Pomeriggi al porto. - Festival Generazione Cultura

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Pomeriggi al porto. - Festival Generazione Cultura
Pomeriggi al porto
Di Valentino Ronchi – 2 classificato
Si arriva a una certa età nella vita e ci si accorge che i momenti
migliori l’abbiamo avuti per sbaglio. Non erano diretti a noi.
Ennio Flaiano, Il diario degli errori
Se aspiri alla filosofia, preparati fin da ora a essere deriso.
Epitteto, Manuale XXII
I.
Con la fine di maggio, Ancona venne invasa da un bel sole e io cominciai
a scendere al porto, non si sa mai. Nella sua ultima lettera, Zoe mi aveva
scritto che non poteva dirmi il giorno preciso ma a giugno, con la fine
della scuola, sarebbe tornata in Ancona; l’estate seguiva suo padre in
Italia, lui era un grosso commerciante di pesce in scatola e l’anno prima,
quando c’eravamo conosciuti, s’erano fermati due settimane.
L’inverno c’eravamo scritti lunghe lettere, in buon francese. Nel diario
tenevo una sua foto sulla spiaggia di Palombina, la bella figura, alta e
sorridente, col costume bianco e blu, insieme agli altri amici nostri,
vicino al baracchino. Un’altra foto - lei quasi in posa a San Ciriaco, col
vento nei capelli, in cima alla città - la tenevo sul mio tavolo, nella mia
stanza, sotto al poster della squadra dell’Ancona e alla vecchia foto dello
stadio Dorico nell’inverno del ’77, con me bimbetto in braccio a mio zio,
e la gente dietro, intabarrata.
Quando parlavamo di lei, con gli amici, ne parlavamo come di una cosa
fuori dall’ordinario, eccezionale. E ogni tanto, proprio per questo, ci
piaceva parlarne, durante l’anno, ricordarla la bella ragazza greca che
alloggiava con il padre al Moderno, che con il resto della compagnia
andavamo a prendere al mattino, dopo la colazione, e che io solo
riportavo al suo hotel la sera. Averla sedotta mi aveva dato una certa
notorietà, come uno che ha fatto un’impresa memorabile.
Dopo la scuola - era l’ultimo anno del liceo - passavo da casa, mangiavo
e poi tiravo su un libro e uscivo. Di buon passo andavo fin giù al mare;
là, al porto, fra banchine lunghe e binari dei merci, e quella pace che c’è
soltanto nei porti, trovavo il mio posto per sedere, e mi mettevo così, nel
primo sole, ad aspettare. La nave da Patrasso arrivava dal lunedì al
venerdì tutti i giorni alle quattro del pomeriggio, con una certa
puntualità.
II.
Una mattina, all’intervallo, Marzia venne a sedersi con me sui gradini del
cortile interno al liceo. Anche lei era all’ultimo anno, ma nell’altra
sezione. Per tutti i cinque anni c’eravamo soltanto salutati, un cenno
appena, ma quest’ultimo avevamo preso a scambiarci qualche parola.
Non l’avevo vista mai con un ragazzo, lei invece doveva aver fatto
facilmente la conta delle mie conquiste, che nulla facevo per nasconderle.
- È vero che vai tutti i giorni al porto ad aspettare che quella greca
ritorni?
- Sì.
- Mi sembri un cane di quelle storie dei giornali, quelli che aspettano il
padrone tutti i giorni, alla stessa ora, allo stesso posto.
Disse e rise e guardò verso il cortile un momento, i ragazzi e le ragazze
che fumavano più in là.
- Ti sei offeso?
- No, per nulla - risposi. Poi:
- Oggi ti accompagno io, sai? Se scende dalla nave, mi dileguo in un
attimo, stai tranquillo - disse, guardandomi con gli occhi chiari e miti, ai
quali aggiungeva, attingendo da non so quale forza nascosta, un’aria
appena strafottente, sicura di sé.
- E poi - disse anche -, non arriverà mica oggi, vero?
C’incontrammo a piazza Cavour, dopo le tre. Venne vestita con un
vestitino giallo al ginocchio, teneva i capelli quasi biondi raccolti in una
piccola coda e la frangia. Non era bellissima, né faceva nulla per
apparirlo, ma certo aveva qualcosa di suo, un modo suo di essere bella.
- Che c’avrà poi ‘sta greca - diceva mentre scendevamo lungo il corso
deserto a quell’ora - che c’avrà?
E mimava un seno prosperoso, aumentandosi il suo con un gesto
sfrontato.
- Sì, - ripeteva - quella ragazza deve avere delle grandi qualità, così m’han
detto.
Al porto ci mettemmo ai tavolini fuori del bar. Marzia nel sole prese a
fare un discorso tutto suo sulla fine del liceo, che le dispiaceva che
finisse, che secondo lei era un momento della vita che difficilmente
avremmo potuto avere uguale, un’altra volta. Ci avevo pensato anche io,
e parecchio, mi era capitato. E anche ne avrei parlato un po’ con lei, in
quel momento, ma non eravamo lì che da poco che la nave di Patrasso
era già visibile, preceduta dal rimorchiatore.
Ci mettemmo a guardare i pochi passeggeri che cominciavano a
scendere, ma Zoe non si vide e quando il breve sbarco fu completato e
le scalette ritirate, ci alzammo per rientrare.
Camminando sul corso che aveva cominciato a prendere vita,
incrociammo un po’ di compagni e di compagne, miei e suoi, che si
fermavano a indagare un po’, fare qualche domanda. I più erano colti di
sorpresa, non s’aspettavano proprio di vederci insieme.
III.
Ci trovammo per andare al porto assieme anche il resto della settimana.
Ogni giorno che passava, Marzia si faceva più allegra, perdeva un po’
della sua corazza, e si lasciava andare. Ci portavamo da studiare, era
buffo confrontare come le stesse cose le facevano in un’altra sezione, era
come frugare nei segreti della porta accanto. Loro avevano trascurato
Petronio per Apuleio, e noi viceversa, per dirne una; loro fatto Euripide
per bene, noi eravamo stati mesi sull’Alcesti.
Talvolta parlavamo anche del futuro, dell’università, di diventare grandi.
Io avrei preso architettura, lei pensava a lettere a Macerata, ma non so,
diceva, non so; come se su quella scelta pendesse ancora qualcosa che
avrebbe potuto trattenerla in Ancona.
I suoi libri erano tutti ricoperti con una velina ordinata e leggera, d’altri
tempi, messa su con estrema cura; di lei avevo saputo, negli anni, che era
molto brava, la migliore della sua classe nelle traduzioni dal greco e dal
latino, una specie di talento.
- E se la greca non torna? - mi chiese una sera di quelle, mentre
rientravamo, all’altezza di piazza Stamira - Te ne resti come un baccalà
tutto giugno?
- Torna, torna, stai certa che torna - dissi io, sicuro di me.
- Va bene, va bene, mi scusi - rispose lei, parando il colpo come meglio
poteva.
IV.
Il venerdì pioveva fittissimo e rimanemmo all’interno, fra i lupi di mare
che giocavano alle carte. Il bar del porto, all’interno, ricordava quelli
delle grandi stazioni, fumoso, spoglio, con tanti tavolini in formica e i
posacenere degli amari. Un bar dove i viaggiatori devono per forza
passare, e che nulla fa per attrarli se non essere lì, nel mezzo del transito.
Noi ce ne stavamo in un angolo, vicino alla finestra.
- Te lo presto, però me lo devi ridare.
Marzia cavò fuori dallo zaino un libro, I piccoli maestri, di Luigi
Meneghello.
- Cos’è? - chiesi io.
- Leggilo stupidotto, leggilo. Non si spiegano i romanzi. I romanzi si
leggono, le vite si vivono.
Davanti a noi, sotto gli ombrelli, cominciarono a scendere i primi
passeggeri dal Patrasso.
- C’è? - chiese Marzia, ancora col libro in mano.
- No, mi pare di no - ma poi uscii per meglio guardare, l’acqua mista al
vento aveva reso il vetro poco trasparente. E presi una sacca d’acqua. La
gente scendeva le scalette provando a ripararsi anche con le borse e i
borsoni, gli ombrelli si piegavano e si stortavano.
Restai lì per un po’, ogni tanto mi voltavo. Marzia, da dentro il bar, mi
guardava in attesa.
V.
La domenica l’Ancona - la squadra di calcio intendo - aveva bisogno di
un solo punto per venire in serie A. Non c’eravamo mai stati in serie A:
fino a qualche anno prima eravamo abituati a chiassosi derby con
Osimana e Civitanovese, ma quell’anno era stata tutta una bella
cavalcata, sempre nei primi posti della classifica.
Eravamo d’accordo con Marco che saremmo andati ad ascoltare la
partita al Passetto. Lui venne con Alessandra, io avevo domandato a
Marzia di unirsi a noi. Marco si era portato la radiolina, ma al bar
avevano provveduto a farla diffondere su tutta la pineta, appendendo le
casse ad alcuni rami; Alessandra aveva una bella maglina rossa col
numero sette bianco sulla schiena.
Sul prato, Alessandra si sdraiò e poggiò la testa sulle gambe di Marco,
Marzia fece lo stesso con me, chiedendo:
- Mi scusi, posso? Grazie, la ringrazio.
Aveva questa cosa di darmi del lei, talvolta, come per prendermi in giro
ma anche, nel contempo, finendo per assegnarsi involontariamente un
ruolo di secondo piano.
La partita in realtà fu un non belligerante proforma da fine campionato e
finì uno a uno. Le macchine al fischio finale cominciarono a suonare. Ci
mischiammo alla folla del viale prima e del corso poi, senza perderci,
tenendoci tutti e quattro per mano, a tratti, quando il fiume dei tifosi
s’ingrossava, nei pressi delle uscite dei caffè strapieni.
Quando Marco e Alessandra presero la via di casa, restammo soli e su
via Podesti, con l’eco della festa che giungeva da un po’ più in là, Marzia
mi venne vicino rassettandomi il colletto e si fece baciare, prima piano
poi più forte, con le mani nei capelli e lungo la schiena magra.
Ci fermammo ancora un paio di volte, per lo stesso motivo, ma per tutto
il tragitto fino a casa sua, nessuno parlava. Soltanto, lei si teneva un po’ al
mio braccio, stringendo ma senza esagerare. Esser stata baciata l’aveva
resa del tutto docile, le aveva levato quel po’ di esuberanza che ancora le
restava. Era felice, eppure poteva sembrare presa da una specie di
malinconia.
Quando tornai solo, lungo la ferrovia, ancora le macchine suonavano e
di nuovo mi mischiai alla festa, rispondendo ai clacson e alle grida che
parevano non voler finire.
VI.
L’indomani, al mattino, avevamo tutti qualcosa di rosso, sciarpe o altri
vessilli. Il professore Borsi, di filosofia, estraneo ai fatti calcistici, pensò
che la rivoluzione fosse cominciata.
- Borsi, - gli disse Marco - n’è la rivoluzione: è solo che semo in serie A.
- Meglio che niente - disse lui, che non si scomponeva mai, e tutti risero,
l’aula era piena di sole, le veneziane calate per metà. Fu l’ultima vera
risata collettiva della III B del 1992: quello era anche il lunedì che il
mercoledì il liceo sarebbe finito per sempre. Certo, c’era ancora la
maturità, ma era altro affare.
All’intervallo mi aggirai per i corridoi mani nelle tasche, sopraffatto
dall’aria della fine. Raggiunsi il cortile, andai a guardare un’ultima volta la
palestra, passai dalle aule dove ignari studenti più giovani studiavano
anche nell’intervallo, chini sui primi aoristi ancora da mandare a
memoria. Poi mi misi nei pressi della nostra aula, poggiato alla parete,
guardavo i compagni e le compagne, entrare e uscire, li osservavo, mi
sembravano molto belli.
Mentre stavo lì, così, passò Marzia con due sue compagne, parlavano fra
loro, fingevano di passare di lì per caso. Le sorrisi e le diedi una carezza
sulla testa, e loro ci lasciarono soli.
- Di tutti questi anni - dissi - ci siamo incontrati un po’ tardi.
Non osò contraddirmi: c’era nella mia asserzione, all’apparenza
strampalata - quanto sarà mai tardi, diciotto anni? -, qualcosa di vero. Poi
mentre eravamo lì, passò Franco, un compagno:
- Vedrai che oggi arriva pure la tua greca - mi disse. - Serie A e greca,
tutto in un botto - aggiunse, del tutto noncurante di Marzia, raccolta
accanto a me.
VII.
Pomeriggio scesi solo al porto e mi misi nel bar a chiacchierare un po’
col vecchio titolare, nonostante avesse più da fare del solito nel
preparare bibite e smistare gelati; aveva arredato di rosso con un lungo
festone alla bell’e meglio le larghe pareti vuote del bar. Era euforico, a
modo suo.
- Sento che andremo in coppa Uefa, tempo du’ anni.
- Se lo dici tu.
- Certo. E voglio andare pure alle trasferte, in Germania, in Olanda. Pure
in Svezia voglio andare, se c’è da andare, in Norvegia.
In quel momento dalla porta entrò Marzia, col suo vestitino giallo, quello
del primo incontro.
- Sei qua? - mi chiese. Non era un rimprovero, eppure non era neanche
una vera e propria domanda.
- Già - dissi io alzando le spalle.
Ci mettemmo ai tavolini fuori, sotto la veranda, che dentro il barista
continuava con la sua storia della coppa Uefa e dei suoi viaggi
immaginari e non ci lasciava in pace.
- Hai cominciato quel libro che ti ho dato l’altro giorno? - domandò
sapendo la risposta.
- No, ma lo leggo, presto lo leggo.
- Non dire le bugie.
- Non è una bugia - dissi e la guardai un momento, - lo leggo e ne
parliamo, te lo riporto.
Fuori, i tavolini erano molto più pieni della settimana prima, che quasi
faticammo a trovare posto; c’era persino una cameriera a occuparsi degli
avventori, il sole era molto più caldo, l’estate iniziava a farsi sentire.
Tutto il porto era più vivo, come entrato in maniera più netta e definitiva
nella nuova calda stagione delle vacanze e, fra imbarchi e partenze, erano
molti i viaggiatori con le loro valigie al seguito.
Davanti a noi la nave da Patrasso, ormai ben visibile, stava facendo gli
ultimi movimenti prima dell’attracco, in perfetto orario; i passeggeri sul
ponte, più numerosi del solito, alcuni indicavano col dito qualcosa da
guardare, mentre altri con le mani facevano ampi cenni di saluto.