questa lirica (FIGURA) si manifesta, sostiene Franco Musarra, «il campo tematico dal quale Ritrovato estrae il materiale
linguistico ed immaginifico della maggior parte della sue poesie: quello del mare». Frequenti soprattutto nelle prime raccolte,
troviamo parole come stiva, albero maestro, timone, prua, poppa, scialuppa, scafo, carte nautiche, cui si aggiungono tecnicismi
come coffa, tremaglio, scotta, pavesata, ferzi e così via. Il critico considera il linguaggio marinaresco staccato da ogni riferimento
concreto, finalizzato piuttosto a disporre «una rete di interrelazioni semantiche volte a “rappresentare” le “sensazioni” più
nascoste, provocate soltanto parzialmente dall’esperienza esistenziale». Nella lirica FIGURA il poeta non vuole assolutamente
nascondere i rimandi e i due viaggiatori, Ulisse e Icaro, rappresentano non il desiderio di avventura, quanto la fuga dalla realtà nel
mondo della poesia, altro Eden sognato. […]
La fuga dal reale si pone come unica via di salvezza da un mondo ormai irrimediabilmente contaminato dai miti della giovinezza,
della forza e del danaro. Ritrovato, attraverso la tematica del viaggio, propone l’esigenza di una “volta”, che si presenta
assolutamente necessaria anche perché l’io stesso ha subito un devastante processo di disidentificazione. Sull’orizzonte del mito
egli intravede che ogni soluzione prettamente letteraria è destinata a fallire: il problema va ricercato all’interno dell’uomo.
[…]
Giuliano Ladolfi, Salvatore Ritrovato. La fuga della parola, in Poeti italiani del Duemila (a cura di G. Ladolfi, Bari, Palomar 2011, pp.
180-188)
***
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[…]
C’è … qualcosa di profetico nel tema di Quanta vita, incentrato sull’allegoria del viaggio per mare, con cui salpa per il suo percorso,
tra ciurme ubriache (“Non senti la crapula / la danza della ciurma ubriaca? / e che aria tira in questa/vilipesa trireme? / Sì, potresti
aver ragione, / l’essere è così lieve...”) e mozzi saggi che guardano al passato da un alveo in secca con “nessun flusso d’acque”,
immancabili riferimenti melvilliani e omerici, ma anche eliotiani. Anzi, sta forse in un verso di Eliot la dichiarazione di poetica più
sintetica e precisa, così come viene messo in citazione all’inizio del libro: “At the moment which is not of action or inaction” (“Nel
momento che non è d’azione né d’inazione”). Non si tratta di un’impasse, semmai di qualcosa che non va, che manca.
L’ingranaggio non funziona, qualcosa si è rotto, il viaggio stenta anche al suo inizio, laddove il luogo comune vorrebbe lo slancio,
l’impeto, il colpo di reni. Così Icaro è “quel disperato / che si tuffa (...) perché non ha le ali”, così il mostro “sbatte / la pinna
nell’acquitrino”, non più nell’oceano come faceva Moby Dick, in una caccia che ha qualcosa anche del Caproni de Il franco cacciatore
e de Il conte di Kevnhüller, riecheggiante in queste poesie per il rincorrersi, sebbene poco più che accennato, di allitterazioni e di
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qualche sporadica rima.
Salvatore
Ritrovato
L’artificio di scegliere un’immagine, una situazione, dei personaggi per esprimere ciò che preme comincia a diventar frequente nei
poeti della generazione di Ritrovato. Servirà ricordare che un decennio prima, nel 1987, Roberto Mussapi inaugurerà la propria
opera in modo analogo e altrettanto marinaro, con quel Viaggio in una stiva che è la prima sezione del suo libro d’esordio, Luce
frontale. Di diverso c’era il contenuto: in Mussapi è l’idea di una prigione, di una restrizione prima della nascita, del poeta che è
rimasto quasi intrappolato nel cuore del mondo attuale: “Se toccheranno terra io sarò serrato nel loro / cuore come in questa stiva
prigioniero”. In Ritrovato il viaggio in mare, come già notato, è un salpare-restare, una stasi nell’oscillazione tra azione e inazione,
neppure un’inazione. Qualcosa a metà tra l’incertezza e la contemplazione dell’orizzonte che, forse, si sta spalancando al nuovo
autore. Chissà, per dire questo i poeti di metà del secolo avrebbero scritto frammenti dell’io, rinnovando la lotta che nel Novecento
ha avuto proprio nell’io che si stava perdendo e ricercando il suo fulcro. In Ritrovato il baricentro è spostato nell’immagine:
assistiamo a un racconto, una messa in scena, anche se senza alcun effetto drammatico dello stile né narrativo nella tramatura:
abbiamo poesie che si avvicinano spesso alla prosa, con Montale di Satura e Sereni come evidenti modelli, direttamente o
indirettamente poco importa. C’è solo, a tratti, qualcosa in più di cantato e di ritmico, il che fa venire in mente anche una certa
ascendenza e preferenza anglosassone; Eliot è già stato citato, forse si può evocare il nome anche di Larkin.
La combinazione tra dialogo interiore – serrato, interrogativo –, l’instaurazione di un’immagine e il racconto come diario, compone
la particolarità della poesia di Salvatore Ritrovato, che lo distingue da altre esperienze a lui e noi contemporanee in cui viene
attuato lo stesso stratagemma di rendere l’io in una situazione scelta dall’immaginazione. Paolo Febbraro nel suo Il diario di Kaspar
Hauser costruisce una cornice narrativa che contenga i frammenti poetici attraverso la finzione del ritrovamento di un manoscritto;
Davide Rondoni, soprattutto in Non sei morto, amore, racconta l’incontro con Amore in una città contemporanea con un deciso stile
epico-narrativo; Massimo Morasso, ne Le poesie di Vivian Leigh, assume la voce di un altro io, in uno spostamento tipico della sua
poesia; e altri esempi si potrebbero fare di come i poeti di questa generazione tentino frequentemente di immaginare una
situazione o un personaggio e, attraverso di esso, esprimere l’io. E sono anche esempi che documentano la diversità dei percorsi, a
partire dal dispositivo comune, e sottolinea nel confronto ancor più la peculiarità di Ritrovato. Siamo cioè in un periodo in cui l’io
nudo e crudo, drammatico e frammentato, non basta più. Ma la domanda che viene riguarda ora l’ispirazione: da dove viene e
come regge? Perché il fatto che regga in Ritrovato è innegabile: regge soprattutto quel nucleo emozionale in assenza del quale una
poesia diventa illeggibile.
[…]
Gianfranco Lauretano, in SALVATORE RITROVATO, LA SOGLIA DELL’AZIONE, “Clandestino”, A. XXXIII, N. 4, 2011, pp. 26-29.
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Da Come chi non torna
Salvatore
Ritrovato
Da VERSO CASA
I
A Enrico
Non amo le città, i quartieri futuri
illuminati dai lampioni.
Meglio una luce di traverso
appesa sullo scoglio,
meglio il trabucco che lievita sul mare
acceso dal tramonto
la bora che lo scuote.
Meglio la via che si arrampica
nella foresta tra carrubi e pini
ai faggi depressi dove sparisce il sole
invisibile scroscia tra le foglie
le radure di more nere come la terra
sotto le pietre.
108
[…]
[…]
IX
Croci senza nomi.
Quanto marmo fra i cespugli
e bottiglie di plastica.
Tra i rami spogli andando
Cari mamma e papà dice una
non sono fatto per questa terra,
felice in cielo dove vi aspetto.
Usciamo alle campane
rannicchiati nel vento.
E intorno deserto.
S. Giovanni Rotondo, agosto 2004
Da EGLOGHE
Salvatore
Ritrovato
Il giardino perduto
Oggi, mi accoglie un giardino senza pergolato
e nuvole si addensano sulle vette, calcinate,
infiammano l’autunno che alligna in villette senza memoria
come pigra ansia di vita che il tiepido asfalto circonda.
Mi metto a sedere dove un animale sembra che voglia
calpestare, fino a ridurlo in poltiglia, il fango
scivolato dalla lurida grondaia dell’ultima casa.
Una pioggia fine piove da un immoto stagno
che occhieggia nella sera in una piazza di foglie
in esilio tra radure assiepate, ricomposte,
e tutta per se stessa è la terra, con se stessa,
lingua di creta su cui nulla che perduri o muoia
(non un filo d’erba né il vento che soffia e trita
da una grotta, nel bosco, la sua polvere)
riconosce in quella soglia l’eterno.
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L’infanzia devi riempirla di gioia se non vuoi fuggire
e riempirla, mi dico, in quest’aria primaverile
che spira fra le corolle e a miliardi instilla
cristalli e grani di rugiada, nello stesso istante
disperde nuove gemme, esplode in germogli
da per tutto, trasformando la lava in vapore
in rifugio la meta, dolcemente e leggera
come una lanterna di sabbia e silicio
appende l’odore della neve ad ali notturne.
Egloga di una domenica di novembre
Salvatore
Ritrovato
110
Sulle cime roteano falchetti
(ricordo questa scena mai vista
o vissuta non so dove)
salgono e scendono quasi immobili
mentre noi sgusciamo all’alba
contro un tepore nuovo.
A quel sentiero un altro segue
dopo, e quindi un altro, e torna
a poco a poco il desiderio
di andarsene, così, un mattino
a caccia (di niente)
una domenica di novembre.
Superiamo gli ultimi campi
ci inoltriamo lungo argini e rovi
vani d’erba e limacciosi (succede
quando piove) rigagnoli:
siamo in un arazzo sfilacciato
di rilievi e antiche gravi, in un avanzo
di vigilie inerti, da tempo seppellite,
un giorno pallido che non muore.
Imbracciano il fucile gli altri, io le mani
le rigiro nelle tasche del giaccone
ampio adolescente, e spingo un binocolo
nella nebbia: sembrano macchie, e a volte
(non è un’impresa dicono sparare)
sono beccacce; l’ultimo cinghiale
fu visto vent’anni fa; nessun lupo
dall’Unità. E tutti forte a parlare.
Una scorsa avanti, e anch’io in fila
metto le orme rovesciate sotto il fango
il passo indifeso della notte.
Sale l’eco dei trattori, polverosa
dai campi dove scattano corvi
e ogni estate tornano più pochi.
Poi, una mutata lucentezza di radure
foglie che frangono il vento
accartocciandosi, vecchia lingua
che nessuno più conosce.
Esiste ancora un canto che meriti cantare?
che dà forma nuova al buio?
Dopo il grano, la paglia; e dopo
la cenere che lega la terra all’aria
all’estate l’inverno, una domenica
all’altra. Mentre tutto passa.
Restare come resistere
esistere come non esistere.
Intorno, case (mai viste o vissute
non so dove) cadono, si alzano
su altre case, seguono le tracce
di strade cancellate, fra tornanti
e cave abbandonate, e oliveti
sbiaditi inverno dopo inverno
luci che tremano distanti.
Dove gli uomini vivono e muoiono.
Il silenzio delle Muse
«Unaffected by “the march of events” / He passed from
men’s memory in l’an trentiesme / De son eage; the case
presents / No adjunct to the Muses’ diadem.»
Salvatore
Ritrovato
(Ezra Pound, E. P. Ode pour l’élection de son sepulchre)
Fu un’altra domenica, capitò d’agosto,
una mattina che le parole non sanno dove stare
la notte avanza per vie traverse, nelle stanze
piene di sogni mai terminati dell’insonnia.
111
Là erano due ragazze su una sdraio che raccontavano
di amori, avvolte in una coperta (le osservavo dalla
balaustra
davanti alla baia), su un gracile confine di sabbia deserta;
più in là un gruppo di amici seduti sulle sedie
di un ristorante, tra gli avanzi di un’acre lotta di odori
sul molo rotto come in una malata stazione di mare.
naturale ci si interroga: ed è cultura.
Segreto complotto cui tutti hanno qualcosa
da restituire o rubare, anche i poeti, anzi più di tutti
questi, che allora setacciano la spiaggia
fra gli ombrelloni e i tavoli e lestamente
calano una rete la riavvolgono la ributtano
per strappare al giorno un minuto d’otium
in quell’eterno paesaggio, o la colazione.
E chi affronta e si rifugia nel segreto
lo fa perché trova un dolore nella ferita
un insegnamento domestico che muore
all’alternarsi delle stagioni, e torna vita.
Pescatori al largo sul pedalò che avevo incontrato
prima, farfugliavano tra loro qualcosa di incomprensibile
forse la distesa calma che la luce tagliava all’orizzonte
o un desiderio di vedere le cose al loro posto
che va sempre così (diceva uno in camicia sgargiante
salpando sul piccolo topo azzurro), o peggio.
Grida di entusiasmo dal ristorante quando appare
il sole, un’ampia e mite striscia di luce che apre
come un’ostrica il mondo e i sensi assonnati
degli astanti che io guardo guardare, e poi sparecchiare
in bermuda, e scegliere una foto dalla macchina digitale.
Ognuno la sua copia tascabile dell’evento.
Un genere di zitelle che portano a spasso le cagnette
in città, qui sono distinti signori indecisi:
tengono un cane che annusa scie di limoni e nafta
dove decine di gabbiani indifferenti fiondarsi
in curve livide sulla terra, e ammarare sospetti
ora vedevi, e tra lo sciabordio indifferente delle onde
cercare le ultime tracce di onesti naufragi.
Anche le rose cominciano a sentire la fonte ideale
del loro amore, ascoltano come sempre il rumore
di una società che trafigge l’immenso e tragico silenzio
delle muse, ne copre la fuga, e il raro andirivieni
persino commosso, nel grembo di questa conca.
Mattinata, Fontana delle Rose, 26 agosto 2005
È la natura, ma quando si assiste a uno spettacolo
Salvatore
Ritrovato
La terra
Il tempo che copre queste cime fa come un manto
di leggero muschio e oblio, lascia segni
radi ma caldi alle doline, in prati
dove il mare spira odore di sotterranei paesaggi.
Qui la terra decaduta ancora cade in perenne
permuta con un giardino di mele,
cede alle minacce, spinge, svelle
da sé non fiori ma avide primavere
ne spegne il seme nel ventre e nelle vene
allagate di rare passioni, lo perde.
112
La terra insegna alla mia mano, alla mia mente
suoi ostaggi a muoversi lentamente
all’occhio a notare differenze insperate
lontane dal suo cervello
all’orecchio le parole cadute sotto torri
di pietre e abbandonate radure
al corpo l’opportunità di comprendere
anno per anno quello che non fu, non era
un transito di voli ma un passaggio al confine
tra me e l’inverno, il silenzio e niente.
10 ottobre 2006
L’erba
Salvatore
Ritrovato
113
Galleggia verso la riva opposta come un tronco
lasciato inerte alle correnti questo corpo
in cui aspetto l’altra vita portando
sull’erba che il vento bagna e piega
una vitrea imbalsamata spoglia avvolta
in acrilico e finissimo cotone lavorato.
L’abito che fra strati grigio-cerei di nubi malate
perse nelle correnti finirà per scendere
in un velo lieve di polvere ora prende forma.
Adora antichi fiori di vinile agli angoli delle fredde
baracche disabitate, ne ammira e studia le macerie.
E dalle colline di cobalto alluminio ferme
in un celeste nulla che bacia i templi i pilastri
il vapore acido di un incendio notturno
della città tra stillanti raffiche di sogni,
alza lo sguardo nel decadente piano dell’universo
alle stelle che spariscono per milioni d’anni
al loro silenzio, alle correnti di materia in quel punto
in cui declina care ombre e ricordi ogni muro.
Cadrà, e si diffonderà il profumo dolcemente della terra.
Di un’altra terra dove pernici e aironi tramano insieme
costose intersezioni della notte infranta sui fanali
e qualche pettirosso dalle penne di fuoco
lancia fischiando ariette da un ramo di pruno selvatico
come un nuovo giorno che accarezza l’erba.
Salvatore
Ritrovato
Dei poeti
Un giorno sono un mucchio di ossa e polvere.
Ora fuggono, e in giro ne vedi pochi, come cervi
tristi, abitare una terra fra impervi
teneri cuori che non sanno leggere.
Un giorno assisti impotente alla loro estinzione.
Prima dichiarano le loro piccole curiosità
per un grammo di polline posato
sulle scarpe, poi riducono alla ragione
pentiti la balbuzie del creato.
Arrancano, vanno a scatti.
La coscienza che parla a fatica
anche della morte, è un altro strappo
alla regola dicono in quel folle
cammino-verso la Natura amica.
Ma deplorarla, o deflorarla, che consolazione,
o vederla morire ogni minuto, chiusa
fra briciole di azoto e la curva stagione.
114
Da ALTRE STAGIONI, SOGLIE
Salvatore
Ritrovato
Stralôquie
Ci assetta, me spia: «m’a’ fà canòsce sôpe?»
fa, «e come nen lu canusce?»,
ma jisse nziste, «m’a’ fà canòsce sôpe?»
Lu pigghje pellu vracce
nchjaname citte, chjane chjane,
quanta vote l’ame fatte quissi scale
sôpe e sôtte, l’ame nchjanate che iavàme giune
pe appurà lu vine (ddà lu vine ghjanche
ddò lu rusce), pe cuntà li dammeggiane.
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Mo fa lu gire dellu suse
e lu mutidde e la tina va muntuanne,
curiuse, e li libbre affôte jinte li cartune
lu spècchje derète, stritte allu mure
ma sta nesciune.
Citte ci affaccia allu ballecône
ce vòta da nu quarte all’àute della chjazza
sènza crestïane, ghjanca
come nu venzôle spase allu sôle.
«Come jè, vu ’scegne?», li facce.
Ièva tutte come penzava,
e mo è tutte luntane.
23 aprile 2003
Su Come chi non torna
Salvatore
Ritrovato
[…]
La riflessione esistenziale viene indotta dal tornare nei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, come si segnala nella poesia
d’apertura dal titolo Ho cominciato, scritta nell’agosto del 2004 nella natia San Giovanni Rotondo («Ho cominciato a riflettere
nell’ombra / quello che sono o di me è rimasto / quando torno, perché non posso / o non serve scegliere di restare»). Il paese e i suoi
residenti, gli ospiti temporanei, le ombre del passato e del presente, «le radure di more nere come la terra»: Salvatore Ritrovato dà
spazio ad una liricità che afferra il tempo e la natura, i ricordi, la trama di un vivere comune riannodata come orecchiata tra
finestre e porte. Tra le più riuscite poesie si segnala Il giardino perduto, che rende davvero l’idea di ciò che significa scorrere in
lontananza un’età che rimane immolata. Viene riassunta in versi una realtà che non è cambiata dopo anni, come se si passasse di
generazione in generazione un simbolico testimone. Una sorta di visione del mondo riformula «un adesso a cerchi concentrici»,
una scena già vista («L’infanzia devi riempirla di gioia se non vuoi fuggire / e riempirla, mi dico, in quest’aria primaverile / che
spira fra le corolle e a miliardi instilla / cristalli e grani di rugiada…»). Salvatore Ritrovato è anche un autore ‘elegiaco’ che infonde
una dichiarazione di poetica in modo implicito ma inequivocabile. La terra, la sua terra, è una terra universale che non ha nulla a
che vedere con i «quartieri futuri». Ritornare all’origine non svela nulla di nuovo, ma un copione malinconico, sentitissimo, a tratti
struggente. E si notano influssi di una poesia di luoghi, naturalistica, che tra l’altro Ritrovato conosce bene anche nella veste di
critico. Si pensi a Bertolucci, a Volponi, a Guerra, a Bacchini, a Piersanti, a una poetica tradizionale, classica, che ha permeato gran
parte del secondo Novecento italiano, specie negli esponenti che hanno vissuto o vivono tuttora nella dorsale appenninica del
centro Italia. Versi eloquenti trasmettono una matrice comune che ha assonanze familiari («Ti porto nel mio paese, ripete
allontanandosi. / Piove sempre laggiù oblio da anni / un giorno sì uno no, piove / un ronzio secco, senza lampi…»). Nella sezione
dal titolo Egloghe, componimento bucolico in forma dialogica, c’è un incipit in esergo di Ennio Flaiano, che potrebbe riassumere
l’intera poetica di Salvatore Ritrovato: «C’è chi vuole che la nostra terra sia l’inferno di un altro pianeta, ma io nego la poco
lusinghiera ipotesi per vari motivi, e il principale mi sembra questo: che l’inferno è un luogo dove non allignano il ricordo e la
meditazione». Un’anima in ascolto, dunque, un’anima che conserva e non dimentica, ma che anzi alza ancora una voce salvifica
contro ogni deperibilità delle cose e contro ogni finitudine umana. Del resto il poeta ha questo compito inderogabile: non far cadere
nell’oblio la quotidianità del vivere e i reperti della memoria, perché anche una marginalità geografica possa diventare centro.
Alessandro Moscè, in “Prospettiva. Periodico di arte e letteratura”, inserto de “L’azione”, 25 ottobre 2008.
116
***
[…]
Il suo percorso è opportunamente delineato da Massimo Raffaeli nella Prefazione, dove fra l’altro si segnalano alcuni possibili
modelli, come Vittorio Sereni, Luciano Erba e Giorgio Orelli. E in effetti, affinità con certi componimenti sereniani (o anche, più di
recente, di un Piersanti o di un Pusterla) si possono individuare, per esempio in poesie come C’era un luogo, che indicano bene un
filone della lirica di Ritrovato, esplicitamente legato al tema delle ‘egloghe’ e della ricognizione della natura, specchio e insieme
deformazione dell’io, ormai troppo distante da quel mondo per potercisi inscrivere.
In effetti, la dominante della nuova raccolta sembra quella di una sofferta presa di posizione sui limiti dell’esistenza,
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Salvatore
Ritrovato
l’accettazione a volte gelida a volte furente della finitezza, quasi con l’atteggiamento di chi, perdendo la propria fede, rimarchi
ancora più nettamente i motivi dell’agnosticismo. Forse anche per questo molti componimenti gravitano sui loro finali, perentori
nelle loro asserzioni e quasi brutali nel ribadire l’impossibilità di qualsiasi trasfigurazione simbolica: «non era / un transito di voli
ma un passaggio al confine / tra me e l’inverno, il silenzio e niente» (La terra). E questa ricognizione esistenziale porta a trovare
tracce della scarnificante desolazione ovunque, anche quando le partenze farebbero pensare a paesaggi idilliaci: «Laggiù corrono
puledri senza morso / e asfodeli portano un ciuffo aspro / che sembra un dono della terra / a primavera, ma d’inverno un osso».
Ecco allora che le tonalità più riuscite del libro risultano quelle in cui la quotidianità sereniana o comunque la liricità iniziale
vengono travolte e stravolte dall’incedere di versi drastici, a volte commentativi e palesemente ragionativi, come in Il silenzio delle
Muse; a volte implicitamente auto-correttivi, come nel dittico L’erba – L’erba II; a volte, e forse ancora più compiutamente,
semplicemente denotativi, come in Farsi giorno, ultima delle Egloghe, sezione centrale della raccolta. È comunque da contrasti
vistosi che nascono formule ricche, le quali possono poi essere giocate in forme brevi (specie nella prima sezione, Verso casa), o
anche in atteggiamenti ai limiti (però mai dentro) il manierismo degli pseudo-sonetti o il riuso colto del dialetto, specie in Stralôquie
(nell’ultima sezione, Altre stagioni, soglie).
Ma la poesia migliore di Ritrovato non dipende certo dalle pur evidenti consonanze con modelli: e andranno aggiunti, almeno a
livello di sensibilità, il Montale di Ossi e Occasioni, e persino Amelia Rosselli, alla quale è dedicato un componimento segnato da
una imagerie alquanto onirico-visionaria (Anniversario), peraltro ricorrente in vari testi della terza sezione. Semmai, è soprattutto là
dove viene delineato un destino immodificabile, un tragitto verso un senso che non sembra mai approdare a una terraferma, che
emergono chiaramente accenti forti e immagini compiute: «Dove va la sua ombra, la morte gli toccherà sognare / senza venti di
primavera, senza ultimatum / e dove sfiorisce l’erba, fra detriti chiamare là / il fantasma di Omero, il rantolo di un fiume, la
guerra» (da L’erba II).
Alberto Casadei, in “Il sottoscritto”, 23 dicembre 2008
***
117
[…]
Come annunciato dal verso-titolo di quest’ultima raccolta, Come chi non torna, si tratta di un ‘viaggio’ che il poeta compie entro
una prospettiva che non prevede punti di fuga né approdi definitivi, fatta eccezione per quelli che permettono all’uomo di
riconoscersi – per dirla ungarettianamente – come una «docile fibra dell’universo». In questo itinerario che si dipana lungo le
coordinate dello spazio-tempo reali e della memoria, l’io poetico si esprime attraverso un movimento continuo, acquisendo
significato solo nell’erranza e nell’attraversamento costante di spazi mentali e fisici, fino a giungere all’elaborazione di una identità
multipla e composita che riflette l’eterogeneità dei tempi dell’esistenza dall’insieme delle partenze che hanno permesso una
rilettura – necessaria e spesso dolorosa – di un vissuto provvisorio, transitorio e ‘transitivo’, costituito, rielaborato e ri-conosciuto
attraverso una fitta ramificazione di relazioni, ricordi, luoghi e non-luoghi, odori e sguardi di qualcosa che ci appartiene ma che
resta irrimediabilmente separato, come si dice in modo programmatico nel testo d’apertura.
Il viaggio nello spazio-tempo si carica in questa raccolta di valenze semantiche assai diverse: è attraversamento dell’(in)abitabile
terra natale (il Gargano), rappresentata spesso come una lontana e mitica ‘terra promessa’ è percorso di formazione individuale che
procede secondo il dispositivo dell’apprendere imparando a disimparare; è costante rilettura e dis-locazione del sé e dell’altro,
dell’onomastica e della toponomastica che costituiscono il proprio microcosmo da riforgiare e riadattare; è, infine, attraversamento
linguistico e formale di tanta poesia del Novecento, filtrata dalla letteratura classica e dai moduli poetici della nostra caotica,
informe e informale contemporaneità. Memoria e pietas presiedono sempre ad ogni ‘attraversamento’ possibile. La memoria agisce
talvolta immaterialmente sotto forma di vento («la vita attende il vento come piuma / sul dorso della mano, un vento freddo / che
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Salvatore
Ritrovato
scorre la terra deserta, confonde strade»), dislocando il flusso inarrestabile di cose e luoghi, nomi e riflessioni che proprio grazie al
dispositivo-ritmo della memoria riescono a caricarsi di senso, spessore e praesentia. L’unico territorio abitabile sembra essere quello
della poesia e della scrittura: un territorio-deserto che r(i)esiste e che accoglie, solo grazie all’erranza e allo sradicamento, come si
dice nel secondo componimento della raccolta. La scrittura poetica produce anche momenti di una disincarnata riflessione, che non
punta a chiarire ma che, al contrario si pone sulle cose come uno sguardo retrospettivo, inflesso, capace di contemplare il mistero
di sé, dei conflitti, della morte, della perdita di ciò che un tempo ci è appartenuto e che continua a sostanziarci, fino a toccare con
mano l’impossibilità di riconoscersi in quello che noi siamo in grado di contenere e di nominare. Di fronte ad uno spazio-tempo
che cambia e ci cambia inesorabilmente, che si (e ci) trasforma, che (in)cede strappando punti di riferimento e certezze, la scrittura
poetica di Ritrovato si pone come luogo geografico e paesaggio interiore di ‘r(i)esistenza’ donde poter continuare ad essere e a dire.
Unica residenza possibile, uno spazio-tempo da cui si parte per tracciare molteplici approdi. Possibili.
Flaviano Pisanelli, in “Poesia”, n. 242, ottobre 2009
***
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[…] In Come chi non torna c’è uno scatto stilistico, una novità rinvenibile soprattutto nella sezione centrale e più corposa, quella
delle Egloghe. È interessante intanto notare come parlando di novità non incontriamo una rottura netta con le raccolte precedenti; il
cambiamento è lento, misurato, mosso verso l’invenzione (intesa anche come ritrovamento) di una propria cadenza, la voce unica e
distinta di sé. Accade nei poeti che non pubblicano molto e percorrono la propria strada accettandone il ritmo in un continuo
paragone con la verità della propria vita e della propria voce, ed è un pregio. Di questa piccola schiera è parte appunto Ritrovato.
Perciò nell’ultima raccolta non viene a mancare il dialogo interiore, il testo inteso come annotazione lirica al confine con quella
diaristica, il rapporto con l’alterità, la struttura velatamente allegorica dell’opera nel suo insieme. Proprio quest’ultimo aspetto cita
l’allegoria di cui è sempre incaricata l’egloga classica, da Teocrito a Virgilio a Petrarca fino alla grande stagione della poesia del
paesaggio che ha in Italia il suo centro nel Cinquecento e nel Seicento, epoche letterarie di cui, vale la pena ricordarlo, Ritrovato è
un esperto a livello accademico. Neppure mancano chiari riferimenti poetici, a partire ancora da Eliot e in genere da un certo
andamento anglosassone, passando per Pascoli ma anche per Magrelli, come dicono chiaramente certi versi: “Per meglio
amministrare le ultime risorse / divido la memoria in are ed ettari / e gli anni in latifondi”, dove riecheggia il tranquillo possidente
della propria mente di magrelliana memoria.
Ma a cosa rimanda l’allegoria di questa opera? Con chi si instaura il dialogo, caratteristica dell’egloga stessa, fin dalle origini? E
qual è il paesaggio che si raffigura in questo segmento cruciale del percorso di Ritrovato? Tutte le domande hanno un’unica
risposta: i luoghi d’origine, a cui il poeta non torna (questo significa il titolo della raccolta) perché impossibilitato dalla loro
mutazione, dalla metamorfosi continuamente in atto e che ne ha fatto un’altra cosa, non più quella del ricordo: “Indossiamo il
mondo eppure è un velo a termine quest’abito”. In questo nucleo che è profondamente esperienziale, se così si può dire di
un’esperienza che non c’è (ancora l’oscillazione tra action e inaction), sta innestata la sottile linea dolorosa che fonda senza
esibizione il tono leggermente dolente e meditativo della poesia, che giunge però ad intuizioni perfino felici: “La terra insegna alla
mia mano, alla mia mente / suoi ostaggi a muoversi lentamente / all’occhio a notare differenze insperate / lontane dal suo cervello”.
Il verso lungo, il ritmo posato coincidono quindi con lo sguardo che si allontana dal “suo cervello”, rinuncia cioè alle sue
imposizioni e ai suoi calcoli e si apre alla possibile novità, al dato per come è, col rischio di una perdita nel tempo di ciò che era ma
anche la possibilità di rinvenire un’insospettabile bellezza. Le Egloghe di quest’ultimo passaggio, dunque, sono un ritrovamento e
un’apertura per auspicabili e probabili nuovi passi verso un conseguimento di ulteriore dizione e chiarità.
Gianfranco Lauretano, in SALVATORE RITROVATO, LA SOGLIA DELL’AZIONE, “Clandestino”, A. XXXIII, N. 4, 2011, pp. 26-29.
Da Cono d’ombra
Salvatore
Ritrovato
(ora, invecchiare)
Ora invecchiare mi è dato, e affrettarmi per via.
I passi che escono dal buio non li sento
le parole strisciano senza peso.
Come un manipolo di illusioni che mi segue
ed è mia abitudine interrogare,
ridurle all’attesa di un’altra vita.
Migliaia di voci con passo lento entrano in una stretta gola.
(sul traghetto, un vento)
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Senti come il vento solleva le radici e le scioglie
sopra terre emerse da un inverno,
in acque di fortuna porta la nostalgia come un aratro.
Senti questo vento spingere di là da Cherso
la vita in contrarie e disperse direzioni,
scendere nell’erebo anzitempo.
(lasciata Tuzla)
Nottetempo una diga si apre fra me e il caos.
Salvatore
Ritrovato
Non macchia né picchia sulla carta
non scala miti finanziari o titoli
ma a lungo elucubra, fora l’insonnia,
smina dentro di me la Bosnia
i suoi vicoli, in un labirinto di esili e stragi.
È la vita che viene come viene, pure il dubbio di non viverla, no.
(la guerra dietro l’angolo)
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L’immagine più forte sono i muri forati da pallottole:
come occhi al buio spiano dal passato.
Un giorno vi cresce l’erba, il sole scalda quel buco
diventa nido per uccelli, la vita sboccia
sulla morte, l’innocenza sulla colpa.
Un giorno torna il soffio cupo di un corpo maciullato.
Da L’angolo ospitale
Salvatore
Ritrovato
Un poeta, secondo Mandel’štam
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Negli occhi ho questa luna esanime
e la tenebra malata che l’avvampa.
Tendo ogni giorno quello che posso
la vela al vento sulla barca
e i remi al largo nel discorde
traffico di panfili
(su ribollenti marine)
e zattere, zavorre
indifferenti al cielo
antico, alle illusioni.
Faccio ogni anno quello che posso
portando alle labbra l’umore
vischioso della terra
madre sempre di laidi insetti
radici che si aggrovigliano
tra stagioni vive e morte.
Ma dov’è la leggenda di quell’uomo
che cantava ai detenuti
le traduzioni di Petrarca?
E l’amore dove perdersi
in questa vigilia di sterminio?
Da ELEGIE A VENEZIA
UN’ESTATE
Salvatore
Ritrovato
«La splendïente luce, quando apare...»
Chiaro Davanzati
Ora che sei arrivata sarà più facile vivere alla giornata
e sopportare ogni distanza o provvisoria
dimora nel viaggio che si perde in calde e mute
foschie e nuove paure.
E per me, dai miei appunti
sorpresi a un’area di servizio, alla radio
in festa nei primi chiari raggi di luce
tra Venezia e Urbino, sembrerà un ricordo
soltanto da fermare al tuo nastrino.
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Immagina una pianura che si srotola
fra gli alvei del Po e del Piave aridi
come frutti dimenticati dentro il frigo
di una casa distratta –
non puoi vederla oggi: era la terra,
una grande tazza d’afa tra le malghe.
Avrei voluto un’acquerugiola nel patio
e le correnti atlantiche alle spalle
di una stagione nuova che in te ora cresce
e in me ostinata si rinserra
covando i miei rimpianti come acquazzoni:
laveranno la tua mente...
Io allora ti dirò stringevi un dito
mio nella manina per dirmi io sono questa
piccola parte che di te resta.
Pallide vocali alzava l’alba
di ramo in ramo
dagli alberi volava un’ombra calma
più deliziosa della luce,
la lunga estate che ti portò in vita.
Esistevi, pensai dietro il cancello.
La strada terminava in un sentiero
mite e argilloso fra le colline
di un paese così lontano dal Noncello
da non parere vero,
e tu di là aspettavi ancora il latte
io qua certezze che non potevo darti.
8 luglio 2003
Salvatore
Ritrovato
SU UNA VECCHIA FOTOGRAFIA
Chi mi fissa di voi in questa lucida carta?
Che brusio è scomparso dallo schermo
muto di questa kodak?
Trent’anni e una parola per tenere
quelle pupille, filmarne il verso
sopito dalla pellicola
l’attimo di meraviglia, non basta.
Verrò ad abitare un giorno con voi
dove non scorre linfa, non trasuda
spirito di focolare e la pietà s’appanna.
Pure finirà tutto, in un ostensorio
cesellato con cura, o in un calice
sollevato sull’altare; cesserà l’andirivieni
fra me e voi che mi aspettate
laggiù, sulle scale, dopo un matrimonio.
123
Da PARADOSSO
I
Salvatore
Ritrovato
Il treno è luogo di molti enigmi originari. Di paradossi. Di molti incontri mai conclusi e mai cercati.
Acausali, come si dice. Luogo che radicalizza ogni ambiguità. Ogni scandalo. Facendone delle dualità
ostinate.
II
Dualità. Mi seguono ovunque. Qualcuna è in agenda. Altre capitano. Spazi di estensione e profondità
differenti. Asimmetrici. Che a volte coincidono. Il treno poi è come un ascensore (o discensore?), ma
orizzontale. Parallelo alla terra. Sul treno non occorre decidere la destinazione. Superare invece l’imbarazzo
del perché. Che cosa porta gli uomini a sfiorarsi. A percorrere un tragitto comune. Che cosa scioglie le
distanze tra i loro corpi. Immaginando prossima un’anima. Addirittura. Che cosa incrocia in una variabile
scartata lo sguardo. Quello che ciascuno riserva per sé, tiene segreto.
III
124
Un giorno, ecco, il pensiero precipita. È una signora che va a Venezia. Lo so, perché riesco a sbirciare per un
attimo nel suo biglietto quando lo introduce frettolosamente nell’obliteratore. Ho già incrociato il suo
sguardo nell’atrio della stazione. Lei porta occhiali da sole. Io no. Ho rifatto i suoi passi con i miei. In attesa.
Nervosi. Mentre alla lavagna scorreva l’elenco dei treni in ritardo. Sempre più nervosi. L’ho seguita fino
all’uscita dall’atrio. Ha imboccato il sottopassaggio. L’avrei incontrata di nuovo. Si gira. Cerca nei miei gesti
le ragioni di una sincera dedizione al caso.
[…]
Da TRANSITI
Salvatore
Ritrovato
125
EPIFANIA DEL KAMIKAZE
in tanta oscurità ci tocca scendere
... e sparai allora anch’io, e fallii, al giovane bendato.
Lui mi lanciò le sue ferite contro
mi lanciò la divisa del suo corpo,
che inferno intorno, tutti in quella buca
radiosa – tutti a urlare, anch’io
premetti per esplodere, scoppiare
trovarmi in un altro posto
sul ventre ancora caldo come un albero
sollevato alle radici, fra calcinacci e abbracci
(si spezzò il filo, si aprì l’abisso)
anch’io dico fluttuai a mezz’aria
nella brezza del viale illuminato
e all’angolo della bocca un grumo lento
un morso di cervello colava in volto
(forse il mio) sotto marmitte elisie
e nuvole lampeggianti, sull’asfalto,
in una broda di sangue e sanguinacci,
ovunque l’aria posasse come aureola
sopra ogni anima appassita,
per caso sul menu à la carte.
(Due chilometri dal centro dicono: agriturismo
“Al laghetto”. I piccoli giocano con anatre e tacchini,
sulla riva. I grandi a parlare di ingiustizie.
Così lontano, irrespirabile, è un miracolo di vita.)
Da FINAL CUT
Salvatore
Ritrovato
DIETRO IL CANCELLO
A questo paese che non è Venezia
dove i bambini giocano per strada
col pallone e sbucano da ogni angolo
oggi ho portato Giorgia e Tommaso.
Guardano di là quel movimento
e nel giardino della zia, oltre la ringhiera,
alzano un invisibile castello.
È come un sogno che ho dimenticato.
Poi stanano lucertole dalle fratte
e tartarughe con dardi d’erbaspada,
montano sul monopattino, e via d’un fiato.
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Quanto i miei figli sono diversi dai bambini
che giocano per strada, e da me (fra quelli),
quanto è lontana la loro infanzia dalla mia
da quello che fui anch’io in quel regno
senza governo, di auto in sosta
e passanti increduli, molesti.
Un giorno li vedrò tornare grandi
e domandarsi quale traccia
dietro il cancello che ci separa di trent’anni
fra il giardino e la strada, di ieri resti.
San Marco in Lamis, agosto 2008
PASSAGGIO A SUD-OVEST
Vuelvo al sur
como se vuelve siempre al amor...
Giorno perfetto, amore, portarsi a casa questa colpa,
mangiare pane bianco come se la poesia
parlasse di qualcosa, di un’altra terra per esempio
o di una rosa senza spine, innocente.
La notte arretra, e tu metti le mani sul prossimo inverno.
Fuggire insieme a sud a occidente, e là giocare
a morsi per la fame? Anche in quell’angolo
non sarà facile lasciarsi alle spalle l’inferno.
Da DEDICHE
Salvatore
Ritrovato
EURIDICE
Di queste notti tu indovini rime
che sanno di fuliggine e rugiada
e io, con la bambina, non so più la strada
che porta a te, da valli un tempo opime.
Un freddo vento soffia sulle cime,
scende tra noi tagliando come spada.
Dovrò voltarmi indietro ovunque vada?
(Usare questi fogli per concime?)
Altre ombre si affollano per via
e mi si stringono per dirmi dàlle
i guanti da sci, una sciarpa per le spalle
contro l’inverno, leggile una poesia.
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Lunga è la notte che ritorna e stretta
la soglia, amore, non avere fretta.
Su L’angolo ospitale
Salvatore
Ritrovato
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Il titolo del nuovo libro di Salvatore Ritrovato … a prima vista pare alludere a una condizione di serenità, ma via via che ci si
addentra tra le pagine ci si rende conto che non si dà voce a una condizione di benessere ospitale, ma a un senso di perdita e di esilio,
vissuti come status permanente dell’esistere, con la conseguente percezione della fragilità della felicità e, talvolta, persino della sua
impossibilità. Allora si capisce che ciò che vibra nella raccolta (e la rende coinvolgente) è proprio ciò che manca, poiché in tralice ai
versi emerge sempre l’umanissima speranza di trovare un luogo o anche solo un angolo dove si possa – heideggerianamente –
sentire di “abitare il mondo”, e sentire questa terra “ospitale”. Sebbene sia la mancanza ciò che connota il libro, infatti, la tensione
che si coglie in ogni verso è una sorta di “tenace apertura” sia nella visione che nel cuore, in quanto il poeta non si abbandona mai
al dolore per il disastro che pure vede dilagante attorno a sé, né si compiace del negativo che permea il reale – guerre, estremismo
religioso o, comunque, la perdita che è inerente al passare della vita stessa – ma sta malinconico e a volte anche quasi adirato come
in vedetta sulla soglia del mondo, in attesa che si sveli quell’invocato “angolo ospitale”. Ecco perché a mio avviso è forte in questi
testi la percezione della speranza che un giorno la terra diventi (chissà come e perché) “abitabile”, pare volerci dire Ritrovato, ma
sino a quel momento sarà la memoria del passato a “salvarci”, almeno in parte.
Nel libro è sempre molto forte il senso del passato vissuto con intensità ma perduto: forte è il ricordo di luoghi cari che però non
sono più gli stessi; di persone amate, con cui ormai non si ha più il legame di un tempo e ricorre l’immagine di figli che stanno
crescendo, e presto saranno lontani. Tutto ciò che ci è caro (e ci intenerisce) andrà perduto, sottolinea il poeta, ma resta la poesia
con la sua fragile forza che sa salvare la memoria, “trattenendo” la vita a un passo dal suo sparire, dando così anche senso al nostro
vivere il presente (ma il poeta sa bene che persino i versi migliori non potranno “salvare” il mondo!). Leggiamo questo testo:
«Giorno perfetto, amore, portarsi a casa questa colpa / mangiare pane bianco come se la poesia / parlasse di qualcosa, di un’altra
terra per esempio / o di una rosa senza spine, innocente». La poesia, dunque, proprio nel momento estremo della dolcezza, prima
che anche il ricordo o il sogno svaniscano, sa farci sperare (o sognare?) un mondo diverso, una vita felice e un tempo immobile che
non ci sottragga ogni cosa, e lo può fare fermando un gesto, un sorriso o un’aria lieve al tramonto mentre tutto è vivo nel ricordo,
come nei versi di Un’estate, del luglio 2003: «Esistevi, pensai dietro il cancello. / La strada terminava in un sentiero / mite e argilloso
fra le colline / di un paese così lontano dal Noncello / da non parere vero, / e tu di là aspettavi ancora il latte / io qua certezze che
non potevo darti».
Una sotterranea tensione anima il libro, lo ripetiamo, facendone un’elegiaca invocazione al Bene dove non c’è più; all’Amore
dove si è perduto; alla Vita stessa dove restano solo frantumi di esistenza. Tutto ciò anche nella tenue speranza che la gioia torni a
esistere, pur nel disincanto e nel senso di perdita del presente. Mi pare emblematico in tal senso tornare al testo di apertura, Un
poeta, secondo Mandel’štam, significativo per dirci il pensiero del poeta: «Faccio ogni anno quello che posso / portando alle labbra
l’umore / vischioso della terra / madre sempre di laidi insetti / radici che si aggrovigliano / tra stagioni vive e morte. / Ma dov’è la
leggenda di quell’uomo / che cantava ai detenuti / le traduzioni di Petrarca? / E l’amore dove perdersi / in questa vigilia di
sterminio?». In un altro testo leggiamo una dichiarazione di poetica: «Io pure levo croste alle parole, ci provo. / Con le mani
sporche tiro via l’ultima patina / che insidia, prima che sia tardi o inutile, / parlare di poesia, sceglierla per la vita»: versi
emblematici, dove si dichiara ciò che il libro esprime, ovvero, la centralità di una scelta poetica di tono quotidiano, anche se
attraversato da lampi lirici, oltre che da scelte lessicali e da una ricerca formale alte dove la tensione del verso è più pressante, come
a testimoniare che se l’animo si eleva e vibra di forti emozioni, anche la scelta formale deve farsi più prossima al sublime.
Salvatore inoltre ama attraversare la memoria della tradizione poetica, che però ha fatto propria, e rivisita qui in modo
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Salvatore
Ritrovato
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personale, come nell’ultima sezione, Dediche, che si compone di due sonetti e si apre con un esergo di Zanzotto, sorta di amara e
insieme affettuosa invocazione alla memoria, nella vicinanza tra gli umani: «Sarò lontana, / ma non ti abbandonerò». Colpisce il
fatto di chiudere il libro con testi in una forma chiusa della poesia, ma questa scelta ha un senso preciso, a mio avviso, vista la
struttura complessiva della raccolta e la poetica di Salvatore. Vediamo perché. L’angolo ospitale si compone di cinque sezioni: Elegie
a Venezia, Paradosso, Transiti, Final cut e, appunto, Dediche. Se la prima sezione è strettamente collegata a tutta la poetica del nostro
autore – e al tono elegiaco che la connota –, più amara, attraversata da un tono estraniato e riflessivo è invece Paradosso: parte
interamente in prosa della raccolta, che ci fa vivere un incontro casuale in treno. Il tutto accade in modi contrassegnati da
comunanze e differenze, delusione e solitudine, incroci di sguardi e poi silenzi, con accenni narrativi, mai di fatto davvero tali,
calati in un’atmosfera di vita quotidiana dove non si rivela il senso più profondo del vivere, lasciandoci come vuoti, colmi di
domande senza risposta: pirandellianamente «forestieri alla vita». Paradosso, infatti, inizia con una constatazione: «Il treno è luogo
di molti enigmi originari», di cui, potremmo aggiungere, si sfiora qui la portata senza però arrivare a possederne davvero il senso
ultimo.
Le due sezioni che seguono sono fitte di testi molto intensi, su temi cari al poeta, e lo si capisce dal tono vibrante e dalla tensione
che li anima che si avvicina a temi di impegno civile, in alcuni testi. Ci sono però anche qui diverse poesie che definirei
“affettuose”, dove il tono si fa amaro per ciò che è perduto, o lo sarà presto: testi per la figlia, che cresce e diverrà altro dall’infante
che era; per la propria casa, ormai sentita in macerie; per il paese dove si è vissuto, avvertito “estraneo”, come anche gli amici di
gioventù cui è dedicato un bel testo. Le due sezioni centrali, dunque, danno voce a una lenta perdita, dove anche l’amore si sfilaccia
e poi tramonta nelle pieghe della vita che tutto assimila e cancella, tanto che questo sentimento è sempre più un ricordo lontano,
nel grande caos della memoria. Da qui il tentativo di “salvare” la vita, espresso nella sezione finale nei due sonetti Euridice e Poco e
niente, dove Ritrovato dialoga affettuosamente nella memoria sia con una donna che ha amato sia con la propria dimora, ma anche
con il vuoto e il silenzio che ora vi abita, in un tono però pacato, dove l’affetto sorregge (e supera) la precarietà di ogni cosa e la
condizione di esilio cui tutto il libro allude.
Il senso di perdita che aleggia tra queste pagine, va detto, è comunque sempre reso con tono riflessivo, a volte amaro, ma
sempre fondato sulla constatazione che tutto, prima o poi, deve finire e che un giorno ci si unirà anche ai nostri cari morti, come
direbbe Pascoli (altro autore caro a Salvatore). Come si coglie nel testo Su una vecchia fotografia: «Verrò ad abitare un giorno con voi
/ dove non scorre linfa, non trasuda / spirito di focolare e la pietà s’appanna. / Pure finirà tutto, in un ostensorio / cesellato con
cura, o in un calice / sollevato sull’altare; cesserà l’andirivieni / fra me e voi che mi aspettate / laggiù, sulle scale, dopo un
matrimonio». Vita e morte, dunque, per il poeta si uniscono in un cerchio in poesia, dove in parte si svela il mistero stesso
dell’esistenza. Pur nell’inquietudine che vibra in tutte le pagine, pur nel senso di estraneità che vi aleggia, quindi, resta un senso di
“tenace apertura”, come si diceva e, infatti, il poeta pare volerci dire che per poter vivere occorre saper accettare la perdita: la fine
intrinseca in ogni cosa.
Ricco di ricordi e riflessioni sull’esistenza, L’angolo ospitale è un libro che sa unire presente e passato, protendendosi verso il
futuro; infatti, al termine della lettura resta la sensazione che al poeta stia a cuore testimoniare la necessità di non scordare le nostre
radici di esseri umani, fragili e mortali: siamo esseri immersi nel tempo, pare dirci il poeta, ma da questo trascorrere siamo travolti,
ma anche salvati, se si può così dire, se ci si immette nel flusso stesso della vita, come accade proprio nei versi di questo libro.
Gabriela Fantato, da La forza fragile della poesia (nota di prefazione al volume)
Da Via della pesa
Salvatore
Ritrovato
E di buon passo vengo salgo
Le scale quando al terzo
Piano scocca la mezza
Scossa che mi affretta
L’appuntamento in piazza
Oggi alla mensa rombo
Con formaggio che sembra rospo
E riso scotto – sbircio nel getto
Dell’androne nella tromba
Un nodo torvo di rampe
La ruggine del corrimano
Ovunque il baratro s’adagia,
Penati, ovunque siate.
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Da L’ATTESA DELLA FELICITÀ
Salvatore
Ritrovato
131
*
Talvolta ti ritrovi in un deserto
e i dettagli, i contorni
delle immagini, le storie
si debbono rileggere a rovescio.
Così abbassando le palpebre
il lenzuolo lo rivedo
cadere indietro, sulle spalle,
e aggirarsi Ulisse in canottiera
quando calcola l’inganno («Chi sei,
straniero?», artiglia l’incauto attore)
e lei sorridere («Di’, Nessuno,
se ti conforta – aggiunge astuta –
sapere che la fine è certa
anche se contorta...»).
E mentre mi ripiglia nel suo velo
di trine, una cortina molle
di ciocche nere scivola (sono
già le cinque) dalla mantiglia.
Termina qui la scena.
Da quello specchio, da quello
che io vorrei (l’oscurità
raddoppia) essere, e non posso
una smorfia si divincola, volatile
e sgomenta, di meraviglia.
La lotta riprenderà domani sera.
*
Salvatore
Ritrovato
«E chiunque tu sia: che cosa
gradisci ora? che cosa ti
serve per ristorarti? [...]
“Per ristorarmi? [...] che vai
mai dicendo? Ma dammi, ti
prego...” Cosa? Cosa? Parla!
“Una maschera ancora! una
seconda maschera!”» (F.
Nietzsche, Al di là del bene e
del male, 278)
Nessuno allora poteva comprendere
se il contrario del bene fosse il male
o il niente; nessuno oggi che lei
è scomparsa ed io fuggo sa dire chi mente.
132
Spengo l’alogena perché nel cuore
della recita a un certo punto
anche il pubblico si maschera
e torna il buio.
E occorre prepararsi, in fretta e furia.
Nel buio è il parapiglia, senti
tutti in fuga, anche la Musa
che ora lascia la soglia,
tutti (per affinità di colpa
o di gola) nella stessa direzione.
Addio non riesco proprio a dirglielo,
ho il pensiero di quei giorni
che un po’ alla volta si rivelano
e ansia di ingannare
il tempo che li tarla –
quando la vedo arrendersi
e sospendere la tela
(non c’è tempo per disfarla)
nella camera degli ospiti.
Addio allora, saluta tu Eumeo
impiegato del catasto
e i pretendenti a una carriera
tranquilla al ministero,
ed Euriclea la dolce balia
che ogni sera dà acqua ai tuoi gerani
(un ricordo la commuove)
e Femio, ancora preso dai concorsi,
addio saluta tutti, pure
chi disse: e ora?, e le comparse
sdraiate sugli scudi, i morti,
le ragazze che puliscono
pozzi e corridoi,
quando torni fra le stanze
pallida ansando
vedrai il mondo non è grande
e un giorno piove
un altro senti che alba
LETTERE DI THEO
I
Salvatore
Ritrovato
Scegli un giorno qualunque per sbalordirmi.
Da un’ora un occhio è lì, su quei colori,
l’altro corre su questo foglio
ceduto ad una sponda.
Là il movimento frana, e lo stormo
dei corvi in fuga staglia la superficie
nella luce pizzicata dalle ali nere
e la distesa ronzante delle spighe.
Ma da quest’altra parte plana l’ombra,
e mi ricordo quando vidi te una volta
aprire una ruvida cisterna
sotto la luna piena,
la cornice malinconicamente
ondeggiante fra le righe.
II
133
Faccio la targa con il tuo nome
e l’anno. Mi spingo fra le parole
perché per me che scambio il soggetto
con lo sfondo, non sono vere le cose
ma l’arte che le adombra.
E non mi sei di peso: dopo Boussod & Valadon
chiederò ad altri, non credi?,
tu sei prigioniero ed io non posso
restituirti l’alba nebbiosa
di questa carta da parati.
Ma tu resisti, sii più forte.
Nel quadro vi è un sentiero che alligna
stretto sul muro,
come una lingua in un cielo chiuso.
III
Mi dispiace non ti raggiungerò ad Auvers-sur-Oise
anche se lo desidero – avrei sùbito
voglia di andarmene, essere altrove
libero e senza pace.
Invece ho messo l’opera sopra la cappa
del camino a lato (non te la prendere)
di una parure chinoise.
Meglio fra due porte dirai, è vero,
ma dove metto i pacchi per il trasloco?
Il posto è provvisorio, ti scrissi già da Nuenen,
manca l’acqua e piove sempre,
le muffe aggrediscono gl’intarsi,
la galleria – piena di falsi – è un colabrodo…
(è la vita che non basta).
Da PIÙ DI MALINCONIA CHE DI PAURA
Salvatore
Ritrovato
134
*
La vita, per un caso non leggera
la scopri al dormiveglia.
Io in cucina, tu nelle coperte
fuggiamo per un buco della tela
l’aldiqua, prima della sveglia.
Parabola, dirai, avventata
e veritiera che filtra
ogni mattina dalla tapparella.
Ma io t’ingiungo resta a letto,
fuori l’anima trema
se sbattono le porte,
sonnecchia quando il sole
sbrina le imposte.
Ecco il viavai di Via del Corso,
come un palco urbano
fermo sulla scena
che incombe nell’incerta
ressa di voci – lo riconosci.
Come l’aria che respiriamo.
(Bevo il mio caffè d’un sorso.)
*
Delirio del domani, reticenza
di un evento salutare:
ti sei accorta che non posso
sconfiggere il mio stato temporale
dove è più effimero il sentimento
del calore delle tue mani.
Perciò un giorno resterò per sempre a letto
ma non sarò morto avrò cambiato solo aspetto.
E io mi guarderò così, piangendo,
con gli occhi tuoi che guardo ridere
naso a naso, e salutare,
e girare questa camera,
in silenzio.
Da SEGRETI E PRESAGI
Traumdeutung
Salvatore
Ritrovato
Balza una lepre bianca all’alba
nell’ombra della mente
e un’altra nella scia, serica,
quasi fosforescente, vi s’infratta,
un’altra preme dietro,
una emerge, a un lembo la trattiene
la seguente, e presto un’onda
soffice la inghiotte, lentamente.
Così sogno di sognare e di morire
sveglio, ad occhi aperti,
nella fede di chi non crede
e la vita prende per vera.
Lovanio, gennaio 1995
135
Il passaggio
Parlando di come e quando
Vasto cede a un sospetto d’ombre
oblique di un pomeriggio
afferro ancora un lembo
del giorno sulla soglia del palazzo
d’Avalos, dal chiostro rosso
di tardo agosto e te lo porgo,
Barbara, di passaggio,
come una ruga dolce
e rara al tuo commosso
addio da queste cose.
Arremba il greppo marsico
frana divalla l’ultimo paesaggio
sul rapido Vasto-Pescara
lentissimo fra i prati erosi
dalle strade e le nuove aiuole.
Giorni alti
«La vita di ogni mortale corre più
leggera di un volo di farfalla.»
(Anonimo, su un muro)
Salvatore
Ritrovato
136
Così ti svegli alla mattina
e raccogli un movimento
svelto e fragile di penne.
Lentamente apri le ali
e il silenzio nell’aria si riempie
di voci sommesse e aromi
freschi di cornetti.
Talvolta spira dal canale
sterrato un’eco di latrina
ma oggi non lavorano,
e ardite scaglie e visionari
vaticini di sereno
filtrano i battenti
scampanando tra fanfare
ecumeniche d’altri tempi.
Un’esile adunata di fantasmi
sfila e dissolve
l’assedio delle ore;
invano lasci stare
i sogni alle lenzuola,
ti chiedi dove sono
– lunga rincorsa all’alba
che si inceppa –
e voli al tuo lavoro.
Salti le scale, la colazione
in un battere e via da questa
umida stanza,
correndo all’ombra
smorta della calle
a giorni alti,
senza consiglio.
Resistere o fuggire?
(Pigia la folla sulla plancia
gonfia del traghetto.)
Sparire nelle falle
limacciose del naviglio,
o librarsi da una riva
all’altra senza scendere?
Il sole spicca tra le nuvole
ad ombrello nel nuovo giorno
e il buio rapidamente
percorre gli angoli di un bar in piazza
Rinascimento deserta.
Un sorriso in questa bianca
e illune tazza di caffelatte
che la nostalgia riscatta.
Sciolgo la brina dalle fioche
implacabili parole
sgranate al cellulare.
Interferenze, guerre di pulsioni
elettriche nel vento
che si è alzato da levante
diresti, ma l’immagine
di te che voli spiega l’ale
(ormai da anni)
tra leggerissime farfalle.
(Bordano, Venezia, Urbino, 28 marzo 1999 - 1 maggio 2001)
Da CARTOLINE DA CASA
Salvatore
Ritrovato
Addii
Scampàti al fuoco, tutti
o quasi (anche chi dorme)
gli amici oggi non tornano.
Qualcuno sbatte il naso nella meta,
altri fugge alla cieca, trova
una vita più splenetica
ma chi mi guarda più negli occhi?
Avanti!, gridano laggiù
anime prave, avanti!,
gelido rifugio, amarsi.
E un verso alligna, ignobile:
«i fiori sono fiori, i sassi sassi…»
137
Agli antipodi
Salvatore
Ritrovato
138
Da quel fiume in piena sulle case
e le persone che volevano restare
come una spirale di crepuscoli
e albe volò via la vita.
Con quale grazia il nubifragio
svanì nel fondovalle di Pantano.
Un fuoco sbadigliò sui merli
smorto, un sole nano
e alla garitta apparve ancora
la vedetta pallida
scontrosa, il suo fantasma,
parlare nella bora:
«Morta è la tua generazione,
anzi sepolta.
E adesso si fa festa».
Posso tornare? Sùbito.
Saltare anche la messa?
Là è una lumera che fermenta
in ogni vico e piazzetta
sui muri bianchi del paese,
per ogni via che mena alla schiera
dei dieci o venti che ti aspettano
e danza più leggera
nella notte, più serena,
quando ti affacci bella alla finestra.
Su Via della pesa
Salvatore
Ritrovato
139
La prima forte impressione, all’apertura di questa raccolta di Salvatore Ritrovato è quella che chiede al lettore di prendere
coscienza che l’ascesa a una ‘mensa’ universitaria, come a un obiettivo di purezza, può essere pesante e laboriosa. Nel rivolgimento
dell’ascesi petrarchesca credo sia la prima caratteristica di Via della Pesa, che, con il rovesciamento fra ‘alto’ e ‘basso’ (nella
composizione che dà il nome alla raccolta e la apre: “[…] nella tromba / un nodo torvo di rampe / La ruggine dello scorrimano /
Ovunque il baratro s’adagia / Penati, ovunque siate”), finisce per straniare luoghi e tempi del libro.
A raggiera si espande un movimento che interferisce continuamente nella memoria: il protagonista di questo viaggio, pronto
subito a cedere la parola, a prendere un’altra identità, sa molto più di Ulisse che di Orfeo, conosce spostamenti che non sono mai
pure e semplici descrizioni, ma occasioni di ripartenza emotiva e sentimentale dai luoghi usati. L’Odissea, più volte richiamata
attraverso i suoi personaggi-simbolo, è la maggiore dispensatrice di analogie e funziona come una sorta di ipotesto – e forse come
pretesto – all’espressione del poeta che cambia di senso a seconda del posto che abita, ma dal quale non riesce a essere abitato fino
in fondo. In questo modo si attua il primo, principale, generatore di rapporto dell’individuo con il luogo: lo spaesamento è
evidente nelle dubitative che evocano l’incapacità di conformare la mappa poetica a quella esistenziale, persa, nel frattempo, nella
nebbia dell’esperienza: “di quelle giornate lunghe, cosa affiora o si rivela / cosa può o vuole dire, di quelle / – immense, mobili –
distanze, un verso” (Di quella estate). Anzi, in un’ ‘oggettività’ letteraria dell’esperienza che contrassegna in maniera fondamentale
la lingua poetica, con un rapporto intenso con il parlato. Donde la sensazione di pulizia comunicativa e di unità del libro. Quel che
rende paritetiche le qualità di cui si nutre la poesia è il lavoro al microscopio sullo stile: e la poesia di Via della Pesa non è mai
‘esagerata’, ma come tesa a una composizione mitica del vissuto individuale.
Il poeta patisce il viaggio con ironia, tanto da far consistere citazioni di autori classici – fondamentali componenti del retroterra
culturale di Ritrovato – con le più quotidiane esperienze. La Donna che esce dal bagno marino è Gaia (qui la lirica ha come esergo
un passo di Esiodo), mentre un latente Ulisse si stende al sole della spiaggia in attesa di Circe. Non è senza motivo che in altri
componimenti il poeta punti all’interfaccia teatrale di una drammatica agnizione, fino al definitivo congedo (“ombra, fumo
siamo…”, evidentemente Orazio). La messa in scena non evade più dalla seria resa dei conti con la morte, argomento preso con
generosa leggerezza, quasi in vista di una fine tranquilla e silenziosa, digerita nella speranza di una malinconia umana, senza
paura: “E io mi guarderò così, piangendo, / con gli occhi tuoi che guardo ridere / naso a naso, e salutare, / e girare questa camera, /
in silenzio” (Più di malinconia che di paura). Troppo evidente per tacerlo, il legame col viaggiatore cerimonioso di Caproni (si
confronti anche Senza rancore e Zattere), del quale sappiamo essere Ritrovato un attento lettore. C’è un concreto tentativo di
riallacciare i nodi, composti dai sentimenti della poesia moderna, tra presente e passato in un recupero della tradizione lessicale e
formale classica, rinascimentale e manierista; periodi per i quali (così sembra a chi scrive) numi tutelari sono: un morigerato
Catullo, per la caustica ironia del frammento di viaggio; il Tasso tormentato, e rivissuto forse nel personaggio di Goethe; il Rilke
adamantino delle Elegie Duinesi; certo neo-ellenismo novecentesco (da Kavafis a Larkin). Infine, le esperienze di traduttore di
Asclepiade e di Prévert rendono conto di una ricerca vitale nel recupero e della messa in opera di odi e lacerti (come, per esempio,
nell’ Anacreontica) nei quali è presente il passato e la contemporaneità è già memoria.
[…]
Giampaolo Vincenzi, in “incroci”, n. 9, genn.-febbr. 2004
***
Salvatore
Ritrovato
Dopo sei anni dall’esordio di Salvatore Ritrovato con un volumetto Quanta vita che esibiva giù una pronuncia esatta e uno stile
raffinato, nel 2003 è uscita una raccolta che sin dal titolo dichiara una delle inclinazioni che condizionano la sua scrittura, e che si
potrebbe definire diaristico-autobiografica: Via della Pesa, infatti, è stato l’indirizzo urbinate dell’autore, e in molte pagine del libro
omonimo Ritrovato richiama episodi vissuti in prima persona. Le poesie, scritte in un arco cronologico che alcune subscriptiones
dichiarano abbracciare poco più di un lustro, risultano così una sorta di precipitato linguistico dell’esperienza di un uomo, dei suoi
dubbi e dei suoi dolori, delle sue gioie minute (come quelle amorose espresse dal divertito e arguto intarsio dell’Intermezzo, una
sorta di barocca fenomenologia in versi del bacio), delle molte partenze e ritorni, propri o delle persone amate. Cambiano spesso,
infatti, le coordinate spaziali della scrittura di Ritrovato, i luoghi che l’uomo percorre e il poeta nomina: Cosenza, Castelli, Bologna,
Pavia, San Giovanni Rotondo, il paese da cui l’autore proviene e a cui «è impossibile tornare». Proprio quest’ultimo è uno dei temi
più ricorrenti: dai titoli dei componimenti si rileva una netta convergenza intorno al motivo del viaggio, dell’allontanamento – a
volte coatto – da un luogo caro: Andata e ritorno, Se tu sei tornata da un lungo viaggio, Il passaggio, Devo partire, Cartoline da casa.
Fuggono i luoghi, in questi versi, ma prima di essi fugge il tempo: «In questa vita non c’è tempo / per fissare la verità sulle tue
labbra / tutto rapidamente si raffredda», scrive Ritrovato, e spesso la sua poesia sembra tentare una testarda resistenza contro tale
‘raffreddamento’. È curioso che alle partenze, ai saluti, agli allontanamenti egli contrapponga a volte, tra le righe, la forma
particolare di otium che è il confortevole dormiveglia mattutino: «La vita, per un caso non leggera / la scopri al dormiveglia», nei
pochi momenti in cui si può esitare su un limine, e magari prestare la dovuta attenzione alle piccole cose che costellano
un’esistenza: «Così ti svegli alla mattina / […] Lentamente apri le ali / e il silenzio nell’aria si riempie / di voci sommesse e aromi /
freschi di cornetti» (Giorni alti, forse la più bella poesia del libro). Qui, dove Ritrovato resta fedele alle cose senza filtri troppo
spessi, vanno ricercati a mio parere i suoi risultati più intensi.
[…]
Massimo Gezzi, in «Poesia», n. 189, a. XVIII, dicembre 2004
***
140
[…]
L’inizio … è d’effetto. Colpisce il ritmo della prima poesia: «E di buon passo vengo salgo / Le scale quando al terzo / Piano
scocca la mezza / Scossa che mi affretta». Soluzioni ritmiche di questo genere … ritornano nell’Intermezzo. I versi citati, peraltro, si
arricchiscono di ambivalenze semantiche («Piano» e «la mezza»), risorse cui l’autore ricorre spesso, magari associandole ad efficaci
enjambements («fermo / immagine», «Lare del giusto / mezzo», «una città che lampeggia sulla pagina / vuota il candore che la
sospende»). Altro espediente formale d’ interesse è l’uso avverbiale in apertura di versi: «Benevolmente accogli questi versi», «Così
ti svegli alla mattina», «Lentamente apri le ali», «Talvolta spira dal canale». Ci sono poesie di ambientazione teatrale, poesie di
soggetto pittorico (ad evocare Van Gogh). Ma la filigrana è fatta di memorie, viaggi, persone amate. La condizione è quella di chi
ha lasciato il proprio luogo, vi torna e non lo riconosce: «Qui sono stato / ed è impossibile tornare / dare la mano a tutti».
Significative le evocazioni dei Penati: «dovrai cercarli / rovistare in ogni cassetto / dimenticati al tuo ritorno». Un richiamo graziano
(battere la terra con il piede) ha per protagonisti, in una finestra di storia, degli esuli: «Un’altra mattina grigia, rafferma, / nel punto
di collisione / dei colori lividi del Conero, / dove un uomo in partenza e due / o tre figure sulla pensilina / in fuga dalla Serbia,
battono i piedi sulla terra».
In Via della Pesa si incontrano anche diverse soluzioni di gusto barocco, analoghe a quelle che alcuni anni or sono hanno tentato
diversi poeti (penso in particolare a lavori di Frasca, di Frixione, pure molto diversi nel temperamento). Si contano parecchie parole
desuete e ricercate (ad es. «poscia», «dileggio», «delibi», «lubrico», «codesti», «bifidi»). Si incontrano temi che si allacciano ad una
sensibilità barocca, forse più sperimentata che sentita: il tema del bacio esposto da molteplici punti di vista e in mirabolanti
xxxxxxx
Salvatore
Ritrovato
variazioni nell’Intermezzo (persino così: «il bacio macho perfetto / muscolare e tremante, / dal lubrico sembiante, provetto / condono
di una parola di troppo»), il tema della morte nella singolare composizione Sopra un poco noto trattatello di Alessandro Volta, che vale
citare per intero: «L’energia che si propaga / nei binari e in una pila / di appunti presi in treno / allaga di luce e solitudine / l’animo
del passeggero / apre il pensiero all’aldilà. / Dove saremo, chi ci andrà? / Mi chiede il controllore / Voilà, il biglietto / e una scarica
nell’aria / infiammabile della palude / della padània / ci porta già lontano. / In un perimetro di sguardi / languidi, spalancati /
dietro il vano / di un proiettile lanciato. / In un inferno di petardi, / malinconico e molesto» (notevole il contrasto fra «perimetro» e
«spalancati»; riuscita l’incursione fra Palazzeschi e Gozzano con il gioco fra «chi ci andrà» e «Voilà»). Poi il tema, emblematico, del
tempo: «Le cose parlano chiaramente / quando lo specchio accoglie la sera / grigia delle mie tempie / giallo limone dei miei denti».
Entrambi i libri hanno molta misura e questo mi pare senza dubbio un grande pregio.
[…]
Giovanni Tuzet, in “Atelier”, n. 36, a. IX, dicembre 2004
***
141
Esperienza impegnativa l’incontro con Salvatore Ritrovato sulle pagine di Via della Pesa … bipartita da un Intermezzo
scoppiettante di baci e conclusa da illuminanti Annotazioni. Legata all’esordio, avvenuto nel 1997 con Quanta vita, la nuova raccolta
fin dal testo eponimo e incipitario invita a seguire l’io poetico nel suo farsi (…) fra necessità quotidiana, altrove, pulsione
centrifughe, con ritorni interrogativi sul senso dell’essere e dello scrivere. In versi aperti sempre a una complessità o
indirettamente, chiamano in causa Omero e Montale, Dante e Giovan Battista Marino, Esiodo, Asclepio [sic], Nietzsche, Theo Van
Gogh, Goethe, Alessandro Volta e Philip Larkin persino, «flagrante debito» spiegato nelle note. La cosa straordinaria è che
Salvatore Ritrovato riesce sans effort ad agglutinare tali materiali di riporto ai fili portanti del suo pensare poetico, per mettere a
nudo, come ha osservato Vincenzo Guarracino, e insieme riscattare dall’insignificanza e dal mistero una storia altrimenti muta.
Operazione non facile, eppure mantenuta in equilibrio grazie alla perizia con cui il poeta lavora le parole: «Neppure i contorni di
una terra / misteriosa legano ancora la poesia / alla rotta dorata dei velieri». Grazie al garbo, alla misura con cui egli arrischia
previsioni: «La lotta riprenderà domani sera. / (Questa è la vita)».
Basterebbe tale visione parentetica, di una vita a pie’ di pagina, a rendermi fraterna la voce di Salvatore Ritrovato, migrante fra il
Gargano di origine, Venezia, Urbino (cui si riferisce la via del titolo), Roma, con incursioni, spesso ferroviarie, su e giù per la
penisola, nell’accorata constatazione del mutare inarrestabile dello sguardo: «nessuno che mi guardi più negli occhi / e mi
dispiace». A lenire lo spaesamento provvede la memoria, animata da icone amicali, destinatarie di ideali colloqui: «Forse voleva
dire “a presto” / l’amicizia semplice / di un gesto, non “addio”, / e attendere con te il visto per Rio: / cercare un altro transito nel
mondo / invece che tornare in questo». Colloqui che si addensano intorno a figure anche femminili, come Barbara e, specialmente,
Francesca, la Musa, dinamica e temeraria: «Dove tu salperesti con il vento / o la tempesta, io mi rintano a Un ennui desolato».
Il dilemma che più di frequente risuona in Via della Pesa è dunque «Resistere o fuggire? / (Pigia la folla sulla plancia / gonfia del
traghetto.) / Sparire nelle falle / limacciose del naviglio, o librarsi da una riva / all’altra, senza scendere?». Fra altri, mi sembra sia
questo lo snodo riflessivo di più ampia ed intima eco. Quasi boenhefferiana “resistenza e resa” che, insieme all’anaforico invito all’
amore addensato in Pieghe, guida al «cuore miope, testardo» del poeta: «l’unico testimone – se gli credete – / di una disperata
compassione». Ovvero di una sensibilità che offre punte di particolare bellezza nella visione – autodiretta, o per interposta persona
– del futuro, dell’aldilà: «Mi mostri il passaporto per la vita / che verrà, da prendere com’è / dici fra te, “Anche lassù / non dura
niente”, ed esci».
Germana Duca Ruggieri, in “L’immaginazione”, n. 237, marzo 2008
***
Salvatore
Ritrovato
142
L’ultima raccolta di Salvatore Ritrovato è un libro del tutto nuovo rispetto a quello licenziato oltre dieci anni fa, di cui costituisce di
fatto una riedizione, per quanto riveduta e aggiornata. Lo è non tanto per il sottile labor limae esercitato qua e là sul testo, già di per
sé sintomatico di un’intelligenza nel rileggersi certo non comune, quanto per il ripensamento della struttura, o meglio per la
costruzione ex novo di una struttura andata a soppiantare quell’assetto liquido che caratterizzava la prima edizione, in cui era solo
il raffinato intermezzo, mantenuto qui in tutta la sua eleganza barocca, a inframezzare il fluire del discorso.
Le sezioni, fiorite dentro il tessuto del libro, testimoniano forse la necessità di instillare un ordine dentro quel sistema, allora
consapevolmente magmatico, ma non rispondono a nessuna logica tematica: resta intatto il policentrismo – di luoghi, di persone,
di cose – del discorso poetico e il soggetto rimane trincerato dietro la selva della pagina, mentre le circostanze biografiche, le
occasioni si confondono e svaniscono nella vertigine della figurazione. Non un’operazione nostalgica, dunque, nonostante quel Via
della Pesa, scelto come titolo qui e allora, ci riconduca all’Urbino degli anni universitari, ci riporti a una giovinezza, ormai trascorsa;
perché quel luogo, tanto reale quanto inesatto nella sua incapacità di restituire delle coordinate certe, si offre come una soglia,
come uno spazio privilegiato da cui guardare il farsi delle cose. Un libro in movimento, quindi, fin dalla prima sezione, in cui nel
microcosmo improbabile di una spiaggia è adombrato il mito di Ulisse, ammaliato dal fascino ingannevole della donna,
perennemente alla ricerca della sua Penelope, che nella finzione della rappresentazione, stenta a distinguere il vero dal falso. Il
tema del viaggio è ancora implicito nel ventaglio di luoghi che si apre nelle pagine successive, quando il fondale si muove
repentinamente dal vociare confuso di Via del Corso fino al profilo decadente di Venezia, quando la scrittura ricalca i percorsi in
treno, gli spostamenti da San Quirino a Bologna, o la tratta breve a bordo del rapido Vasto – Pescara.
In questo itinerario confuso, che affastella disordinatamente luoghi e occasioni, si materializzano presenze evanescenti, fantasmi,
si agita la figura femminile che smarrisce i suoi connotati reali e da amante con la quale tentare una resistenza al baratro che ci
inghiotte, con la quale imporre una tregua all’erosione delle cose, si tramuta in un personaggio diafano, a un passo dal dileguarsi. E
anche il bacio che si è dato, che si sarebbe voluto dare o che si è rubato presto perde consistenza e resta solo la traccia incerta di
quel bacio abbozzato nell’aria, mentre si partiva.
Sì perché il motivo della distanza resta cruciale in ogni lirica: il poeta è sempre in procinto di allontanarsi, di andare, lei è in fuga o
già partita, e non resta che trattenere qualche frammento, qualche contorno scialbo rimasto intrappolato nello specchio, serbare il
ricordo di un incontro fugace, di un gesto corrivo, perché i vaticini hanno fallito, le predizioni sono sbagliate e non c’è un varco che
ci conduca fuori dalla realtà. Presenza e assenza si compendiano allora in una galleria di ritratti lievi in cui gli sprazzi del
paesaggio, i profili insensibili delle case, i volti anonimi che ingolfano le strade costruiscono lo scenario lungo cui si muove il
pensiero del poeta.
Si potrà cercare, seguendo il labirinto dei vagabondaggi di Ritrovato, fuori e dentro la realtà, un approdo nell’ultima sezione che
apparentemente riavvolge la matassa dei suoi itinerari, e la riporta dentro le mura anguste della sua casa, nel paesaggio familiare
del proprio paese. Ma il ritorno non è un riappropriarsi dei luoghi, di se stesso, bensì un arrendersi alla propria estraneità, se anche
lu ciardine, il giardino della sua infanzia, ha perso i suoi connotati. Si potrebbe rintracciare il senso di un percorso proprio
nell’andamento di quelle sezioni riscoperte: dalla «attesa della felicità», che suona come un bilancio a posteriori sulle idealità
tradite della giovinezza, fino alle lapidarie «cartoline da casa», passando attraverso quei «segreti e presagi» che promettevano di
svelare il significato inafferrabile delle cose. Oppure si potrebbe affidarsi all’epilogo, a quella rievocazione quasi mitica del
nubifragio che in altri tempi travolse il suo paese, una palingenesi, una pioggia che distrugge e al tempo stesso crea, o ricrea tutto
dal niente. Perché la realtà si trasfiguri in altro, perda la sua esattezza, si confonda definitivamente nella dimensione del sogno che
annienta.
Emanuele Spano, inedito
Inediti - Da Radure e fughe
Salvatore
Ritrovato
Contro questo correre
A interporsi tra il presente e noi
è la memoria: un vetro così trasparente
così sottile che pare una casa abitata da leggende.
Appena un filo di luce penetra le lamelle
di una finestra vedi la polvere scendere
sulle cose che hai perduto per sempre
e nell’angolo più buio disegnare impaziente
l’orizzonte che tutti attende.
Così quel vetro diventa una seconda pelle
raccolta nella sua fragilità e tagliente.
143
Salvatore
Ritrovato
Per una rosa
Uno mi chiede quanti anni ho:
ancora neri sono i miei capelli ma tristi.
«Un minuto», gli dico, «niente più.
Tanto dura, o durerà, la mia vita».
«Come», mi chiede, «non capisco.
È un enigma, una verità seppellita.»
E io: «Tutto diedi a lei, chiuso in un bacio
partendo, tutto in un abbraccio.
Durò un minuto, e fui felice».
144
Salvatore
Ritrovato
Sognando Omero
«Il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità; ma è la
verità che nasconde il fatto che non c’è alcuna verità. Il
simulacro è vero.» (Qohelet)
Omero spense la luce perché pensava:
il buio cancellerà ogni sogno.
Gli eroi, gli errori di quel poema troppo lungo
i discorsi che per abitudine o inerzia
salgono alle labbra degli oratori, tutto cancellato.
E gli dei che puntano sui match e truccano la partita.
La rivolta di Tersite contro ogni certezza.
Anche il bacio di Achille e Patroclo
e il pianto di Briseide spariranno all’alba.
145
Lo incontrai il giorno dopo che se ne andava
ripetendo (ma con calma): cosa ho fatto?
e fra sé: chiedetemi ancora un verso!
La sua voce appena si sente, freme un po’, si spezza.
Il tempo è come il mare, mi ha detto,
quando passa sulla sabbia:
all’inizio è solo una macchia, poi ha fretta.
http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/idomeni-profughi-migranti-bloccati-macedonia-grecia.aspx
Solo inediti
Da
Gabbie in
codice
Di
Antonio
Bux
Gabbie in codice
è un lavoro in versi di prossima pubblicazione presso Oèdipus Edizioni (Nocera Inferiore - SA)
19-07-15-14:29
Cresciuto più lungo
lo strapiombo
nostro selvaggio
19-07-15-21:32
è misura
di frana andare
a giorno
e guardare semplicemente
come fa anima
l'acqua
146
negli occhi
e i suoi specchi accumulati
rotte le sembianze
Gli angeli sbagliati
riconoscono il pane
la fame dei morsi
le iene il tempo le fini
i cristi e le madonne
i giuda imparentati
attaccano da ogni lato
scivolano tra mandibole
le carni fantasma
ma entrano tutti
più tardi concessi
al banchetto
20-07-15-00:56
Da
Gabbie in
codice
Di
Antonio
Bux
Aprire
le domande
le domande sono rose
antiche
19-07-15-23:47
nessuno chiede
più perché
Le persone che non servono
bruciano parole
le parole che servivano
al cuore per le mani
le spine umane
siano le stesse
da sempre
ma la risposta
ma il cuore parla da sé
inventa persone
è sangue
ogni giorno coincide
il silenzio e la vita
tutti sanno
il giorno è uno
è finitezza
ignorato l'avere
147
e il suo deserto
è il numero amico
dorme inciso dentro
la rosa riposta
20-07-15-11:26
Da
Gabbie in
codice
Di
Antonio
Bux
Satana ha lingue
piatte
divora a lungo
le stesse tane
rimbalza
sul ghiaccio
la sua sfera
contraria
ferma solo
chi è superficie
26-07-15-18:42
Pasturavacche
mi parlano
del rischio terribile
dell'alimento
oscuro il latte
mischiato
148
alla calce delle corna
paterne
meglio allora evitare
la muta
tornarsene morti
alle mammelle
26-07-15-20:37
Da
Gabbie in
codice
Di
Antonio
Bux
Il calabrone sorridente
nel polline
la sua corazza
è dell'aria
infrange spesso
gli occhi umani
nessun essere sente
presto
il volare se non arriva
bisogna cadere
dicono sia così
un esercizio
vedere la ruota
del giorno
e stringersi in quella
i piccoli bui
149
26-07-15-23:00
Passare i giorni
a invocare balene
le balene sono pronte
all'oltre del mare
dall'ombelico nero
Geppetto biascica
nessuna profondità
esiste
allora ho capito
io sono Pinocchio
se una balena galleggia
la sua superficie
è la morte
ho capito questo
la balena non è metafora
è l'industria marina
affamata
che si serve di me
28-07-15-02:30
Da
Gabbie in
codice
Di
Antonio
Bux
Le storie bambine
hanno mani più corte
sanno ancora attirare
la prima eclissi
ma i sogni devono agitarsi
sciogliere le labbra
al celeste
i bambini con gli occhi
di madre
raccontano gesti
antichi le prime
folate
poterlo vedere
è l'ambivalente
il sogno bambino
di non risvegliarsi
150
28-0715-18:11
Ghianda più aperta
la terra dopo la morte
rovescia quel seme
nella testa dell'uomo
e non resta che
stringersi intorno
la corda sbagliata
e saltare per aria
o specchiarsi
di fughe
bruciando
l'ignoto
ma non basta
svanire
la pillola terrestre
salva solo chi muta
sconosciuto
il suo dopo
o in nessuna
salvezza il segreto
Antonio Bux
È nato a Foggia nel 1982.
Suoi lavori e testi critici sono apparsi in numerose antologie (tra le quali: InVerse 2014/15 - Italian poets in
translation, a cura di Brunella Antomarini, Berenice Cocciolillo e Rosa Filardi, Roma, John Cabot University
Press 2015), sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali (“Corriere della sera” e “L’Unità”), in
diverse riviste (“Poesia”, “Italian Poetry Review” e “La manzana poética”) e lit-blog sia nazionali che
internazionali (“Nazione Indiana”, “Poesia 2.0” e “Vallejo&Co.”), dato che molti dei suoi testi sono stati
tradotti in varie lingue.
Ha curato la traduzione del libro Finestre su nessuna parte (Roma, Gattomerlino Superstripes 2015)
dell’autore spagnolo Javier Vicedo Alós e la traduzione di testi scelti di autori tra i quali Leopoldo María
Panero e Julio Cortázar.
Ha pubblicato vari libri di versi (Disgrafie [poesie 2000-2007]; Trilogia dello zero; Turritopsis; 23 [fragmentos de
alguien]; Sistemi di disordine quotidiano; Un luogo neutrale; Sativi; El hombre comido), due dei quali, scritti
direttamente in spagnolo, sono usciti in Argentina.
È risultato finalista e vincitore di alcuni premi, tra i quali il Premio “Iris” di Firenze, il Premio “Minturnae”
e il Premio “Lorenzo Montano”.
151
Dirige, per le Marco Saya Edizioni di Milano, la collana “Sottotraccia”, e cura il blog “Disgrafie”
(antoniobux.wordpress.com).
http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/idomeni-profughi-migranti-bloccati-macedonia-grecia.aspx
Solo inediti
Da
LITURE
Di
Riccardo
Socci
Da LITURE 1. COLLISIONI
Anniversario
Un sistema si è rotto con il muso
disintegrato della tua Seicento.
La carreggiata si incurva e confonde
nella memoria le schegge di ogni vana
e incosciente negazione di questa
tua smisurata negazione.
Restano
in mano molti pezzi ancora
ma il puzzle si disgrega piano piano
e un volto cammina in silenzio...
152
Nell'attimo
io mi immagino la radio convulsa,
Ian Curtis dal palco gridare
l'elisione dell'atona finale.
*
Da
LITURE
Di
Riccardo
Socci
Restare, ma dove? La casa
è una barriera di coralli
e gli sciacalli di certo non mancano.
Piuttosto rompere
tutte le uova nel paniere,
sollevare queste gambe ridicole
e dipingerle di blu, come i fiumi,
che non puoi bucarli. La vita invece
la senti che si svuota, goccia a goccia.
Provo a lanciare dal ponte di Mezzo
qualche bestemmia alla città,
e pare che l'unico
a capirci qualcosa
sia il giorno che finisce.
153
*
Io, generalmente, sto bene.
Nel mondo fatto piatto piatto
mi ciondolo, m'ovatto
come una stanza di sapone.
E al perché del marcire,
del tanto sanguinare,
a volte ribatte il make-up
di una donna al mattino,
uno sguardo al meteo, e questo
mi basta.
Sai, a ben sentire, del lungo
graffiare di talpe
non giunge nella tana
che un esile riverbero
la sera.
Da LITURE 3. IPERMETROPIE
*
Da
LITURE
Di
Riccardo
Socci
Al cimitero monumentale di Torino, dove è sepolto P. Levi
Io cerco la tua tomba per vedere
e non la trovo. Cerco la tua tomba
per vedere se quella che ti scegli
è più accogliente di quella che ti tocca
e veramente l'ultima.
Ma non riposa. Anche qui c'è un treno
che fischietta e suona la sirena
e suona la sirena del passaggio a livello
bloccato a mezz'aria:
chi passa oltre?
Cosa rimane chi passa? Quanto resta
se resta chi rimane, questo ronzio?
154
Io cerco la tua tomba ma la campana
della chiusura mi chiama e non la trovo,
dice che qui
non c'è niente di mio.
Ottobre. Sabato bolla di vetro
troppo limpida. Traffico
da pancia piena.
No, non ci sono
nemmeno i piccioni che cagano
in terrazzo. Niente zanzare.
Il fogliame diligente s'ammazza
quieto sui marciapiedi: quello sempre,
ma è poco. Le ruote sgonfie
magari, e la sigaretta
che non mi andava di fumare
e ho acceso, come al solito.
Ma il medico dice che ancora
respiro abbastanza bene,
e l'aria è buona.
Guerra composta
degli atomi in subbuglio: stessa solfa.
Nemmeno le fusioni nucleari,
ché l'elio prima o poi finisce e addio.
Tu sei un panno fresco. Non te
che sei un panno fresco
sul mio cervello incandescente. Chi
maledire se il giorno è bello
e il cuore vibra
a nessuna chiamata?
Da
LITURE
Di
Riccardo
Socci
*
Io poso un mattone e il vento lo schianta.
Allora ne metto altri due: mi muro.
Dentro il mio letto bianco
cade una pioggia di piume: mi covo
e a volte ne esce un uovo
che poi bevo al mattino.
Faccio e rifaccio il bucato, lo stendo,
seguo le righe, mi sforzo di andare
sempre dritto, e mi pare di riuscirci,
benché io sia mancino e le stanghette
tutte inclinate all'indietro. Raccolgo
cocci capelli e polvere,
apro la finestra per arieggiare
la stanza, metto in ordine
la scrivania.
155
Ma ieri ho perso le lenti positive
per l'ipermetropia,
e il ritmo ora inciampa.
Il soffio che entra riaccende la brace:
stormi di scintille spiegano le ali.
*
Se avessi l'incoscienza delle bestie
che fissano negli occhi
l'avversario più grande
senza paura.
Se avessi due zampe
che non conoscono la fuga
né il passeggio,
che non hanno scavato mai
nessuna buca
per nasconderci dentro l'osso
e un cervello meno addestrato,
scriverei tutto al presente
e il presente sarebbe un motivo
più che sufficiente per ridere.
La portafinestra
Da
LITURE
Di
Riccardo
Socci
Ti avvolgono le facce illuminate
di una stanza. Dalla portafinestra
che hai chiuso in fretta,
puoi ancora sentire la pioggia
che inonda le fogne e le strade.
Le masse d'aria
che attraversano la città
incontrano filari di antenne boa,
segnali, terrazzi concimati
dai piccioni, prima di entrare in casa
a sfiorarti la mano
e se il divano ti assiste
puoi intuire allora
il teorema inviolabile dei cicli:
calore covato nel nucleo
disperso e di nuovo ingerito,
rocce metamorfiche contro
radici che si allungano alla polpa,
chilometri di arterie dove corrono
ordigni innescati dal sole
per esplodere dentro ai rami:
156
le schegge fuoriescono e i migranti
con gli occhi impolverati si riposano
alla fine del viaggio.
Si dischiudono le uova
e poi le ali di quelli che imparano
la fatica del volo, prima che i venti
tornino per spazzare via dai campi
gli scheletri bruciati
di chi ha assorbito troppa luce
e si è spento.
Così vai blaterando e si dilata
questo tuo rumore,
raggiunge la portafinestra
e ti rientra in bocca, senza
toccare nulla, come il più banale
dei molti corollari.
Riccardo Socci
È nato nel 1991 a Recanati (MC).
Laureato in Lettere moderne presso l’Università di Siena, è attualmente iscritto al corso magistrale in
Lingua e letteratura italiana presso l’Università di Pisa, dove si dedica in particolare allo studio della poesia
contemporanea e all’insegnamento dell’italiano agli stranieri.
Alcuni suoi testi sono apparsi sui blog “Poetarum Silva” e “Cultura Oltre” e sulle riviste digitali “Euterpe”
e “L’irrequieto”.
157
http://www.bbc.com/news/world-europe-35742796
Collage Jaroslav Seifert
Ho veduto solo una volta
Ho veduto solo una volta
un sole così insanguinato.
E poi mai più.
Scendeva funesto sull’orizzonte
e sembrava
che qualcuno avesse sfondato la porta dell’inferno.
Ho domandato alla spècola
e ora so il perché.
158
L’inferno lo conosciamo, è dappertutto
e cammina su due gambe.
Ma il paradiso?
Può darsi che il paradiso non sia null’altro
che un sorriso
atteso per lungo tempo,
e labbra
che bisbigliano il nostro nome.
E poi quel breve vertiginoso momento
quando ci è concesso di dimenticare velocemente
quell’inferno.
Collage Jaroslav Seifert
159
Domenico Pelini
interpreta
Sa morire così solo un uccello
di
Jaroslav Seifert
(da Vestita di luce - Traduzione di Sergio Corduas (Giulio Einaudi Editore)
https://www.youtube.com/watch?v=P_1AlgUOs6Q
http://www.qcodemag.it/2016/03/13/dalla-rete-di-idomeni/
“Arcipelago itaca” blo-mag prima apparizione. Giovanni Commare su Gianfranco Ciabatti, Adriàn Bravi, Maria
Lenti, Nicola Romano e Norma Stramucci. Collage Dino Campana. Riproduzioni di opere di Giorgio Bertelli e
Lorenza Alba.
“Arcipelago itaca” blo-mag seconda apparizione. Danilo Mandolini su Attilio Zanichelli, Lucetta Frisa, Ivano
Mugnaini, Adelelmo Ruggieri e Luigi Socci. Collage Guido Gozzano. Riproduzioni di immagini di Michele Rogani
e di un’opera di Pietro Spica.
“Arcipelago itaca” blo-mag terza apparizione. Contributi da interventi di Maria Lenti e Gianfranco Lauretano su
Tolmino Baldassari, Danilo Mandolini su Renata Morresi, Maria Grazia Calandrone, Mauro Ferrari, Daniele
Garbuglia e Massimo Morasso. Inediti di Enzo Filosa. Collage Vladimir Majakovskij. Riproduzioni di opere di
Silvana Russo e Lucia Marcucci.
“Arcipelago itaca” blo-mag quarta apparizione. Un ricordo di Leonardo Mancino (con un testo inedito di Biagio
Balistreri), Danilo Mandolini su Anna Elisa De Gregorio, Gianni Caccia, Massimo Gezzi, Franca Mancinelli,
Liliana Ugolini. Inediti di Marina Pizzi. Collage Charles Baudelaire. Riproduzioni di opere di Enzo Esposito,
Giovanna Ugolini, Cosimo Budetta, Alfredo Malferrari e Giordano Perelli.
“Arcipelago itaca” blo-mag quinta apparizione. Un ricordo di Alfonso Gatto (con un saggio di Laura Pesola),
Rossella Maiore Tamponi (con note di Francesco Scaramozzino e Giorgio Linguaglossa), Linnio Accorroni (con
note di Danilo Mandolini e Adelelmo Ruggieri), Manuel Cohen (con una nota di Danilo Mandolini), Enrico De
Lea, Evelina De Signoribus, Stelvio Di Spigno ed Eva Taylor. Collage Cesare Pavese. Riproduzioni di immagini di
Sauro Marini e di un’opera di Adriano Spatola.
“Arcipelago itaca” blo-mag sesta apparizione. Un brano dal discorso di Eugenio Montale pronunciato in occasione
dell’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura del 1975, un ricordo di Ferruccio Benzoni (con un articolo di
Francesco Magnani, un’intervista all’autore a cura di Gabriele Zani e una poesia di Francesco Scarabicchi), Cristina
Babino (con una nota di Danilo Mandolini), Francesco Accattoli, Guglielmo Peralta e Lucilio Santoni. Inediti di
Narda Fattori. Collage Arthur Rimbaud. Riproduzioni di opere di Agostino Perrini e di Emilio Tadini. Commento
all’opera di Agostino Perrini a cura di Marco Frusca.
“Arcipelago itaca” blo-mag settima apparizione. Un ricordo di Giovanni Giudici (con brani da una nota
commemorativa di Goffredo Fofi), Alessandro Moscè (con una nota di Danilo Mandolini), Marco Ercolani, Fabio
Franzin, Mariangela Guàtteri e Annalisa Teodorani. Inedito di Giovanni Commare. Collage William Butler Yeats.
Riproduzioni di immagini di Mario Giacomelli.
“Arcipelago itaca” blo-mag ottava apparizione. Un ricordo di Claudia Ruggeri (con un saggio di Stelvio Di Spigno),
Alessandra Cava e Natalia Paci (con note di Danilo Mandolini), Patrizia Cavalli, Gian Maria Annovi, Luca Ariano
e Anna Ruotolo. Inediti di Mauro Barbetti e Renata Morresi. Collage Giuseppe Ungaretti. Riproduzioni di opere di
Luigi Bartolini.
“Arcipelago itaca” blo-mag nona apparizione. Un ricordo di Pier Paolo Pasolini (con una nota introduttiva di Danilo
Mandolini), Manuel Cohen, Anna Elisa De Gregorio, Francesco De Napoli (con note di Danilo Mandolini),
Gianni D’Elia, Marco Di Pasquale, Annamaria Ferramosca e Maria Grazia Maiorino. Inediti di Mariella De Santis
e Luigi Socci. Collage Giorgio Caproni. Riproduzioni di opere di Osvaldo Licini.
“Arcipelago itaca” blo-mag decima apparizione. Un ricordo di Remo Pagnanelli (con una nota introduttiva di
Danilo Mandolini), Elisabetta Maltese (con una nota di Mauro Barbetti), Maria Lenti, Nicola Romano (con note di
Danilo Mandolini), Elio Pagliarani, Francesco Scarabicchi (con un’intervista a cura di Danilo Mandolini),
Alessandra Carnaroli e Roberto Deidier. Inediti di Loretta Zoppi (con una nota di Danilo Mandolini). Collage
Guillaume Apollinaire. Riproduzioni di immagini fotografiche che testimoniano le lotte dei lavoratori e le proteste
contro il potere (sia questo economico/finanziario che non).
“Arcipelago itaca” blo-mag undicesima apparizione. Violata? Giudicate voi! Sull’ormai nota “statua della discordia”
di Ancona. Simonetta Giungi (con una nota introduttiva inedita di Maria Lenti), un saggio inedito di Guglielmo
Peralta su Cesare Pavese (con alcune poesie scelte), [ancora su] Leonardo Mancino (con un brano da un saggio ed
una lirica di Luisa Rossi), Mauro Barbetti (con una nota di Danilo Mandolini), Maurizio Landini (con un intervento
di Martina Daraio), Andrea Zanzotto, Damiano Abeni (con un brano da una nota di Massimo Gezzi), Andrea
Longega e Marco Srebernic (con una nota di Danilo Mandolini). Collage Charles Bukowsky. Riproduzioni di nove
immagini fotografiche che rappresentano altrettanti atti d’accusa contro la pena di morte.
“Arcipelago itaca” blo-mag dodicesima apparizione. Llanto por Ignacio Sánchez Mejías di Federico García Lorca.
Con l’introduzione di Giovanni Raboni, le traduzioni di Carlo Bo, Elio Vittorini, Giorgio Caproni, Leonardo
Sciascia e Oreste Macrì e con un recente articolo di Alessio Piras; Irene Paganucci (con una nota di Mauro Barbetti);
Alessandro Seri e Norma Stramucci (entrambi introdotti da Danilo Mandolini); Eugenio Montale (nella
presentazione di Dante Isella); Rachel Blau DuPlessis (con un brano dal saggio introduttivo di Renata Morresi a
Dieci bozze); Manuel Caprari (con una nota sempre di Renata Morresi); Alberto Toni. Collage Jorge Luis Borges.
Riproduzioni di undici immagini tratte dal volume fotografico Un secolo di guerre.
“Arcipelago itaca” blo-mag tredicesima apparizione. Ricordo di Maria Grazia Lenisa [con testo introduttivo inedito
(Un mondo di là da venire) di Danilo Mandolini. Scheda bio-bibliografica e scelta delle liriche a cura di Marzia Alunni.
Tre (più o meno) recenti contributi critici], carteggi tra Celan e Vittorio Sereni e tra quest’ultimo e Andrea Zanzotto
(nota introduttiva di Giovanna Cordibella), da Dopo Campoformio di Roberto Roversi, Adriàn N. Bravi, Lella De
Marchi e Lorenzo Mari. Collage Thomas Stern Eliot. Riproduzioni di dieci immagini di Marco Baldinelli.
“Arcipelago itaca” blo-mag quattordicesima apparizione. Vittorio Reta: testi da Visas (introduzione a cura di Danilo
Mandolini e un ampio estratto da Una rete per Reta di Luciano Nanni); Sebastiano Timpanaro legge Leopardi (brani
scelti da Giovanni Commare) [introduzione a cura di Danilo Mandolini e (Sebastiano Timpanaro) Il materialismo per la
lotta di classe di Giovanni Commare]; Amelia Rosselli (da Variazioni belliche); Maria Lenti: da Effetto giorno - scritti
diversi (1993-2012) (breve introduzione a cura di Danilo Mandolini e La parola scritta di Maria Lenti di Vitaliano
Angelini); Narda Fattori; Andrea Lanfranchi. Collage Iosif Aleksandrovič Brodskij. Riproduzioni di tredici
immagini di Danilo Mandolini.
“Arcipelago itaca” blo-mag quindidicesima apparizione. Fernanda Romagnoli: testi da Il tredicesimo invitato e altre
poesie ed estratti dall’Introduzione allo stesso volume e da La fortuna critica di Fernanda Romagnoli e gli inediti (entrambi
a cura di Donatella Bisutti); versi da La deriva di Luca Canali ed un brano dalla Nota introduttiva alla stessa opera (a
cura di Giacinto Spagnoletti); L’albero e la vacca di Adriàn Bravi (con L’evoluzione della narrativa di Adriàn Bravi oltre
il confine delle ossessioni di Danilo Mandolini); Parlando d’altro di Rodolfo Cernilogar (con Parlando d’altro si fa poesia
di Mauro Barbetti); Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato di Andrea Inglese (con La rappresentazione
del sentimento dell’attesa di Danilo Mandolini); Femminile plurale - Le donne scrivono le Marche (con brani da Una
regione al femminile plurale di Cristina Babino, Dalle Marche: una possibile “mappa” del sentire e del vedere peculiare delle
donne di Danilo Mandolini ed un estratto da Viaggi minimi con Luigi Di Ruscio di Luana Trapè); Suono del vento
primo di Enrico De Lea; antologie delle opere e della critica di e su Francesca Perlini (con «L’esistenza entra nella vita»
di Danilo Mandolini) e Marco Simonelli. Collage Marina Ivanovna Cvetaeva. Riproduzioni di quattordici
immagini fotografiche testimonianti lo stato di inarrestabile degrado ed inquinamento del pianeta (e relativi link di
articoli correlati). In copertina: immagine di Jan Smith.
“Arcipelago itaca” blo-mag sedicesima apparizione. Lo scorso 17 febbraio è formalmente nata Arcipelago itaca Edizioni.
Michail Jur’evič Lermontov: una presentazione di Danilo Mandolini, versi da Quaranta poesie ed un estratto dalle
Note ai testi (dal medesimo volume) entrambi a cura di Roberto Michilli. Da Lunga un anno di Francesco Accattoli,
Musa fitta nell’azzurro di Davide Argnani, La cordialità di Mariella De Santis, Quaderno millimetrato di Dorinda di
Prossimo e note di presentazione di Danilo Mandolini. Testi di Francesca Monnetti e Nota introduttiva di Mauro
Barbetti. Da TerraeMotus / [voci, traccia] di Fabio Orecchini e nota di commento dello stesso autore. Piccola
antologia dell’opera e della critica di e su: Alessio Alessandrini e Antonio Bux. Collage Anne Sexton. Riproduzioni
di ventisette immagini che rimandano soprattutto alle copertine di molte tra le più note riviste italiane di letteratura.
In copertina: “Solaria” e “Officina”.
“Arcipelago itaca” blo-mag diciassettesima apparizione. Anteprima Arcipelago itaca Edizioni: Sei nessuno anche tu?
- Emily Dickinson / Mario Giacomelli, versioni di Renata Morresi; Lea Ferranti: una vita per la poesia, una poesia per
la vita di Alessio Alessandrini - Versi da La luna sul balcone - Poesie dal 1973 al 2001; versi da Corpo di scena di
Gianfranco Palmery; Vetrina Arcipelago itaca Edizioni: Dire casa - Francesca Perlini; Jucci di Franco Buffoni - Nota
di lettura di Danilo Mandolini; Da Abitiamo il corpo del vento (inediti) di Leandro Di Donato; Testi (inediti) di
Nicola Romano; Antologia dell’opera e della critica di e su Giovanni Commare e Maurizio Landini; Collage
Maurice Maeterlinck. Riproduzioni di quattordici immagini, raccolte sotto il titolo di CIAO BELLE!, celebrano il
contributo dato dalle donne alla liberazione dell’Italia dal gioco nazi-fascista. In copertina: Combattenti curde.
“Arcipelago itaca” blo-mag diciottesima apparizione. Dino Campana. Da Canti Orfici e da Il più lungo giorno.
Parallelo tra la versione data alle stampe e il manoscritto ritrovato. Un brano da Dell’irrefrenabile notte di Carlo Bo;
Heberto Padilla. Da Fuera del juego e da altri tre lavori mai tradotti in Italia. Versioni di Gordiano Lupi. Un brano da
Fuori dal gioco e il caso Padilla di Gordiano Lupi; da Firmum di Luigi Di Ruscio; Anteprina Arcipelago itaca
Edizioni: da Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda di Giovanna Frene, con tre immagini di Orlando
Myxx e Storia come allegoria di Giovanna Frene; da Abracadabra di Nicola Ponzio, con 3 tavole dell’autore e un
brano dalla Postfazione di Renata Morresi; dalle opere premiate in occasione della 1° edizione del Premio
nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca”: Lucilla Niccolini - Vladimir D’Amora - Barbara Pumhösel - Pier
Franco Uliana - Cristina Babino - Paolo Steffan. Collage Edoardo Sanguineti. Riproduzioni di tredici immagini che
ritraggono quattordici poeti in pose originali. In copertina: TEMPUS EDAX RERUM di Danilo Mandolini.
“Arcipelago itaca” blo-mag diciannovesima apparizione. Poesie di Sandro Penna - Con un estratto da una nota di
Cesare Garboli e da un carteggio tra l’autore e Pier Paolo Pasolini; Cento passi nella poesia (e non solo). Le Edizioni
l’Obliquo di Giorgio Bertelli - Con una poesia di Francesco Scarabicchi; da Il lobo dei mostri di Henri Michaux Con un brano da Nella ragnatela degli esorcismi di Pasquale Di Palmo; da L’alfabeto di un poeta di Mark Strand Con una Nota di Damiano Abeni; da In transitu di Barbara Pumhösel; da Ornitografie di Pier Franco Uliana; da
Letture di Cristina Babino (su Pasta madre di F. Mancinelli) e da Pasta madre di Franca Mancinelli; da Il numero dei
vivi di Massimo Gezzi - Con note di commento di Martina Daraio e Danilo Mandolini; antologia dell’opera ed
inediti di Danilo Mandolini - Con un testo di Renata Morresi; da Possibile ipotetico di Simone Sanseverinati.
Collage Elio Pagliarani. Riproduzioni di quattordici immagini (inclusa quella di copertina) dalla serie Anamorfiche
di Danilo Mandolini.
“Arcipelago itaca” blo-mag ventesima apparizione. Guillaume Apollinaire - Da Calligrammes - Poèmes de la paix et
de la guerre / 1913-1916. Traduzione di Norma Stramucci; Neapolitana membra di Vladimir D’Amora; Casa rotta di
Valentina Maini - Con la nota di postfazione al volume di Stefano Colangelo; Impossibile ritorno di Lucilla
Niccolini; Album di Claudio Salvi - Con “luoghi in attesa. O soltanto vuoti” di Giulio Mozzi; Avrei fatto la fine di
Turing di Franco Buffoni - Con contributi critici di Flavio Cogo e Simone Giusti; Abbonato al programma delle
nuvole di Giampaolo De Pietro - Con una nota di lettura di Danilo Mandolini; antologia dell’opera e della critica ed
inediti di e su Salvatore Ritrovato; da Gabbie in codice di Antonio Bux; da Liture di Riccardo Socci. Collage Jaroslav
Seifert. Riproduzioni di quindici immagini (inclusa quella di copertina) liberamente raccolte sotto il titolo di GRAND
HOTEL IDOMENI e due scatti di Gordon Matta-Clark.
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
Costantino Kavafis, Itaca
Per ricevere, a ½ e-mail, le apparizioni (incluse quelle arretrate) di “Arcipelago itaca” blo-mag,
inoltrare relativa richiesta a [email protected].
La piccola immagine
in basso a destra
nella seconda di copertina
e in alto a sinistra
nella terza di copertina
raffigura
la sagoma dell’isola di Itaca.
Seifert
R. Socci
Bux
Giusti Cogo
Stramucci
Maini
De Pietro Mandolini
D’Amora
Buffoni
Ritrovato
Niccolini
Apollinaire
Mozzi
Colangelo
Salvi
letterature, visioni ed altri percorsi
ideatore e curatore: Danilo Mandolini
Arcipelago itaca Edizioni
di Danilo Mandolini
Via Mons. Domenico Brizi, 4 60027 Osimo (AN).
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