Settecento a luci rosse - Centro Studi Biscegliese

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Settecento a luci rosse - Centro Studi Biscegliese
Luca De Ceglia
Settecento a luci rosse
Storie di stupri e di violenza nel Nord-Barese
7/QUADERNI DEL CENTRO STUDI BISCEGLIESE
- Tutti i diritti riservati La riproduzione anche parziale del testo e delle fotografie è subordinata alla citazione della fonte.
In copertina: J.P. MAYGRIER, Esplorazione in posizione orizzontale (1832).
PRESENTAZIONE
Questo studio si propone di testimoniare i segni morali e materiali
della vessazione femminile, da sempre soggiogata dalla supremazia
maschile e dai condizionamenti patriarcali.
Il voler argomentare quali furono le concause della sottomissione che
unitamente alla complicità, al silenzio e all’omertà hanno inficiato sullo
status d’inferiorità dell’essere donna rimane un enigma, sicché alla luce
dei fatti, l’enorme danno morale che la donna si porta addosso è ancora
attuale.
Nel corso della leggendaria storia dell’umanità, il dono della creazione che il genere umano avrebbe dovuto sviluppare ulteriormente fu
invece sottoposto ad un’involuzione.
Il sesso debole, dominato dalla legge gerarchica della forza, non fu
capace di liberarsi dal domínio; sebbene per riequilibrarne la dignità, i
piú saggi cercarono invano di moralizzare una coscienza, prettamente
maschilista, in cui all’uomo tutto era concesso.
Tuttavia, si avanza l’ipotesi che la sudditanza o l’inferiorità sia una
costante derivante dal peccato originale, perché alla donna fu detto: «…e
la tua brama sarà verso tuo marito, ed egli ti dominerà» [Ge 3. 16].
Verrebbe da chiedersi: ma senza quel peccato l’uomo e la donna
sarebbero stati veramente uguali?
Altrettanto vero è che la sapienza filosofica paragona la conoscenza
ad un tabú, al quale si può accedere solo se si è veramente degni. Quindi
ci è impossibile andare oltre, perché convinti che le carenze cognitive
sono particolarmente evidenti, laddove si cercasse di incastonare il tutto
in un quadro teorico che ne giustifichi la genesi.
Tutti sappiamo ciò che le passioni eterne della vita hanno comportato
nel genere umano, influenzando e modellando, sempre piú nello specifico, determinate categorie che si sono compiaciute della facoltà o del
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diritto-dovere di mascherare la verità. Ancora oggi, in molti Paesi, la
“libertà della conoscenza” è vissuta come una minaccia per il mantenimento dell’ordine politico-religioso e, tutt’ora, continua a godere del
sospetto delle autorità, perché ritenuta dannosa e pericolosa.
Ma al di là delle derivanti argomentazioni o connotazioni sessuali, una
riflessione piú approfondita ci porta a pensare alla grande conquista epocale raggiunta dall’emancipazione femminile ed inevitabilmente a
respingere ogni genere di ambiguità e di pregiudizi.
Nel costruire una società piú umana e intelligibile, affinché si possa
meglio comprendere il futuro cammino che la femminilità è tenuta a percorrere, va sostenuta una maggiore informazione sulla verità della sua
natura creativa e della sua missione culturale, perché la donna è destinata ad essere l’artefice della civiltà dell’amore del terzo millennio.
Antonio Cortese
CENTRO STUDI BISCEGLIESE
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INTRODUZIONE
Nel 1231, a Melfi, Federico II promulgò il cosiddetto Liber Augustalis
in cui si esaltava la totale dignità della donna e si comminavano asperrime
pene (la pena capitale con forca o mannaia) a chi violava la loro morale,
rapiva vergini o fidanzate nonché coniugate.
Nessun discrimine, dunque, fra le violentate: dalla monaca alla meretrice. Né fra i violentatori: dal feudatario al villano. Né pietà per i complici,
né elusività per la latitanza degli omertosi costernati 1.
Fu emessa una sentenza sovrana contro un castaldo che aveva abusato
della domestica del suo padrone: «Sia immediatamente mutilato nei
canali seminali: col terrore d’una punizione cosí aspra ma giusta si
impari a controllare la propria libidine ed a rispettare la fedeltà col
pudore ed il pudore con la fedeltà».
Lo stupro come atto sessuale imposto con violenza è contemplato
come reato già dagli antichi codici di legge.
Il codice di Hammurabi condannava a morte il violentatore ma anche
la donna se era sposata. Aveva salva la vita la donna soltanto se era vergine ma contemporaneamente diventava disonorata e non avrebbe piú
potuto convolare a nozze ed era posta ai margini della società.
Gli ebrei condannavano lo stupro ma come un reato contro la proprietà di un altro uomo.
Nei secoli XVI e XVII, i medici quando testimoniavano ai processi, di
solito affermavano che se vi era stato concepimento v’era stato anche piacere e dunque non vi era stato stupro!
Nel medioevo si iniziò a punire la semplice congiunzione carnale, consenziente la donna, anche se libera, presumendo che fosse stata sedotta;
successivamente si distinse lo stupro proprio, con la deflorazione, da
1
R. IORIO, rubrica di Storia ne La Gazzetta del Mezzogiorno del 27 marzo 1999.
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quello improprio, senza deflorazione.
Se poi la seduzione della donna avveniva con lusinghe ed in particolare
con la promessa di un matrimonio, si imponeva all’uomo di sposarla o di
dotarla.
La conseguenza immediata di questo orientamento fece proliferare
matrimoni riparatori tra appartenenti a classi sociali diverse.
Per porvi un freno in Francia nel 1730 fu emessa un’ordinanza che illustrando gli svantaggi della regola aut nubat, aut dotet (o la sposi o la doti)
previde solo pene lievi che, a seconda della gravità, andavano dall’elemosina alle pene corporali.
In Italia, Ferdinando I di Borbone stabilí che «si avesse stupro nel solo
caso di vera violenza perché le donne non devono approfittare della loro
complicità nel delitto ma badare a conservare l’onore delle famiglie in
cui nascono».
Nacque cosí un nuovo concetto di stupro da intendersi come congiunzione carnale accompagnata da violenza, fisica o morale, reale o presunta2.
Anche nella nostra epoca lo stupro (dal latino stuprum = onta, disonore) continua ad essere spesso argomento per la giurisprudenza.
Si ricorderà, nel febbraio 1999, il vespaio di opinioni e di proteste clamorose scatenatesi per la sentenza n. 1636 emessa dalla Cassazione, con
cui veniva annullata una condanna per violenza carnale perché la vittima,
una ragazza di Bella (PZ), indossava i jeans: un indumento, hanno sostenuto i giudici, «quasi impossibile da sfilare anche in parte senza la fattiva collaborazione di chi lo porta».
Fu tuttavia un caso isolato perché, tre anni dopo, la Suprema Corte
confermò la condanna di un violentatore di donna in jeans per un’altra
vicenda.
Sempre la Corte di Cassazione - terza sezione penale - con sentenza n.
13829/99 ha sancito che non ha diritto a sconti di pena e non può invocare
la concessione delle circostanze attenuanti il violentatore che non riesce
a congiungersi carnalmente con la vittima per la resistenza che questa gli
oppone.
Come è noto la legge n. 66 del 15 febbraio 1996, che ha introdotto l’articolo 609 bis del codice penale, ha ridisegnato il delitto di violenza sessuale come reato contro la libertà personale, abolendo la distinzione –
propria del codice Rocco nel 1930 – tra congiunzione carnale ed atti di libi2
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E. PESSINA, Enciclopedia del diritto penale italiano, Milano 1909.
dine. Secondo la nuova configurazione, l’elemento materiale del reato
coincide con il compimento di qualsiasi atto sessuale senza il consenso
del partner (consistente o no nella compenetrazione corporale); mentre
oggetto giuridico del reato è propriamente la libertà sessuale della persona, intesa come diritto di disporre liberamente della propria sessualità.
Insomma uno stupro non è come l’altro.
È uno strumento di prevaricazione spesso usato per sottomettere
popoli interi, come quello di massa compiuto a Nanchino in Giappone
nella seconda guerra mondiale o ancora quelli perpetrati dai nazisti sulle
donne sovietiche, fino alle gravi violenze sessuali compiute dai serbi sulle
donne in Bosnia durante la guerra etnica.
«Lo stupro – come sostiene l’Eurispes - è una presenza che ricorre
nella storia dell’umanità».
Sono invece cambiati repentinamente i tempi per la classica “pacca sul
fondoschiena”.
A gennaio 2001 la sezione V della Corte di Cassazione ha definito non
punibile la “toccata e fuga sui glutei”. Dopo due anni e mezzo, nell’estate
2003, la sezione III ha affermato che “basta una fuggevole toccata ai glutei per essere condannati per il reato di violenza sessuale previsto dal
codice penale”. «Il palpeggiamento – si legge nella sentenza – costituisce
indubbiamente un atto sessuale in quanto l’autore ha commesso un’effettiva e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima e tali atti,
sia pur superficiali, integrano una oggettiva manifestazione di sessualità».
Per non lasciar spazio a dubbi i giudici della Suprema Corte precisano
che «devono includersi nella nozione di atti sessuali tutti quegli atti
indirizzati verso zone erogene, e che siano idonei a compromettere la
libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare
nella sua sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione, sostituzione di persona, abuso di condizioni di inferiorità fisica e psichica». Fra questi atti «vanno ricompresi i toccamenti, palpeggiamenti e
sfregamenti sulle parti intime delle vittime, suscettibili di eccitare la
concupiscenza sessuale anche in modo non completo o di breve durata,
essendo del tutto irrilevante, ai fini della consumazione, che il soggetto
abbia o meno conseguito la soddisfazione erotica».
Tra gli antichi manoscritti custoditi negli archivi locali, specie in quelli
ecclesiastici, non è difficile imbattersi in curiosi e voluminosi processi per
il reato di violenza carnale, verificatisi nel territorio Nord-Barese nel ’700.
Si tratta di storie di sconvolgente attualità, che offrono un’interessante
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comparazione tra i modi di giudicare di ieri e quelli di oggi3.
Questa divulgazione ha alla base una finalità storica e di studio; motivo
per cui ho scelto di riportare nel testo narrativo anche i particolari piú
crudi delle vicende selezionate, che destano sconcerto ma inevitabilmente ironia e curiosità.
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Numerosi sono i processi che ho rinvenuto molti anni fa nell’Archivio storico
diocesano della Curia Arcivescovile di Trani. Introvabile è purtroppo il manoscritto
risalente al 1694 relativo ad un “processo per seduzione” a Bisceglie, citato in un
inventario dell’archivio privato Majellaro (carteggio in gran parte poi recuperato dai
carabinieri del nucleo tutela patrimonio artistico di Bari, restituito e dotato di inventario presso l’Archivio storico diocesano di Bisceglie). Proprio nella “collezione
Majellaro” (Acta criminalia, busta n. 4, n. 27) vi è una causa criminale datata Napoli
11 agosto 1759, fra Margarita Cursano e Donato Dell'Olio, “attrice e reo convenuto”,
per una “querela di stupro” mossa dalla stessa Cursano, ormai consapevole della
volontà di Dell’Olio di non rispettare la “parola di matrimonio” data e di non ottemperare a quell’impegno dicendole: «mi ripugna di farlo senza averne la cagione».
Presso l’archivio capitolare di Terlizzi sono stati censiti tre processi per stupro
negli anni 1646, 1734 e 1736 (cfr. A. D’AMBROSIO, Acta criminalia, in Archivio diocesano di Terlizzi, vol. I, Inventario del fondo cartaceo in Quaderni dell’Archivio diocesano di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi, Tipografia Mezzina, Molfetta 1994).
Sull’argomento si veda anche A. MILILLO, Giustizia e clero nel Settecento. Gli acta
criminalia dell’Archivio storico diocesano di Bitonto, in Studi Bitontini, Edipuglia
1996, pp. 57-70.
Invece Vito Antonio Melchiorre, ne La Gazzetta del Mezzogiorno del 14 luglio
2003, segnala un documento dell’Archivio Capitolare di Bari, che attesta un grave atto
di violenza commesso contro una fanciulla “in capillis” (ossia non maritata, perché
le donne nubili solevano un tempo portare i capelli sciolti sulle spalle e non raccolti
in crocchia sulla testa). Era il 25 novembre 1672 quando un individuo penetrò nella
casa della donna e coprendola di baci disse di volerla sposare (ciò in ossequio ad una
prammatica del 9 marzo 1563, la quale faceva obbligo a chi baciasse una donna di
unirsi con lei in matrimonio). Dopo averla cosí illusa, la sera dello stesso giorno la
condusse in un luogo appartato, ove la stuprò, mentre alcuni compagni assistevano
di nascosto alla scena. Il giorno dopo però la ragazza, avendo appreso la notizia che
quell’individuo si andava vantando dell’azione commessa e che non aveva alcuna
intenzione di prendersela come moglie, andò a denunziarlo alle autorità, facendolo
incarcerare per 10 giorni. Successivamente scarcerato, senza che fossero ascoltate le
ragioni della parte offesa, cominciò ad andarsene in giro vantandosi della potenza di
cui godeva e di avere amicizie influenti. La giovane violentata non si diede per vinta e
sporse denuncia contro di lui presso la Sacra Regia Udienza di Trani, chiedendo di
instaurare contro di lui un regolare procedimento giudiziario. L’ 8 gennaio 1673 la
Corte ordinò di raccogliere le informazioni a suo carico e l’immediata nuova carcerazione dell’accusato.
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BISCEGLIE
VITTORIA STUPRATA DAL CHIERICO
DOMENICO DE FEUDIS IN UN CASOLARE A SALSELLO
Fra le mura della sua abitazione, in piazza Castello, a pochi passi dalla
chiesa del Purgatorio, la giovane Vittoria Tattoli piange senza fermarsi un
attimo.
È stata anche abbandonata da tutti i suoi parenti per il disonore. Le
donne del vicinato cercano di consolarla. Ma ella non riesce a trattenere il
“delitto” che ha subìto e dopo pochi mesi confessa alla giustizia quanto è
accaduto.
Cosí sul finire del 1708 al Procuratore Fiscale della Corte vescovile di
Bisceglie perviene la notizia che «Vittoria Tattoli, vergine in capillo, è
stata stuprata et ingravidata sotto pretesto di matrimonio dal chierico
Domenico De Feudis, con averci amoreggiato a lungo».
Un fatto grave che merita di essere approfondito con l’istruzione di un
processo, che in seguito finisce anche sul tavolo della Sacra Udienza di
Trani.
Il Procuratore intima ai due protagonisti della triste vicenda di violenza carnale di comparire dinnanzi alla corte ecclesiastica entro 6 giorni.
Il chierico De Feudis, accusato di stupro, è irreperibile; mentre Vittoria
Tattoli, la vittima, arriva immediatamente.
«Son venuta a cercar giustizia – implora la giovane malcapitata –
mentre mi trovo gravida e deflorata dal chierico Domenico De Feudis, i
quale sotto i pretesto di volermi per moglie mi ha levato il fiore della mia
gioventú».
Parole che creano imbarazzo in aula.
Il Procuratore avvia il dibattimento: «Dica essa Vittoria da quanto
tempo ha tenuto amicizia col chierico? Con che occasione e come le ha
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levato la verginità ? Di quanti mesi sta gravida?».
Vittoria racconta la sua lunga e dolorosa storia nei minimi particolari.
«Due anni fa – dice la donna – venne in casa mia Narda Di Modugno,
mandata dal chierico De Feudis, la quale mi disse che detto chierico
voleva fare l’amore con me».
Il chierico si era invaghito della bella Vittoria e dunque si era servito di
un’ambasciatrice per rendere noto il suo desiderio.
Era tale la “cotta” che l’innamorato «passava e ripassava dalla strada
del Castello – dice Vittoria – con salutarmi ogni volta che passava
quando io dimoravo alla finestra e alle volte in mezzo alla strada, mandandomi a regalare diversi frutti, qualche zagarella ed un fazzoletto di
seta».
A quei tempi un saluto del genere poteva costare caro alle fanciulle, era
quasi un impegno; figuriamoci quindi che cosa comportava accettare un
regalo da un uomo: «È cosí che il chierico – continua Vittoria – cominciò
a farmi l’amore [corteggiarmi, n.d.r.], facendo allargare i miei innamorati, minacciandoli e cosí io cominciai a pigliarli affetto».
Questo amoreggiare si protraeva da circa due anni.
L’epilogo si verificò nell’estate del 1708, quando Vittoria, non potendone piú, si trasferí nella “casella” di suo zio Mauro, sita a Salsello.
Qui la giovane perseguitata dai “mille” amanti (doveva avere sicuramente un bel aspetto) trascorreva le notti afose di agosto.
Ma il chierico non vedendola piú, non si dà pace. Riesce ad appurare il
luogo dove la sua amata Vittoria dimora. Tant’è che di sera, verso le tre di
notte, egli si reca nelle vigne di Salsello con Sergio Senigaglia alias capatunno, Girolamo D’Addato e Vito Antonio Cataldo, col pretesto di andare
a pescare.
Vittoria riferisce al Procuratore che il chierico ed i suoi compari non
andarono a pesca, ma si portarono nella vigna mentre suo zio Mauro e suo
cugino Tomaso stavano di sentinella a Salsello.
Gli altri fecero da palo ed il chierico passò ai fatti.
«Egli – racconta Vittoria – vide che io ero sola nella casella e mentre
stavo dormendo a letto con altri due miei nipoti piccoli, fra sonno e
veglia lo vidi entrare». «Mi alzai – continua – e gli gridai: mi sei venuta
a tradire».
Ed il chierico le rispose: «Che paura hai? E se dovessi finire in mano
ai turchi? Affidati a me».
La donna comincia quindi a ricostruire la fase drammatica di quello
che accadde in quella calda notte di agosto, mentre «lucea la luna come
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mezzogiorno», in quella piccola costruzione rurale a Salsello.
«Egli – ricorda con amarezza Vittoria – cominciò a saggiare e toccare
e per ultimo si calò li calzoni e calzonetti e si pose sopra di me con
alzarmi la camicia dalla parte d’avanti slargandomi le coscie e col suo
membro virile lo pose dentro la mia natura, cioè fessa, e nell’entrare mi
fece gran dolore, dalla quale mi uscí gran sangue. La natura menare dal
suo genitale come un’acqua tiepida. Dopo mi fece calcare di nuovo a
letto e mi negoziò due altre notti carnali della medesima maniera di
sopra».
Insomma per Vittoria non vi era stato scampo.
Tace per alcuni giorni e torna a casa.
Il chierico si rifà vivo dopo quindici giorni: «con parola di volermi per
moglie – dice la donna – e per questo mi contentai a condiscendere con la
speranza di essere affidata».
Poi l’amara sorpresa: «dopo un po’ mi accorsi di essere gravida». Per
cui ella sopraggiunse: «Quando abbiamo a sbrigare a fare i matrimonio?».
Ed il chierico: «quando accomodo le mie cose e dopo se ne parla».
«Quindi vedendo che il chierico mi burlava – conclude Vittoria nell’interrogatorio – fui costretta a confidarmi con la vicina di casa e poi ad
esporre querela criminale a questa Corte, affinché mi sia restituito l’onore che mi è stato tolto, col matrimonio».
Placatasi l’emozione del racconto scandaloso, il Procuratore chiama
come testimoni “de causa scientia” le vedove Rosa Muscio e Cecilia
Bannera, di professione ostetriche.
La loro perizia è la seguente: «Ho ritrovato il vaso virginale di
Vittoria Tattoli rotto e messo il dito dentro mi è parso di toccare la testa
della creatura che tiene nell’utero che stimo a mio giudizio possa…».
«A mio parere – aggiunge Rosa Muscio – è gravida di 6 mesi».
Davanti al Procuratore sfilano in seguito anche i vicini di casa,
Ippolita, Giulio e Fabrizio.
Essi confermano che Vittoria ha avuto diversi corteggiatori che la
volevano per moglie e che «è nata da uomo e donna onorata e da buon
parentato e che mai ha dato scandalo».
Stranamente non vengono invece chiamati a testimoniare coloro che
accompagnarono il De Feudis nelle vigne di Salsello.
Il processo quindi si concentra sull’audizione del chierico accusato,
che nel frattempo si è costituito spontaneamente alla Corte, essendo
ricercato, ed è stato rinchiuso nelle prigioni vescovili in attesa di giudizio.
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Un esempio di custodia cautelare di trecento anni fa. De Feudis viene
ascoltato a lungo dal Procuratore, ma nega tutto: «Voglio sapere – dice –
perché sono stato carcerato, per una impostura fattami non so da chi?».
Ma il procuratore vuole sapere innanzitutto dove egli si era rifugiato
durante la sua latitanza.
«Mi sono trattenuto alli padri Cappuccini di Bisceglie e di Andria»,
risponde l’imputato.
Poi il Procuratore va subito al nocciolo della questione: «Conosce
Vittoria Tattoli e dove stava il 1708, il 25 del mese di agosto alle 3 di
notte?».
«Io – si difende De Feudis – stetti in un giardino di Molfetta del sig.
Francesco Posa per alcuni miei affari e poi poiché non tenevamo servitori andammo in città per comprare da magnare. Non sono però mai
entrato di notte in Bisceglie perché le porte della città erano chiuse».
De Feudis continua a negare: «Non conosco Vittoria Tattoli e quindi
come potevo fare l’amore? Non sono andato sonando e cantando sotto la
finestra di nessuno, né ho mandato un’ambasciata per riferire che ero
innamorato. Non conosco Narda Di Modugno».
Ma l’ira del Procuratore incalza: «Come non conosce Vittoria Tattoli!
Ha tenuto prattica con lei, l’ha stuprata e l’ha fatta uscire gravida e non
la conosce?». «Non la conosco», ribatte il chierico ed aggiunge: «Io mi
chiedo se sia possibile che uno possa incolpare un altro senza causa».
Dopo altri confronti e qualche testimonianza piú o meno coincidente,
termina l’interrogatorio.
Per la Corte il chierico De Feudis, che peraltro era già stato in carcere
un’altra volta ed era uscito per grazia ricevuta dal Vescovo, è colpevole.
Egli viene condannato a dotare la donna stuprata ed all’esilio di tre
anni dalla città di Bisceglie. Tutto sommato gli andò bene4.
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ARCHIVIO STORICO CURIA ARCIVESCOVILE DI TRANI, Fondo manoscritti, C 2092.
CORATO
PROCESSO CONTRO IL FRATE NICOLA MALEX
PER CONCUBINATO E COMMERCIO CARNALE
Abusi da dietro al confessionale. Se ne parla da tempo nella città di
Corato. C’è un frate “mano lunga” che ne approfitta delle giovani fedeli.
È il 1717 quando la coratina Donata Russo presenta una denuncia al
Vicario foraneo don Giovanni Battista Balducci su quanto di osceno si
verifica nel convento di San Cataldo.
La vittima racconta di essere andata a confessarsi da frate Nicola con
un epilogo a sorpresa.
«Dopo aver udito i miei peccati mi disse che voleva tenere con me
amicizia e prattica carnale – sostiene Donata – me lo accennò piú volte
ed io me ne scandalizzai».
Ma si va oltre. Il frate fa leva sul timore reverenziale per afferrare la sua
ennesima “preda”.
«Andavo a far orazione piú di una volta in detta chiesa e non potevo
seccarmi davanti al frate che mi stimolava a ridere – spiega la donna –
cosí mi indusse ad andare una volta di sera verso un’ora di notte nel
convento».
Ella accetta e si reca tra i muri “religiosi” accompagnata dalla “paesana” Nunzia Malcangio che però rimane fuori ad attenderla.
«Mi introdusse nella sua cella ove con me stette solo», conclude la
donna senza aggiungere particolari piccanti.
Qualche giorno dopo confessa tutto ciò al sacerdote Giuseppe
Castellaneta, che rifiuta di assolverla.
Ma nei confronti del frate scattano le indagini. Viene inquisito ed incarcerato nel convento del Carmine.
Si registra l’intervento di suo fratello, il prete don Girolamo, per chie-
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dere gli alimenti in favore di Nicola “per non vederlo morire di fame in
carcere”.
Nel frattempo nel processo che dura circa due anni fanno la loro comparsa altre vittime del frate e vari testimoni.
C’è chi rivela di aver ricevuto dal frate la “promessa di denaro in cambio di commercio carnale” e chi riferisce che egli “fece dare bastonate ad
una mia figliola dal Governatore perché ella aveva trovato un anelletto
di oro e detto frate disse al Governatore che lo aveva rubato”.
Elisabetta Bracco di Corato conferma i sospetti del “serial” molestatore: «mi diede scandalo, mi domandò nome e cognome e mi volle regalare delle lattuche ed altre cose che io avessi desiderato».
Ma la storia continua.
«Un’altra volta che mi confessai – aggiunge Elisabetta – dopo aver
recitato i miei peccati, in cambio d’esortarmi ad un atto di pentimento
e d’amore verso Iddio, fra Nicola, che tiene la faccia rossa come avesse il
mal di fegato, mi disse di volermi portare nella sua cella per darmi due
baci».
Le accuse sono schiaccianti.
Frate Nicola Malex viene interrogato. Ad una prima negazione segue il
suo pentimento. Egli ammette di aver peccato, promette al giudice di non
farlo piú e sostiene che “sollecitare le donne è stato solamente un atto di
fragilità umana”.
Ma per lui non c’è scampo alla condanna a cinque anni di carcere con
la perpetua inabilitazione ad udire le confessioni sacramentali5 .
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ARCHIVIO STORICO CURIA ARCIVESCOVILE DI TRANI, Fondo manoscritti, C 2150.
A Corato il 9 giugno 1735 si verificò un omicidio a sfondo passionale. La vittima del
delitto d’onore fu Pasquale Piancone “scannato nel letto della commara” dal marito
della sua amante con la quale aveva “pratica carnale”. Cfr. P. TANDOI, Corato ieri, ne Lo
Stradone, n. 8, agosto 1995 che ha pubblicato la sintesi del relativo processo.
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CORATO
IL CHIERICO “ASSETATO” DI SESSO
TENTA DI VIOLENTARE ANGELA
Quella dell’Epifania del 1718 è stata una notte “brava” per il chierico
Marco Pinto.
Sono da poco passate quattro ore dopo la mezzanotte quando il sonno
tranquillo di Angela Pinto viene sconvolto dal “toc toc” alla porta di casa
sua.
C’è un chierico che vuole entrare nel suo focolare domestico, ma la
giovane lo respinge.
“Non ho volontà piú d’offendere Dio perché ho fatto voto a Maria
Vergine dell’Incoronata”, risponde ella all’insistente pretendente.
Evidentemente, in precedenza, forse si era già “concessa”.
Ma il chierico, di fronte al rifiuto, perde la pazienza e forza la porta d’ingresso. «Entrò in casa ed io tramortí a terra – racconta Angela nella querela criminale presentata al vicario capitolare – e mentre stavo in questa
maniera ebbe detto chierico a che fare carnalmente».
Si indaga. Viene citato un testimone.
«Stava colcata (era a letto, n.d.r.) ed il chierico tozzolò la porta ma al
rifiuto fece forza – racconta un vicino di casa – Angela cominciò a gridare e cascò a terra».
Ma il chierico non si ferma. «Marco sfogava la sua raggia mentre essa
stava a terra – aggiunge il teste – dicendo sta quieta mo ti faccio uscire
l’anima e ti faccio trovare ne polvere ne cenere».
Questo il fatto.
Ma alla querela non vi sono allegati altri atti. Vi fu punizione per il chierico “assetato” di sesso6?
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ARCHIVIO STORICO CURIA ARCIVESCOVILE DI TRANI, Fondo manoscritti, C 2153.
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TRANI
GIULIO INQUISITO PER INGIURIE
E PRATICA CARNALE VERSO ISABELLA
Un’ora dopo la mezzanotte, il 28 agosto 1719 nel borgo di Trani il silenzio viene turbato da urla ed impropéri.
Il chierico Giulio De Angelis, accompagnato da suo fratello, tenta di
offrire un confetto ad Isabella Zecchillo, una donna che abita nei paraggi
della sua abitazione e peraltro è coniugata.
Ma il dono, pretesto per introdurre il corteggiamento, viene rifiutato.
Si degenera. Il fine è quello di “voler trattenere pratica carnale”. È una storia che si protrae da parecchio tempo.
Isabella non acconsente ed il chierico la ingiuria, la maltratta e le graffia il viso.
Ma non si ferma qui, stando alla denuncia che ella presenta alla Curia
metropolitana nei confronti dell’aggressore.
Egli infatti tenta di sfondare la porta di casa e non riuscendoci lancia
una pietra alla finestra.
Nella fase dibattimentale del processo si scopre anche un grave precedente: Isabella era in stato di gravidanza da 40 giorni ma aveva abortito a
causa di un calcio nella pancia inflittole dallo stesso Giulio.
La Corte interroga numerosi testimoni.
Il Signor De Martino, vicino di casa, sostiene di averla “conosciuta
come donna disonesta” e di aver notato il chierico Giulio “praticare la
casa di Isabella per circa una anno”.
Poi si verifica il fattaccio.
Mentre don Giulio passava con suo fratello Girolamo, suonando flauto
e chitarra, la donna lo ha ingiuriato apostrofandolo con questi termini: “sei
un bardascio, malandrino porco”.
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La risposta di Giulio non si è fatta attendere: “sei una puttana, porca
io ti voglio squartare e poi – conclude il teste - l’ha rincorsa”.
La donna invoca il Monsignore.
Sfilano nell’aula delle udienze anche la madre Giulia Pizzo, le amiche
Flora Pappolla e Bellaria De Mango.
La vicina di casa Margherita Di Cassanello sostiene che “Giulio ha
datto scandalo assai, mormoravasi che aveva pratica carnale, poi al
lume della luna mi affacciai per curiosità e vidi che essi si ingiuriavano l’un l’altro e che egli la rincorreva”.
Le indagini si concludono con la condanna e l’arresto del chierico
Giulio che viene rinchiuso nel carcere del convento dei padri Agostiniani7.
7
ARCHIVIO STORICO CURIA ARCIVESCOVILE DI TRANI, Fondo manoscritti, C 2160.
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TRANI
IL SACERDOTE NICOLA SI INVAGHISCE
DELLA MASSAIA LUCIA
Nel febbraio 1723 Lucia Pellegrino alias mangia orgio, di 17 anni, presenta querela contro Nicola Leonardo Marinaro, sacerdote tranese, con
una pesante accusa: “per avermi stuprata e tolto il mio onore”.
La ricorrente racconta la vicenda in questi termini.
«Stando io servendo nella casa di Belloccia e facendo servigi in
strada, piú d’una volta mi sono incontrata col sacerdote Nicola – dice sono salita su casa sua per vendergli una tovaglia bianca».
Il sacerdote dopo averla vista disse che le avrebbe dato ciò che voleva,
purché avesse fatto ciò che lui desiderava.
«Ma io non gli risposi – continua – ed egli mi calò in un’altra camera
e mi fece coricare a terra. Poi si calò li calzoni e mi alzò la gonnella e la
camiscia e uscì da dentro la sua brachetta il membro virile e lo puntellò
alla bocca della mia natura e si strinse a me baciandomi e mi fece assai
dolore…e dopo che uscì mi trovai tutta insanguinata».
Il procuratore fiscale chiama in veste di periti due “mammare” tranesi,
Angela Zecchillo ed Angela Stella, le quali dopo averle effettuato un’accurata visita, attestano che Lucia “è stata deflorata e stuprata”.
Poi compare nella veste di testimone il signor Antonio Basso, alias
zoffa, che riferisce ciò che ha visto: «stavo fabbricando con mio figlio
Felice e mastro Nicola Domenico Casamassima alla casa di don Nicola
e vidi che passò Lucia che portava sotto il braccio un involucro di tela.
Essa entrò e stavano parlando insieme e scherzando, poi vidi salire da
giù il sacerdote, imbrattato e sbattuto».
Versione questa confermata anche da altri teste.
Nel corso del processo si verifica però un caso strano: la parte lesa,
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cioè Lucia, accompagnata da suo padre Leonardo, ritira la querela “per
amor di Gesù Cristo e dichiara di essere illibata la sua verginità”.
L’ 8 ottobre 1723 si costituisce il sacerdote Marinaro, che nel frattempo
era stato carcerato nel convento di Sant’Agostino, il quale si difende in
questi termini: «tale donna non la conosco» e rivela che i «fabbricatori
[che avevano testimoniato contro di lui, n.d.r.] li ho cacciati perché essi
commettevano molti furti e perciò mi hanno fatto tale impostura».
Lucia viene interrogata nuovamente e si giunge ad un risvolto clamoroso dei fatti: «sono venuti a trovarmi il sacerdote Tommaso Termine ed
Antonio Basso affinché io fossi andata dal signor Vicario a far querela
contro Nicola Marinaro con dire che mi aveva sverginata, poiché lo volevano male».
Si tenta di cambiare le carte in tavola e di depistare le indagini, ovvero
di chiudere “pro bono pacis” la vicenda.
Tuttavia il sacerdote Marinaro viene condannato all’esilio dalla città8.
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ARCHIVIO STORICO CURIA ARCIVESCOVILE DI TRANI, Fondo manoscritti, C 2193.
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CORATO
SERVA VIOLENTATA ED INDOTTA
A DICHIARARE IL FALSO
È il 1729 quando Oronzo Giove “oratore umilissimo” della città di
Corato denunzia Giacinto Frascolla perché “fusse castigato” in quanto nei
giorni precedenti si era reso responsabile di aver “sforzato e violentato
una sua serva”.
Tal atto era passato in silenzio perché il sacerdote don Domenico
Frascolla, fratello dell’accusato, “contro il decoro della dignità sacerdotale” aveva chiamato a casa di suo cognato una delle donne che testimoniavano contro Giacinto e di forza le aveva fatto sottoscrivere un atto pubblico, in cui ribaltava le accuse contro il suo padrone.
Cosí il signor Giove, poiché “un tal atto è contro la stima e l’onore del
supplicando”, aveva fatto in modo che la donna che aveva detto il falso
fosse arrestata e carcerata.
Successivamente egli invoca che quel sacerdote che ha “truccato il
vero, sia castigato per falsità”9.
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ARCHIVIO STORICO CURIA ARCIVESCOVILE DI TRANI, Fondo manoscritti, C 2256.
BARLETTA
MARIA QUERELA IL SUO DATORE DI LAVORO
PER STUPRO. POI RITRATTA:
“L’HO FATTO PERCHÉ ERO STATA LICENZIATA”
Nella curia di Trani si costituisce Maria Colella di Barletta per il ritiro
di una “querela criminale” sporta il 4 novembre 1728 nei confronti del
sacerdote Carlo Antonio Battipaglia della sua stessa città.
Ella aveva denunciato il “secolare” sostenendo che mentre serviva in
casa sua era stata “stuprata, ingravidata ed indi sgravata d’un figliolo”.
Ma un anno dopo ritratta l’accusa.
«Sono stata solamente indotta sul motivo che fui licenziata dal servizio di detta casa e però per disgrazia di sua coscienza…», dice la
donna.
Quindi discolpa il sacerdote “e lo fa di sua spontanea volontà e non è
stata né minacciata né le sono stati promessi denari o altro e lo fa solo
per vivere da cristiana e non ingannarmi l’anima”.
Quanto ci sia di vero in queste ultime parole proferite nella remissione
della querela è difficile stabilirlo10.
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ARCHIVIO STORICO CURIA ARCIVESCOVILE DI TRANI, Fondo manoscritti, C 2262. Un
caso analogo di remissione della querela per stupro si verificò a Terlizzi. Il 18 dicembre 1752 il sacerdote don Michele De Vanna fu inquisito di stupro da Grazia Modesto,
zitella. Egli, essendo stato citato, si presentò spontaneamente nella Curia. Dopo aver
preso le “informazioni” la Curia dispose la sua carcerazione nel convento dei Padri
Minori Osservanti. Dopo un periodo di detenzione egli fu liberato poiché ottenne
dalla parte offesa la remissione e la discolpa e se la cavò con una multa. In ARCHIVIO
DIOCESANO DI TERLIZZI, Acta criminalia n. 468.
A proposito delle serve domestiche a Terlizzi, riguardo alla coabitazione delle
donne con i chierici fu emanato un editto da mons. Antonio Pacecco, vescovo di
Bisceglie e visitatore apostolico in quella città, in cui si dispose che: «Dovendo i chierici non solamente essere lontani dal male ma, eziando da ogni sospetto di male,
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ordiniamo ed espressamente comandiamo che quei chierici, quali vivono soli, non
abbiano veruna donna in casa di qualsivoglia età e condizione sotto pretesto di
tenerla per serva, se non avranno la nostra espressa licenza, la quale non si darà
senza le dovute cautele. Chi contravverrà, incorrerà in gravissime pene». Cfr. A.
FICCO e A. D’AMBROSIO, Trasgressione e criminalità in Terra di Bari (Molfetta e
Terlizzi tra Sei e Settecento), Capone Editore, Cavallino di Lecce 1991.
A Molfetta, dinanzi al notaio, il signor Domenico Calò giura, che con l’occasione
di esser andato come figliolo alla scuola del penitenziere don Corrado Mangini, di
aver visto il comportamento che sua nipote Marianna “con molta libertà tratteneva
con tutti quelli che praticavano in sua casa dove solea ammettere ogni sorte di
uomini”. «Ella – racconta – col Padre Regente Giuseppe Novelli, domenicano, ci
aveva una confidenza grandissima». È tempo di Natale. Il 23 dicembre 1766 “il
Padre Novelli con le solite cerimonie si sedé vicino al letto dov’era Marianna e poi
a mano a mano che discorrevano in disparte tra loro senza suggezzione… piú volte
li ha fatto biglietti confidenziali con affettuose espressioni, come se fossero stati
tra persone innamorate”. Marianna avrebbe dovuto sposare il signor Domenico
Tortora. Ma quest’ultimo si era ritirato da tale promessa nuziale dimostrando con vari
testimoni le malefatte della donna, che si era concessa anche ad alcuni soldati. Dal
documento traspare poi lo “spettro” dell’aborto ed il ricorso a “medicamenti”. Per
interrompere la gravidanza, poiché non arrivavano “li fiori” [le mestruazioni, n.d.r.]
assunse l’erba “marcinise” procurata da Terlizzi che, mista ad una porzione di vino,
la fece “spolverizzare”. (Atto notarile segnalatomi dall’avv. Giacinto La Notte, che
ringrazio, in Archivio notarile di Trani, notaio G. La Notte, 1767, vol. 816).
Il Settecento nel territorio Nord-Barese fu caratterizzato non solo da storie di violenza come quelle selezionate e sintetizzate fin qui. Furti di raccolti e brigantaggio
erano all’ordine del giorno. In una lettera del 7 novembre 1774 si dispose
all’Università di Bisceglie di prendere misure contro “la nota comitiva di malviventi, che infestano diverse campagne della provincia con l’assaltare, ferire e
rubare per le medesime qualunque individuo” (Archivio Storico del Comune di
Bisceglie, Conclusioni parlamentari, ad annum, f. 6). Ancora nel 1793 il Governatore
locale rappresentò al parlamento cittadino l’urgenza di intervenire in quanto “per
ogni dove ne’ territori si sentono di continuo, e si vedono de’ malviventi, che girano
per la campagna, e commettono furti, incendi, omicidi, ed altri gravi eccessi”
(A.S.C.B., Conclusioni parlamentari, verbale del 15 novembre, ff. 10-11). Ma anche il
centro urbano non offriva migliore sicurezza. Tra il 1772 ed il 1773 si registrò un’autentica esplosione di delinquenza “sentendosi ogni notte commettere furti da figli
d’iniquità nelle case de’ cittadini con scaliazione da sopra li solari”. (A.S.C.B.,
Conclusioni parlamentari, tornata del 4 novembre 1772, f. 1; tornata del 22 agosto
1773, f. 12).
Una serie di fatti e di processi sia ecclesiatici che civili per tentato omicidio,
aggressioni e ferimenti, furti ed estorsioni, tangenti eccetera dei secoli scorsi è stata
raccolta in L. DE CEGLIA, Cronache curiose della Bisceglie d’un tempo, editore
Cortese, Bisceglie 1994.
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INDICE
Presentazione
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p. 05
Introduzione
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» 07
Vittoria stuprata dal chierico Domenico De Feudis
in un casolare a Salsello . . . . . . . . . .
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» 11
Processo contro il frate Nicola Malex per concubinato
e commercio carnale . . . . . . . . . . . .
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» 15
Il chierico “assetato” di sesso tenta
di violentare Angela . . . . .
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» 17
Giulio inquisito per ingiurie e pratica
carnale verso Isabella . . . . . .
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» 18
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» 20
Il sacerdote Nicola si invaghisce
della massaia Lucia . . . . .
Serva violentata ed indotta
a dichiarare il falso . . .
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Maria querela il suo datore di lavoro per stupro. Poi ritratta:
“L’ho fatto perché ero stata licienziata” . . . . . . . .
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» 23
Impresso in Bisceglie
nel quinto mese
del duemilaquattro
dalla Litostampa Antonio Cortese