una cosa chiamata felicita

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una cosa chiamata felicita
UNA COSA CHIAMATA FELICITA'
Sito: http://www.ceskatelevize.cz/specialy/stesti/
Anno: 2005
Titolo Originale: STESTI'
Durata: 100
Origine: GERMANIA, REPUBBLICA CECA
Genere: COMMEDIA, DRAMMATICO
Produzione: CESKA' TELEVIZE, PALLAS-FILM GMBH, NEGATIV LTD., PALLAS FILM, ZWEITES DEUTSCHES
FERNSEHEN (ZDF), ARTE
Distribuzione: BIM
Data uscita: 19-05-2006
Regia: Bohdan Slama
Attori:
Tatiana Vilhelmova
Monika
Pavel Liska
Tonik
Anna Geislerova
Dasha
Marek Daniel
Jara
Zuzana Kronerova
Zia
Bolek Polivka
Soucek
Simona Stasova
Souckova
Martin Huba
Padre Di Tonik
Anna Kocisova
Madre Di Tonik
Marie Ludvikova
Iva Janzurova
Zdenek Rauser
Milos Cernousek
Sceneggiatura: Bohdan Slama
Fotografia: Divis Marek
Musiche: Leonid Soybelman
Montaggio: Jan Danhel
Scenografia: Petr Pistek, Jan Novotny
Costumi: Zuzana Krejzkova'
Trama:
1- Monika, Tonik e Dasha si conoscono sin dall'infanzia, trascorsa in un quartiere popolare di una cittadina di provincia.
Diventati adulti, ognuno di loro ha intrapreso la propria strada: Monika si è fidanzata con un uomo che lavora in America ed è
in attesa di raggiungerlo, Tonik si è trasferito in casa dell'eccentrica zia che aiuta nella lotta contro le industrie che vorrebbero
espropriarne la casa in campagna, e Dasha, diventata madre di due bambini, è innamorata di un uomo sposato e ha gravi
problemi di depressione. Quando quest'ultima viene ricoverata in una casa di cura per problemi mentali, Monika è chiamata a
prendersi cura dei figli dell'amica. A darle supporto interviene anche Tonik, che la ospita nella casa di campagna e insieme al
quale dà vita ad una sorta di serena famigliola. Il ragazzo vede nella nuova situazione un possibile cambio di vita da spendere
insieme alla donna di cui è segretamente innamorato, ma Monika è sempre in attesa della chiamata dall'America e i due
piccoli resteranno sempre i figli di Dasha...
2- Radiografia di un gruppo di abitanti di un quartiere operaio di una piccola città ceca, che mostra le cicatrici
dell'industrializzazione: una ragazza il cui fidanzato è emigrato in America; un ragazzo segretamente innamorato di lei; la
madre abbandonata il cui amante non si decide a chiedere il divorzio; i figli che passano da uno all'altro.
Critica:
In una piccola città céca di macerie e relitti, di case senza energia elettrica, di tetti che lasciano passare la pioggia, di
supermercatini dagli scaffali vuoti, di fabbriche abbandonate, di regali natalizi miseri, ubriachezze tristi e vecchi che ballano,
«La gente riesce a trasformare la propria vita in un inferno, abbiamo un talento speciale per farlo», dice un emigrato in
America. Il secondo film del regista céco Bodhan Slama, Una cosa chiamata felicità (il titolo originale, Stetsi, felicità, ha
l'asprezza sarcastica di Happiness di Todd Solondz) rivela un'estrema sensibilità e una vera maestrìa nella direzione degli
attori.
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La storia unisce una ragazza e un ragazzo per i quali l'amicizia dall'infanzia ostacola l'amore: intorno a loro, in un casamento
popolare, vivono varie generazioni. I vecchi sono avviliti dal dover considerare il proprio passato una colpa vergognosa. I
giovani sono ossessionati dai soldi, dal successo, dall'evasione americana. Il peso della Storia recente è dappertutto, greve
come un cattivo odore oleoso e persistente. Una vicina in crisi viene portata all'ospedale psichiatrico; i due ragazzi si
occupano dei bambini di lei rimasti soli, formando una piccola famiglia serena ma finta e precaria (i bambini verranno ripresi
dalla madre, lei partirà per raggiungere l'innamorato negli Stati Uniti). Il regista è vicinissimo ai personaggi, sa coinvolgere gli
spettatori nella loro vita, nella loro speranza a volte appagata e più spesso delusa di trovare prima o poi un posto nel mondo:
quanto agli interpreti, persino i bambini di due, tre anni sono bravissimi. (Lietta Tornabuoni, La Stampa - 12/05/2006)
Cinema ceco. Assente da qualche tempo nelle nostre sale. L'autore del film di oggi Bodhan Slama, è però abbastanza
conosciuto a livello internazionale perché premiato a vario titolo in questi o quel festival. I suoi temi sono delle cronache
familiari, le sue cornici, delle realistiche periferie di città industriali, i suoi personaggi, molti, o sono in crisi, specie nel campo
degli affetti, o sfiorano la depressione, in climi grigi, qualche volta anche cupi. Tre personaggi in primo piano. Monika, una
ragazza fidanzata a un uomo andato a lavorare in America e che spera di poterlo presto raggiungere. Dasha, con due figli
piccoli e un amante che però è sposato e non intende divorziare per unirsi a lei: da qui un crollo che, con il rifiuto di tutto,
anche dei figli, la precipiterà in una sorda depressione. Tonik, un giovanotto un po' sbandato innamorato da sempre di Monika
e così estraneo alla famiglia in cui vive da andarsene un giorno ad abitare con una vecchia zia in un casolare che, con le
unghie e con i denti, cerca di difendere dall'avanzata di un complesso industriale che lì distruggerebbe tutto, a cominciare
dalla natura. Pochi fatti. La partenza di Monika per l'America finalmente chiamata dal fidanzato, un abisso così nero in cui
sprofonda Dasha Da farle addirittura affidare i suoi bambini alla famiglia di Monika, la morte della zia di Tomik che gli
toglierà ogni velleità di resistere all'invasione del complesso industriale cui consentirà di acquistare ed abbattere il suo
casolare. Con un lieve spiraglio di luce alla fine perché Monika, delusa dal fidanzato e dall'America, ritornerà e si metterà a
cercare Tomik che, anche se non è più lì, forse, un giorno o l'altro, riuscirà a raggiungerlo. Pacificandosi entrambi. Caratteri
ben disegnati, situazioni dosate con realismo quieto, anche quando accolgono contrasti o increspature atmosfere soprattutto
all'insegna della malinconia o addirittura delle delusioni. Senza mai accenti forti. Con immagini che, appunto, riflettendo
realisticamente un'ambientazione dai sapori quotidiani, si tengono ad impressioni immediate, senza pleonastici effetti visivi.
In linea con una recitazione affidata ad interpreti sconosciuti qui da noi ma sempre convincenti. Pur nell'assenza totale di
carismi. (Gian Luigi Rondi, il Tempo - 12/05/2006)
Si dice che il cinema sia anche il racconto della vita, non dimenticando, citando Artaud, che i film sono della materia di cui
sono fatti i sogni. Ma è sempre più difficile trovare la vita e i sogni nel cinema di oggi, mosso sempre più verso una
dimensione altra, dove l'impossibile è reale. Ogni tanto, dalle cinematografie meno conosciute arrivano film veri e intensi, che
ci ricordano quanto le storie di vite comuni, e possibili, possano essere coinvolgenti. Una cosa chiamata felicità del regista
ceco Bohdan Slama coglie questa dimensione. Vincitore al Festival di San Sebastian come miglior film, ci conduce nel mondo
dolente di un quartiere popolare di una piccola città industriale della Repubblica Ceca. Tre giovani fanno esperienza del
diventare adulti: Monika ha un fidanzato intraprendente che decide di emigrare negli Stati Uniti, Tonik, innamorato di Monika
sin da bambino, vive con la zia in una fattoria fatiscente e Dasha soffre di disturbi del comportamento, di cui sono vittime i
due piccoli figli. Ognuno di loro proietta nell'altro un'aspettativa non dichiarata. Si aiutano, litigano, si amano, fanno progetti,
li disfano... cercano di crescere a dispetto del mondo. Cosa vuol dire prendersi cura dei figli di un'amica in crisi depressiva che
rigetta ogni solidarietà? Cosa vuoi dire essere buoni in un contesto sociale di diffidenza? Cosa vuoi dire dedicarsi a una
persona, amarla, sapendo di non essere corrisposti? Cosa vuol dire scegliere di rimanere nella propria patria, lottando con le
cose che questa impone, piuttosto che cedere al sogno di fuga? Domande senza risposte, questo è il cinema che ci piace:
quello che lavora nelle contraddizioni. I temi universali di Una cosa chiamata felicità vengono calati nella vita contemporanea
della Repubblica Ceca. Non vorremmo essere banali, anche se il cinema d'oggi ci mette in questo imbarazzo, ma quanti film
nel corso di un anno ci permettono di fare un viaggio particolare dentro realtà vicine e completamente sconosciute? Bohdan
Slama racconta quello che vede, quello che ha sotto gli occhi, senza edulcorazioni. Cammina dritto perla sua strada, facendosi
interprete e narratore. Con una regia semplice, ma empatica, traduce le emozioni in immagini schiette e dirette. Non ricerca
l'effetto, ma scova nelle situazioni il vero, quando anche la poesia. Ogni tanto al cinema viene da piangere innanzi a scene non
esplicitamente commoventi, ma semplicemente vere. Ci si perde e ci si ritrova, in un lapsus psicologico. Capita di rado di
perdersi al cinema, di non sapere più dove è l'uscita quando si accendono le luci...(Dario Zonta, L'Unità - 12/05/2006)
Non è un film metropolitano Sesti (in italiano Una cosa chiamata felicità) di Bodhan Slama, premiato a San Sebastian.
Se lo fosse, il gusto sarebbe molto più amaro, cinico e senz'altro non circolerebbero tanti bambini. Praga come N.Y. come
Milano: battute secche e vita notturna. Qui invece siamo nel nord della Repubblica Ceca, zona industriale, un deserto, dice il
regista che viene dal Famu, la scuola di Praga, e si sente, per l'orgoglio di un cinema tradizionale che negli anni 60 era tra i più
belli del mondo e di cui si è nutrito con piacere.
Mentre ci muoviamo da un appartamento all'altro nei diversi nuclei familiari che esplora il racconto, nei grandi magazzini e
nelle fabbriche, cerchiamo di mettere insieme quei due mondi così lontani in epoca postcomunista. La sfrontatezza dei
personaggi della primavera di Praga e questi ragazzi spiazzati da un capitalismo ormai acquisito, anomici, come si diceva in
termini sociologici, turbati al punto giusto per essere fotogenici.
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Secondo la regola principale del cinema ceco, mai fare un film di cui si possa raccontare la trama e certo non è di felicità che
si tratta: c'è chi parte, chi perde la testa per amore (un indizio che non siamo nella capitale) e dimentica anche di occuparsi dei
figli piccoli lasciati a se stessi, se non ci fossero i vicini, amici d'infanzia, a prendersi cura di loro.
Monika è una vicina della pazza d'amore, aspetta di raggiungere il suo ragazzo in America ma non vuole lasciare i bambini
all'orfanotrofio. Tonik non vuole fare l'operaio, piuttosto aiuta la zia a sistemare il vecchio casale di famiglia frequentato da
capre e vecchi hippies sopravvissuti. Un emozionante intreccio di caratteri e personaggi dove i buoni sentimenti lottano contro
un malessere di nuovo tipo che impregna tutti i rapporti.
A un certo punto ci si accorge che, invece del microcosmo, si sta raccontando il paese intero, dove tornano a incrociarsi gli
antichi stereotipi e i fantasmi del passato hanno nuovo spazio (parte del divertimento è in questo doppio gioco, per quanto il
pubblico italiano ben poco ha visto della «nova vlna»), vecchi dissidenti, hippies dai lunghi capelli grigi sempre pronti a
irridere gli operai ancora ligi al dovere. Quanto ai giovani, alcuni, come la madre folle (Anna Geislerova), hanno l'ingrato
compito di essere le vittime del cambiamento, altri, in particolare i due protagonisti (Pavel Liska) difendono senza
aggressività, lo stupore dell'infanzia, la sorpresa, il gioco e la favola (non senza ironia in quel mare di ciminiere, cavi dell'alta
tensione, viadotti e fabbriche dove la retorica del principe folletto sembra fuori posto: non bisogna dimenticare che la vendita
dei film di favole era una delle maggiori entrate del paese ai tempi del comunismo) e quel nucleo che in loro stessi c'è di
autentico. Un film di passaggio verso l'età adulta dai toni delicatamente disperati. (Silvana Silvestri, Il Manifesto 15/05/2006)
Repubblica Ceca. Monika (Tatiana Vilhelmova), Tonik (Pavel Liska) e Dasha (Anna Geislerova) sono cresciuti insieme in un
fatiscente quartiere di periferia di una piccola città industriale. Tra case fradice di pioggia e muri pericolanti. Ora sono adulti,
distanti, divisi tra desideri impossibili e solitudine. Il fidanzato di Monika è riuscito a fuggire in America, dove ha trovato
lavoro. Lei spera di raggiungerlo. Tonik scappa di casa e va a vivere in campagna con la zia. Dasha ha due bambini piccoli, un
amante sposato e gravi crisi depressive. Il regista ceco Bohdan Slama, al suo secondo film, torna a raccontare povertà,
speranze e illusioni di un Paese che tenta di ricostruirsi e delle persone che lo abitano. Il suo precedente The Wild Bees era
stato accostato al cinema verità e all'opera del connazionale Milos Forman e, nel 2002, aveva rappresentato la Repubblica
Ceca alle nomination all'Oscar per il miglior film straniero. I protagonisti e i comprimari di Stestì (questo il titolo originale)
sono quasi tutti attori del cinema ceco contemporaneo. Tra i numerosi premi vinti per i festival, da ricordare almeno il primo
premio a San Sebastian per il film e l'attrice Anna Geislerova. (Luca Barnabé, Ciak - 30/05/2006)
"Titolo metafora, persone che attraversano la giovinezza nella mutazione sociale post ideali: il vecchio e il nuovo, frigo vuoti
e idromassaggi, panni stesi e telecamere, zuppe e sesso orale in montacarichi. Premiato qua e là nei festival, il film di Bohdan
Slama cerca l'amore come un rabdomante appassionato, con rigore drammatico e attori bravi e sofferenti. Che fare? Correre
via, non si sa dove, subito." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 19 maggio 2006)
Bohdan Slama non ama fare molti giri di parole quando parla dei suoi gusti cinematografici.
Al cinema a volume sparato, preferisce la semplicità delle emozioni. I suoi personaggi, ben lontani dall’essere stereotipi alle
prese con fatti straordinari, sembrano piuttosto ispirati dalla normalità dell’uomo della porta accanto. E’ la natura umana ad
appassionarlo più che i suoi derivati ("infine si tratta solo di emozioni, tutto il resto non è che il mezzo, non la storia" ama
ripetere).
Come per il suo film precedente, Wild Bees, Slama ambienta la sua storia ("miracoli di amori ordinari" come recita la logline
del film) in campagna, in una cittadina molto lontana dall’atmosfera modaiola della capitale Praga. E in questo, il film ha
forse qualcosa di autobiografico dato che il regista vive in campagna lontano dal centro. Ma l’interferenza della realtà, per
così dire, non finisce certo qui. I suoi personaggi forse non sono degli artisti come il loro creatore, ma proprio come lui, sono
governati dalle emozioni (o dalle passioni come direbbe qualcuno) e sono alle prese con le preoccupazioni quotidiane descritte
sempre nella loro prosaica ‘normalità’. E nel cinema contemporaneo il riuscire a ritrarre le cose come effettivamente si
presentano nella realtà è da considerarsi una vera e propria arte.
L’abilità di Slama (come del suo produttore) è anche nella scelta degli attori. Scelta ricaduta su un collaudato trio di
connazionali: Tatjana Vilhelmova, Pavel Liska (già visti in Wild Bees) ed Anna Geislerova.
Slama, sempre diretto nella sua schiettezza, è il primo ad ammettere che non ci sarebbe stato nessun film senza i suoi attori in
stato di grazia e la totale libertà d’azione assicuratagli dai suoi produttori, nello specifico la Negativ Film Productions di Pavel
Strnad, che il regista considera come "uno dei suoi, di quelli che sono sulla sua stessa linea d’onda". E, d’altro canto, i suoi
produttori si meritano questi elogi. Le riprese del film sono durate quasi due anni ed il budget di 1,5 milioni di euro, sebbene
non scandaloso se paragonato agli standard europei, è praticamente il doppio della media nazionale delle produzioni
cinematografiche nella Repubblica Ceca.
Sebbene non smetta di meravigliarsi dell’incredibile successo in patria, e dei numerosi riconoscimenti all’estero, per il regista
"la storia (di questo film) è finita". Ha terminato il suo racconto, l’ha consegnato al pubblico e ora è già preso dal suo nuovo
progetto. Ma ciò nonostante, sembra proprio che la storia non sia ancora finita.
Nella Repubblica Ceca i premi ed i festival sono ovviamente apprezzati e celebrati, ma l’Oscar resta ‘il premio’ per
eccellenza. Il precedente film di Slama, Wild Bees, nel 2002 fu scelto quale candidatura nazionale per le nomination nella
categoria ‘miglior film straniero’ agli Academy Awards. Allora, forse, sarebbe stato troppo presto per il regista. Quest’anno,
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ancora una volta un suo film, Something like Happiness (Stesti), il suo secondo, è stato scelto per l’importante corsa alle
nomination ed ha buone probabilità di rientrare nella cinquina di titoli in corsa per la statuetta. Questa volta sembra proprio
che una puntata a Los Angeles in marzo sia più di una remota possibilità.(www.cineuropa.org)
É una storia triste, amara, difficile, quella che il regista Bohdan Slama, al suo terzo lungometraggio, porta in scena in "Una
cosa chiamata felicità".
Tre amici di infanzia, Monika (Tatiana Vilhelmova), Tonik (Pavel Liska) e Dasha (Anna Geislerova), sono oggi tre adulti
costretti a subire le difficoltà della loro condizione economica, sociale e culturale: Monika vede partire il suo fidanzato per
l'America in cerca di lavoro, ma anche di una realtà diversa e alternativa; Tonik si ritira nel casolare di campagna perché non
vuole piegarsi a lavorare in fabbrica come vorrebbe la sua famiglia, con la quale non riesce più a dialogare; Dasha ha due
bambini piccoli, un amante sposato, e soffre di disturbi di depressione.
Sono tre ragazzi che crescono velocemente, e sperimentano le amarezze della vita troppo in fretta e troppo in profondità. Le
loro storie si intrecciano anche e soprattutto per l'affetto che li lega ai due figli di Dasha. I bambini non si rendono conto della
bruttura che molte volte li circonda e nella loro ingenuità si rivela tutta l'amarezza del film.
Con il passare del tempo la situazione si fa sempre più complessa: Tonik è sempre più innamorato di Monika, ma lei lo
considera solo un amico. Monika attende con ansia di partire per l'America per raggiungere il suo uomo ma le difficoltà la
bloccano. Dasha si perde nel suo malessere interiore, trascurando se stessa e i suoi figli.
Il titolo inglese "Something like happiness" coglie meglio il cuore del film, perchè i protagonisti sperimentano qualcosa
"come" la felicità, un'apparente e transitoria felicità: Monika ha dei bambini di cui occuparsi (ma non sono i suoi), Tonik vive
vicino alla donna che ama da sempre (ma lei appartiene ad un altro). Ognuno a suo modo si illude di conoscere cos'è la
felicità, ma l'equilibrio è fragile e si rompe spesso con conseguenze drammatiche. Prima o poi tutti devono affrontare la realtà,
e provare a costruire la loro vera felicità.
Poche parole, molti sguardi, primissimi piani: le emozioni si comprendono attraverso gli occhi, le lacrime, la rassegnazione.
Le difficoltà economiche si intrecciano con quelle interiori, sentimentali.
La scelta delle regioni aride del nord della Repubblica Ceca contribuisce al tono grigio, scuro, deprimente, che il film vuole
mantenere. In città come in campagna non ci sono colori accesi, freschi, leggeri. C'è fumo, polvere, terra, fatica. Quella fatica
che è sia fisica che mentale, perché tra i personaggi non c'è comunicazione, non c'è confronto, ognuno vive nella sua realtà
senza considerare quella degli altri, nessuno capisce veramente gli altri.
I pochi momenti felici sono davvero poco godibili, perché circondati da un'atmosfera mai serena, dalle continue rotture
d'equilibrio, dalla negatività complessiva. É forse proprio la totale mancanza di serenità, l'insistenza esasperata di una realtà
infelice che rende il film gravoso e un po' opprimente.
Se è apprezzabile la scelta di un taglio realista, forte e disincantato, tuttavia non si può non subire la lentezza delle scene e la
mancanza di convinzione nel descrivere i valori positivi. L'amicizia, l'affetto, l'amore, non sono che debolissime tracce,
rendendo il film per certi aspetti davvero sfibrante.(www.cineclick.it)
Dopo aver raccolto successi in patria (Repubblica Ceca), poi ai festival di San Sebastian, “Nouveau Cinéma” di Montréal e ad
Angers, in Francia, dove ha trionfato a “Premiers plans”, festival dedicato alle opere prime (Gran premio della Giuria, Premio
del Pubblico, Premio della migliore interpretazione all’insieme del cast), Una cosa chiamata felicità approda sugli schermi
italiani.
In una piccola cittadina situata nel nord della Boemia si intrecciano i destini di Monika, Tonik e Dasha, tre giovani cresciuti
insieme in una casa popolare. Dasha ha due bambini ed è logorata dall’indecisione, i continui ripensamenti e le promesse del
suo amante sposato. Trascorre a letto intere giornate, indifferente ai più elementari bisogni dei figli, succube di crisi di nervi
sempre più frequenti.
Monika è radiosa nella sua fiducia costante nei confronti del futuro. Il fidanzato è emigrato negli Stati Uniti per trovare lavoro
e lei aspetta soltanto il momento più opportuno per raggiungerlo e costruire con lui una vita lontano dalla miseria quotidiana.
Tonik è un idealista e vive con una zia eccentrica in una vecchia fattoria in rovina. Segretamente innamorato di Monika, si
accontenta del ruolo di miglior amico e confidente.
Sulla soglia dell’età adulta i tre personaggi di Una cosa chiamata felicità si interrogano sulle aspettative che si sono costruiti
nei confronti della vita e sulle scelte da compiere per non tradire i sogni costruiti durante l’adolescenza. Le risposte non sono
scontate, e il film ha il merito di costruire tre percorsi tanto differenti quanto credibili per i suoi protagonisti (interpretati da tre
splendidi attori: Pavel Liska per Tonik, Tatiana Vilhelmova nel ruolo di Monika e Ana Geislerova nel ruolo di Dasha).
Ciascuno è costretto a interrogarsi sull’idea di famiglia che porta dentro di sé e che lo costringe a confronti talora dolorosi con
il mondo dei fatti.
I dialoghi, le pause, i silenzi, gli sguardi che esprimono senza parole; i gesti trattenuti e impacciati di Tonik o le esplosioni
improvvise di Dasha; i piccoli momenti della vita di ogni giorno sono tutti elementi che fanno sì che questa riflessione diventi
concreta, senza necessità di scambi verbali estenuanti, come talora se ne ritrovano nel giovane cinema contemporaneo.
Famiglie sognate, famiglie smontate e poi ricomposte, famiglie provvisorie nate per necessità, famiglie d’elezione:
inseguendo un sogno ma senza chiudere gli occhi davanti alla realtà, i giovani di Bohdan Shama si ritrovano con qualcosa che,
se non è la felicità, sembra averne davvero il gusto.(www.fice.it)
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Premi principali
- GOLDEN ATHENA, ATHENS INTERNATIONAL FILM FESTIVAL;
-ROTTERDAM INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2002
Won Tiger Award: Divoké vcely
-SAN FRANCISCO INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2002
Won SKYY Prize: Divoké vcely
-SOCHI INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2002
Won FIPRESCI Prize Competitionr: Divoké vcely
For a original and bitter-sweet comedy in the best tradition of Czech cinematography portraying the loss of identity in
the countryside.
Won Golden Rose: Divoké vcely
- BEST FILM, MONTREAL FESTIVAL DU NOUVEAU CINEMA 2005
- CZECH LIONS 2006
Won Critics' Award: Bohdan Sláma
Won Czech Lion Best Actor: Pavel Liska
Won Best Actress: Tatiana Vilhelmová
Won Best Cinematography: Divis Marek
Won Best Director: Bohdan Sláma
Won Best Film
Won Best Screenplay: Bohdan Sláma
Won Best Supporting Actress: Anna Geislerová
Nominated Czech Lion Best Sound: Jan Cenek
Nominated Best Supporting Actor: Bolek Polívka
- SAN SEBASTIÁN INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2005
Won Golden Seashell: Bohdan Sláma
Won Silver Seashell Best Actress: Anna Geislerová
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