Ho visto la palla che arrivava e l`ho spinta

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Ho visto la palla che arrivava e l`ho spinta
Ho visto la palla che arrivava e l’ho spinta
Mercoledì 20 Maggio 2015 07:48
LeBron James, Stephen Curry e James Harden. Sono nomi che non vi dicono niente? Meglio
così. Questi tre, per la cronaca, stanno alla NBA – la pallacanestro americana – come Leo
Messi e Cristiano Ronaldo stanno al calcio mondiale, ma il paragone serve solo per inquadrarli,
perché questo “appunto volante di vita terrena” non parla di sport.
LeBron ha 31 anni. È alto 2 metri, pesa 113 chili e salta 1 metro da fermo – non per il lungo,
sciocchi, verso l’alto. È soprannominato “The Chosen One” (“Il Prescelto”) ed è uno dei
giocatori più forti di sempre. Avete presente i film con i supereroi? Ecco, lui è uguale. Ha i
superpoteri, ma in un campo di basket. E non recita, però guadagna molto di più di un attore di
Hollywood.
Steph Curry ha 27 anni. Pesa 84 chili e di tiri da 3 punti ne sbaglia uno ogni anno bisestile.
Anche da ragazzino non sbagliava mai da tre, però era basso. Allora la madre pregava tutte le
sere che diventasse almeno 1 metro e 85, meglio ancora 1 e 88 perché era proprio il minimo
per sperare di giocare nella NBA. E preghiera dopo preghiera è arrivato a 1 metro e 91
centimetri.
James Harden ha 26 anni e per tutti è “Il Barba” perché ce l’ha lunghissima e curatissima. È alto
1 metro e 96 centimetri, pesa 99 chili ed è meraviglioso, sia come giocatore sia per le mosse
che fa dopo un canestro.
I loro ruoli? Dove giocano? Chissenefrega, non è importante. Perché questo racconto non parla
di sport. E poi, come loro, nella NBA, ce ne sono un’altra decina. Tutti fortissimi. Tutti con un
sacco di storie da raccontare. Il basket americano è narrativa ed è cinema perché è spettacolo,
in campo e sugli spalti.
La NBA è anche decisamente avvincente – grazie alle regole del mercato e al tetto salariale
che volutamente parificano le forze – ed è una Lega dove i regolamenti vengono rispettati a
ogni costo. La scorsa stagione, tanto per dire, il miliardario Donald Sterling, proprietario dei Los
Angeles Clippers, ha pronunciato frasi razziste. Nel giro di un paio di giorni gli sponsor dei
Clippers hanno disdetto i contratti, i giocatori sono scesi in campo con la maglia rovesciata per
protestare contro il loro presidente, la NBA lo ha bandito a vita dalla Lega e lo ha multato di 2,5
milioni di dollari (devoluti a organizzazioni antirazziste) e l'assemblea dei proprietari delle altre
franchigie lo ha obbligato a vendere la squadra. Mancava solo che Obama gli facesse sparare
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contro una cannonata dalla portaerei Nimitz e il cerchio era chiuso (va anche detto che Donald
Sterling a vendere i Clippers non ci ha rimesso, perché li ha pagati 500 milioni di dollari e li ha
venduti a 2 miliardi).
E il parallelo con il calcio italiano è impietoso. Pensiamo al fratello fortunato di Silvio, Paolo
Berlusconi, che da vice presidente del Milan, nel febbraio 2013, per il comizio elettorale del
candidato Pdl Fabrizio Sala ha chiamato Balotelli “il negretto di famiglia”, nel silenzio compatto
di sponsor, giocatori, Lega Calcio e Associazione calciatori.
Poi, oltre alle regole, c’è lo spettacolo. In campo, perché non c’è nessun altro sport
professionistico, tantomeno il calcio, che riesca ad abbinare forza fisica e leggiadria,
funambolismo tecnico e durezza nei contrasti di gioco, senza nessuna ipocrisia perché quando
un giocatore cade a terra dopo un azione di gioco lo aiutano a tirarsi su i compagni, mai gli
avversari, mentre nel calcio avviene il contrario e magari nell’azione successiva assistiamo a
una simulazione. E sugli spalti, perché la gente tifa, balla e canta. Ma ancora di più il vero
spettacolo è quando la partita finisce e anche se è stata durissima e magari è finita con una
vittoria all’ultimo centesimo di secondo tutti i giocatori si abbracciano e si salutano con rispetto.
All’inquadratura dei tifosi sugli spalti, a differenza del nostro calcio, non si vede mai uno che
manda a fare in culo gli avversari con gesti e facce stravolte dall’odio. Al contrario hanno la
dignità di applaudire il campione avversario in quanto tale.
In sostanza è uno sport che fa spettacolo e che rispetta l’avversario e il pubblico.
Ma il segnale estremo è questo. Nel 2010, Lapo Elkann – sì, proprio lui, il nipote fortunato – era
seduto in prima fila ad assistere a una partita dell’NBA quando a 1 secondo e 48 centesimi dalla
fine ha impedito a un giocatore di tenere in gioco la palla, facendo perdere la partita alla sua
squadra.
Lapo, alla fine della gara, si è scusato: “Ho visto la palla che arrivava e l’ho spinta. Non sono un
esperto di basket.”
Nonostante ciò, nessuno l’ha menato e quasi neppure insultato.
Un definitivo segno di civiltà.
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