sguardi sulla città - Donne che lasciano il segno

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sguardi sulla città - Donne che lasciano il segno
“SGUARDI SULLA CITTÀ”
La collezione raccoglie i testi di tre
differenti eventi:
il concorso “Tempi di vita e tempi
di lavoro”;
il concorso “Incontri sulla porta di
cucina”;
la lettura “Incontri” tratta dal
laboratorio di scrittura creativa e
lettura espressiva.
“SGUARDI SULLA CITTÀ”
Tempi di vita e tempi di lavoro
Indice
Presentazioni
Loretta Bertozzi
Assessore Politiche di Welfare e Pari Opportunità
Comune di Forlì………………………………………………………… I
Lalla Golfarelli
Responsabile del Progetto Weird, ECIPAR Emilia-Romagna…... II
Lucilla Pieralli
Presidente Comitato Impresa Donna CNA Emilia-Romagna…… IV
Testi vincitori
L’ultimo giorno dell’anno – sezione narrativa
di Daniela Ciani……………………………………………..…… 1
Poesie della Città - sezione poesia
di Maria Aulizio……………………………………………........ 15
Premio speciale "nuove cittadine"
Donde habita la ausencia
di Maria Esther Funes Zannier...................................................... 18
Premio speciale "all'ironia"
Il più bel regalo di Natale
di Danila Rosetti………………………..………………………. 28
Premio speciale "all'amicizia"
Fiorenza
di Giorgia Monti…………………..…………………………… 33
Premio speciale "alla pagina di diario"
Io: l'emigrante
di Marialuisa Memma…………………..……………………… 37
Testi segnalati per la pubblicazione
Riflessioni sulla solitudine di Annadele Assirelli……………… 45
La mia città a Natale di Eleonora Benetti……………………… 46
Vita quotidiana in città di Daniela Boccalatte…………………. 47
Gocce di ricordi di Ersilia Coccia………………….…………… 55
E' la mia fantasia di Catia Conficoni………………………….... 56
Una mattina d'inverno di Antonella Erbacci…………………... 58
L'alba di una nuova vita di Barbara Gaudenzi………………… 60
Una giornata qualsiasi di Roberta Fiorini…………………..….. 61
Pedalando… pedalando… una maestrina negli anni sessanta
di Renata Franca Flamigni…..........................................................65
Basta correre di Liviana Lucchi……....……….………….…….. 70
Scelte di Diella Monti…...……………………………………….. 73
Il volo di Antonia di Fulvia Mura………….………..……...….. 74
Il mio primo lavoro di Mariangela Paganelli..…………………..77
E la vita corre di Sabrina Piallini………………......……………80
Spiare il giorno di Danila Rosetti………………..……....….…... 82
Quel tocco in più di Debora Teresa Stenta………..……….…….87
Scorci paesani di Caterina Tisselli……………………...….…….91
A capo chino di Patrizia Tomidei……...………………….…….. 92
Viaggio verso sera di Elena Zaccheroni………......……..………98
Il tempo e le stagioni di Antonia Zampolla……………...…….. 101
Presentazioni
La presente raccolta di testi inediti di donne forlivesi nasce dalla
convinzione che esistano, nella nostra città, numerose e sconosciute
scrittrici, donne creative o semplicemente use a mettere i propri
pensieri e riflessioni in linguaggio scritto che meritano di aver voce
ed essere valorizzate.
Il tema che abbiamo scelto per il concorso di scrittura è strettamente
connesso con l’esperienza delle donne, con la loro quotidianità fatta
di lavoro, studio, famiglia, figli. Le testimonianze pervenute parlano
dei giochi d’equilibrio con cui le donne affrontano la permanente
carenza di tempo e la necessità di mantenere in equilibrio più ruoli.
Lo fanno in modi diversi, compresa l’ironia e i toni semiseri che
ridanno leggerezza ad una tematica e ad un’esperienza a volte
lacerante.
Il tema della necessità di conciliare lavoro e vita famigliare entra
dunque con questa pubblicazione in una dimensione culturale e del
divertimento, dopo essere stata al centro di numerose politiche
dell’Amministrazione Comunale di Forlì. Esperienze diverse di
flessibilità del lavoro, riorganizzazione degli orari dei servizi
pubblici e apertura di servizi più flessibili e capaci di rispondere alle
esigenze delle donne e delle famiglie moderne sono state un ambito
di lavoro costantemente monitorato dal Comune di Forlì.
Ringraziamo ECIPAR e Comitato Impresa Donna E.R. per averci
coinvolto nel progetto WEIRD e la Regione Emilia Romagna per
averlo finanziato dandoci l’occasione di continuare a lavorare
concretamente su tali tematiche sia in modo tradizionale, sia in modo
divertito come è avvenuto col concorso di scrittura.
Loretta Bertozzi
Assessore Politiche di Welfare
e Pari Opportunità
Comune di Forlì
I
Presentazioni
L'Agenda Duemila della Commissione Europea per il periodo
2000/2006 indica i temi della gender salience e della democrazia
paritaria come temi centrali delle sue politiche.
In Emilia-Romagna la femminilizzazione del mercato del lavoro
costituisce uno degli elementi di maggiore differenziazione positiva
rispetto ad altre aree del Paese.
Continua però la segregazione orizzontale: le donne, per esempio,
sono quasi assenti nel settore delle nuove tecnologie. Continua la
segregazione verticale: le opportunità di promozione e carriera, i
livelli retributivi, le funzioni dirigenti sono “dispari”, le donne
rappresentano quasi il 70% dei lavoratori atipici; le donne lavorano
di più, fra lavoro visibile e invisibile, di ogni altra in occidente.
Anche nella nostra Regione le donne adulte mettono a rischio lavoro
e carriera per la maternità e la cura, specie tra i 29 e i 49 anni, età
che coincide con il momento cruciale per la vita della donna, l'epoca
della riproduzione e della cura dei figli.
La ragione di queste difficoltà sembra risiedere nel fatto che la
maggior parte degli interventi di pari opportunità non riesce a
incidere su quel modello tradizionale di gestione delle risorse umane
e dei tempi, che per anni ha mirato all’omologazione tra maschio e
femmina in un’ottica prevalentemente maschile.
E’ ancora poco diffusa la cultura del valore della cura e della
relazione condivisa socialmente e fra generi e generazioni, il ché
mette sovente le donne in condizione di dover affrontare ed
effettuare scelte che, nella gran parte dei casi, sono
significativamente influenzate da modelli culturali tradizionali,
secondo i quali le responsabilità e i carichi di assistenza e di cura ai
bambini, agli anziani e alle persone non autosufficienti sono attribuiti
alle donne e fra le donne, spesso, alle più deboli, incrementando così
lo stereotipo di irrilevanza delle competenze relazionali non formali,
che penalizza soprattutto un genere e le “altre” provenienze (le
immigrate).
Come dice Silvia Gherardi in “Il genere e le organizzazioni” intendiamo attraversare esperienze, organizzazioni, lavori come
II
laboratori “per le negoziazioni quotidiane delle relazioni di genere,
considerandole una delle arene sociali in cui la doppia presenza è
manifesta e ha iniziato a cambiare i confini tra gli universi simbolici
del maschile e del femminile”.
Lo stesso tema della conciliazione, se inquadrato in questa
prospettiva, esce da un’ottica riduttiva di ricerca di soluzioni per le
esigenze ed i bisogni personali del soggetto femminile, legati a
specifici e definiti cicli vitali, per divenire elemento di innovazione
del sistema produttivo e del tessuto sociale, chiave di volta di un
sistema integrato di politiche organizzative d’impresa, di politiche
sociali e di politiche del territorio più rispondenti ai bisogni
soggettivi di donne e uomini, insomma un discorso civico.
La mossa di apertura del progetto Weird per avviare questo discorso
civico, che parte dal genere, è un evento culturale e sociale insieme,
è questo concorso di scrittura per guardare la città con occhi di
donna.
Lalla Golfarelli
Responsabile del Progetto Weird
ECIPAR Emilia-Romagna
III
Presentazioni
Sono un’imprenditrice e presiedo il Comitato Impresa Donna della
CNA dell’Emilia-Romagna.
Nella nostra Regione le donne che lavorano sono tante e tante sono le
lavoratrici autonome, le professioniste e le imprenditrici e, se
guardiamo ai più recenti ingressi nel mondo del lavoro, le lavoratrici
atipiche, che sono la grande maggioranza delle giovani lavoratrici.
Queste donne che intraprendono, che lavorano, che si danno da fare,
che rappresentano una componente determinante del tessuto
economico diffuso, devono anche affrontare il problema della
conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita.
Lo affrontano e lo risolvono alla grande, con ben poco aiuto e
condivisione da parte dei loro compagni di vita, anche grazie al
sistema di welfare locale.
In questi giochi di equilibrio si esprime tutta la loro, la nostra forza,
un poco del nostro potere e molta della nostra fatica.
A Forlì il Comune ha promosso numerose iniziative per far diventare
la conciliazione una scelta civica e non un affare privato.
Le misure di conciliazione non possono che essere territorializzate ed
è senza dubbio più facile per le donne interagire in sede locale: ne
hanno la forza, possono trovare gli elementi di fiducia che le
motivino, possono tessere alleanze e fare lobby.
Ora il Comune di Forlì è partner del Comitato Impresa Donna nel
progetto Weird; incantesimo.
É a partire dalle parole delle donne di questa città che vogliamo dare
inizio al progetto, scoprendo le strade per vivere meglio senza
rinunciare ad una parte o ad un’altra di sé stesse, per progettare una
città a misura anche nostra e per convincere gli uomini che ne vale la
pena: se questo non è un incantesimo!
Lucilla Pieralli
Presidente Comitato Impresa Donna
CNA Emilia-Romagna
IV
L’ultimo giorno dell’anno
di Daniela Ciani
Chiunque si fosse avventurato, verso le sei della mattina dell’ultimo
giorno dell’anno, lungo lo stretto corridoio di terra battuta che
fiancheggia la vecchia palestra dismessa, non avrebbe potuto non
notarlo.
È evidente che sono ben poche le persone che, se non afflitte da cani
insonni ed incontinenti, in una data tanto topica e ad un’ora così poco
adatta alle passeggiate rigeneranti, si inoltrerebbero per quel tratturo
scuro e poco invitante, che ha l’unico, incerto merito di condurre ad
un lembo di prato, al limitare del quale non si staglia l’onnipresente e
perentorio divieto di introdurre – dicono proprio così i cartelli,
“introdurre”, come se si riferissero alla spina del fon ed alla presa di
corrente – cani.
Se però il nostro mattiniero passante, o la nostra mattiniera passante,
ché non pare il caso di differenziare per genere gli eventuali infelici
proprietari di piccoli, medi o grandi cani di città, si fossero lasciati
tentare dalla promessa di un poco di erba impietrita dall’incontro con
la brina, allora, dicevamo, avrebbero senz’altro notato la breccia nel
muro della casa che affianca il sentiero, proprio in faccia alla
palestra, e non è escluso che sarebbero stati tentati di avvicinare
l’occhio allo spiraglio per dar sfogo ad una legittima curiosità.
In questo caso, avrebbero colto con lo sguardo l’intera visione del
piccolo giardino, che un tempo forse era stato cortile e che ora,
seppur umiliato dal freddo, non nascondeva la segreta ambizione di
apparire un parco in miniatura, sul quale si affacciavano il retro della
grande casa a due piani e il fronte di una casetta ad un piano unico
con soffitta, due camere, cucina, bagno, glicine lungo il muro e
lanterna sul portoncino.
Alle sei della mattina dell’ultimo giorno dell’anno, tre finestre
illuminate segnalavano che le abitanti avevano definitivamente
sconfitto il sonno per quel giorno e si preparavano ad affrontare le
ore che le separavano dall’inizio di un nuovo anno.
Al piano nobile, Teresa, la padrona di casa, con i piedi infilati in
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grossi calzini di lana ed in buffe pantofole in forma di gatto
Gardfield, avvolta in una felpa sformata buttata sul pigiama, stava
preparando in fretta un’abbondante razione di pappa per Filippo, il
siamese più viziato se non dell’intera città, senz’altro del quartiere,
che peraltro vanta una popolazione felina di tutto rispetto.
Come tutte le notti il suo sonno era stato breve e tormentato ed alle
quattro si era ritrovata a fissare un punto più o meno corrispondente
alla sommità dell’armadio, cercando con la mano il morbido pelo di
Filippo e ripassando mentalmente l’ordine degli impegni per quella
giornata.
Primo: sei ore stramaledette senza computer. Cosa diavolo c’era che
non funzionava nella testa degli amministratori che compravano i
computer in Irlanda? Da tre settimane aspettavano il pezzo di
ricambio. Il massimo dell’efficienza. Sempre più difficile
condividere la scrivania con la collega. Chissà se c’erano dei traffici
dietro i computer irlandesi? Fossero state delle bistecche illegali, si
poteva capire, ma dei computer!?! A quel punto delle sue
meditazioni un ronfare leggero le aveva segnalato che Filippo
intendeva dare inizio alla manovra di avvicinamento alla pappa.
Normalmente queste comprendevano prima le fusa, poi un rapido
scompigliare di coperte ed infine il pezzo forte: miagolii disperati,
sonori, inarrestabili, che la inseguivano mentre lei si precipitava in
cucina, per punirla del ritardo informando i vicini, in un modo che
non poteva essere ignorato, della sciatta attenzione riservata a chi
l’onorava della sua compagnia.
Si era alzata velocemente per impedire lo sviluppo delle richieste
feline e, trovati a tastoni calzerotti, ciabatte e felpa, si era avviata il
più silenziosamente possibile – non era il caso di svegliare Rachele –
verso la cucina.
Mentre tirava fuori dal frigorifero la pappa del gatto, continuava a
ripassare l’indice ragionato dei compiti.
Secondo: una spesa abbondante per il pranzo del giorno dopo. Carne
da brodo, finocchi e insalata scarola, straccetti di salmone per le
tartine, olive - quelle verdi, grosse, polpose, lussuriose - spumante.
Sarebbe stato un primo dell’anno tranquillo tutto sommato: solo il
babbo, Rachele e lei, niente a che vedere con l’anno precedente e con
la casa invasa dai fratelli, la cognata e i nipoti.
A proposito di nipoti – terzo – doveva assolutamente ricordarsi di
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telefonare al nipote maggiore, prima che partisse per la vacanza,
perché passasse a ritirare il contributo della zia al finanziamento
della settimana in montagna.
Quarto, (a questo punto, ormai uscita dal bagno, si era attardata un
poco a compiangersi per il freddo che, da quando la tradizionale
dieta estiva aveva insperatamente sortito effetto, la tormentava e le
faceva ricordare che, appena concluso il periodo festivo, doveva
mettersi a caccia di un idraulico volonteroso per la pulizia della
caldaia) quarto, dunque, telefonare a Cosetta e a Valeria per gli
auguri e per declinare qualsiasi invito a passare insieme la serata. La
conoscevano da tanti anni, ma non demordevano. Troppa
malinconica e faticosa noia nelle serate passate a mangiare,
aspettando quella mezzanotte assolutamente deludente. Da tempo
ormai non si sentiva più la buona volontà sufficiente a mantenere
quella parvenza di civiltà che serve a non stravaccarsi con un libro in
mano, senza collaborare alla degustazione, alla lavatura dei piatti,
all’ascolto svogliato delle ultime cassette, insomma non aveva
bisogno di quel rito per tirar tardi. Quinto, sesto e settimo, pulire
casa, cucinare e, se reggeva il tempo asciutto, tentare di tagliare i
rami dell’albero che premevano contro la finestra, dopo aver invaso
il terrazzino. Non era sicura che per gli immobili valessero gli stessi
principi applicabili ai motori, certo però che, da quando lei e la figlia
Rachele avevano ereditato la grande casa, non era ancora riuscita a
provare nessuna delle gioie della proprietà, mentre i dolori erano
riusciti a stremarla. Doveva chiedere una mano alle ragazze, per quei
rami. Tutte avevano già partecipato ai suoi sforzi vani per trovare un
giardiniere disponibile ad un prezzo ragionevole, insieme avrebbero
trovato il modo di contenere la furia vitale del grande albero.
Il pensiero dei rami invasori l’aveva fatta andare verso la finestra,
con la tazza del caffè in mano: in fondo al giardino, nella casetta
nella quale da cinque mesi abitavano Fabrizia e Beatrice, la luce
della cucina era accesa. Teresa si era girata di scatto verso l’orologio
appeso sulla porta, trattenendo il fiato, colpita dall’idea che fosse
tardi, invece le lancette l’avevano rassicurata sul fatto che erano le
sei della mattina, la sua insonnia non l’aveva tradita, aveva tutto il
tempo per andare a curiosare sul motivo della levataccia delle
amiche.
Tre minuti, diciannove gradini ed un giardino dopo, avvolta nella
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felpa, Teresa bussava alla finestra e il vetro si apriva quel poco che
bastava a lasciar intravedere un occhio di Fabrizia.
- Cosa succede?
- Stiro! Entra, la chiave è nella porta.
L’ingressino e la sala erano al buio, la porta della camera da letto
chiusa, la cucina illuminata e calda, molto calda, dal momento che
era quasi interamente occupata da una grande asse da stiro, dietro la
quale Fabrizia armeggiava con un pesante ferro semiprofessionale a
vapore. La piccola tavola quadrata era ingombra di panni già stirati e
due delle quattro sedie erano occupate da quelli che ancora
aspettavano l’irritato intervento della proprietaria.
- Ma quante siete in questa casa? Stai stirando solo i tuoi o hai
raccattato i panni di tutta la strada?
- Quella delinquente di mia figlia si cambia sei, sette volte al giorno,
poi lascia tutti i vestiti ammucchiati sulla sedia in camera, così anche
se sono puliti sono importabili, perché sono tutti stropicciati.
- Lasciaglieli così!
- Sono i miei. Si mette i miei vestiti, l’animale! Se voglio andare a
lavorare con qualcosa di decente addosso, debbo stirarli per forza!
- Ma non sei in ferie? Vai a lavorare lo stesso?
- Sono in ferie, ma oggi vado ugualmente in ufficio, devo finire delle
fatturazioni, sono sola, lavoro tranquilla, sto là fino alle undici poi
vado a trovare mia mamma, verifico se ha bisogno di qualcosa e
torno a casa. Hai già preso il caffè? Sgombra la tavola, le fette
biscottate sono sul mobiletto, il caffè è appena fatto e il latte è caldo,
facciamo colazione.
- Non faccio mai colazione la mattina, però prendo un altro caffè.
Vai a ballare questa sera? E la Beatrice cosa fa?
- Mi hanno invitato ad andare a ballare, ma non so se ci andrò
davvero. È il primo capodanno senza Lui e mi sento già un gran
magone...- e aveva addentato con furia una bianca galletta di riso
soffiato e pressato, cosparsa di un velo di marmellata all’arancia,
volonterosamente spalmata dall’amica.
- Devo proprio prendere un caffè! – Silenziosa come un gatto,
favorita dai suoi quaranta chili scarsi e dall’attitudine a veleggiare
rapida e nervosa attraverso la vita, Marta, la locataria del piano terra
della grande casa, apparve improvvisa ed inattesa, contribuendo alla
prima scarica di adrenalina della giornata. Immediatamente dopo e
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sicuramente in seguito alla sua entrata in scena, si verificarono
nell’ordine i seguenti eventi: il caffè, che Teresa stava versando, si
rovesciò sulle sue ginocchia provocando un “Uh!” che nessuno
avrebbe potuto definire soffocato; Filippo, che si era acquattato non
visto su una pila di camicie e magliette stirate, spiccò un balzo che
portò lui sul davanzale e le magliette a terra, sparpagliate fra la sedia
e la finestra; il ferro semiprofessionale, distrattamente brandito da
Fabrizia, piombò sull’asse con un tonfo e dalla camera un grugnito
segnalò che Beatrice si era svegliata. Apparentemente ignara dello
scompiglio, seguita dall’occhiata stupita di due amiche ammutolite,
Marta si lasciò andare sulla sedia lasciata libera dal gatto e dai panni,
considerò per un poco l’opportunità di mangiare una galletta, poi
sottrasse la caffettiera dalle mani di Teresa, si versò una più che
generosa razione di caffè e, con un sorriso soddisfatto, che la faceva
assomigliare allo stregatto di carrolliana memoria, si abbandonò
sullo schienale.
- Ho appeso un’altra mensola! – comunicò e lasciò cadere un silenzio
che, nelle sue intenzioni, doveva adeguatamente sottolineare la
grandezza dell’impresa compiuta. Marta aveva traslocato nella
grande casa da diciotto giorni, assieme ad una collega di lavoro che
viveva praticamente dal fidanzato e, quindi, poco o nulla interferiva
nella missione di stipare l’appartamento con soprammobili acquistati
nei mercatini dell’usato, oggetti pescati nelle aste, vecchi mobili
ceduti da conoscenti che avevano finalmente deciso di svecchiare il
loro arredamento, tutti pazientemente restaurati, ridipinti, rimessi in
funzione da Marta, con l’ausilio di una considerevole collezione di
attrezzi da lavoro dalle più svariate funzioni, normalmente
acquartierati dentro i cassetti, dietro le ante, sopra le mensole,
praticamente in ogni stanza.
Per otto ore al giorno, a volte dieci, Marta si occupava
dell’amministrazione di due o tre aziende: vestiva un tailleur
pantalone gessato, impugnava una valigetta porta computer e
riusciva a produrre un tono di voce insospettatamente autorevole,
arrochito ad arte dalle quaranta e passa sigarette fumate. Per altre
otto, a volte dieci ore, infilata in una tuta che sarebbe stata stretta ad
un ragazzino, tagliava, forava, segava, incollava, avvitava, tingeva
oggetti di svariate forme e dimensioni. Le restavano forse quattro
ore, a volte sei, per dormire, lavarsi, far spese, intrattenere rapporti
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sociali e, sì, a volte anche mangiare.
Le amiche, che fra loro la chiamavano, con affetto ed un po’ di
timore, “il Bucaniere”, sapevano che avrebbero potuto contare su di
lei nei seguenti casi: perdita di orecchini, forcine, tappi di tubetti di
dentifricio, con conseguente intasamento di tubature; consumazione
e/o incrinatura di gambe di mobili e relativa instabilità;
opacizzazione di legni, vetri e specchi, superfici lavabili e non;
malfunzionamento di piccoli elettrodomestici.
Dovevano invece temerla in tutti i casi in cui avesse proposto un
radicale cambiamento della disposizione e natura di mobili e
suppellettili, perché si preparavano per loro ore molto faticose di
facchinaggio e pseudo assistenza tecnica.
Dopo il suo devastante ingresso quella mattina, Fabrizia non trovò di
meglio che affermare incongruamente, con appena una sfumatura di
irritazione nella voce, mentre raccoglieva i panni che una volta erano
stirati:
- Debbo truccarmi.
- Dobbiamo anche tagliare i rami dell’alberone – si affrettò ad
aggiungere Teresa. Non c’entrava niente, ma doveva pur scegliere un
momento per dirlo prima o poi.
- Non adesso – Fabrizia
- Ci vuole la sega elettrica – Marta
- Bisogna fare attenzione a non svegliare la tartaruga – Teresa
- Credevo restasse in letargo e basta...- Fabrizia
- Sarebbe meglio estirpare anche l’albero davanti a questa finestra, fa
troppa ombra – Marta
- Se liberiamo dalle erbe il pezzo di muro in fondo, prepariamo il
posto per il barbecue – Teresa
- Potremmo costruire da sole un caminetto attrezzato – Marta
- Debbo truccarmi! – Tagliò corto Fabrizia, prima che Marta potesse
organizzare il prossimo turno di lavoro.
Alle sette e quindici di quella mattina, tre donne lasciarono la grande
casa per avviarsi al lavoro, mentre Beatrice, ormai rassegnata alla
perdita del sonno – non soffriva di insonnia lei – si trascinava in
cucina in cerca di una colazione consolatoria.
Alle 11 della mattina dell’ultimo giorno dell’anno, Rachele si
spalmava lo smalto sulle unghie dei piedi, in perfetto equilibrio
sull’orlo della vasca da bagno, mentre accanto a lei Beatrice si
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provava l’ennesima gonna di lana, spigata, marrone, ruggine e grigia,
che forse era appartenuta alla nonna o era stata acquistata dalla
madre, nei giorni in cui non si decideva a cambiare gli occhiali da
vista.
- Potremmo anche scegliere di andare in Egitto, quando scenderanno
i prezzi, dopo l’epifania. L’Argentina non mi attira poi tanto. – Stava
dicendo Rachele con studiata lentezza, ritoccando l’angolo destro
dell’alluce.
- E’ così nervoso che potrebbe essere un fallimento questa serata. Ci
credi che adesso si veste solo con le firme? – Diceva Beatrice, ma
non rispondeva all’amica, continuava un proprio ragionamento sul
suo moroso.
Potevano continuare per diverso tempo a discorrere di argomenti
paralleli, ciascuna seguendo i propri pensieri, ma senza perdersi le
battute dell’altra, un po’ come quei lettori abbastanza abili che
tengono in sospeso sul comodino due libri per volta, cosa per altro
autorizzata dal decalogo del lettore “literary correct”.
- Potrebbe portarmici, no? Ho studiato troppo e la mamma non si
sopporta! Ho bisogno di cambiare aria. Voglio vedere i cammelli.
Rachele frequentava, da quello che sua madre riteneva un tempo
troppo lungo, la facoltà di Veterinaria. Per arrivare a questa
frequenza si era dovuta sorbire due maestre che non esitavano a
strapazzare gli alunni, un’insegnante di lettere che aveva una insana
passione per le ricerche, regolarmente effettuate dai genitori e cinque
anni di liceo classico ai quali era sfuggita viva per quello che
considerava uno dei rari miracoli della sua esistenza. Adesso era
abbastanza soddisfatta, anche se, per motivi che le erano
completamente oscuri, la laurea le sarebbe stata attribuita a seguito
della sua capacità di imparare a memoria il nome delle ossa di
svariate specie di animali, senza alcuna verifica delle sue capacità
pratiche. Ovviamente non perdeva occasione per esercitarsi in
proprio: i gatti e la tartaruga le fornivano qualche opportunità di
allenamento; era sempre lei che, acchiappati i rondoni che finivano
nel camino, si arrampicava sulle terrazze dei condomini vicini –
aveva sviluppato una grande abilità nello sfuggire ai portinai – per
lanciarli nel volo di ritorno alla libertà e, quando i pompieri erano
intervenuti per liberare il solaio dal grande favo di vespe che vi si era
installato, lei aveva prestato la sua occhiuta assistenza. Certo non
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mancavano spiacevoli episodi che era meglio dimenticare, come
quella volta che, armata di grossi guanti da giardiniere, aveva cercato
di costringere a scavarsi una tana nella terra un enorme topaccio,
scambiato per una talpa, ma nessun professionista serio può vantare
un percorso senza significativi incidenti. Amava le diete, la palestra a
periodi alterni, il buon cinema e non sopportava i peli sulle sue
gambe.
Beatrice invece si era dedicata alle scienze politiche. Amava la
cucina, i ritardi propri e la puntualità altrui, i vestiti usati e le tisane
profumate. Insomma avevano svariati argomenti di conversazione.
- Voglio andare a comprare un nuovo lettore di CD – disse Beatrice,
prendendo una decisione sulla maglia da mettersi.
- Io faccio il bagno, mi depilo e vado a vedere nelle agenzie di viaggi
se ci sono sconti convenienti per l’Egitto, poi ci penso, tanto stasera
non esco. – Rispose Rachele.
Sempre alle 11 di quella mattina, Fabrizia aveva perso le chiavi del
cancello e non poteva uscire dalla fabbrichetta dove lavorava.
Dovevano essere nella borsa: rossetto, specchio, spazzolino da denti,
fazzoletto da naso, agendina, occhiali di riserva, portamonete, CD di
De Andrè da masterizzare, sigarette con accendino, ma niente chiavi.
Forse le aveva appoggiate sul bancone del front-office quando era
entrata: fatture e bolle di accompagnamento in pile semiordinate,
listini di prezzi, pubblicità dei concorrenti, l’elenco dei clienti a cui
erano stati inviati gli auguri di Natale e niente chiavi. Fabrizia si
considerava una lavoratrice capace, rapida, affidabile, efficiente e, in
quel momento, maledettamente disordinata. “Zio pepe” imprecò
mentalmente, buttando all’aria la sua scrivania “erano qui”. Aprì i
cassetti, sapeva benissimo di non averle messe in un cassetto, ma non
poteva lasciare qualcosa di intentato. Frugò la scrivania del capo,
anche se non era entrata affatto nel suo ufficio in precedenza e fece
bene, perché in quel modo ritrovò un certo ordine di merce che
pensava di aver smarrito prima di Natale. “Sono scesa dalla
macchina con la borsa in una mano e sicuramente avevo le chiavi
nell’altra” vuotò di nuovo la borsa “le ho appoggiate un momento”
ributtò all’aria il bancone delle colleghe all’ingresso, ormai incurante
delle rimostranze che l’avrebbero accolta alla ripresa del lavoro in
gennaio “se non lasciassero qui tutti questi fogli ritroverebbero tutto
proprio come l’avrebbero lasciato”. Si arrestò un attimo a rimettere
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in fila congiuntivi e condizionali, poi si avviò a passo di carica verso
il magazzino. “Non ci sono stata – si diceva strada facendo – non
posso averle lasciate là”. Ma una forza oscura la spingeva a cercare
anche dove non aveva senso farlo e intanto ripassava tutti i disordini
con cui combatteva quotidianamente “Beatrice deve capire che i
vestiti vanno rimessi nell’armadio, siamo in due nella stessa stanza
accidenti. La mia cognata non può portare tutti quei panni da lavare
alla donna che si occupa della mamma, è pagata per far compagnia
alla mamma, per portarla fuori, non è per cattiveria, ma i panni
bisogna che se li lavi da sola o almeno che ne porti pochi per volta, o
che non glieli faccia stirare”. Intanto spostava fogli di laminato dietro
ai quali sicuramente non potevano nascondersi le sue chiavi. “Il
laminato verniciato non deve stare qui, dove sono? Dove sono? Le
scarpe antinfortunio debbono rimetterle nell’armadietto. Dove le
avrò messe? Debbo telefonare al capo per farlo venire ad aprirmi.
Che imbranata che sono!”. Alle 11 e 45, stremata, con il cellulare in
mano, si lasciò andare sul sedile dell’auto e piombò pesantemente sul
mazzo di chiavi che stava cercando.
Alle 14 dell’ultimo giorno dell’anno, Teresa aveva diligentemente
infilato la sua tesserina elettronica dentro la fessura della macchina
marcatempo, nella direzione sbagliata. Lo faceva quasi sempre e si
attirava sguardi compassionevoli e disgustati di colleghi che
aspettavano il loro turno. Conclusa in qualche modo l’operazione ed
inforcata la bicicletta, si era diretta verso il supermercato. Pedalando
si sentiva come uno dei “Cavalieri che fecero l’impresa” ed
effettivamente era un’impresa raggiungere il Centro commerciale. Le
aiuole rotonde che nottetempo spuntavano al centro degli incroci, in
precedenza tanto opportunamente presidiati da tranquillizzanti
semafori, riuscivano senza dubbio a facilitare la circolazione delle
automobili, ma si intestardivano a rendere sempre più complicata la
vita delle cicliste, già abbondantemente sprovviste di piste ciclabili.
Al supermercato poi, era un’impresa, racimolato un euro che si fosse
smarrito nelle tasche del giaccone, agguantare un carrello e tuffarsi
nella bolgia prefestiva. Teresa si rimproverava, in quelle occasioni,
due vizi capitali: l’assoluta mancanza di aggressività e l’improvvida
altezza contenuta. Altezza ed aggressività erano entrambe
caratteristiche che le sarebbero state d’aiuto, le avrebbero infatti
evitato il desiderio di abbandonarsi all’oblio di una bottiglia di
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cognac, lei che era completamente astemia, quando non riusciva a
raggiungere l’ultimo tetrapak rintanato nello scaffale più alto o
quando, ormai davanti alla cassa, in attesa da un tempo
immemorabile, gettato l’occhio verso le invitanti caramelle senza
zucchero, veniva spintonata e sorpassata da qualcuno.
Erano già le 15 quando, per aprire il portone di casa, si sporse oltre il
manubrio della bicicletta, al quale erano appese tre pesanti borse di
plastica che segnalavano la sua vittoria sul supermercato del giorno
prefestivo.
Nell’ingresso della grande casa venne accolta da Fabrizia, seduta su
un gradino con la testa fra le mani, Marta già in tuta, che brandiva
una sega elettrica, Beatrice, che reggeva un pacco di medie
dimensioni e Rachele in pigiama azzurro con orsetti, che abbeverava
le piante con un minuscolo annaffiatoio verde.
Tutta la truppa seguì Teresa, carica di borse, lungo le scale, fino al
suo appartamento.
- Fa sempre più freddo qui dentro – constatò Rachele.
- Lo so – Ammise la madre, mentre puliva le verdure per il brodo.
- Dovremo cercare l’idraulico – ricordò Fabrizia.
- Ho comprato il nuovo lettore per CD – comunicò Beatrice.
- Io invece ho procurato quello che ci serve per fare la festa agli
alberi del giardino – annunciò trionfante Marta.
- Allora lo facciamo oggi? – La voce di Fabrizia non nascondeva la
speranza di un ripensamento.
- Io non sono capace – avvertì Rachele.
- Io vi preparo una merendina, tanto adesso è troppo tardi per
pranzare! – Concluse Beatrice.
Mezz’ora dopo al brodo provvedeva la pentola a pressione, Beatrice
preparava il thè e Rachele era partita per certi acquisti di frutta secca.
Fabrizia aveva finito di raccontare la sua mattinata da incubo, dal
momento che, dopo il mistero delle chiavi scomparse, aveva dovuto
affrontare l’“affaire” della madre in vena di ricatti affettivi, il caso
della collaboratrice domestica polacca intenzionata a passare per
conto suo l’ultima notte dell’anno e l’arcano della collega che decide
di prolungare le ferie e lo comunica l’ultimo giorno dell’anno.
Su una scala non abbastanza lunga ed in compenso non abbastanza
sicura, Teresa si protendeva con la sega in mano verso il primo ramo
da tagliare. Immediatamente sotto di lei, con una mano appoggiata, a
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sorreggerla, sulle natiche, Fabrizia dava ordini a Marta che tentava di
tagliare l’albero ormai secco, davanti alla finestra della cucina della
casetta. Filippo si teneva a rispettosa distanza e trasaliva tutte le volte
che Teresa, memore dei documentari dell’infanzia “Sulle rive del
fiume San Lorenzo”, urlava - cadeee!
Fra lo stupore delle lavoratrici, i rami cadevano veramente, venivano
tagliati in pezzi con una mannaia, normalmente utilizzata da Marta
per trinciare i polli surgelati, e Fabrizia andava in missione fino al
cassonetto, con enormi fasci di legno e fronde fra le braccia,
inseguita da raccomandazioni a darsi un’aria presentabile mentre
incrociava i passanti agghindati a festa, diretti all’ultima passeggiata
dell’anno in centro.
Nelle due ore successive il giardino fu messo a ferro e fuoco, il
rumore delle seghe elettriche era assordante e le abitanti della grande
casa erano perse in un universo di equilibri instabili, movimenti non
abituali, pesi sollevati e spostati, fino a che finalmente Teresa urlò:
- Basta adesso! Smettetela di fare le segaiole!
Cadde un silenzio improvviso, irreale, che sembrò dover durare
abbastanza da rigenerare gli spiriti afflitti dagli stridii delle seghe e
dai tonfi del legno, se non fosse stato per il fatto che dalla strada si
fece largo il canto delle litanie di una processione, che si snodava
lungo la via. Le tre amiche si guardarono costernate, cercando di
ricordare se al rumore si erano accompagnate imprecazioni o
sproloqui di cui tre donne per bene dovessero vergognarsi, poi
l’alzata di spalle di Fabrizia segnalò che, tanto peggio, era ora del
thè.
Alle 19, tre signore cinquantenni ed una ragazza piena di buoni
propositi, sedevano attorno al tavolo della cucina della casetta in
fondo al giardino, con una sigaretta in mano e una tazza di thè ormai
vuota davanti.
La ragazza piena di buoni propositi stava dicendo:
- Facciamo così: la mamma va a prendere la nonna, mangiamo
insieme poi si prepara per andare a ballare. Io resto con la nonna fino
alle 10 di sera, poi la nonna resta con Teresa e Marta fino all’una o le
due e a quell’ora la mamma torna a casa.
Fabrizia, che era la mamma in questione, stava interpretando, in
maniera molto convincente, le ansie della protagonista di un film dal
titolo “Senso di colpa e desiderio”.
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- Magari la Marta vuole uscire?!? – domandò incerta.
- Non mi sono fatta i capelli, non ho niente da mettermi.... - cominciò
ad enumerare Marta.
- Se il problema sono i capelli, te li metto a posto io – propose
Beatrice, che si era già dimenticata la sua strategia organizzativa.
- Non è vero che non hai niente da metterti, il vestito rigato va
benissimo! – La rassicurò Teresa
- Con quello ci vado a lavorare, non posso andare a ballare con i
vestiti con cui vado a lavorare, se ne accorgerebbero.
- Chi se ne accorgerebbe? – Domandò Teresa, ma la sua domanda
cadde nel vuoto.
- Vacci tu a ballare! – Ribatté invece Marta, con un tono di sfida.
- Io? Io? – Teresa era l’incarnazione dell’incredulità – Non mi
ricordo neppure come si fa a ballare!
- Ti insegno! – Beatrice cercava sempre di risolvere i problemi di
tutte.
- Non so se me la sento di andare a ballare – cominciò Fabrizia – se
poi lo incontro nella sala da ballo, quello mi rovina la serata –
“quello” era l’ex marito. – Non mi trovo neanche tanto bene con
quella compagnia...
- Non devi andarci se non sei a tuo agio! Comunque, con tutte le sale
che ci sono, non è detto che tu incontri proprio il bischero – Teresa
faceva sfoggio di saggezza.
- Vieni, Teresina, guarda come si fa a ballare! – Beatrice aveva
spostato la tavola e stava armeggiando con una trappoletta grigioargento.
- Se vado a prendere la mia mamma, poi non so dove metterla a
dormire – rifletteva Fabrizia.
- Io dormo sul divano con il piumone. – Propose Beatrice.
Fu proprio mentre una coinvolgente musica latino-americana si
decideva ad uscire dallo strumento di Beatrice, che Rachele irruppe
nella stanza.
- Mi hanno fatto di nuovo la multa! – Esclamò. – Il permesso per il
parcheggio dei residenti era bene in vista questa volta, voglio proprio
vedere cosa si inventano! Ho anche litigato con Alessandro. Dice che
invece di spendere tutti quei soldi in Egitto, mi regala un
mappamondo! Adesso vado a letto e dormo fino a Pasqua!
Tutte la guardarono in silenzio. Gli sguardi delle tre donne adulte
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dicevano: “Sono tutti così i maschi! Non fidarti delle loro
promesse!”. Lo sguardo di Beatrice diceva “dagli un cazzotto! Se
vuoi ti aiuto!".
Poi cominciarono a parlare tutte insieme. Teresa si lamentò
dell’organizzazione dei parcheggi per i residenti in centro città.
Fabrizia raccontò di quella volta che il suo ex marito accettò di
andare in ferie in Croazia e dopo un giorno di permanenza volle
tornare a casa. Marta elaborò una consolatoria teoria, secondo la
quale era molto meglio non andare via da casa durante il periodo
festivo. Beatrice elencò tutte le ragioni per le quali avrebbe rotto
qualsiasi rapporto con un uomo che avesse rifiutato di portarla in
Egitto. Rachele sperimentò sulle altre l’effetto del discorso di addio
al moroso, che avrebbe tenuto incollato al telefono lo sprovveduto
Alessandro, il giorno dopo.
- A proposito! – Ricordò improvvisamente Rachele – il nonno ha
telefonato per dirci che domani va a mangiare con quegli amici di
Ravenna.
- Come sarebbe? – Chiese allarmata Teresa – ma non gli hai detto
che si era impegnato a venire da noi? Ho fatto il brodo! Ho comprato
il salmone, e non i ritagli, quelli che costano meno, un bel pezzo di
salmone affumicato!
- Dice che si è dimenticato. Dice che si era impegnato con loro da
tempo.
- Adesso lo chiamo subito! – E Teresa scattò in piedi.
- Inutile, gli amici passavano a prenderlo alle sette. E’ già partito.
Dorme da loro e sicuramente si è dimenticato il cellulare. – La
bloccò Rachele, occupando la sedia lasciata libera dalla madre.
- Ho fatto il brodo! – Ripeté Teresa, col tono di chi vede naufragare
tutte le speranze in un lago denso e caldo e saporoso di ala di
cappone.
- Ma non sarai mica preoccupata per il brodo vero? – Chiese Fabrizia
e Teresa cercò di incenerirla con lo sguardo.
- Lo mangiamo noi! – Propose Marta – Ci metto due minuti a
preparare i passatelli! – E stava già arrotolandosi le maniche della
tuta.
- Vado a prenderlo! – Scattò Rachele.
- Passa da casa mia – le gridò dietro Marta – in frigorifero ci sono
degli affettati.
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- Io vado a prendere mia madre, – comunicò Fabrizia – stiamo tutte
qui a mangiare.
- Dai Teresa, balla con me – e Beatrice agguantò Teresa con il
proposito di trascinarla in un tango.
Alle nove della sera dell’ultimo giorno dell’anno, quando rientrò a
casa, seguita da una madre eccitata dall’idea di una nottata in
compagnia, Fabrizia trovò sala e cucina trasformate.
In cucina la tavola era apparecchiata con il “servizio buono” di
Teresa. Le sedie erano sufficienti, perché Marta ne aveva portate due
delle sue, ma al tavolo era stato aggiunto il tavolinetto della sala, per
far posto a tutto. Rachele aveva portato la frutta secca, Marta si era
ricordata di certi tortelli di zucca che languivano nel freezer e li
aveva aggiunti ai passatelli, poi aveva predisposto tutto per
un’enorme zuppiera di radicchi con i “bruciatini” e l’aceto
balsamico. Teresa aveva procurato il formaggio di fossa, regalo di
natale di un fratello. Beatrice era andata a saccheggiare, in soffitta, la
piccola scorta di vini e spumanti. In mezzo alla tavola c’era un
grande vassoio di tartine al salmone, con le olive e con quel tale paté
che Cosetta aveva portato da Parigi.
In sala, il divano era stato accostato al muro e Teresa, avvolta in uno
scialle, si stava esibendo nella sua versione di una scatenata Lap
dance, sotto lo sguardo scandalizzato di Rachele. Marta aveva
sottratto le lunghe trecce di lucine dall’albero di natale della collega
e aveva addobbato il giardino, aiutandosi con metri di filo elettrico
che avevano atteso quell’occasione per saltar fuori dalla cassapanca.
Alle dieci Beatrice si dedicò al telefono: convinse il moroso che, sì,
si sarebbero visti, ma dopo mezzanotte, mica poteva lasciar sola la
nonna! Poi comunicò agli amici di Fabrizia che lei era partita,
proprio quella sera, per una “tre giorni a Roma” assieme ad una certa
parente alla quale non si poteva negare un favore: povera mamma!
Fu sempre Beatrice che, accaldata per il ballo e già un po’ brilla per
il vino, con grande tempismo, fece saltare il primo tappo di spumante
a mezzanotte in punto.
Se il proprietario del cane incontinente, fosse stato costretto a tornare
sui suoi passi, lungo il sentiero che costeggia la vecchia palestra,
poco dopo la mezzanotte dell’ultimo giorno dell’anno, non avrebbe
potuto fare a meno di sentire la musica e le risate che, attraverso il
giardino della grande casa, arrivavano fino alla strada.
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Poesie della città
di Maria Aulizio
Città vecchia
Cuore antico
nascosto nei vicoli angusti
rumori che irrompono
col fragore
di una città che fugge
finestre deserte
imprigionate
dietro sbarre di ferro
in pareti scolpite
lapidi in memoria
sfida al divenire incessante
all’invenzione continua
al prodotto alienante
di una civiltà
che non può aspettare
rimbalzo
sui muri
di suoni lontani
ovattati
di voci
di chi narra storie
con ritmi e scansioni
d’un tempo
custoditi
nel cuore dei vecchi
racconto arcaico
mai scritto
raccontato
elaborato
esaltato
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nel sogno
di un passato vivo
e non ancora
vissuto del tutto
città vecchia
odore stantio
familiare
di cose ammucchiate
odore di angoli
a marcire nell’umidità
di un’ombra perenne
sconosciuta al sole
città vecchia
dove uomini antichi
portano addosso abiti
impregnati
di odori stagnanti
e giacche
ben serrate sul petto
che fanno da schermo al cuore
per salvare
ciò che resta di loro.
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Per non morire di vita
Fuggire in un altrove
un cortile rosseggiante di gerani
esplosione in barattoli di latta
ciarpame ammucchiato
nell’angolo di Pigrin
il robivecchi di Schiavonia
la vecchina
che tiene pulito il suo territorio
con la granata di saggina
bambini scalzi
urlanti
in un carosello di corse a rimpiattino
intonaco che cede
a grossi frammenti
ferite rimarginate dal tempo
ricordi che compaiono
e si attenuano
fino a dilatarsi
nel respiro del presente
visione di un mondo
che non è riuscito
a sciogliere nel pianto il dolore
cortile della memoria
di corteccia antica
dialogo solitario
messaggio dell’inconscio
contenitore di sogni e fantasie
che non riesce a sedare
mediatore
tra il sogno che resiste
e il tempo di vivere
un altrove
per non morire di vita.
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Donde habita la ausencia
di Maria Esther Funes Zannier
.....bocanada azul
tu ausencia.
(Carlos Norberto Carbone)
Hoy estoy de nuevo aquì
Hoy estoy de nuevo aqui
en este cuarto.
Entre los salmos de los grillos
en este lecho donde
duerme la luna
y una hebra de lágrima
camina lenta y
cae
en la boca
que no canta plegarias
por la puerta entreabierta
se cuela el cielo
callado
y por la grieta del muro
se escapa la muerte.
18
Dove risiede l’assenza
di Maria Esther Funes Zannier
..…folata blu
la tua assenza
(Carlos Norberto Carbone)
Oggi sono di nuovo qui
Oggi sono di nuovo qui
in questa stanza.
Fra i salmi dei grilli
in questo giaciglio dove
dorme la luna
e un filamento di lacrima
cammina lenta e
cade
nella bocca
che non canta preghiere
attraverso la porta socchiusa
ci si cola il cielo
zitto
e attraverso la crepa nel muro
scappa la morte.
19
(Dedicado a mi hija
Gabriela)
Libre
No te aprisiones
en el tormento de
las lágrimas.
Arma tu mochila
y vete.
Busca un sol calienta
tus huesos.
Rompe cadenas
la libertad
es dejar fluir
el ser.
No insistas en
el tormento
y la plegaria.
Sé tù.
Alegria, agua viva
roca y espuma
esfuerzo y paz
amor y tolerancia.
Entonces.
Solo
entonces
florecerà tu sendero.
20
(dedicato a mia figlia
Gabriela)
Libera
Non ti imprigionare
nel tormento
delle lacrime.
Prepara il tuo zaino
e vattene
Cerca un sole scalda
le tue ossa.
Rompi catene
la libertà
è lasciare scorrere
l’essere.
Non insistere
nel tormento
e nella supplica.
Sii tu.
Allegria, acqua viva
roccia e schiuma
fatica e pace
amore e tolleranza.
Allora.
Solo
allora
fiorirà il tuo sentiero.
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Partida
Porque partieron los amados
solo el silencio
desanda las habitaciones.
Porque partieron los amados
el mate envejece en
la cocina
tejiendo esperanza sin retorno
Gieco y Charlie
susurran su música sin olvido.
Porque partieron los amados
la memoria
pinta retratos de colores
seduce los espejos
devela los secretos de los libros
y en un exceso de imaginación
sobre blancos papeles
caminan las historias.
Porque partieron los amados
mi otoño es más intenso
bordado de despobladas voces
me abandono
al borde del olvido
mi mano de alfarero
atrapa un cielo azul
el diáfano del mar
y un intangible amor
22
Partenza
Perché se ne sono andati gli amati
solo il silenzio
percorre le stanze.
Perché se ne sono andati gli amati
il mate invecchia in cucina
tessendo speranze senza ritorno
Gieco e Charlie
sussurrano la loro musica senza dimenticare.
Perché se ne sono andati gli amati
la memoria
dipinge ritratti a colori
seduce gli specchi
rivela i segreti dei libri
e in un eccesso di immaginazione
su bianche carte
camminano le storie.
Perché se ne sono andati gli amati
il mio autunno è più intenso
ricamato di spopolate voci
mi abbandono
sulla soglia della dimenticanza
la mia mano da ceramista
afferra un cielo azzurro
il diafano del mare
e un intangibile amore
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“Cayendo de la luna está la casa los
Geranios le inventan costelados naufragios”
(Teresita Flores)
La Casa
Tus puertas añosas me reciben.
Cómo estas después de tantos años
papá es el àngel azul
que me acompaña.
Recuerdo tus historias.
Estás en el brote más alto de mi asombro.
Busqué otros planos de existencia
valiosa
de amor de hijos que trasciendan
rechazando la realidad
vulgar y cotidiana
asomada como agonía
entre el amor y su tiempo.
He vuelto, con el
brillo dorado de mi otoño.
Y tú
centenaria de recuerdos
cuéntame como las historias
de huarpes y conquistadores
del brote del rosal y de las vides.
Tu voz de cuando en cuando
es un cristal sutil que
me interrumpe.
Antigua carcaza de nostalgia
donde se fueron los amados.
Crujen en el aire los recuerdos
se alucinan detrás
las ventanas.
Compartamos la historia
que habita entre tus muros.
Hay un cielo, un sol, una esperanza
un vino rojo en la llanura
y un viento claro que lo atrapa.
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Cadendo dalla luna c’è la casa i
gerani le inventano costellati naufragi
(Teresita Flores)
La casa
Le tue porte anziane mi accolgono.
Come stai dopo tanti anni
papà è l’angelo azzurro
che mi accompagna.
Ricordo le tue storie.
Ti trovi nel germoglio più alto della mia meraviglia.
Ho cercato altri piani d’esistenza
preziosa
d’amore di figli che trascendano
rifiutando la realtà
volgare e quotidiana
affacciata come agonia
fra l’amore e il suo tempo.
Sono tornata, con la
lucentezza dorata del mio autunno.
E tu
centenaria di ricordi
raccontami come le storie
dei Huarpes e dei conquistatori
del germoglio del roseto e delle viti.
La tua voce di tanto in tanto
è un cristallo sottile che mi interrompe.
Antica carcassa di nostalgia
dove se ne sono andati gli amati.
Scricchiolano nell’aria i ricordi
si confondono dietro
le finestre.
Condividiamo la storia
che abita fra le tue mura.
C’è un cielo, un sole, una speranza
un vino rosso nella pianura
e un vento chiaro che lo afferra.
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(dedicado e mis hijos que tuvieron
que buscar su futuro fuera del país)
Los Hijos
La historia comenzó
cuando la noche se quiebra a la mitad
sin tiempo desde lo profundo.
Esqueleto de niebla desdibujaron los pichones
y la lluvia desbordó mis ojos
un sol de espanto abandonó los días.
En este universo precario armé el nido.
Libré batallas
navegué el espacio.
Como tren sin luces
caminé en la noche.
Arropé los pajaros.
Despojé el invierno.
Puse un arcoiris.
Fui soldado que lucha
frente a su propio abismo.
Les crecieron alas, brillantes lustrosas
con el color del futuro
les pinté los ojos.
Llevan el sol en el pico
navegan espacios.
Atraviesan mares
en el horizonte azul, suena su canto
de miel y esperanza.
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(dedicato ai miei figli che hanno dovuto
cercare il proprio futuro fuori dal paese)
I figli
La storia è iniziata
quando la notte si spezza a metà
senza tempo dal profondo.
Scheletro di nebbia si sono sfuocati i piccioni
e la pioggia ha straripato i miei occhi
un sole spaventoso ha abbandonato i giorni.
In questo universo precario ho costruito il mio nido.
Ho condotto battaglie
ho solcato lo spazio.
Come un treno senza luci
ho camminato nella notte.
Ho coperto gli uccelli.
Ho denudato l’inverno.
Ho messo un arcobaleno.
Sono stata soldato che lotta
di fronte al proprio abisso.
Gli sono cresciute ali, brillanti splendenti
con il colore del futuro gli ho dipinto gli occhi.
Portano il sole nel becco
solcano spazi.
Attraversano mari
nell’orizzonte blu, risuona il suo canto
di miele e speranza.
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Il più bel regalo di Natale
di Danila Rosetti
Era un venerdì freddo e buio, uno di quei giorni così rugoso che non
vedi l’ora che finisca la notte per respirare un po’ di luce fresca e
onesta. Già di prima mattina incominci a scalpitare, pensi che ormai
è passata anche questa settimana, basta ancora un piccolo sforzo e
via si vola come un siluro in tutti gli impegni del post-lavoro. Il
venerdì poi attira come una calamita, sembra che ci sia solo questo
giorno per gli incontri, i seminari culturali, l’inaugurazione di
mostre, le premiazioni, i concerti, gli approfondimenti e chi più ne ha
più ne metta. Solo che non finisci mai, sfori sempre con l’orario,
all’ultimo momento si aggiunge sempre una cosina, un problemino,
un bruscadino di traverso che ti stravolge tutta la scaletta rimuginata
e ripetuta a memoria dalle sei di questa mattina! E vai, ore diciotto, è
finita giusto in tempo per un’occhiata veloce al giornale,
preparazione accurata del borsone da meditazione con le tue coperte,
la borsa con “gli ori”- (e’ burslè) portamonete, documenti di
riconoscimento, fazzoletti da naso, bottiglietta di acqua
possibilmente senza fori, quadernino degli appunti, penna/matita
immancabilmente spuntata, chiavi della macchina, chiavi di casa, sembra che ti debba portare l’equipaggiamento per il Polo Nord,
occhiali di scorta, perché non si sa mai, poi cosa manca, qualcosa
mancherà di certo, parti, saluti, chi c’è, c’è e si lamenta che non
starai facendo troppe cose, alla tua età, che non trascurerai la
famiglia, che cosa ti sarà venuto in mente anche questa volta, con
questo nuovo corso, non bastava che il venerdì facevi già il corso di
yoga, chi ringrazia il cielo che finalmente ti cavi dalle palle che così
la smetti con la solita manfrina sulla televisione che vi sliquida il
cervello, che è la fiction della fiction, che vi dà un’idea rovesciata
del mondo, che per fare le cose devi passare dalla porta e te le devi
guadagnare, che neanche il grillo parlante era più insopportabile e te
lo fa capire alla grande così che quando valichi la porta non sai più
se devi espiare una colpa o devi attraversare le Alpi,
annibalescamente parlando, o devi sentirti liberata. Impugni le chiavi
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della macchina, ti scivolano dalle mani e si fanno tre rampe di scale a
tempo zero, ci metti dieci minuti a ritrovarle che si sono incuneate
nel didietro del didietro della cassapanca e dopo avere smadonnato
perché ti si mettono proprio tutte contro, apri la porta, il pulsante
FUNZIONA, meno male che c’è una cosa che funziona e vai. La tua
bella auto che una volta era bianca e adesso non si sa bene di che
colore sia diventata PARTE, c’è la benzina per arrivare a
DESTINAZIONE. Il traffico è inimmaginabile, non si sa bene
perché ma poco prima di Natale incominciano inspiegabili,
interminabili code, ingorghi, vortici vorticosi di pedoni, biciclette,
motorette, macchinette, guidatori in gara di indisciplina, passano con
il rosso, con il giallo, si fermano incantati quando viene un barlume
di verde, si dimenticano che esiste la possibilità che ci siano due
verdi in contemporanea, sono estimatori di tutti i santi, anche di
quelli ormai dimenticati, quelli inseriti solo nei calendari di frate
indovino, ormai parlano solo ai cellulari, accendono la televisione,
fanno scendere incazzati il bambino che non trattiene più il
bisognino, tirano i panettoni dai finestrini, accendono i petardi dentro
la macchina, la fine del mondo. Trovare parcheggio è un’impresa che
neanche Mennea, avevi un freddo boia ma adesso questo
parcheggino con dieci manovre in venti centimetri, le ruote che si
mangiano il marciapiede, vedrai che ti ha fatto venire una bella
imbes-cia e quando scendi dalla macchina l’aria ti taglia come una
coltellata. Scarichi baracca e burattini, lo sportello ti si incastra nel
marciapiede e ti ci vogliono altri dieci minuti per richiuderlo,
finalmente smonti le tende, sei davanti alla porta d’ingresso della
palestra e tiri un respiro di sollievo. Duecento mega watt di luce ti
sparano nelle pupille dilatate e ti imbarbagliano, cerchi un po’ di
buio per vederci qualcosa. Entri. C’è una fila di sedie, si fa per dire,
cinque poltroncine di legno come quelle delle vecchie littorine dei
treni di trenta anni fa, mi ci sono già sbucanati due paia di pantaloni
della tuta, incastrati nella capocchia dei chiodi lievemente rialzati al
bordo della sedia già di per sé ruvida, di fronte alla palestra “D”, un
fogliettino di carta scritto a mano, appeso alla porta, la tua stella
cometa, non ti puoi sbagliare, quella è la grotta, non fare caso se
adesso esce un alleluia particolare, non è ancora terminata la lezione
di danza del ventre, uno, due, tre, quattro, urla l’insegnante ormai
svociata, uno, due, tre, quattro si affievoliscono i suoni,
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incominciano ad uscire alla chetichella le allieve, alcune con
balconetti mozzafiato, altre vatusse che neanche Veruska, alcune
stralunate, ti sorridono per compatimento, che naspa il corso di
meditazione! Uno, due, tre, tre allieve, più l’insegnante che passa
con l’incensiere per togliere il malodore. C’è già in atto l’effetto
coprifuoco dell’imminente Natale, anche se in verità, anche in
condizioni di normalità, il manipolo è sempre stato ridotto. Stasera
ripasso dei chakra, prima dieci minuti di scuotimento al ritmo dei
tamburi del Bronx, poi sedute a gambe incrociate aspettate la spirale
di energia che esce dalla lampada di Aladino e incomincia ad
avvolgervi nel suo mantello come la madonna della misericordia ma
non ti riesce il viaggio sul tappeto volante, ogni tanto c’è una fermata
imprevista o qualche sosta fuori programma, alcuni colori non
sembrano neppure conosciuti tanto stentano a farsi vedere, insabbiati
nelle paludi dei diverticoli intestinali. A proposito. Raccolta veloce
dell’equipaggiamento e sprintata finale nel bagno. Quando ci sono le
condizioni necessarie e sufficienti i tubi si chiudono e non ne
vogliono sapere, quando il clima è avverso si aprono le cataratte del
cielo e se la ridono, meno tu che a parte che non ti accontenti
dell’aperta campagna, quando c’è, vallo a cercare un wc in
condizioni estreme! C’è, manca tutto quello che serve, ma ce ne
fosse, hai pure la tua trousse che adoprerai alla bisogna. Respiro di
sollievo, viene pure l’acqua da una gomma verdolina che sembra di
dover innaffiare il giardino, ti ci vogliono dieci minuti per rivestirti,
la tua bella borsa tuttofare ancora una volta non ti ha tradita, basta
cercare e ci trovi tutto. Riparti, il corridoio è lungo e da sempre
tappezzato dalle fotografie delle vecchie glorie sportive, quelle belle
fotografie in bianco e nero dove ogni volta che guardi scopri una
faccia che già conoscevi e che oggi ha solo un po’ più di bianco nei
capelli e qualche ruga di traverso. Le panche ti aspettano, c’è solo la
Mary, che già che tu non sei una gran parlatrice, beh con lei è una
bella gara a tirarle fuori qualche parola, meno male che in poco
tempo arrivano anche le altre ragazze, che altrimenti era dura vincere
al gioco del silenzio! Ma chi arriva! Ma veh chi c’è? La Ada!
L’insegnante, quella vera, l’Ada non si offende, è impegnata in uno
dei suoi supertours e allora la sostituisce la sostituta. E’ in una forma
strepitosa, tacchi che te solo a vederli ti vengono le vertigini, punte
che neanche le babbucce delle mille e una notte ci fanno un baffo,
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ride tutta, la sua pelle trabocca di sorriso, ha trovato un venditore di
creme che l’ha trasfigurata, senti i raggi del sole che se non ti
allontani un po’, ti bruci, riparti con i tuoi bagagli e ti accucci nel tuo
solito cantoncino, stuoino, cinture, mattoni. L’Ada vola: i piedi si
tengono così, il pisiforme si appoggia cosà, la gobba no, il gatto, il
cane, l’albero, se vi crolla la gamba, trovatevi un aiutino,........un
tappeto di parole, una cascata che neanche il Niagara, infine
rilassamento, volo di coperte, maglie, maglioni, cappotti…sopra la
testa le risate dal Paradiso, si avvicina il Natale, il comico la fa da
padrone, si sa. Riparte la luce, pupille sparate, chiuse aperte, uno
stress da visita oculistica. Dopo la cuccia, la nanna, ti sembra la
lavanderia pubblica, si piega di tutto, calzini, lenzuolini, giubbetti,
pantacalze, cerniere spalancate, borsoni trabocchetto, una beauty
farm, manca solo il bagno nel fieno, traboccanti specchiere, rimmel,
bagnoschiuma, foulards profumati, non trovo le chiavi, son dentro la
borsa, il problema è che non c’è più la borsa. Ricostruzione in tempo
reale del pomeriggio, come minimo rischi una emorragia cerebrale,
non parliamo della tachicardia parossistica, voli nel bagno, ci vola il
tuo cuore, tu non ci stai dietro, la borsa non è appesa
all’attaccapanni, ricorri nella palestra, la perlustri con gli occhi
sbarrati, non vedresti neanche con il laser. Guardi sotto la panca,
rovisti dentro il borsone, caso mai nella crisi di identità avessi
infilato tutto dentro, eppure no, ti pare di ricordare che una la tenevi
a tracolla e un’altra in mano, ritorni nel bagno, non si sa mai. Niente,
non c’è proprio. Inizi il mesto bilancio delle perdite, passi per gli
euro, non so la cifra esatta ma sai sotto Natale ti porti sempre
qualche cosina in più caso mai vedessi l’occasione della tua vita, la
patente con la fotografia di quando avevi diciotto anni, la carta
d’identità, beh lì c’era una fotografia recente, l’avevo appena fatta, la
tessera coop-conad, il bancomat, le vecchie lire, che fra dieci anni
non varranno più niente ma non te ne riesci a separare, la carta di
credito, la tessera sanitaria, il quadernino dei tuoi appunti, senti i
pezzi traballare, i bigliettini con tutte le annotazioni, trasferite dalla
borsa estiva a quella invernale tutte d’emblée, se no ti perdi le
stagioni e poi cos’altro c’era, di tutto e di meno, adesso quando lo
dirai a casa, non riesci neanche ad immaginare, un misto tra insulti e
compatimento, senti già il freddo della doccia. Esci che sei uno
straccio, pensare a tutti i mali del mondo non fa che aggravare la tua
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situazione, quando uno se le va proprio a cercare col lanternino, code
infinite per la denuncia dei documenti e altrettante per il loro
rifacimento. Va bene, prima o poi doveva capitare, facciamocene una
ragione, non vale la pena tormentarsi oltre. Non vedi più niente, solo
lei è lì, ferma da due ore sulla cassapanca, sdegnata da tutti,
dimenticata dalla sua legittima proprietaria, mogia, scombussolata
dal frastuono, risplendente della sua solitudine. M’illumino di più
dell’immenso, infinita sfinita, l’accarezzo tutta, c’è tutta (chi mai
poteva pensare di prendersene su un pezzo!) apro tutte le cerniere,
tutte le cose al loro posto, il cellulare con tutti i tuoi numeri segreti, il
quadernino con tutti i tuoi pensieri, i bigliettini che conservi da
secoli, gli appunti di tutto quello che devi, vuoi, dovrai fare, siamo
alla trasfigurazione, -u’m’s-ciopa e’còr, u’m’travàlla, l’è e’piò bèll
righèl ad Nadèl - il più bel regalo di Natale.
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Fiorenza
di Giorgia Monti
Fiorenza, nome serioso e démodé, non le si addice per niente.
Lei è una che sognava molto, ci credeva ed è riuscita.
Era l’inizio degli anni settanta - Fiorenza ne aveva otto - quando sua
madre decise per la separazione. Era l’inizio degli anni settanta in
una piccola Forlì…forse per quello crebbe refrattaria ad ogni
convenzione. Non si è mai ritenuta particolarmente audace, voleva
solo sentirsi sé stessa, cioè qualcuno. Ma sarà stato per
quell’ineluttabile sorriso, per quella sua ironia un po’ scomoda, che
gli adulti - insegnanti in primis - e perfino i coetanei, provavano
l’irrefrenabile impulso di tenerla dentro le righe. Praticamente una
missione.
Fiorenza non faceva la diversa, lo era.
Le piacevano i calzoncini corti nell’ora di ginnastica alle medie, rossi
con i bordini bianchi e le piacevano gli occhi furbi dei ragazzotti
sulle sue gambe snelle. Certo che c’era malizia! Tutta quella degli
allora tredicenni con un’implosione di adrenalina in atto. Era bello
quando la provocazione si esauriva con uno sguardo appagato e
appagante. Il fatto - devo ammetterlo - suscitò un discreto clamore,
tanto più che aveva socializzato molto con la Maura, la ripetente. Ma
le catastrofiche ripercussioni sulla sua moralità e sul suo rendimento
scolastico, rigorosamente pronosticate, non ebbero luogo. Con
grande sorpresa degli esperti.
Queste cose le so perché io c’ero. Sì, insomma, non siamo mai state
grandi amiche, ma la conosco da sempre. Stesse scuole, stessa classe
e vite diverse, eppure Fiorenza mi è sempre piaciuta.
In seguito si salvò anche dalla parrocchia - segno che Dio esiste - e
da quelle frequentazioni sinistre ed incongruenti. Adorò solo e
soltanto Don Pietro - alias Peter, così come fu battezzato dalla nostra
classe di effervescenti liceali - che le impartì i primi rudimenti del
“marafone”, confermandole che l’essere veri è il più grande atto di
onestà verso sé stessi ed il mondo e il primo passo verso il cuore di
ognuno.… Retorica? Beh, provare per credere.
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Mi chiedo perché sia tornata, voglio dire a vivere qui.
Fortunatamente con il lavoro che fa non è costretta a rimanere per
periodi troppo lunghi.
Quando in casa parlo di Fiorenza l’atmosfera si elettrizza. Mia madre
comincia a recitare un rosario di nefandezze a proposito delle
famiglie di divorziati e delle devastanti conseguenze sulla prole.
Prova ne è Fiorenza, così irrequieta, quell’anima in pena alla perenne
ricerca di chissà che cosa. Non ha il coraggio di ammettere quanto la
invidia, quanto abbia segretamente ammirato tutta quell’energia,
tutta la sua intraprendenza… tutta quella libertà.
Più divertente è mio padre.
Lui, marito metodico e padre per automatismo. Lui, uomo in falsa
carriera. Lui, che al ruolo di divorziato ha sempre ambito senza mai
riuscire, a questi discorsi s’imbestialisce. Vorrebbe almeno godersi il
suo stato di adultero ordinario senza rigurgiti di coscienza, senza
essere costretto a pensare che poteva scegliere, che poteva essere una
persona migliore. Guardandoli ripeto spesso a me stessa: “perdona
loro perché non sanno quello che fanno”. Sono così concentrati nella
recita della famiglia modello che il minimo fuori programma li
destabilizza. Il giorno che s’accorgono dell’assurdità della loro
condizione questi s’ammazzano, magari insieme, col gas.… la cosa
veramente tragica è che in realtà se ne sono accorti un sacco di
tempo fa e hanno preferito accoccolarsi nel posto più comodo. Quale
succoso frutto di questo sodalizio, io dovrei evidentemente essere lo
specchio della felicità. Appunto.
Quando la madre di Fiorenza si separò fece quello che doveva fare e
si mise a lavorare. La mattina partiva così presto che neanche
riusciva a vederla. La sera era già pronto il pranzo per il giorno
successivo, sempre.
Fiorenza è cresciuta felice, niente urla, piatti rotti, niente pugni alle
porte o contro i muri o peggio. La sera guardava sua madre muoversi
nella casa con padronanza assoluta, la osservava pulire riordinare
stirare cucinare e poi pulire riordinare stirare e cucinare. Comunque
presente, attenta. Non si è mai riconosciuta la sua forza, quella stessa
dignità e determinazione, ma ha saputo trasformare quella carica in
qualcosa di suo da realizzare altrove.
A Fiorenza volevano spegnere i sogni, ecco perché finse a lungo di
non averne, per salvarli. Un diploma in lingue e poi di corsa alle
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Belle Arti a Firenze per specializzarsi in archeologia e restauro. Non
erano secoli fa, ma a quei tempi a Forlì al massimo aspiravi ad un
posto come commessa o “segretaria d’azienda”. Questa volta
Fiorenza sorprese anche me.
In questa città la trasgressione giovanile s’intendeva ancora in modo
diverso e le strade erano soltanto due. O frequentavi Rimini e
Riccione e aderivi a tutte le nuove tendenze - dai funky-freak ai dark
fino all’avvento dell’house -, cavalcando le prime luci dell’alba
come un pioniere alla conquista del West, o restavi a fare il tossico a
Forlì per protesta, anche se non si è mai saputo esattamente contro
cosa. Fiorenza no, senza atteggiamenti da intellettuale o snobbistici
di sorta, lasciava che le mode le passassero attraverso ereditandone
sempre e solo lo spirito più sano e genuino: il divertimento.
Oggi molte cose sono cambiate e anche se non proprio in modo
migliore, molte più scuole ti preparano a partire e per fortuna molti
più giovani partono.
Io no, sono sempre rimasta. Responsabile vendite, che poi vuol dire
“segretarione” in “aziendone” dove imprenditori ruspanti - cresciuti
a sangiovese e salsiccia - sciorinano tutto il loro sapere in materia di
dialetto, bestemmie e belle gnocche. Ma negli affari riescono bene.
Del resto poi si sa: gente “spagogna” e laboriosa in quel di Romagna
e grazie a questa terra prospera e generosa io posso farmi le ferie ai
Caraibi.
Ripensandoci, Fiorenza ha un’ottima ragione per essere qui: sua
madre. Il passare del tempo è l’unica legge al mondo uguale per tutti.
L’ho incontrata per la prima volta un mese fa al discount, sportiva
come sempre, ma molto più magra di prima. Era con un uomo
bellissimo, così bello che non riuscivo a capire. Poi ho sentito alcuni
ragazzi mormorare cose tipo “…le piace la roba grossa…il negro…”
e allora ho capito, ho capito perché in quegli occhi c’era qualcosa
che non avevo mai visto prima. E dire che Vasco ce lo insegnava
tanti anni fa… ma siamo proprio sicuri che la colpa sia tutta
d’Alfredo?!
Alyune è ricercatore. Si conoscono da otto anni. S’incontrarono a
Parigi a una conferenza sul carbonio 14. Mentre li guardavo uscire
con in mano le sporte della spesa mi sono sembrati in equilibrio.
Difficile, ma in equilibrio.
Giuliano lavora in banca. L’ho conosciuto in spiaggia a Cervia tre
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anni fa, ma potrebbero essere trenta. La partita, la moto, gli amici e
la birra. Moto e birra piacciono anche a me, ma non lo sposo. Da
qualche parte deve essermi rimasto un sogno.
Quando l’ho rivista ieri in centro Fiorenza era da sola. Abbiamo
preso l’aperitivo insieme, un rituale molto in voga in questa
rinnovata Forlì - fanalino di coda della modernità - e che - ebbene sì,
confesso - trovo anch’io davvero stuzzicante. Infatti ce ne siamo fatti
due. Fissando il rosso del suo “Americano” Fiorenza mi ha detto:
“Vogliamo un figlio”.
“Ma sei sicura?” ho chiesto senza nemmeno rendermene conto.
“Mi trovi ancora troppo giovane?” il sorriso acceso, benevolo.
“E il tuo lavoro?” ho continuato vigliacca.
“Io sono il mio lavoro”. Affermazione più che esatta.
Non si è turbata neanche un po’. Mi sono scolata il mio mezzo
bicchiere d’un fiato e l’ho guardata dritto in faccia con l’alcol che mi
pungeva gli occhi. E’ stato in quel preciso momento che me la sono
rivista sfilare davanti dentro i suoi calzoncini corti.
“Sai, nel salto in alto non eravamo brave per niente, ma io non ho
mai più visto nessuno correre veloce quanto te. Eppure mi sa che a
resistenza ti ho battuta alla grande”, le parole mi si sono rincorse
senza darmi il tempo di pensare… la sensazione improvvisa di aver
finalmente preso coscienza di me.
“Non ne ho mai dubitato” è stata la sua risposta.
Siamo uscite e abbiamo camminato insieme fino a piazza Saffi,
ampia e vuota come sempre. La grande novità sono gli sguardi
inquieti degli extracomunitari - acini spersi ciondolanti agli angoli che non sai mai a che cosa stanno pensando… chissà, forse solo a
casa loro.
Prima di salire sul tram Fiorenza mi ha detto: “Mi sei sempre
piaciuta Betta”.
Stavo quasi per ringraziarla, ma poi ho risposto semplicemente:
“Anche tu”.
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Io: l’emigrante
di Marialuisa Memma
Mi sorridi e mi chiedi: “Dai, raccontami ancora come è stato quel
viaggio.”
E io “ma Lalla, ancora vuoi che ti racconti di quel viaggio?”
Ammicchi e mi dici “ti faccio un caffè, ti offro una sigaretta e tu
incominci a raccontarmi di quel viaggio che ti ha allontanato da me,
pur sapendo che per te era importante.”
Era il 9 agosto 1980, avevo preso questa decisione qualche tempo
prima.
Mi ripetevo che dovevo dare un taglio al passato, ancora molto
presente, per iniziare un nuovo viaggio.
Il viaggio dell’infanzia e dell’adolescenza era stato veloce ed
eccitante; avevo impiegato vent’anni per diventare una giovane
donna, ma è bastato il viaggio successivo, lunghissimo, attraverso
luoghi e paesi diversi, con soste e permanenze di varia durata, per
vedere, conoscere e sviluppare particolari rapporti e già non ero più
una giovane donna.
Il lavoro mi offriva un’opportunità: entravo a far parte di un gioco
pieno di pericoli e insidie, ma la mia determinazione mi portava ad
affrontare qualsiasi ostacolo.
“Ti ricordo che quel sabato 9 agosto alla stazione non c’era nessuno
a salutarmi. No, sto dicendo una bugia, scusami, una persona c’era,
ma non era la persona che volevo; c’era il “Giulie”, allora era
l’amico più vicino a me. Da allora non l’ho più rivisto.”
In quel periodo troncavo bruscamente tutti i rapporti, con tutti.
Se quel giorno mi fossi concessa l’opportunità di piangere, avrei
respirato con meno affanno; credevo, allora, che le lacrime fossero
sinonimo di arrendevolezza, chissà a chi dovevo mostrare di che
tempra ero fatta.
Durante il viaggio non riuscivo a concentrarmi sulla lettura del
romanzo che mi ero portata, guardavo dal finestrino senza vedere, i
miei pensieri avevano preso la velocità del treno, avevano preso il
tormento dello sferragliare rumoroso sulle rotaie: avrò fatto bene,
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avrò fatto male, avrò fatto bene, avrò fatto male...
La decisione di trasferirmi in Romagna per lavoro, accettando
l’avanzamento di carriera, l’avevo risolta in fretta, ora dovevo
prevedere e valutare la realtà nuova a cui andavo incontro.
Una certezza l’avevo, qualsiasi realtà avessi trovato, una cosa sola
non mi sarei mai permessa: ritornare da dove ero partita.
Chissà perché ero così intransigente con me stessa, chissà perché mi
attribuivo tante colpe.
Negli anni settanta il matrimonio era ancora indissolubile e io mi ero
permessa di rompere quel legame, e in quel posto, nella mia
provincialissima città, non trovavo più il mio spazio.
Mi sentivo una mosca bianca.
Le “comari” non mi affrontavano a viso aperto, ma mi additavano e
bisbigliavano cose terribili su di me e sulla mia separazione, senza
conoscere la verità, naturalmente.
La mamma, afflitta dalle chiacchiere, trovava conforto andando
continuamente in chiesa; a sostenermi in quella situazione difficile
“lo sai bene, c’eri solo tu e naturalmente papà”.
Mentre mi faccio trasportare dal treno, verso la nuova destinazione,
questo mio pesante bagaglio di emozioni si trasforma in un nodo che
mi prende alla gola e, finalmente, si trasforma in lacrime silenziose e
irreprimibili.
Ricordo ancora la signora seduta di fronte a me, nella carrozza, che
mi guarda stupita in modo comprensivo e con discreta intuizione non
mi rivolge nessuna di quelle domande banali e fastidiose.
E via, via si va attenuando il mio tormento, e, nel frattempo, si arriva
alla stazione di Bologna: è tutta bianca!
Sono riuscita a vedere, nella parete della stazione, lo squarcio che la
bomba dell’attentato terroristico, di qualche giorno prima, ha
prodotto.
Le cose che avverto di più sono quel bianco accecante ma opaco
della calce che ricopre tutto e un silenzio stonato, insolito in una
stazione.
In tutto quel dramma che si percepiva, il mio affanno, le mie angosce
emergono: ero talmente immersa, solo, nella mia storia personale che
riducevo tutto il mondo che mi circondava, solo, ad eventi e notizie.
Si riprende mestamente il viaggio.
Nell’ultima ora di percorso che mi avvicina a Faenza, mi accorgo,
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finalmente, di vedere cosa c’è al di là del finestrino: terra di
Romagna, terra scura, grassa e generosa, estesi campi con alberi da
frutta, colline con accurati filari di viti, talmente precisi che
sembrano disegnati con riga e squadra.
Al mio arrivo, l’albergo mi appare confortevole, ancora non sapevo
che avrei dovuto trascorrervi ben nove lunghi mesi. La camera è
grande con pesanti mobili scuri, l’armadio antico ha un grande
specchio che rimanda la mia figura: mi vedo ancora più piccola, il
mio viso... smarrito.
Forza, non c’è tempo per recriminare, e poi è perfettamente inutile,
forza, una bella doccia servirà a rinfrancarmi da questa calda e
pesante giornata.
E poi, ti ho telefonato.
Tu e il tuo piangere a singhiozzi, a differenza di me hai le “lacrime in
tasca”, io, a fare il giullare, a dirti delle cavolate per riuscire a farti
ridere tra le lacrime.
Una cosa, sorellina, non ti ho mai detto: quando mi coricavo in quel
grande letto anonimo, mi mettevo le braccia attorno al petto e mi
abbracciavo, mi stringevo e mi addormentavo pensando alle nostre
chiacchiere fatte sottovoce, per non farci sentire, a quelle confidenze
che ci scambiavamo e che ci hanno tenuto compagnia per tanti anni,
quando ancora dormivamo nella nostra vecchia camera, ricordi?
Ed eccomi a trent’anni con lo spirito pronto a sfruttare l’opportunità
di iniziare un altro percorso di vita completamente diverso dal
precedente: una nuova città mai visitata, incontri con persone mai
conosciute, un luogo di lavoro tutto da reimpostare, colleghe di
lavoro inconsuete e… il dover soggiornare in un albergo.
“Sei ancora curiosa di sapere di quel periodo che ho trascorso in
albergo?”
Mi dici: “curiosissima, e sai il perché? Un po’ invidiavo la tua vita
che immaginavo avventurosa, mentre io mi “trastullavo” con due
bimbi scatenati, un marito rapito dal suo lavoro e una casa che
doveva sempre apparire linda.”
Ti rispondo: “d’accordo”.
I proprietari di quell’alberghetto erano una coppia quanto mai mal
assortita, ma, sin dall’inizio, i nostri rapporti furono caratterizzati
dalla generosità. Cercavano, riuscendoci, di trattarmi come una
persona di famiglia.
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I momenti più tranquilli e sereni li trascorrevamo tutti attorno alla
tavola per la cena serale; a quelle cene partecipavano, assieme ai
proprietari, amici loro, alcuni clienti fissi, avventori, insomma non
sapevo mai con precisione chi o quante persone avrei potuto
incontrare e conoscere; poi, dopo cena, si rimaneva tutti in
compagnia a far chiacchiere o a giocare a carte, nell’assenza più
totale di un televisore!
Al mattino mi aspettava il nuovo posto di lavoro: tutto da
organizzare.
Ricordo che mi bastava attraversare la piazza ed ero arrivata, aprivo
la serranda del negozio Upim e con le tre colleghe si iniziava la
giornata: ero entusiasta, piena di idee da realizzare, avevo la
direzione di un punto vendita che consideravo “mio”, potevo gestirlo
a mio piacimento, pur rispettando i canoni aziendali e come referente
avevo il direttore del punto vendita di Ravenna.
Il negozio era piccolo, incorporato in un vecchio e fatiscente albergo
di Faenza; si parlava da sempre di ristrutturazione, ma ci vollero
diversi anni, molto impegno e tanti sacrifici prima di riuscire a
realizzare quel sogno, sogno che diventa realtà nel 1989!
Noi quattro eravamo denominate le “Colonne portanti” dell’Upim di
Faenza.
Ora mi chiedi: “Come ti sei ritrovata nel passaggio da un negozio
con uno staff di trenta persone a uno di tre persone?”
Be’! Certo lo smarrimento a volte mi assaliva, ma non sono mai
caduta in depressione: c’erano talmente tante cose da affrontare e
risolvere e con le tre colleghe, più o meno della stessa età, si
collaborava con entusiasmo, non sto mentendo, è la pura verità; forse
anche perché con la responsabile che mi aveva preceduto, avevano
trascorso anni allucinanti.
Solo una delle tre colleghe, a voler essere sincera, mi deluse: il
tempo aveva svelato il suo carattere ipocrita e questo fu il motivo per
cui presi le debite distanze da lei, con lei discutevo solo ed
esclusivamente di lavoro. Con le altre due signore, pur avendo
caratteri decisamente diversi, si creò un’intesa di reciproco rispetto e
di stima; ora, siamo legate da una profonda amicizia.
Come vedi, la settimana volava con un ritmo intenso, ma le
domeniche e altre giornate festive erano più lunghe e più
malinconiche: mi ritrovavo a girovagare per la città a piedi e notavo
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un numero irragionevole di biciclette. Forse non sai che, qui in
Romagna, è il mezzo più utilizzato per gli spostamenti, altro che
macchina! Per non parlare dei tram di Faenza! Pare ne esistano solo
due: uno che va e uno che viene, ma a quali orari? Ti metti lì e...
aspetti…. Prendi la “bici” fai prima.
E così mi sono comperata la prima bici della mia vita: una
“Graziella”. Ero molto orgogliosa del mio nuovo acquisto, potevo
girare in libertà, ma attenta a non cadere, vista l’inesperienza.
“Perché ridi?” - ti dico - e tu “Mi fa paura andare in bicicletta, io
preferisco la macchina, mi dà più sicurezza” - e io - “per carità, alla
guida di un’auto e in mezzo al traffico mi sento come nel mezzo di
una “bolgia infernale” non capirai mai quanto è entusiasmante
pedalare!”
Ora vuoi sapere: “Ma le serate non ti venivano un po’ a noia ?”
Precisamente a noia no, ma desideravo qualcosa di diverso da
frapporre, qualcosa di più interessante e l’occasione mi venne offerta
da una cliente che frequentava il negozio.
Vivendo in una piccola città apprendi velocemente che le persone si
conoscono fra di loro, se non tutte, quasi tutte.
Questa amabile signora, tramite l’ufficio di sua competenza, mi
diede la possibilità di acquistare un abbonamento per la stagione
teatrale, e così mi sono gustata tutte le commedie che erano in
cartellone quell’inverno.
Non ti dico l’eccitazione per i preparativi di quelle sere, ricordo che
saltavo la cena e ben agghindata andavo, da sola, a teatro, che
conquista!
Ricordo anche di aver ricevuto un invito per partecipare alle serate
che il “Circolo cittadino” organizzava in bellissime e antiche sale di
proprietà del Comune, situate sopra il teatro.
Mi resi conto subito che ero entrata nel “Sancta Sanctorum” della
città, non a tutti i faentini era concesso questo privilegio. A dire la
verità l’ambiente o, meglio ancora, l’opportunità di conoscere
persone che ostentavano chi erano, cosa facevano o cosa
possedevano, non riuscivano a farmi sentire a mio agio.
In breve, il tutto non fu di mio gradimento, e, dopo alcune serate, a
cui partecipai anche per pura curiosità, declinai altri inviti.
Una cosa molto carina e interessante mi capitò invece visitando la
città, ormai sempre in sella alla mia bici.
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Gironzolando nei giorni di riposo, catturò la mia attenzione un
cartellone posizionato all’ingresso della “Scuola d’Arte Minardi”,
dove erano elencati corsi di pittura, scultura, intarsio e altro, corsi
aperti a tutti, a vari livelli.
Entrai incuriosita e la mia curiosità fu subito appagata da Mariacarla,
la segretaria, che mi presentò l’insegnante Ivana, la quale
gentilmente mi diede tutte le notizie circa l’iscrizione e la
partecipazione al corso di pittura, era ciò che desideravo
intraprendere.
L’ambiente si dimostrò piacevole e stimolante: le persone conosciute
ai corsi serali, serate che non avrei mai voluto avessero fine, erano
persone creative. Ci si confrontava, ci si raccontava, nascevano
sentimenti di stima e di amicizia, si rideva e si scherzava e si
lavorava con tele, pennelli, oli e con serenità si dava voce alle
diverse capacità creative.
Oggi mi manca moltissimo.
Mi mancano i personaggi che ho avuto l’opportunità di conoscere: la
signorina Clementina, bravissima nell’acquerello, zitella per
vocazione. Narrava interminabili storie del suo vissuto, raccontava di
appartenere ad una famiglia importante di albergatori, anticamente
nel suo “Albergo Corona” unico albergo di Faenza, ricordava che i
clienti arrivavano in carrozza...
C’era l’estroversa e simpatica Nives con i suoi dipinti perfetti; Paola
che dipingeva quadri a olio introspettivi dove riusciva a collocare i
suoi spiritelli sempre e dovunque, come una firma.
Poi c’era quel ragazzo, di cui non ricordo il nome, che raffigurava, a
tinte forti e in modo peculiare, una serie di visi di anziani, li
chiamava i suoi nonni.
E poi c’era anche quel tipo stravagante che, dopo aver lavorato di
giorno nei campi, partecipava ai corsi serali di pittura, la sua grande
passione, riusciva a procurarsi dei veri sacchi di iuta per poi
trasfigurare su di essi corpi di innamorati sempre in attesa di eventi.
Poi ho conosciuto... e poi, e poi…
Che bel gruppo, che bella atmosfera si respirava.
Tuttavia però, quello di cui sentivo sempre più il bisogno era un
appartamentino, piccolo, piccolo, ma tutto mio, non ce la facevo più
a vivere in una camera d’albergo, ma le ricerche in merito erano
vane.
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Avevo capito, dalle domande che mi rivolgevano i proprietari, che il
loro modo di agire con circospezione, era dovuto al fatto che ero una
“donna sola”, di questo passo non avrei mai trovato casa! E non
potevo certo sposare il primo personaggio che mi avrebbe
attraversato la strada per far contento l’eventuale proprietario
dell’appartamento.
“Ti giuro - Lalla - è stato il problema più grosso che, in quel periodo,
mi ritrovavo a dover risolvere.”
A quante porte ho bussato ? Un’infinità. Ho incontrato anche persone
maleducate, offensive, non si ha la misura dell’arroganza che assume
il potere fino a che non ci vai a sbattere.
Ma il mio personale “Angelo custode” - e tu sai di chi sto parlando si diede molto da fare e finalmente dopo nove mesi di “preghiere”
firmai il contratto d’affitto: avevo trovato, sì casa, ma, soprattutto
avevo incontrato una coppia di proprietari che non avevano
pregiudizi nei miei confronti, bensì mi accordavano fiducia.
Era una coppia anziana di contadini, avevano investito i loro risparmi
in quell’appartamento che avrebbero abitato una volta andati in
pensione e io avevo, oltre all’obbligo di pagare l’affitto, l’impegno
morale di custodirlo e restituirlo nuovo, come me l’avevano
consegnato: così avvenne. La loro affabilità e generosità la
esprimevano portandomi in dono cassette di frutta a seconda delle
stagioni: non ho mai mangiato frutta così buona.
Non ti sto a raccontare l’euforia e la stanchezza del trasloco, ma ti
voglio parlare invece di una circostanza che mi ha fatto riflettere e
cambiare atteggiamento.
Trovato casa dovevo sistemare la parte burocratica e tra le varie
scartoffie dovevo compilare la pratica di cambio di residenza.
“Tutto normale” - dirai tu.
“E no”- ti rispondo - su questo foglio del comune, che conservo
ancora, c’è scritto “... presenta richiesta di immigrazione....”
Io ero diventata un’emigrante? Era un appellativo che non mi
apparteneva: mi ero trasferita da Cremona a Faenza, praticamente dal
nord ero scesa al sud, non in cerca di lavoro, ma bensì trasferita per
meriti, nella stessa azienda e con grado superiore, insomma avevo
fatto “carriera” e mi si dava dell’emigrante.
Sapevo che gli emigranti erano quelle persone che dal sud Italia
raggiungevano le città del nord, città come Torino e Milano, dove
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cercavano e trovavano lavoro in grandi fabbriche; oppure quelle
genti che espatriavano in Germania, Svizzera, America in cerca di
lavoro e di chimeriche speranze di far fortuna, io proprio
un’emigrante non mi sentivo, lo percepivo come un’offesa.
Poi è arrivato il momento della riflessione: migrare significa
movimento, significa cambiare e le motivazioni possono essere
infinite e io, per motivi personali, volevo cambiare la mia vita, ho
voluto lasciare il mio luogo d’origine per stabilirmi altrove e le
circostanze sul posto di lavoro me lo hanno concesso e con il mio
impegno, la mia serietà e forza di volontà ho realizzato il
cambiamento: quindi ero a tutti gli effetti un’emigrante.
Dopo ventitre anni vissuti in Romagna mi considero Romagnola
d’adozione.
Ora tu mi chiedi se sento nostalgia della città in cui sono nata e in cui
ho vissuto e lavorato fino all’80, ti rispondo semplicemente: no,
nostalgia della città no, poiché penso che si sta bene là dove si vive
serenamente bene; mentre invece ho ricordi struggenti e nostalgie di
persone care, sia le persone care che ci hanno lasciato per sempre, sia
per le persone che amo ma sono costretta ad incontrare e rivedere
saltuariamente.
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Riflessioni sulla solitudine
di Annadele Assirelli
Risveglio
Amore, vorrei che al mattino quando ti svegli ascoltassi in silenzio i
battiti del tuo cuore, aspirassi il profumo dell’inverno, sentissi la
paura della solitudine e, in un momento di abbandono, ti accorgessi
che non sei più solo.
Incontro
Le ombre della sera si accovacciano nelle strade buie.
Ne distinguo una in lontananza: è la tua che cerca la mia anima.
Futuro
Se leggi nel tuo futuro guarda le foglie gialle di una quercia
attraverso i riflessi del cielo. Sembrano anime morte uccise dal
peccato, dolori del rimpianto di una meta perduta.
Dialogo
Al calar del sole quante volte ti ho pensato, amato, discusso...
E tu culli nel tuo cuore le mie parche parole.
La sera
La sera è dolce, i colori tenui, il mare si increspa di onde omogenee.
E’ la calma piatta che prelude all’amore. Solo un pensiero riempie il
mio viaggio verso l’ignoto. Pensami forte, amore mio.
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La mia città a Natale
di Eleonora Benetti
La mia città a Natale sembra impazzita con la gente che corre di là,
altre persone che corrono di qua: insomma non hanno la
tranquillità.
Ma io mi chiedo; perché corrono poi così in fretta? Sembrano
dentro una barzelletta!
La mamma mi dice: "vanno a prendere i regali" io credo, invece,
che abbiano molta ansia che arrivi il Natale chissà perché.....
Magari l'avranno i bambini che la mattina di Natale trovano stupiti
i regali.
Il 24 dicembre corrono ancora di più: forse nel pomeriggio
dovranno distribuire i regali comprati! Chi lo sa?!
Il 25 ciascuno sta in casa propria.
Il 26 sembra che la città sia calma; ma il 27 sono ancora in ansia e
lo sapete perché?
C'è capodanno, tutti aspettano il 2004, tutti a prendere i botti per il
31 notte.
Io ho scritto questo testo il 2 gennaio con la gente in ansia per la
Befana.
Ma perché ci sono le luci nella città, quelle stellone appese in
centro, perché la città non è più normale? Si respira nell'aria
l'elettricità della gente, perché la gente pensa solo a festeggiare il
Natale ma, esso, si festeggia nel cuore.
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Vita quotidiana in città
di Daniela Boccalatte
La piccola strada bianca che stavo percorrendo copriva di polvere le
mie scarpe. Sentivo i sassi sotto i piedi, dovevo stare attenta a non
inciampare nelle buche che qua e là incontravo, ma a quell’ora del
mattino sentivo una brezza così rara e fresca a cui mai e poi mai
avrei rinunciato.
Quella passeggiata, la mattina presto, diventata ormai un’abitudine,
mi dava la carica per tutta la giornata e ne avevo veramente bisogno
e poi c’era lui, che non conoscevo, ma la cui figura era diventata
ormai familiare.
Camminava in senso opposto al mio con un’andatura un po’
dondolante, ma con passo sicuro. Percorreva la mia stessa strada e, al
momento di incrociarci, i nostri occhi si sfioravano in uno sguardo
sempre più intenso.
Questo creava in me ogni giorno un’emozione nuova.
- “Il caffè... il caffè è pronto, dai, vieni a fare colazione con noi, su
alzati!”- “La mamma è un ghiro!” Le voci mi arrivano come una doccia fredda e interrompono il mio
sogno. Anche oggi un risveglio forzato. Riuscirò mai a far capire alla
mia famiglia che soffro d’insonnia e che le prime ore del mattino
sono per me le migliori, quelle dal sonno più profondo?
La mia giornata comincia così...
Entro come uno zombi in cucina guardando quelle persone, che
gentilmente mi offrono il caffè, come fossero extraterrestri. Dov’è lo
sconosciuto che bramo di incontrare?
Mi sforzo di entrare subito nel mio ruolo, apparecchio la tavola,
sorrido facendo capire che apprezzo molto il fatto di aver trovato il
caffè pronto e subito vengo bersagliata:
- “Mamma, ci sono i biscotti al cioccolato?”- “Io vorrei un toast, ma subito, devo essere in ufficio presto e se
arrivo in tangenziale dopo le otto rimango imbottigliato nel
traffico!” -
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- “Il latte caldo non c’è?” - “Non metterci lo zucchero, sono a dieta!” - “Mamma nel mio latte mettici due cucchiaini di miele” - “Cara, ci sono tante arance... non le farai andare a male... perché
non mi fai una spremuta!” - “Anch’io la vorrei, allora niente latte, solo caffè, ma, per favore,
passala al colino lo sai che odio le pellicine dell’arancia!” Io continuo, come sempre, a predicare che le arance fanno bene
anche mangiate a spicchi, ma le mie parole anche questa volta
cadono nel vuoto.
Il primo ad uscire di casa è mio marito che lavora fuori città e mi
raccomanda:
- “Ricordati le bollette da pagare, sono vicino al telefono, scadono
domani e vedi di telefonare al muratore, lo sai che c’è solo dalle 12
alle 12,30. Stasera voglio stare leggero, fammi trovare solo un po’ di
verdura cotta...” Un bacio frettoloso e via...
Dopo un po’ anche i figli escono di casa, non prima d’aver litigato
sulle priorità del bagno.
- “Ciao mamma, vado in biblioteca a finire la relazione” - dice la più
grande.
- “Mamma, mi devi firmare il compito in classe, presto!” - dice il
secondo.
Mai una volta che riesca a farmelo vedere con calma: sempre
all’ultimo minuto. Poi, mentre do un’occhiata veloce al compito,
aggiunge:
- “Mamma come mi sta questa felpa? Non ti sembra un po’ sporca?”
- “A me pare pulitissima, l’hai messa solo una volta e sta proprio
bene con i pantaloni a quadri!” - Rispondo sperando di aver esaurito
tutti i suoi dubbi.
- “No, vedi c’è un’ombra qui, in fondo alla manica, non vorrai mica
che vada in giro come uno straccione! E’ meglio quella blu, però ha
una piega nella manica, me la puoi stirare? Intanto io passo il phon
sui capelli!” Marco frequenta la prima superiore e da quando è in banco con
Lucia, ho notato che sta attentissimo a come si veste, consuma
flaconi di deodoranti e dopobarba, anche se non ha ancora nemmeno
l’ombra di un pelo. Poi gli è venuta una vera e propria fobia delle
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pieghe, non ne vuole vedere né sui pantaloni, né sulle felpe e
nemmeno sulle magliette che porta a contatto della pelle, secondo lui
si dovrebbe stirare di nuovo tutto prima di indossarlo.
Finalmente anche loro escono di casa e mi lasciano il bagno libero.
Accendo la radio: la musica mi mette di buonumore. Sono le otto
meno un quarto e alle nove devo essere in ufficio.
Inizia la corsa contro il tempo.
Mi lavo e mi vesto velocemente, poi comincio a rifare i letti; le
camere dei ragazzi sono un vero disastro ci sono vestiti dappertutto.
Inizio a piegarli con cura, poi, guardando l’orologio li appoggio
velocemente sulle rispettive sedie dando alle camere una vaga
parvenza di ordine.
Sparecchio la tavola e lavo le tazze, prima però, metto su l’acqua per
cuocere il riso, così sarà solo da riscaldare e condire per pranzo.
Suona il telefono: è mio marito.
- “Che confusione, sembra di telefonare ad una discoteca!” - “E’ la radio...” - ribatto.
- “Volevo solo ricordarti che oggi possono circolare solo le targhe
dispari, lo sapevi vero? Stai attenta a non prendere una multa!” - “Certo che me ne ricordavo” - mento - “anzi stavo proprio per
uscire di casa...” - “Ah, un’altra cosa: quando vai al supermercato, tesoro, prendimi
anche il giornale, che io non l’ho comprato!” Lo saluto e intanto guardo l’orologio: le 8.20 non ce la farò mai!
Mancano ancora cinque minuti alla cottura del riso, ma lo scolo
ugualmente. Lo rimetterò poi a cuocere insieme al condimento.
Decido di non pulire il bagno, lo farò al ritorno.
Il mio orologio da polso segna le 8.30 quando esco di casa
considerando che rimane indietro di cinque minuti la settimana e che
tutti i lunedì lo metto avanti di 10 minuti per essere in vantaggio,
calcolo velocemente che, essendo giovedì, dovrebbero essere più o
meno le 8.28.
Scendo le scale di corsa e mi ritrovo addosso Naika, il nostro cane,
che mi lecca la faccia e mi lascia l’impronta di due zampate sul
cappotto. Sì, lo so, dovrebbe mangiare, ma ora proprio non posso,
mangerà al mio ritorno.
Salgo in macchina e schiaccio l’acceleratore. Cambio però il
percorso quotidiano per non rischiare di incontrare un vigile, meglio
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evitare i semafori.
L’andatura della mia automobile aumenta progressivamente; suono il
clacson ad una persona anziana che va in bicicletta quasi in mezzo
alla strada; do i fari ad una macchina che sta uscendo da un cancello.
Eccomi finalmente all’ultimo incrocio, al semaforo scatta
l’arancione, metto la freccia e schiaccio l’acceleratore, il rosso scatta
proprio quando sono in mezzo all’incrocio, riesco a passare.
Arrivo in ufficio senza aver incontrato un vigile, ce l’ho fatta!
Guardo di nuovo l’orologio: sono in ritardo sull’orario delle targhe
alterne, ma in anticipo sull’orario di lavoro, comincio subito.
Alle 10.30 i responsabili degli uffici vengono convocati per una
riunione sulla riorganizzazione. Sono ancora nell’ufficio del
direttore, mentre furtivamente guardo l’orologio: le 12.20. La
riunione si protrae fino alle 12.45. Appena rientro nel mio ufficio mi
precipito al telefono e compongo il numero del muratore. Una vocina
flebile, sua madre, mi risponde che è già uscito e che non sa a che
ora rientrerà la sera, e che, dopo cena, andrà subito al circolo.
Alle 14 esco dall’ufficio e vado verso casa. Per strada mentre penso
al pranzo realizzo che manca il pane. Il forno ormai è chiuso, ma
passo davanti ad una latteria che vende anche generi alimentari.
Metto la macchina con due ruote sul marciapiede, accendo le luci di
emergenza e attraverso la strada tra le auto già in coda verso la zona
industriale, per il turno del pomeriggio.
Riesco a rimediare tre panini e un po’ di piadina. Mentre pago scorgo
un signore che sorseggia il caffè tranquillamente leggendo il
Corriere, sarei quasi tentata di chiedergli se me lo vende (il giornale)
ma poi mi trattengo e lascio perdere.
Mio figlio Marco è già rientrato affamato come al solito e lo trovo
che sgranocchia patatine.
- “Come mai non ho visto la ciotola di Naika?” - chiede.
Gli spiego con calma che non sto trascurando il suo cane ma che
sono dovuta uscire prima di casa e lui, un po’ offeso, va in giardino
ad occuparsene. Intanto preparo il pranzo e finalmente ci mettiamo a
tavola.
Sto già sparecchiando quando sua sorella arriva tutta trafelata e
chiede di essere accompagnata in stazione: deve consegnare una
relazione all’università, quel pomeriggio, ed è l’ultimo treno utile per
arrivare in tempo.
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Anche oggi salta il pranzo ed io le preparo un panino per il viaggio.
Più tardi riassetto la cucina, pulisco il bagno, lavo qualche
indumento.
Suona il telefono: è la ex-maestra di scuola materna di mio figlio,
che per me è anche una cara amica; mi parla della recita scolastica
che vorrebbe realizzare con i genitori della classe e, memore dei
lavori realizzati insieme, mi chiede di aiutarla a stilare il copione:
l’ambientazione è nella notte di Natale, ma i protagonisti saranno i
folletti, argomento appena svolto in classe.
Non mi tiro indietro e, visto che la prima riunione si terrà il sabato
successivo, le prometto di preparare già qualcosa per quella data.
Mio figlio mi chiede di aiutarlo ad eseguire il compito di inglese che
si rivela più difficoltoso del previsto, tento per un po’ di spiegargli le
regole grammaticali, ma vedo che si spazientisce, anche perché deve
ancora studiare storia e oggi ha l’allenamento di basket. Mi faccio
comunque promettere che il giorno successivo avrebbe riguardato
tutto, anche se so già che non succederà.
Sono già le 18 quando suona di nuovo il telefono: è mio marito.
- “Sono appena uscito dall’ufficio, fra tre quarti d’ora sarò a casa,
vado io a prendere Marco. Stasera c’è la partita, dobbiamo cenare
presto, ciao a tra poco!” Mentre riattacco il telefono, i miei occhi si posano sulle bollette
grappettate, le prendo e mi precipito fuori di casa, prima, però, provo
a telefonare al muratore: niente, nessuna risposta.
L’ufficio postale è ancora aperto e mi metto in coda, poi corro al
supermercato e, appena entrata, cerco con gli occhi il quotidiano che
mio marito desidera, ma non lo vedo.
Ci sono tutti: il Carlino, la Voce, il Momento, ma il Corriere no. Una
commessa mi conferma che è terminato, comunque comincio a
pensare alla cena. Scelgo e peso finocchi, cavolfiore, broccoletti e
carote, poi un po’ di carne, il latte per domattina.... Al banco
gastronomia c’è troppa gente e opto per il prosciutto confezionato.
Al reparto surgelati mi attirano gli spinaci in offerta e le cotolette di
pesce: ne faccio un po’ di scorta.
Prima di andare a casa dirigo l’auto verso il semaforo, all’angolo c’è
proprio un’edicola e lì trovo finalmente il quotidiano.
Arrivata a casa, mentre scarico le borse dalla macchina, vedo mio
marito che sta parcheggiando, scende anche mio figlio con il suo
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borsone sportivo. Mi aiutano a portare in casa la spesa mentre
chiedono:
- “E’ pronta la cena?” Mentre sistemo la spesa passo mentalmente in rassegna i tempi di
cottura delle verdure che ho acquistato al supermercato e, nella
classifica stilata, al primo posto compaiono gli spinaci surgelati, per
cui la scelta è presto fatta.
Accendo il fuoco sotto la graticola e apparecchio la tavola.
Il giornale ha tenuto occupato mio marito solo una decina di minuti e
si siede a tavola dicendo:
- “Ho una fame da lupo” Ma non doveva stare leggero e mangiare solo un po’ di verdura? Per
fortuna è avanzato un po’ di riso, ne faccio un bel piatto e lo porto in
tavola; per secondo carne ai ferri e contorno di spinaci.
Va tutto bene, fino alla domanda fatidica:
- “Cosa ha detto il muratore?” Spiego con calma che non sono riuscita a trovarlo e naturalmente
questo lo fa alterare...
- “E’ mai possibile che devo occuparmi io di tutto? Dovrò telefonare
io, che sto fuori tutto il giorno, al muratore, mentre tu che sei sempre
a casa, te ne dimentichi! Così i giorni passano e quello chissà quando
verrà a vedere il lavoro da fare!” - Poi continua:
- “Quando chiedo qualcosa in questa famiglia, nessuno lo fa mai!”
(Mentre nella mitologia greca nessuno era Ulisse, in casa nostra
nessuno sono io).
Subito si alza di scatto, va al telefono e compone il numero del
muratore.... naturalmente lo trova e concorda subito per
l’appuntamento.
- “Ecco fatto, ci vuole tanto?” - Dice soddisfatto rimettendosi seduto
a tavola.
Subito dopo, però, si rialza guardando l’orologio e dice:
- “Andiamo, la partita sta per cominciare!” Come, di già? Mi sono appena seduta a tavola, ho messo in bocca
solo due o tre bocconi... ma per lui è già tardi, anche se in realtà
occorrono solo pochi minuti per arrivare al palazzetto...
- “Questa è una partita importante, vedrete quanti tifosi avversari, sul
giornale è scritto che hanno organizzato quattro pullman, bisogna
arrivare presto, lo sai che voglio sedermi sempre al mio posto!” -
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- “Mamma dov’è la bandiera? Me l’hai stirata? E le sciarpe, dove
sono?” La bandiera è stirata, ma le sciarpe sono ancora stese in lavanderia,
corro a prenderle... sono un po’ umide, potrei asciugarle con il phon,
ma mio figlio, con la faccia contrariata, me le prende dalle mani.
- “I cappellini? Non avrai per caso lavato anche quelli?” - “Assolutamente no, dopo quella volta che si sono ristretti, non ci
penso proprio a lavarli di nuovo, guarda nello zaino!” - Rispondo.
Una volta recuperato tutto il materiale i due sono pronti e mi
guardano con aria interrogativa:
- “Come, tu non vieni?” - “Ma, veramente...starei a casa volentieri e poi... Federica non è
ancora rientrata... dovrà cenare... ” - azzardo.
- “Lo sapevo, anche oggi trovi una scusa, ma perché ti abbiamo fatto
l’abbonamento? Tanto a te non interessa minimamente il basket!” Sentenzia mio marito con rimprovero.
Veramente, non ho certo chiesto io l’abbonamento: mi hanno fatto...
“una sorpresa”!
Guardo la tavola apparecchiata, il mio piatto ancora pieno e dico
eroicamente:
- “Okay, vengo con voi!”- “Va bene”- Rispondono sorridendo - “ti aspettiamo in macchina,
ma fa’ presto, siamo già in ritardo!” Sparecchio la tavola buttando letteralmente piatti e bicchieri dentro il
lavandino, mi metto il cappotto e mi precipito di sotto.
Ancora una volta Naika mi corre incontro chiedendo il suo pasto,
questa volta corro a prendere la sua ciotola e le porgo le crocchette.
Scodinzola felice.
Spazientiti i due tifosi cominciano a suonare il clacson.
Appena salita in auto, partono a tutto gas brontolando e, come se non
bastasse, durante il tragitto, viene fuori la discussione sui pasti di
Naika che non dovrebbero essere troppo ravvicinati, così si
raccomanda il veterinario, ed io mi domando ancora una volta chi
nella nostra famiglia ha voluto il cane.
Entriamo nel palazzetto completamente vuoto, i giocatori non sono
ancora usciti neppure per il riscaldamento.
Prendiamo posto sulle gradinate vuote nella solita fila, ci sediamo nel
solito posto.
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Dopo circa 20 minuti i giocatori entrano in campo per il
riscaldamento e arrivano i pullman dei tifosi avversari che si
posizionano esattamente sulle gradinate del lato opposto al nostro,
ben attrezzati di megafono, tamburi, trombe, striscioni e bandiere.
- “Ecco, vedi, abbiamo fatto appena in tempo, te l’avevo detto che
sarebbero stati in molti” - dice mio marito soddisfatto.
In realtà le gradinate dove siamo seduti si riempiono solo poco prima
dell’inizio della partita.
I tamburi rullano per tutto il tempo, i cori ininterrotti riempiono la
mia testa di frastuono.
Rientriamo a casa verso le undici. Noto sul tavolo della cucina i resti
della cena frugale di Federica che stranamente è già a letto.
Si è addormentata con la luce accesa e il libro aperto, piano piano lo
tolgo e spengo la luce.
Mio figlio, come di consueto, mi chiama per la buonanotte: gli
rincalzo le coperte, gli do un bacio e passo la mia mano tra i suoi
capelli...
- “Mamma, ti voglio bene, grazie di essere venuta alla partita, ti sei
divertita?” Annuisco sorridendo.
- “Buonanotte mamma, ah, la mia felpa è asciutta?” - “Domattina sarà pronta!” - Rispondo e spengo la luce.
Sistemo un po’ la cucina e metto la felpa sul termosifone caldo.
Vado a letto al buio, mio marito dorme già profondamente: ha avuto
una giornata intensa.
Anch’io sprofondo subito nel sonno, ma come al solito mi sveglio
nel cuore della notte. Guardo furtiva l’orologio luminoso: sono le
due. Sto lì un po’ a pensare, poi mi alzo silenziosamente e vado in
cucina.
Prendo carta e penna e comincio a scrivere:
“Era una notte strana... nel cielo splendeva una luna così luminosa
che rischiarava tutto il villaggio dei folletti...”
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Gocce di ricordi
di Ersilia Coccia
Gocce di ricordi
scendono lievi come rugiada sul giardino della memoria,
velano gli occhi di malinconia
e dimorano in silenzio nel profondo dello spirito.
Gocce di ricordi
illuminano di azzurro la luce degli occhi
e schiudono le labbra in un delicato sorriso.
Gocce di ricordi
regalano emozioni,
disegnano pensieri
come le prime gocce di pioggia che,
incontrando il velo tranquillo di un lago,
creano piccoli cerchi che lentamente si dissolvono…
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E’ la mia fantasia
di Catia Conficoni
Voglio scappare via
Voglio correre lontano
Fuggire con la fantasia
Andare senza la tua mano,
Non ne posso più
E non ne posso più di te
Non ne posso più
E non ne posso più di te
Eppure c’è qualcosa che
Che mi aiuta a vivere
Eppure c’è qualcosa che
Che mi aiuta a ridere...
E’ LA MIA FANTASIA
E’ LA MIA FANTASIA
Resisto ancora qui
Anche quando tu non ci sei mai
Perché non sei come vorrei
Tu non puoi tu non dai
Non ne posso più
E non ne posso più di te
Non ne posso più
E non ne posso più di te
E t’immagino
E t’invento
E vorrei tutto
Tutto quello che non sento
E’ LA MIA FANTASIA
E’ LA MIA FANTASIA
E t’immagino
E t’invento
E vorrei tutto
Tutto quello che non sento
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é con la fantasia che non vedo come sei
é con la fantasia che non vedo
é con la fantasia che tu sei come vorrei
é con la fantasia che t’invento
E t’immagino
E t’invento
E vorrei tutto
Tutto quello che non sento
é con la fantasia che non vedo come sei
é con la fantasia che non vedo
é con la fantasia che tu sei come vorrei
é con la fantasia che t’invento
E t’immagino
E t’invento
E vorrei tutto
Tutto quello che non sento
é con la fantasia che non vedo come sei
é con la fantasia che non vedo
é con la fantasia che tu sei come vorrei
é con la fantasia che t’invento
é con la fantasia……………....
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Una mattina d’inverno
di Antonella Erbacci
Le stagioni si susseguono una dopo l’altra e con ritmo regolare
cadenzano il tempo; ma cosa me le fa distinguere tra loro? Il cambio
degli indumenti nell’armadio, il lavaggio delle tende e un lungo
elenco di lavori da svolgere ognuno nel proprio periodo altrimenti
non si avrà più tempo per farli.
Che tristezza! Ma dove sono andati i colori, gli odori, i sapori, i
suoni? Da quanto tempo sono spariti?
Mi viene un dubbio: forse non sono mai spariti e sono io a non
vederli più.
Ora siamo in pieno inverno e mentre mi reco al lavoro alle 7.30 del
mattino, mentre è ancora buio, io penso già alla cena, cosa manca in
dispensa, quando fare la spesa, quando accendere la lavatrice e
quando stendere i panni. A stirare ci penserò domani. Devo andare a
prendere mia figlia alla stazione. Poi l’appuntamento dal medico per
la mamma. Infine la farmacia. Mi sono ricordata di tutto?
Speriamo! Poi se le metto tutte in fila e mi organizzo, nel poco
tempo che mi rimane fuori dell’orario del lavoro, ce la faccio.
Coraggio! Ce l’ho pur sempre fatta.
E se succede un imprevisto e non riesco più a mettere in fila tutto?
Intanto sono arrivata al lavoro e non ricordo da dove sono passata,
cosa ho visto, cosa ho sentito.
Allora un urlo straziante che sento provenire dal più profondo del
mio corpo, esplode togliendomi quasi il respiro. E’ un urlo
silenzioso, che sento solo io e mi obbliga a fermarmi. Devo scendere
assolutamente da questa giostra, che continua a girare
vorticosamente, per capire chi sono, dove sono e cosa faccio, perché
credo proprio di essermi persa.
Sono scesa e mi assale una gran paura: mi sento sola e il vuoto
sembra essersi impadronito di me. Provo un gran dolore e penso che
forse è meglio tornare sulla giostra, non pensare più a nulla e
lasciarsi trasportare.
Ormai è troppo tardi; sono precipitata troppo in fondo e non so
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nemmeno se riuscirò più a riemergere.
Aiuto! Qualcuno mi aiuti! Non mi sente nessuno………quando
all’improvviso sono pervasa da una forte emozione. Ora che mi starà
succedendo?
Mi commuovo al nascere di questo nuovo giorno, non per l’evento in
sé, ma semplicemente perché me ne sto accorgendo.
E’ meraviglioso!
Vedo cambiare il colore dell’aria: si sta schiarendo e tra poco si
capirà se il sole si farà vedere oppure no.
Ascolto: non c’è ancora molto traffico e sento cantare alcuni
uccellini, poi una serranda che si alza, una finestra che si apre, le
campane che suonano, la porta che si apre e si richiude, passi veloci
che vanno e vengono, un bambino che piange.
Apro la finestra e annuso l’aria: è pungente e fresca. Passa il camion
della nettezza urbana e mi riempio i polmoni di smog. Tra poco
qualcuno inizierà a cucinare e mi arriveranno odori di peperoni, di
cipolla o di chissà cos’altro; odori che in queste viuzze strette,
viaggiano… viaggiano, insinuandosi ovunque.
Un leggero venticello mi accarezza il viso, mi faccio baciare dall’aria
ingorda d’amore e bacio a mia volta desiderosa d’amare e
abbracciare il mondo.
Squilla il telefono! Forza al lavoro!
Risalgo felice sulla giostra pronta ad affrontare questa nuova
giornata.
Oggi, può girare quanto vuole questa giostra; non mi spaventa più,
perché finalmente so, che la posso fermare e scendere a godermi
anche un solo attimo di vita. Non le permetterò più di allontanarmi
da me stessa e di impossessarsi della mia vita.
Ora, in questa mattina d’inverno ho capito di viaggiare in un mondo
meraviglioso, fatto di piccole ma grandi cose: dipende da me la loro
grandezza e la loro bellezza.
Ho capito che più duro e difficoltoso è il viaggio, più bello è il luogo
dove si arriva.
Ho capito che prestare attenzione al mondo è come prestare
attenzione a sé stessi.
Ho capito di vivere, non solo perché sono nata, ma soprattutto,
perché consapevole di esserci.
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L'alba di una nuova vita
di Barbara Gaudenzi
Era l'alba di una mattinata primaverile quando vidi per la prima
volta in vita mia, il trascolorare del blu notturno nel rosa carico di
un cielo radioso.
Non era molto bello il panorama che si offriva al mio sguardo dai
vetri dell'ospedale Pierantoni, se non per qualche dissolvenza
luminosa della campagna circostante che azzardava una timida ed
impacciata elegia.
Eppure era una visione nuova, perché mai avevo assistito alle
consegne della notte al giorno in un luogo banale come può essere
un qualsiasi quartiere cittadino.
In fondo era solo un giorno come tanti altri, che quasi non ci
accorgiamo che iniziano e subito sono finiti.
Ma per me non era un giorno così e non lo era neanche per mia
figlia che stava bussando alla vita proprio in quel momento; alba
nell'alba.
Non era la prima volta che mi trovavo a partorire, ma era il primo
travaglio vissuto contemplando l'alba.
Pensai che, da quel momento in poi, anche mia figlia avrebbe avuto
tante albe inconsapevoli nella sua città, e che qui si sarebbe
svegliata, preparata e vissuto la sua vita.
Fu un pensiero dolce e rassicurante: sembrava quasi che la città la
stesse aspettando!
E lei fece presto ad arrivare, cancellando ogni dolore con la sua
presenza rosea di piccola donna, gioiosa come un'alba che
racchiude in sé tutte le aspettative del nuovo giorno.
Un'alba come tante, uguale ma diversa, fresca e fragrante in ogni
angolo di mondo.
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Una giornata qualsiasi
di Roberta Fiorini
Sono Anita, ho 40 anni, tre figli, un marito, molte amiche, qualche
amico. Mi sveglio al mattino felice di esserci, ma innegabilmente
preoccupata di riuscire a fare stare tutto nella giornata: ci deve stare
il Piccolo con la sua irrequietezza dei 2 anni e mezzo, con il suo
bisogno di amore, con la sua aggressività e spericolatezza. Poi c’è la
Grande, quasi 17 anni, innamorata, felice, alla ricerca di un suo
equilibrio oltre i genitori; poi la Piccola, 9 anni e mezzo,
determinata, quasi troppo, permalosa, con il rischio che si indurisca,
che perda dolcezza. Infine il Marito, un buon marito, senza dubbio,
ma sicuramente potrebbe maggiormente condividere la gestione
famigliare, dall’ICI ai lavori domestici, ma si sa gli uomini sono
così: vogliono sentirsi amati e partecipi di una famiglia che vedono
però poche ore al giorno. Eppure bisogna riconoscere che se anche
non fanno molto e quello che fanno spesso lo fanno male, comunque
servono, e non solo a due cose (la seconda delle quali è sicuramente
aprire le noci di cocco).
Poi ci sono molte amiche: qualcuna dà e riceve, qualcuna dà,
qualcuna no, comunque nell’insieme, ritengo che gli scambi continui
con le amiche arricchiscano moltissimo la vita quotidiana, aprendo
molti punti di vista; poi c’è la famiglia allargata, ecc. ecc..
Ce n’è abbastanza per spaventarsi, ma quello che più mi spaventa è il
mio bisogno di sentirmi indispensabile agli altri: so che è una grave
forma di egoismo, costa moltissimo, ma non ne potrei fare a meno,
mi fa sentire viva, utile, a volte necessaria. Pago il prezzo e mi godo
questo amore, forse utilitaristico, anche se non so per chi.
Mi sveglia di solito il Piccolo, che arriva di corsa nel mio letto, lo
metto sotto le coperte, mi abbraccia e mi dice: “ti amo mamma”, che
felicità! Ci riaddormentiamo abbracciati fino al saluto della Grande,
che corre a prendere l’autobus, un veloce “in bocca al lupo” per la
verifica di turno e già, ancora a letto, il primo senso di colpa: dovrei
alzarmi prima di lei, prepararle la colazione, chiacchierare, eppure il
letto è così dolce che a fatica me ne stacco alle 7.30: e poi via il
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biberon al Piccolo (rigorosamente dalla mamma), latte cacao, toast,
torta, denti, grembiule, pannolino ecc. ecc.... Alle 8.25, ma più
spesso alle 8.35, tutti pronti per partire con il Babbo.
Ecco i miei 10 minuti per prepararmi: se tolgo gli occhiali davanti
allo specchio mi riconosco, non si vede quell’ombra, quella dura
riga, o ruga, che compare con gli occhiali: sto invecchiando? Certo e
questo tutto sommato non mi angoscia, o per lo meno l’alternativa è
peggio, è riuscire a sincronizzare i tempi con il Marito che mi
preoccupa, i suoi capelli bianchi sono altro dai miei, che vanno
assolutamente coperti, producendo un nero innaturale che fa sparire
ogni dolcezza.
Fortunatamente comunque non posso soffermarmi troppo su queste
sciocchezze, è ora di andare a lavorare: il viaggio d’andata è in
genere una delle mezze ore più rilassanti della giornata, una bella
trasmissione radiofonica ed un datore di lavoro comprensivo mi
risparmiano l’ansia dell’orario e posso godere del paesaggio in ogni
sua stagione.
A quest’ora saremo già al decimo senso di colpa ed è quello di
arrivare tardi in ufficio, mentre l’undicesimo è quello di essere
estremamente rilassata: non devo guardare qualcuno che sale sulle
sedie, che ha bisogno di coccole o fa il muso, devo solo lavorare.
Forse sto banalizzando la mia situazione lavorativa, non è così
semplice, devo cercare di mediare, di capire, di aggiornarmi, ma
tutto sommato non è così difficile perché l’ambiente è abbastanza
sereno, insomma se il mio lavoro lo fa un uomo è molto impegnativo
se lo fa una donna è pur sempre pubblico impiego! Raramente sono
chiamata a vestire abiti non miei, a forzare un mio atteggiamento, più
spesso devo districarmi fra equilibri precari, ma devo ammettere che
per ora, e so che sarà così solo per poco ancora, il lavoro mi aiuta a
trovare sicurezza, entusiasmo e a volte soddisfazioni. Se non
lavorassi forse mi sentirei soffocare da lavatrici, ferro da stiro,
aspirapolvere e panni sporchi, così posso esercitare il pensiero
rispetto al sentimento che pervade la mia vita.
Si fa presto l’ora del ritorno ed il viaggio è diverso perché cascasse il
mondo alle 16.30 devo essere a Forlì: ho i tempi intermedi per ogni
località e se arrivo tardi si adombrano gli splendidi occhi della
Piccola: ci sono, arrivo tesoro, magari c’è traffico, un trattore un
camion, l’autovelox. Poi a prendere il Piccolo dai nonni, baci e
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abbracci e sento lo sguardo e il dubbio della Piccola: lo amerà più di
me? Non amo nessuno più dell’altro, i vostri tre sorrisi sono quanto
ci sia di meglio al mondo, anche se esprimono uno forza, uno
determinazione ed uno dolcezza, ognuno di loro mi riempie la vita
(queste sdolcinature vanno bene sussurrate non scritte).
Si parte poi con ginnastica o musica o la spesa i parenti ecc., si arriva
a casa tardi e qui iniziano i guai, apro la porta terrorizzata pensando
al disordine, alla polvere, ai panni ecc., questa è la vera fatica di
Sisifo, uno pensa con sollievo di aver finito di stirare ed ecco la cesta
dei panni sporchi si riempie nuovamente, si cucina per due ore e
dopo 2 - 4 ore è tutta merda. Ho riflettuto sull’opportunità di farsi
aiutare da una collaboratrice domestica, ma penso proprio che sia
come un amante: crea più problemi di quanti non ne risolva. Per
esempio deve essere in regola, o no? (Ovviamente la collaboratrice
non l’amante) se sì costa troppo, se no mi sentirei una sfruttatrice,
poi non avrei il coraggio di dare ordini, insomma è meglio che mi
arrangi e mi tenga il disordine.
Ogni giorno conto i lavori mentalmente e li ordino, attribuendogli un
tempo di esecuzione, che però non riesco mai a rispettare, è sempre
troppo tardi per la mia tabella di marcia e l’umore non è mai quello
che vorrei: vorrei apparecchiare cantando, coinvolgere tutti nella
preparazione della cena, tenere la TV spenta, per far fiorire il
dialogo. Qualche volta sento che sta andando tutto per il meglio: il
Piccolo mi aiuta, la Grande racconta la sua giornata (e più lei è
innamorata e più io mi preoccupo, però come è contagiosa e
splendente nella sua felicità); a volte invece va tutto storto, si urla, si
sgrida, si piange, il Piccolo morde la Piccola, la Grande si lamenta:
sono come la capra il lupo e il cavolo, e io sogno sentimenti
profondi, idilliaci ma poi devo pensare ad evitare che si sbranino.
So che a volte basta poco, un altro punto di vista, una parola giusta
ed il casino quotidiano può diventare festa, famiglia e condivisione.
Mi aiuterebbe sicuramente una fede prêt-à-porter e non ho ancora
capito se è vero che la cerco e non la trovo, se già cercarla è averla o
se mi piace troppo dire che la cerco e poi cerco di non trovarla mai.
Comunque bene o male ci mettiamo a tavola a volte al completo a
volte no: prima discussione TV accesa o spenta? Seconda
discussione: se è accesa quale programma si guarda?
E siamo all’ennesimo senso di colpa: se si guardano i cartoni il
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Piccolo sta buono e si cena dignitosamente, se si guarda il
telegiornale il suo disappunto per il mondo esplode con lanci vari,
urla eccetera. Ho sempre pensato che i figli viziati e capricciosi
fossero frutto esclusivo di genitori incapaci e senza palle, mi devo
ricredere o inserirmi in quest’ultima categoria. Il Piccolo morde,
urla, tira i capelli, non mangia la verdura, si sdraia a terra ed io
impotente prendo morsi, tirate di capelli ecc., che sia la vecchiaia?
Bene o male si cena e in un attimo è ora di portare a letto i bambini:
tiro fuori dal cassetto la dolcezza, una breve tombola o una
filastrocca, baci e abbracci e spenta la luce una amara
consapevolezza: a nessuno di loro sono riuscita a dare tutto l’amore
che merita.
Via si riparte con i lavori di casa, quelli più silenziosi vista l’ora.
Alla fine di tutto mezz’ora di cyclette con un buon libro, poi a letto.
Spengo la luce e penso all’enorme fortuna di avere tre figli nel loro
letto, il marito nel nostro: forse non ho più sogni da gestire e carte da
giocare, non ho carriere da percorrere, ho i capelli bianchi e molti
sensi di colpa e spesso non so che pesci pigliare con adolescenti in
crescita, piccole pesti, comunque sia spero che tutto questo duri il più
a lungo possibile.
Per ora sono qui, continuo a sbagliare, chiedo scusa per i miei errori
e poi risbaglio e poi richiedo scusa, amo e sono amata (almeno
spero), ogni tanto mi sembra di toccare il cielo con un dito e ogni
tanto mi sembra di sprofondare in un abisso, eppure sono felice di
esserci, ogni giorno, ogni momento, spero di non incontrare mai un
camion sulla mia strada (chissà se in tal caso direi “cazzo” o “mio
Dio”), e di poter continuare ad assolvermi e ad essere sempre questa
pedante cresciuta brava bambina, non so ancora se per vocazione o
se per paura del giudizio degli altri.
C’è una lapide al cimitero ebraico di Venezia che riesce a far
percepire a chi legge tutto l’amore di una famiglia per una donna,
madre e moglie e nello stesso tempo riesce a far capire l’angoscia di
una fine irreversibile e terrena.
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Pedalando... pedalando…
una maestrina negli anni sessanta
di Renata Franca Flamigni
Per tanti anni frammenti della mia infanzia sono rimasti assopiti
all’infuori di qualche accenno frettoloso in famiglia o con mia madre
con la quale ho condiviso tali vicende, ma ora, persone e vicende si
sono messe a chiamarmi con insistenza, sfumando logicamente i
momenti tristi per dare priorità a quelli gioiosi.
Così, mi rammento quando, bambina, fra i tanti giochi di
aggregazione che si facevano nei cortili oltre la corda e la palla,
aveva grande rilievo il dimostrare di saper andare in bicicletta inteso
come valore simbolico di crescita e di autonomia.
Ricordo che per dare dimostrazione di questa mia capacità agli amici
mi allenavo di frequente, inforcando di nascosto la bicicletta
“Bianchi” di mio padre.
Era una bicicletta grande e massiccia, con i freni a bacchetta ed il
manubrio largo, di colore nero. Pedalavo di continuo passando col
corpo sotto al cannone, sul quale mio padre agganciava la cartella di
cuoio, utilizzata come porta documenti, e, al momento di frenare,
buttavo entrambi i piedi a terra dimostrando la mia abilità di ciclista
di appena sei anni se riuscivo a trattenerla in equilibrio senza farla
cadere. Nonostante tutto svariate erano le cadute, le ginocchia
sbucciate piene di croste nonché le suole consumate delle scarpe che
mio padre soleva rinforzare con dei piccoli salvatacchi in metallo a
forma di mezzaluna. I rimproveri conseguenti erano d’obbligo ed io
caparbia insistevo in queste guide finché non divenni padrona del
mezzo sulla bicicletta nuova di mia madre.
Averne una in dono era per me un sogno che si realizzò molto più
tardi, come regalo di promozione per aver superato l’esame di
ammissione alla prima media. Su quella bicicletta, dove a malapena,
seduta sulla sella, toccavo i pedali con la punta delle scarpe, mi
sentivo una regina capace e sicura di guidare il suo destriero di
metallo.
Da questo preambolo è chiaro come tale mezzo abbia accompagnato
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un lungo tratto della mia infanzia e dell’adolescenza dandomi
l’autonomia necessaria quando studentessa, ogni mattina, pedalando
veloce, lasciavo gli odori ed i profumi della campagna, perché
risiedevo nel forese e raggiungevo la sede dell’Istituto Magistrale
che frequentavo.
Allora il traffico era meno caotico d’oggi ed il maggior problema si
presentava soprattutto durante il rigore dell’inverno quando tutta
imbacuccata e con l’eventuale aggiunta dell’ombrello nonché della
sacca dei libri, dovevo fare lo slalom fra le pozzanghere più o meno
profonde della mia lunga strada sterrata, o così detta strada bianca,
oppure prestare attenzione per non scivolare sulla neve ghiacciata
che rimaneva a lungo sul terreno, prima di raggiungere la strada
principale asfaltata.
Come tutti i ragazzi ero diventata talmente sicura da guidarla, in
rettilineo, senza mani.
Esibendomi, passavo sotto la bella statua di Icaro che osservava gli
studenti frettolosi, impavido ed indifferente nella sua nudità mentre
io, raggiunta la meta, contemplavo con stizza le mie nuove calze di
filanca spruzzate di gocce di fango e le mie scarpe bagnate. A volte
rivolgevo un pensiero fuggevole al bel giovane muscoloso: “anche io
prima o poi saprò volare con le mie ali ma non sarò avventata, mio
caro, non voglio raggiungere il sole, quel che valgo lo dimostrerò, ho
solo bisogno di tempo!” Poi ancora accaldata mi dirigevo veloce
all’ingresso secondario dell’Istituto riservato alle “femmine” mentre
la gradinata principale dell’edificio dai grandi marmi bianchi che si
affaccia sul piazzale della Vittoria era destinato ai maschi.
Incomprensibile per noi ragazzi tale distinzione da parte del preside,
visto che esistevano classi miste al suo interno. Uno dei tanti
stereotipi era anche il grembiule nero da indossare fino all’ultimo
giorno di scuola che ci rendeva abbastanza anonimi agli occhi dei
professori, dei quali per altro rilevavamo le stranezze. Ricordo ad
esempio, la “prof.” di filosofia che, al suo ingresso in classe,
spargeva gocce di profumo al pino silvestre seguito da gesti plateali
fatti col fazzolettino di batista ricamato. Noi ironizzavamo, dandoci
gomitate significative sull’entrata di tale dama nella stalla ed aveva
forse le sue ragioni visto che stavamo tante ore nello stesso
ambiente, ma non era piacevole essere considerati un branco di
pecoroni. A lei avrei voluto chiedere: “mi conosci o sono per te un
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nome scritto sul registro? Guardami, io esisto!”
Tutt’altra persona era il professore d’italiano: elegante se pur nel suo
vestito vissuto, teneva sempre il quotidiano in tasca; consapevoli
della sua cultura e professionalità quando entrava in classe, lo
accoglieva un silenzio rispettoso. Ci proponeva di entrare con lui nel
mondo della letteratura, conoscendo vita ed opere di grandi scrittori e
poeti, ci apriva le menti e, senza che ce ne avvedessimo, ci aiutava a
crescere.
Poco prima del suono della campanella d’inizio lezioni, ci
raggiungeva il gruppo composto delle ragazze e dei ragazzi
provenienti dal collegio Tartagni, successivamente sede dell’Istituto
Professionale per il Commercio ed ora in via di ristrutturazione per
altri scopi, accompagnate da una suora che tornava a riprenderli alla
fine della mattinata. Alle ore 14.15 lo stomaco cominciava ad avere
le sue esigenze pertanto al suono della campanella volavamo verso
l’uscita come rondini al proprio nido. Inforcavo la mia due ruote ed
in men che non si dica raggiungevo casa ed il piatto fumante che mi
attendeva pronto in tavola.
Terminati gli studi, quel poco di infarinatura didattica sperimentata
osservando le insegnanti durante le lezioni nelle visite alle scuole
elementari, o al giardino d’infanzia Montessori situato all’interno
dell’Istituto Magistrale, doveva servire da stimolo per intraprendere
un lavoro così complesso quale è l’educazione dei minori. Palese
l’abisso che c’è fra l’essere studenti che non vedono l’ora di
dimostrare la propria maturità e l’aiutare gli altri a raggiungere la
stessa nelle varie fasi di crescita.
Da parte mia avevo un progetto alla cui realizzazione intendevo
perseverare. “Da grande farò la maestra!” ripetevo da sempre. Figura
idealizzata, la mia, in contrapposizione a quella che era stata
l’insegnante delle prime classi elementari severissima e distaccata,
maniaca dell’ordine, delle aste, della punteggiatura e della bella
calligrafia da conseguire con l’esercitazione a casa su pagine e
pagine di rotondeggianti vocali e slanciate consonanti che dovevano
toccare le righe del quaderno. Non meno severo fu l’insegnante di 4°
e 5° elementare, al quale do merito di avermi saputo infondere la
fiducia nelle capacità di studio. Ricordo che per mantenere il silenzio
nella numerosa classe si serviva di una canna che faceva cadere sulla
punta delle dita dei malcapitati scolari scoperti a chiacchierare.
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Alla richiesta dei genitori di come era andato il profitto scolastico
tutti noi sorvolavamo sulla punizione inflitta, pena l’aggiunta di
scappellotti per mancanza di buona condotta.
Ma tornando agli anni ‘60, cioè al termine dei miei studi, capivo
benissimo che una cosa era idealizzare un lavoro ed un’altra era
riuscire a svolgerlo. Ero stata catapultata nel mondo degli adulti e
delle sue regole. Ben presto mi resi conto che la credibilità come
persona è fatta di tanti piccoli passi superando delusioni e sogni per
raggiungere piccole conquiste.
Iniziai dalla “gavetta”, ossia come supplente e come insegnante nei
doposcuola e in corsi serali rivolti agli adulti che ancora non erano in
possesso della licenza elementare, intervallati da altri periodi come
commessa presso i grandi magazzini “Standa” appena aperti, operaia
“pelapolli” in un macello di pollame e operaia di macchina in una
fabbrica di utensili in plastica, per dare risposte pratiche alla mia
necessità di guadagno in attesa di fare l’insegnante.
A quei tempi, anche nel territorio forlivese forte era l’analfabetismo,
sia reale che di ritorno, ed io da novembre a maggio, per diversi anni,
dalle 20 alle 22, insegnai in plessi scolastici del forese che
ovviamente raggiungevo con la mia fidata bicicletta, spesso in
compagnia di mia madre che appartata e paziente attendeva la fine
delle lezioni. Le strade a quell’ora tarda erano spesso deserte e male
illuminate soprattutto verso la campagna; distanti anche le abitazioni
le une dalle altre e pochi gli agglomerati ed una ragazza da sola, in
bicicletta, poteva dar adito ad approcci poco simpatici.
Ricordo un episodio spiacevole accadutomi, una sera di primavera,
dopo una lezione. All’uscita non trovai più la bicicletta al solito
posto, vane le ricerche intorno e fuori dalla recinzione. Stanca e
molto dispiaciuta per il furto subito, io e mia madre, appoggiandoci
ora l’una ora l’altra, all’unica bicicletta rimasta, riprendemmo il
cammino. Giungemmo a casa spossate ed infreddolite.
Per quel mese, pensai, mentre faticavo a prendere sonno, una parte
corposa del mio stipendio di circa £ 30000, sarebbe servita per
l’acquisto di un nuovo mezzo del quale non potevo fare a meno pena
la mia sostituzione, in quanto non avrei potuto raggiungere in alcun
modo il posto di lavoro.
La frazione di Coriano dove io abitavo, annoverava pochi negozi di
riferimento: il macellaio, il calzolaio, un negozio di alimentari con
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accluso bar e distributore di benzina, infine la mia ancora di
salvezza, il meccanico, dal quale acquistai una nuova bicicletta a
rate, essendo conoscenti di famiglia ed in buoni rapporti di vicinato.
Un altro episodio che ricordo con piacere mi accadde l’anno
successivo durante un corso A, sempre di scuola serale, che
raggruppava persone frequentanti la 1° e 2° classe elementare.
Il plesso era dislocato in una vecchia e grande casa leggermente
distante dall’isolato delle abitazioni, verso la nuova rotonda che ora
porta alla zona industriale di Coriano da un lato e alla via Orceoli e
Punta di Ferro dall’altra.
Era una sera d’inverno, avevo acceso il fuoco con la legna
accatastata accanto alla stufa situata al centro della stanza, una
mastodontica “Becchi” in terracotta di un bel rosso vivo, in attesa dei
miei allievi adulti per i quali io ero la “maestrina”. Giunse il primo
che timidamente mi fece la richiesta di aiutarlo a scrivere una
cartolina postale affettuosa alla ragazza da poco conosciuta per
poterla rivedere dandole un appuntamento.
La sua scrittura era incerta, ma trapelava una forte emozione per il
messaggio che stava scrivendo e per la nuova capacità di
comunicazione in suo possesso oltre la semplice firma.
“Non è mai troppo tardi!” Recitava il titolo di una trasmissione
televisiva allora in voga, tenuta dal maestro Manzi ed io mi sentivo
investita dallo stesso ardore ed entusiasmo.
Quegli anni ’60 sono trascorsi come un lampo nel cielo, insieme alla
mia giovinezza diventando oramai storia del passato; restano vividi i
ricordi dei primi approcci col mondo del lavoro, la fatica per
ottenerlo, la dignità raggiunta come persona.
La mia bicicletta di allora è ancora lì, oramai sgangherata ed
arrugginita in garage ma mi accompagna tuttora, senza fretta, nei
miei giri a passeggio verso il centro della città. Pur avendo altri
mezzi ed essendo sollecitata dai miei familiari ad usarli, non desidero
metterla da parte, mi piace il suo cigolio. Quando poso gli occhi su di
lei, mi sovviene il tempo dei ricordi e il sogno di un lavoro, forse
idealizzato ma che, a modo mio, sono riuscita a realizzare affinando,
credo, sensibilità e tatto per i problemi altrui, esperienza
professionale e soddisfazioni con la speranza di aver comunicato a
tanti bambini, ora adulti, il piacere e la curiosità di imparare.
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Basta correre……
di Liviana Lucchi
Siamo a metà gennaio e proprio in questi giorni ha festeggiato il
trentesimo compleanno mio figlio minore; trent’anni sono passati!
Sono davvero tanti e non mi sembra vero.
Mi viene da sorridere, penso che fra poco più di un mese l’altra mia
figlia, quella maggiore, ne compirà trentanove…. e come
inevitabilmente succede in queste occasioni, il pensiero corre
all’indietro con un susseguirsi di ricordi ed emozioni.
Adesso posso anche “fermarmi” a pensare, posso anche “fermarmi a
ricordare”, posso anche perdere tempo perché non devo più correre.
Si, correre! Correre sempre per mancanza di tempo, e se te ne
prendevi un po’ per te dopo ti sentivi in colpa per tutto ciò che
rimaneva indietro e ciò che non era stato fatto.
Per me è stato “il dovere sempre correre” la cosa più difficile e non il
lavorare fuori casa.
Madre natura mi ha donato tanti pregi, fra i quali, dolcezza,
sensibilità, intuito, ma non certo la rapidità o la sveltezza.
Mi piace essere impegnata e fare di tutto, ma ho bisogno dei miei
tempi, di non avere fretta altrimenti mi viene l’ansia, l’angoscia, la
paura di non farcela. Adesso sono in pensione insieme a mio marito;
i miei due figli sono diventati grandi ed io mi sento una donna
appagata e serena che si sta godendo i suoi sessant’anni nel migliore
dei modi, nonostante i problemi piccoli e grandi che ogni giorno si
devono risolvere e superare.
Mi ritengo una persona molto fortunata perché nella vita sono
riuscita ad avere tutto ciò che desideravo, ma è anche vero che mi
sono conquistata tutto con tanta volontà, speranza, lavoro, sacrificio
giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Infatti, dico sempre che non vorrei assolutamente tornare indietro, se
mi fosse concesso, perché sto bene così.
Ogni frutto ha la sua stagione!
Mi è sempre piaciuto lavorare, vivere, oziare e anche soffrire nel
presente, senza mai dimenticare il passato carico di esperienze, ma
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con la mente rivolta sempre a progettare il futuro.
Nonostante abbia lasciato la scuola troppo presto, sono riuscita a fare
il lavoro che volevo, che mi piaceva: “la segretaria in ufficio” lavoro
che mi ha impegnato tante ore al giorno per più di quarant’anni.
Sono riuscita a conciliare lavoro, famiglia, figli, marito, lavori di
casa e non sono assolutamente pentita.
Ho fatto una scelta di vita che mi ha realizzato sia come donna, che
come moglie, che come mamma.
Sono convinta che se avessi fatto solo la “casalinga” non sarei stata
“meglio” perché sarebbe stato un modo ripetitivo di vita, un modo
impossibile di rapportarsi, di confrontarsi e stare con gli altri.
Anche ora che non lavoro più fuori casa, sento la necessità di uscire,
incontrare gli altri, anche solo per fare quattro chiacchiere, magari
solo per un’ora e trovo sempre qualche motivo per andare da qualche
parte.
Me la sono proprio dovuta guadagnare questa “pensione”; ma ora
che ci sono arrivata mi sento in ferie tutti i giorni con tanto tempo
per me e da dedicare ai miei famigliari.
Ho avuto la grande fortuna di diventare nonna e quindi sono sempre
disponibile per il mio nipotino, che ora è un ragazzino; inoltre sto
restituendo a mia mamma; ora vedova; con tanta pazienza e amore
tutto ciò che lei ha fatto per me, tutto il suo aiuto per permettermi di
andare a lavorare.
Dopo tanti anni di “automobile” ho riscoperto la “bicicletta” e mi
piace molto andare in giro per la città e dintorni, vederla trasformare,
cambiare, seguire il tempo con il suo traffico, le sue rotonde ecc. ecc.
In questa città ci sono nata e cresciuta e perciò ne sono innamorata.
L’ho vista ricostruire dopo la guerra, l’ho vista trasformare in tutti
questi anni, per adattarsi alle esigenze della sua popolazione e del
modo di vivere con il tempo, ma è sempre rimasta una piccola città
di provincia a “dimensione d’uomo”, semplice come la sua gente ma
con tutte le sue tradizioni e la sua storia.
Mi piacciono i romagnoli, schietti e lavoratori, spontanei e a volte un
po’ focosi, ma in fondo in fondo sinceri e bonaccioni.
Romagnoli, figli della terra perché quasi tutti i nostri nonni erano
contadini e quindi legati alla natura e alle stagioni.
La Romagna è “un angolo di paradiso”, come recita quella antica
poesia dialettale, che il suo illustre poeta ha dedicato alla sua terra
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senza volerla sconvolgere con grattacieli e costruzioni strane, ma
lasciandole i suoi spazi e renderla un “solatio, dolce paese”. Forlì ha
continuato poi ad espandersi in lungo e in largo con semplice
intelligenza e ha saputo sfruttare le bellezze e le risorse della natura,
ed insieme alle città limitrofe ha creato posti di lavoro e centri di
scambio culturali e ricreativi, attraverso valli, colline e mare.
Mia madre fa parte di quelle “donne” che hanno avuto il coraggio di
uscire dalla famiglia patriarcale per farsi un nucleo famigliare
proprio ed insieme al marito costruire, lavorare, aiutarsi e crescere.
Ho quindi imparato da lei tante cose e la considero una maestra, per
come sapeva districarsi fra il lavoro agricolo, i magazzini della frutta
e la famiglia.
Ho cercato di fare tesoro di quelle esperienze cambiando magari
quello che credevo meglio, soprattutto nei confronti dei figli, e penso
di esserci riuscita, almeno in parte, e di poter terminare la mia vita
lavorativa con un bilancio positivo.
Anche mia sorella e mia figlia sono delle mamme e delle lavoratrici
e sono anche loro convinte che è “una gara dura”, anche se il
progresso ha portato elettrodomestici, asili nido, scuole materne, ecc.
ecc. però la vita va vissuta e l’importante è partecipare.
Siamo oggi quattro donne di quattro generazioni con quattro realtà di
lavoro diverso (agricoltura, impiego privato, scuola pubblica,
abbigliamento), ma siamo tutt’e quattro convinte che sia giusto così,
perché vivere e lavorare arricchisce lo spirito e la personalità, perciò
la donna può trasmettere ai figli e alla propria famiglia tutta l’energia
necessaria.
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Scelte
di Diella Monti
Di fronte allo sguardo preoccupato di mia madre ed alle tasche
vuote e più volte rammendate di mio padre, ho scelto: ho scelto di
non scegliere quella scuola, quel lavoro, quel futuro................
"ho scelto".
Di fronte ad occhi desiderosi e pieni di promesse e alla sicurezza di
una mano avvolgente, ho scelto: ho scelto di non scegliere di
perdere lo sguardo nella linea infinita dell'orizzonte.................
"ho scelto".
Di fronte al calore della famiglia, dei figli, allo sguardo di chi
sembrava avere bisogno di presenza e protezione lì, in quel
momento di più, ho scelto: ho scelto di non scegliere di
volare..................
"ho scelto".
Di fronte all'idea non sempre mia di felicità, a ciò che è bene e a ciò
che è buono per noi, e quindi anche per me, ho scelto: ho scelto di
non scegliere i miei sogni, il mio desiderio.......................
"ho scelto".
Di fronte alla provocazione, al giudizio, all'annullamento della
persona in un ruolo, alla solitudine e alla squalificazione di una
pretesa senza riconoscimenti, ho scelto: ho scelto di non scegliere
la nullità, ed ho aperto le ali verso il riscatto......................
"ho scelto".
Di fronte al successo, alla vetta conquistata, agli impegni infiniti,
ma comunque ancora di fronte alla non stima, alla demolizione
quotidiana di un'immagine scomoda, ho scelto: ho scelto di non
scegliere la fatica di una conquista senza riconoscimenti...
"ho scelto".
Oggi, di fronte a macerie rovinose di sogni non sognati e di desideri
fittizi, di vite compresse e spinte come ombre all'interno di una
metropolitana in corsa, oggi.... voglio riappropriarmi della mia
anima e, almeno per una volta provare a scegliere di SCEGLIERE!
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Il volo di Antonia
di Fulvia Mura
Sul pavimento di terra battuta, imbrattato qua e là dagli escrementi
della capra, il finestrino aperto lascia cadere un raggio di luce pallida
che presto trascolora nella tinta rosata dell'alba.
Una figura massiccia di donna, infagottata nello scuro viluppo di
panni rattoppati, si leva dal pagliericcio e infila a tracolla
l'inseparabile borsa di tela.
Nell'uscire urta col capo grandi mazzi d'erbe, appesi a seccare alle
travi del soffitto basso.
Antonia la guaritrice - Antonia la strega, per alcuni - si inoltra a
passo svelto nei prati per raccogliere nell'ora più propizia le piante
medicinali con cui preparerà i suoi rimedi, celeberrimi nelle terre che
si stendono tra Scorticata e il Montefeltro.
Biancospino per placare il galoppo dei cuori affannati (basteranno tre
o quattro tazze di infusione al giorno per ventun giorni di seguito).
Acetosella rinfrescante, da gustare cruda con olio e limone per
alleggerire il sangue "grosso".
Borragine pelosa e bardana, da macerare in olio per l'eczema dei
bambini.
E poi ci sono le erbe proibite, quelle di cui si bisbiglia con
circospezione tra donne nelle lunghe veglie invernali davanti al
fuoco.
Erbe per liberarsi di una gravidanza indesiderata, o per legare a sé
l'uomo amato.
Soprattutto, erbe per il volo magico.
Antonia sorride tra sé stendendo la mano callosa, dalle unghie
spezzate, ad estirpare con forza una radice di aconito.
Insieme a cicuta e belladonna, le scioglierà più tardi nel grasso fuso
di montone per ottenere l'unguento del volo.
Questa è la sua magia più grande, il terribile segreto ereditato da sua
madre e da sua nonna: un unguento portentoso che, spalmato sul
corpo nelle Quattro Tempora dell'anno, può trasportarla nei luoghi e
nelle epoche più strabilianti, strappandola almeno per qualche ora
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alla miseria e alla solitudine della sua vita quotidiana.
Un privilegio pericoloso, invidiato e temuto, che potrebbe dannarla
al rogo se solo l'arciprete sospettasse qualcosa...
Antonia non sa neppure bene cosa le accada, durante la vertigine
esaltante del volo. Il suo corpo sfiorito, senza età, non si muove dal
pagliericcio pulcioso della capanna; pare addormentato, mentre la
mente vola - quella sì, eccome! - ad esplorare dimensioni misteriose.
L'ultima volta è stata diversa da tutte le altre.
Antonia ricorda di avere fluttuato a lungo nella solita nebbia
opalescente, squarciata da lampi colorati e da voci ovattate, finché i
suoi occhi si sono aperti su un altro viso di donna. Bello, severo,
intento. La donna guidava uno strano carro a quattro ruote, non
trainato da alcuna bestia visibile, rumoroso e velocissimo. Intorno a
lei, su una strada incredibilmente larga e pulita, sfrecciavano decine
di altri carri simili.
Antonia aveva considerato con attenzione ogni particolare: i capelli
scorciati come le streghe durante gli interrogatori, le brache maschili
indossate in pieno giorno e senza alcun imbarazzo.
La donna si era fermata davanti ad una specie di castello d'argento e
cristallo, composto da più torri raggruppate intorno ad un corpo di
guardia centrale, pullulante di persone bianco vestite e di carri ornati
da grandi croci rosse.
Era entrata sicura, nonostante fosse priva di scorta, e si era cambiata
d'abito indossando una bizzarra uniforme immacolata.
Frammenti di voci concitate avevano ferito le orecchie di Antonia.
"Presto, dottoressa, da questa parte: è un codice rosso!"
"Meno male, Giulia, temevo non ti avessero rintracciata..."
"Ossigeno!"
"Dannazione, lo stiamo perdendo!"
Macchie confuse ruotavano intorno al viso della donna, china su un
corpo d'uomo abbandonato sul lettino. Tutti i presenti sembravano
dipendere dai comandi e dalle disposizioni di lei.
Tutti le parlavano con grande rispetto e considerazione.
Gli occhi di Antonia si inumidirono per la commozione: dunque
esisteva un luogo, o un tempo, in cui le guaritrici come lei potevano
vivere e lavorare sicure.
Poi, la scena era cambiata.
La donna si era rivestita dei suoi vecchi panni, molte ore più tardi, ed
75
era risalita sul carro.
Il suo sguardo, prima fiero e determinato, si era fatto via via più teso
e dolente, correndo spesso al braccialetto metallico che portava al
polso sinistro.
Il suo viaggio attraverso la città si era interrotto molte volte, davanti
a grandi botteghe traboccanti di ogni genere di mercanzie.
Ad ogni fermata la donna si caricava di borse strane, fatte di una tela
sconosciuta, simile a carta sottile ma resistente, che poi riponeva
nella parte posteriore del carro.
Infine era arrivata davanti ad una torre con tante finestre ed era
entrata con tutte le sue borse dentro un tubo magico, pieno di bottoni
colorati, che saliva e scendeva ininterrottamente per tutta l'altezza
dell'edificio.
Aveva aperto una porta con la chiave e altre facce si erano affollate
intorno a lei.
Due piccole, una grande e una pelosa.
"Uffa, mamma, mi avevi promesso di venire a vedere la recita di
Natale!"
"E a me avevi promesso di andare a comprare le figurine."
"Insomma, Giulia, su di te non si può mai fare affidamento. Non sei
mai puntuale. Quando lavori ti dimentichi di tutto. Sono finite anche
le crocchette del cane."
L'ultima immagine che Antonia vide fu l'espressione triste della
donna mentre apparecchiava la tavola scusandosi.
Il volo magico era finito anche quella volta.
In ogni luogo - e forse in ogni tempo - c'è un prezzo da pagare per
essere donna.
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Il mio primo lavoro
di Mariangela Paganelli
Quando amici e parenti fanno visita ad una famiglia, e questa ha
bambini piccoli, la domanda di rito è: “cosa farai da grande?”
Quando era rivolta a me, senza esitare, di getto rispondevo: “la
maestra!” E nel dire così, mi vedevo di fronte ad una numerosa
scolaresca ben ordinata e brava. Il sogno è rimasto nel cassetto.
Nell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, le scuole, quelle
ancora agibili e non distrutte dai bombardamenti, erano chiuse. Chi
avrebbe potuto insegnare se tutta la popolazione italiana era sfollata
nelle campagne lontane o nascosta nei rifugi? Quando la guerra finì,
avevo dieci anni. Il nostro piccolo casolare in campagna, era stato
distrutto e il poco bestiame era stato ucciso dalle bombe o rubato da
soldati e civili.
Così papà vendette quel fazzoletto di terra che ci era rimasto e ci
trasferimmo in città, dove trovammo, per miracolo, una minuscola
abitazione. Era da mettere in ordine ma papà era bravo: sapeva fare
di tutto.
E trovò anche lavoro come muratore, dal momento che si iniziava a
rimuovere le macerie per ricostruire le case e si riprendeva a vivere
normalmente con grandi sacrifici, perché mancava tutto e il “mercato
nero” la faceva da padrone.
Con noi abitava la nonna paterna e in quel periodo nacque mia
sorella.
Le fabbriche ripresero a produrre e mamma fu assunta in uno
stabilimento importante che diede lavoro a mezza città. Oggi, non
esiste più.
Forse il mio primo lavoro fu quello di accudire la mia sorellina, di
andare a fare la spesa e tenere in ordine la casa: aiutata dalla nonna.
Privatamente, sollecitata da una maestra nostra amica, presi la
licenza elementare e mi ritrovai a tredici anni senza un titolo di
studio e senza lavoro. Ma leggevo di tutto, anche il giornale sportivo
di papà, e scrivevo tutto quello che mi piaceva e mi emozionava.
Quando mia sorella compì tre anni, la mamma iniziò a portarla
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all’asilo ed io trovai lavoro da una sarta. Per me questo fu il primo
lavoro.
Facevo a piedi quattro chilometri, andata e ritorno per andare dalla
signora Irma, una bravissima sarta, non più giovane ma molto
conosciuta.
Certo l’inizio fu difficile, dovevo sottostare alla sua disciplina, ai
suoi ritmi di lavoro e alla sua severità, mentre ero stata abituata a
stare in casa, coccolata da una nonna molto affettuosa.
Ma, a poco a poco, mi abituai e il lavoro mi piacque.
Ero la “piccolina”, infilavo gli aghi, mettevo a posto i rocchetti del
filo, facevo il cavalletto. Spazzavo il laboratorio quando la signora
Irma il lunedì tagliava il lavoro della settimana. Ricordo che
accarezzavo quelle morbide e fruscianti stoffe mai viste. Ed imparai
anche a cucire a macchina. La domenica mattina, andavo a
consegnare il lavoro alle clienti che, se erano generose, mi davano
una mancia.
Quel piccolo guadagno era tutto mio e lo potevo spendere come
volevo: misera cosa ma mi permetteva di comperare un quaderno o
una penna per scrivere il mio diario o i miei fantastici racconti di
favole. D’estate mi concedevo un gelato dal carretto che passava per
strada e il gelataio attirava la gente urlando a gran voce e suonando
la campanella.
Compravo anche la mia rivista preferita che usciva tutte le settimane
(che ancor oggi compro e leggo), dove prediligevo la moda.
Mi divertivo a ritagliare le modelle e a organizzare con una mia
amica sfilate di moda sotto gli occhi attenti di nonna Maria; e i
dispetti di mia sorella che voleva giocare con noi. Ma noi non la
volevamo essendo troppo piccola e le modelle di carta troppo fragili.
Mi piaceva quando Irma mi mandava a comperare filo, bottoni o
ovatta. Andavo nel negozio della Teresina in centro: un grande
negozio che, oltre a rifornire le sarte, serviva anche le signore “bene”
della città.
Era grandioso e mi perdevo a guardare quelle meraviglie esposte: le
calze di seta, l’abbigliamento intimo, gli strass e i bottoni gioiello
che abbellivano i vestiti, come dettava la moda del momento.
Quando il modello esigeva bottoni ricoperti della stessa stoffa del
vestito, andavo da una signora che chiamavo fra me “la bottonaia”.
Era una donnina minuta, anziana, con un reticolato di rughe nel viso.
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Abitava al pianoterra di una casa vecchia, in un vicolo ancor più
vecchio della città. Entrando nel salotto, si respirava l’aria dell’800,
con poltrone damascate e lise, cuscini ricamati. Tavolini con tanti
ninnoli e fotografie color seppia. Alla finestra aveva pesanti tende
che lasciavano passare poca luce e ancor meno aria.
Poi, mia sorella prese il morbillo e io ne fui contagiata. Mentre lei,
piccola, se la cavò con il decorso della malattia, per me fu più
preoccupante ne risentirono gli occhi e fui ricoverata in ospedale
dove, mi trovarono una miopia congenita, peggiorata dal morbillo.
Iniziai a portare gli occhiali e, per non affaticare la vista, dovetti
lasciare la sartoria. E così finì il mio primo lavoro fuori casa, in
lacrime.
Poi, trovai lavoro come commessa che mi servì, quando mi sposai,
per avviare un’attività assieme a mio marito: attività che portammo
avanti per 30 anni. Ora sono in pensione e mi dedico al mio hobby
preferito: leggere di tutto e scrivere ancora poesie e fantastiche
favole per i miei nipotini e pronipoti (sono bisnonna). Con questo
racconto ho spolverato il mio sogno nel cassetto (e nel mio cuore).
Scrivere, leggere, correggere.
Imprigionando ricordi ed emozioni in fogli di carta che la polvere del
tempo mai cancellerà.
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E la vita corre
di Sabrina Piallini
Dolce inverno
E’ sera e mi affaccio alla finestra.
Scorgo lassù nel cielo freddo gelido la luna.
Questa grande palla luminosa, sembra essere cullata dal vento come
una ninna nanna.
Mi fa molta tenerezza vederla lassù sola tra le nubi.
Sembra volerti accanto per una dolce compagnia.
E’ una notte indimenticabile, luminosa anche se fredda ma tanto
bella.
E’ una notte di un dolce inverno.
Due righe
Due righe….. giusto il tempo per pensare a ciò che sarà domani.
Il mio domani lungo come un libro o breve come queste parole.
Niente e nessuno lo realizza io sola, sola con me stessa.
Notte
Non toglietemi la notte fatta di mille misteri, di mille colori, di mille
suoni.
Questa magica notte in cui mi lascio andare a magici sogni.
Il mio giorno è troppo reale troppo vissuto tra ambiguità e
responsabilità tra gioie e dolori e la felicità
estrema la pace, l’amore li ritrovo solo quando chiudo gli occhi nella
notte…..
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Questa sono io
La voglia di amare la paura di morire,
il bisogno di sognare, la gioia di vivere, la voglia di correre di ballare
di ridere.
Il bisogno di pregare, la tristezza, il malumore, la gelosia.
La gioia di donare, la voglia di essere libera non sapere cosa fare,
mettersi ad urlare.
Il bisogno di piangere, essere dolce essere crudele sentirsi donna,
essere bambina.
La tristezza di un gesto sospetto, di uno sguardo.
Amarsi senza capire, odiarsi senza volere…….. questa sono io.
Sognare
E la vita corre, và avanti come al solito senza un attimo di pausa.
Senza un minuto che ti possa far prender fiato, eppure continuo a
sognare.
Sogno quando assonnata cerco la sveglia che segna l’inizio di una
giornata,
sogno mentre le macchine si rincorrono lungo le strade e una
quantità di facce mi passano accanto,
senza capire cosa sento.
Sogno quando mi arrivano alle orecchie le note di un canzone,
sogno quando.… ma forse non sto sognando, sto solo VIVENDO…
81
Spiare il giorno
di Danila Rosetti
Volano pigri i rotoli
di carta igienica sull’occhio
vigile del rullo nero
implacabile calcolatore.
Alle dieci di mattina confondi
gli ananas della Costa d’Avorio
i caspi di ricciolina campana,
le scatolette per cani e gatti
la Simmental
per single forzati
sorridi alla rabbia plagiata
del piantagrane quotidiano
sul centesimo mancato,
sul regalo inarrivato,
sul cappotto macchiato....
Bollino... scontrino... mancino…
La sera sei tu a volare
sul tapis roulant:
pieghi fazzoletti asciutti,
riponi le camicie sbiancate
dalla candeggina delicata
e tra lenzuola ammorbidite
da intrugli avvelenati
trangugi un sonno forzato
buongiorno/buona giornata /arrivederci
ai cani, ai gatti, ai cristiani, ai musulmani.
Spii il giorno dal vetro freddo
del terrazzo, un sospiro corto
intrappolato nel pigiama scolorito.
L’arcobaleno clonato
nelle bandiere ridenti
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i più mattinieri
sfiancati dai motori svogliati
segnati dal tempo
dal gelo passato.
Il muro scrostato, la scala a pioli
arrugginita, i primi capelli bianchi
mascherati tra nuovi colori brillanti
una primizia dei grandi magazzini
suggerita dalle clienti informate.
Riparte il rullo imbonitore
tra la dispensa di rum
del primo pensionato abbuiato
cartocci di pistacchi incuriositi
mescolati alle zucchine appassite
del successivo cliente.
- Le patate vanno pesate! L’offerta delle arance è già finita?
No......, hai dimenticato la retta della mensa
scontrino... bollino.... cestino…
Domani spezzato
sveglia all’alba.
Stivi casse di verdura
ritorni nel fondo della notte chiusa.
Il bambino ti ha aspettato
poi è crollato nel divano
insieme alla nonna di turno
il tuo compagno è appena
rientrato, sconfitto nel match
con la madre demente.
Ridono le sigarette profumate
delle prestazioni mancate.
Cammini a piedi scalzi,
alzi le ali fredde della sveglia,
una lama di sole alleggerisce
il cuore della stanza.
Vedi già il mare, la laguna,
l’acqua del Nilo,
83
le donne
incedere lente con gli otri
sulla testa per cucinare,
vestire i bambini, scambiare
un po’ di sale.
Un bacio veloce sulla fronte
un contatto di mani, il mio
corpo chinato sul tuo
uno scambio di incombenze.
Il puzzo della guerra
secca il tubetto dei colori.
Intridi le mani nel rosmarino:
le case di tulipani
bagnate dai mulini a vento,
ti prepari un panino
e una bottiglia di acqua naturale.
Sali sul campanile,
il sole è un abbraccio tutto tondo
spargi le briciole lontano.
Corrono i treni delle stagioni
coi loro carichi di merci,
clementini senza semi, carciofi, pomidoro
rossi ramati.
Chinate a raccogliere spinaci
il falcetto affilato nella terra secca,
riempiono le ceste colorate
le contadine attempate avvolte
nei pastrani pesanti, il fazzoletto
legato dietro la nuca.
E’ una bella giornata, l’aria è
frizzante, le scarpe slucidate.
La luce artificiale, le vetrate
pesanti, un tappeto di coriandoli
dimenticati, una ricetta sgualcita
da mostrare. Procede lenta la litania
stomatite, enterite, proctite.
In bella vista luccicano
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le polveri bianche,
alfabeti del mondo
antibiotici, antidepressivi, antidolorifici….
Si dilata il confine della notte:
cefalea, paura... misurino, scontrino,
fobia, marea,.... resto, codice...
smettetela di bombardare!
Indossi la tuta e scappi via,
- incominciate col massaggio del piede,
si lavora sulle sequenze! -:
gomukhasana, halasana, nemastè...
Finito il rilassamento, raccogliete
gli strumenti della lezione:
gommino, mattoni, cupolino.
Ti ferma la polizia:
- libretto, patente, un normale controllo -,
le scarpe slacciate, le mani sudate,
una doccia calda e un pigiama felpato.
Qualche nuvola spazzata dal vento,
ondeggiano i rami gemmati dell’alloro
volano aquiloni improvvisati
sportine e fogli accartocciati,
in bella vista i cassonetti colorati
bottiglie di plastica rovesciate
spaventapasseri su frange
di orti curati, fossati
appena falciati, montagne di rifiuti mascherati.
Il pesco multicolore
un innesto azzardato,
parli alle rondini appena tornate
ai cani da guardia stupiti.
Palloncini bianchi
svolazzano sulla cancellata
verniciata di fresco:
Maria, ben arrivata.
Sfalciate di biacca sulle colline
un raggio di laser il sole del primo
85
mattino, il cappuccio sulle spalle
accartocciate, il bancone pieno
di fragole esagerate, in bella vista
i vasetti di frutta sciroppata
- piantiamo un albero per un neonato! –
il deserto non è un vuoto,
è un kilim colorato, una carovana
in movimento lento e duro
coi suoi giochi e il suo fuoco.
Scendono freddi i petali di neve,
un filo di spago attorno al ramo
stringe l’appello disperato
del gattino sperduto.
Sono in svendita gli abiti da sposa,
esce Maria vestita a lutto,
il fazzoletto nero stretto al collo
un mazzo di primavera in mano.
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Quel tocco in più
di Debora Teresa Stenta
Sveglia alle ore 7.25: il solito pensiero sull’inutilità della vita e sul
freddo che farà in bagno a quest’ora. Mi alzo, tolgo la maglia del
pigiama, l’ascella non è perfettamente depilata ma tanto di uomini
che possano accorgersene nella mia vita non ce n’è nemmeno
l’ombra.
Vado in bagno con la mia canottiera di lana ben infilata sotto il
pantalone del pigiama di flanella infeltrito e costellato di pirulini
grigi in seguito a tutti i lavaggi sbagliati che ho fatto.
Pipì, bidet, piedi, mani, viso, ascelle. L’acqua calda ovviamente non
viene a quest’ora. Tutto a freddo. Crema viso protettiva a schermo
totale contro l’inquinamento e deodorante sono le mie uniche armi di
bellezza.
Inforco gli occhiali che sennò non vedo niente, ma poi,
puntualmente, quando infilo la maglia mi dimentico di toglierli e mi
rimangono incastrati tra i bulbi oculari e il collo della maglia
facendomi smadonnare.
Vado in cucina, mangio un po’ di biscotti intinti nel succo di frutti
tropicali, vitamina C e fibre, prima nota esotica della mia giornata
avvolta nel gelo e nella nebbia. Sciacquo la tazza che ho usato e
preparo il packet-lunch con gli avanzi di 2 giorni prima aggiungendo
la solita mela o banana che nell’impeto salutista-ottimista della
seconda parte dei miei preparativi mattutini decido di mangiare a
pranzo ma che poi rimetterò in ogni mio packet-lunch per i 4 giorni
successivi fino a che non mi toccherà mangiarla contro voglia
quando è tutta squacciata e ammaccata.
Gli ultimi ritocchi (tipo lavarsi i denti), e magari mi metto anche un
bel paio di orecchini indiani che mi sono regalata per l’ultimo San
Valentino (seconda nota esotica della giornata). Sono pronta per
l’operazione imbacuccamento nel parka così tanto femminile, i
guanti acquistati sull’Helbronner, la fascia da sciatore che copre
fronte e orecchie ma lascia respirare la cute (ci manca pure la forfora
tra le mie disgrazie) e mi lancio nella mia solita pedalata quotidiana
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verso l’ufficio.
Ogni giorno feriale dell’anno, neve, vento, pioggia o afa, io pedalo
verso l’ufficio attraversando le tre vie più intasate della città,
respirando lo smog di quegli stronzi che hanno la fortuna di avere
una macchina sotto il culo e rischiando ad ogni traversa di finire
sotto un’auto che non controlla la pista ciclabile prima di svoltare.
Una volta ho provato a mettermi la mascherina anti-smog ma mi si
sono accostati dei tipi in una macchina che, già evidentemente in
preda all’ilarità da alcune centinaia di metri, mi hanno chiesto se
avevo una sigaretta, e poi sono sgommati via ridendo.
Non c’è bisogno di dire che ogni mattina arrivo in ufficio con
l’ascella già ceduta e così tento tutto il giorno di non fare movimenti
che implichino l’alzata delle braccia, anche se spesso capita di dover
prendere un faldone situato proprio in cima alla mensola più alta. E
va be’, tanto non è certo con un collega che vorrei farmi una storia,
semmai dovesse capitarmi di averne una.
Sto in ufficio, svolgo la mia mansione di addetta alle vendite di
valvole e raccordi per impianti industriali, e così passo le mie
giornate lavorative, con lo sguardo che cade sempre lì, su quel
piccolo pezzo di mondo incorniciato dalla mia finestra, su quel muro
bianco della ditta qui accanto e sull’albero che gli cresce davanti,
osservando come quel ritaglio di paesaggio cambi con il trascorrere
delle ore nella giornata, e come sia bello soprattutto quando il sole
cala e il muro da bianco diventa rosa. Svolgo il mio dovere e penso a
tutto il tempo che passa, a tutti i viaggi del sole che si succedono, a
tutte le stagioni che, una dopo l’altra, colorano il mio muro, a tutte
quelle persone che conducono una vita in armonia con quei colori, e
a volte penso alle cose che potrei fare se non stessi qui.
A volte penso ai disegni che potrei tracciare, alle torte che potrei
cucinare, ai sentieri che potrei percorrere, ai burattini che potrei
costruire, alle gonne che potrei cucire, alle fiabe che potrei inventare,
alle foto che potrei scattare.
Mangio il mio pranzo lasciando la mela dentro la busta, ascolto le
critiche dei colleghi ad altri colleghi, annuisco distrattamente.
Nel pomeriggio le ore passano tra i controlli dello stoccaggio di
valvole a membrana, a sfera, a farfalla, e il mio incantamento
momentaneo nel guardare il muro che da rosa diventa rosso e poi
viola. Nel mio mondo fuori dalla finestra le valvole a farfalla si
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metterebbero a svolazzare leggiadre fino al bocciolo che sta per
fiorire sul ramo sottile sottile che è nato da poco dall’albero, quelle a
membrana nuoterebbero negli stagni delle villette asettiche e
pastellate della zona industriale che spio ogni mattina dalla mia bici e
quelle a sfera farebbero giocare tanti bambini insieme alle mamme e
ai papà che hanno deciso di non lavorare più.
L’ombra dell’albero si fa sempre più alta e nel cielo c’è una striatura
bianca di un aereo. Poi fa buio, presto.
E così mi ritrovo all’ennesima primavera e come ad ogni primavera
il mio piccolo svago diventa sempre più grande, perché riesco a
vedere il tramonto per un tempo più lungo e il buio piano piano
arriva sempre più tardi, mentre le giornate si allungano gradualmente
e regalano un ritorno a casa in bici più piacevole.
I giorni continuano a scorrere a ritmo di pedalate e mele lasciate ad
ammaccarsi nello zaino. Le ascelle continuano a non essere depilate,
anche se tra un po’ dovrò iniziare, quando sarà tempo per le maniche
molto corte.
Oggi è venerdì, per fortuna, e dal lavoro a casa voglio percorrere una
strada nuova. La primavera incipiente mi dà un brivido sconosciuto.
Passo dal campetto. Le bici potrebbero entrare solo condotte a mano,
così scendo e mi prendo il mio tempo per assaporare quest’aria
frizzante di rinnovamento.
L’aria è sospesa e leggera, i primi insetti iniziano a solcarne le vie e i
primi uccelli iniziano a celebrare il ritorno delle giornate più calde.
La gente che ha aspettato questo ritorno inizia a riversarsi sui prati
del campetto; uomini che nel dopolavoro si incontrano per un
calcetto, coppie di amiche che si preparano alla prova bikini
correndo fiaccamente sulla stradina asfaltata, bambini che dondolano
pericolosamente su pneumatici appesi per giocare, vecchiette col
cane al guinzaglio che si incontrano probabilmente ogni sera dentro
lo spazio-cagatoio per cani, adolescenti in motorino all’entrata del
parco che si prendono in giro a vicenda mentre le ragazzine più
sviluppate lanciano sguardi languidi ed eseguono la loro danza
seduttiva, ma in genere inefficace di fronte ai più immaturi coetanei
maschi che ancora pensano solo alla Playstation e alle marmitte (non
che cambieranno poi molto crescendo).
E io mi perdo in quest’atmosfera di rinascita e mi adagio sull’erba
lasciando scappare ogni pensiero fuori dalla mente e dagli occhi.
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Respiro le urla eccitate dei bimbi e l’abbaiare allegro dei cani che
non hanno più bisogno del cappottino di tweed. Ascolto questa
quiete e godo del profumo dell’erba tagliata da poco che macchia i
vestiti. Mi arrendo al piacere semplice e appagante di essere qui,
senza finestre o mura a delimitare i miei sensi, anzi, li spingo più che
posso fino al massimo della loro possibilità percettiva. Tutto è
avvolto in una luce chiara e bellissima.
Voglio addormentarmi qui e risvegliarmi domattina ricoperta di
rugiada fragrante e di fili d’erba.
Domani penso proprio che farò una bella torta, magari allo zenzero,
così, con un tocco esotico in più nella mia vita.
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Scorci paesani
di Caterina Tisselli
Nel piccolo paese
sapore acre
di ipocrisia
salsedine incolore,
sotto un sole infuocato
che volge al tramonto
nelle fessure a strisce
di persiane chiuse.
Sopra asfalti neri
la vita impavida
con i suoi ritmi
assapora e accoglie
la dolce donna
che versa lacrime argentate
simili ai riflessi
cangianti
delle pieghe marine.
Impietoso tramonto
avvolto da stelle argentee
manto di cielo
ovattato
da sogni notturni
speranze vane
e vuote illusioni
celate nel cuore
deserto di donne sole,
crisalidi senza ali.
91
A capo chino
di Patrizia Tomidei
Pianto grane in mezzo ad un evento
Pianto grane in mezzo ad un evento.
Faccio la danza della pioggia,
spero che un uragano spazzi via la polvere dei miei ardi insulti.
Discuto con il mio ego,
metto a tacere i dubbi con una museruola per giganti,
grido contro il nulla
in un litigio senza fine.
Pazzo chi prende per mano la sua pazzia e le indica l’uscita.
Impaziente scruto con avidità il futuro,
per decidere il mese delle messe
e raccogliere i frutti della siccità.
L’attesa è più estenuante della noia.
Mescolo le carte e baro,
imbarazzante ed incerto il profitto ottenuto
nella vana speranza di liberarmi della volontà di azione.
Stacco le targhette luminose
inviatemi dal fronte,
l’attacco con un po’ di saliva alla morale della gente.
Cerco di consegnare una medaglia
per un gesto altrimenti insensato
e chiudo il mio rispetto,
intinto nella nomea del perbenismo,
dietro ad un sì
dal sapore acerbo.
A capo chino,
verso un terreno crepato dalla stupidità,
accetto ogni insulto,
92
lascio scemare il coraggio
lo trasformo in una scorza per giovani erranti.
Raccolgo la mia vanga,
abbandonata nell’angolo più lontano
e riprendo a girare la terra,
a concimare gli eventi.
Il rumore dei miei colpi,
sovrasta lo scoccare del tempo.
Una goccia cade
provocando un boato inaspettato,
uno scroscio di impavido ottimismo
sbarra la strada al caldo soffocante.
La pioggia porta un equilibrio
precario,
affascinante,
il coraggio stagnato sulla terra
viene allontanato lontano
da un rigagnolo.
Qualcuno,
al posto mio
vedrà i frutti di un buon raccolto.
93
Reminiscenze
Capoverso del presente
specchio di una identità
trafitta,
messa in croce brutalmente,
ciondolante fra sconfitta e vittoria,
lontana come è lontano il cielo,
inquieta come libertà
incatenata a dogmi senza tempo,
a religioni a cui si crede a stento.
Monologo interiore
senza parole,
soltanto funesti gesti,
sbiechi e irrisori.
Rinascita incompleta di un’anima
distante secoli da sé stessa,
vicina a mille altre,
indefinite auree con aspirazioni insipide
e futuri di incontrastata ipocrisia.
Idiomi sul dunque e il forse,
crisi,
crisi indissolubile
come nubi cangianti
tiepide e leggere,
cariche di sola pioggia fredda.
Ricordi
riallacciano frontiere cancellate sulla carta,
dimentichi della polvere caduta,
del sudore,
concime per una terra
assetata di fatica.
Giorni,
lasciano giorni,
indimenticabili ritagli di vita
che creano circostanze
di umana ricchezza.
94
Istanti
Sono solo istanti
passano in fretta
auto veloci nella notte
i fari sbiadiscono all’arrivo dell’alba
solo il fumo aleggia
in ricordo del falò
che ha estinto ogni cosa
dando vita alle ceneri dei rimpianti.
Sono solo istanti
fuggiaschi senza nome
clandestini sbarcati per caso
in un territorio precario.
Ospiti indesiderati
fermentano rancori già esistenti
mentre il tempo avanza
fautore di pregiudizi.
Sono solo istanti
finiscono
grazie a Dio
e ci riportano l’onore perduto
lasciandoci aridi e nuovi
liberi
dalla sensazione snervante dell’insulto
sollevati dall’odore dell’onta
sfumato negli umori altrui.
Sono solo istanti
intensi e sfuggenti
percorsi privi di meta
eresie colpevoli di esistere
tormenti senza natura.
Logoranti occasioni
trasformano un piccolo rumore
in un tonante boato
95
per poi svanire in un momento assurdo
lasciando solo un ricordo spiacevole
a coronare una giornata assurda
mentre il grigiore sbiadisce
cedendo posto alla luce
perché
in fondo
sono solo istanti.
96
Il distacco
Mi distacco con cautela dal mio saldo bozzolo
attaccato al ramo più alto
nel bosco che non ha memoria.
Lascio ogni vecchia scoria
a colorare le dimore dei ricordi
mentre faccio il conto delle cose da portare con me.
Mi distacco con cautela
la calma non è che un’illusione
per convincermi
che non c’è altro da dimenticare
a parte ciò che ho già scordato.
Lascio il tempo a consumare i ricordi
sperando inutilmente
che almeno esso trovi piacevole
la parte di me
che scivola nel dimenticatoio
urlando e strepitando
che non vuole essere buttata via.
La mia indole imbrattata
dalla tempera di un pittore maldestro
rimane macchiata
da un disegno indefinito
che sa solo di astratto.
Mi distacco con cautela
la calma non è che un’illusione
non mi volto indietro
la mia decisione è irremovibile.
Il bozzolo che mi ha ospitato
lo lascio avvinghiato senza esultanza
ad un ramo alto
nel bosco che non ha memoria.
Addio
ad ogni azione che ho già rimosso
addio a me stessa
alla mia reminiscenza
priva di padrone e di storia.
97
Viaggio verso sera
di Elena Zaccheroni
Dolore dell’anima
Taglia come lama affilata
il gelido silenzio di chi non vuole ascoltare
di chi getta via le tue parole, i tuoi sogni
e continua il suo cammino
incurante di te
Preme sul cuore il peso della delusione
di un affetto regalato a chi non sa che farsene
e invade i tuoi sogni un volto
che è estraneo ai tuoi giorni
ma che hai scolpito nella mente
Lascia un sapore amaro
quella lacrima che ti riga il viso
contro il quale si accanisce il freddo
di un’alba invernale.
98
Il viaggio
Alla fine hai intrapreso il tuo viaggio
verso sera, senza di me
con lo sguardo sembravi cercare una luce
forse non più di questa terra
Penosa è stata la tua partenza
tra noi parole sempre più rare
gesti e sguardi a sostituirle
nello sgomento dell’attesa
Ora io, smarrita, attraverso queste stanze
vuote dei tuoi passi e del suono della tua voce
ma ti ritrovo nei volti e nei luoghi
e nelle mie parole che rompono il silenzio
Mi rifugio nel pianto
per sciogliere il dolore di un’assenza che non si misura
di una perdita che non si colma
con l’unico conforto del bene immenso che mi hai voluto, mamma.
99
La resa
D’un tratto,
i passi muovono verso quella direzione
dove l’Es può erompere con forza
e l’anima allargarsi fino a contenere il tutto
La mente si sforza di annullare quei giorni
per non sentire troppo dolore
ma il cuore, nemico, l’asserraglia
torturandola, spietato
Infine, l’evento temuto accade
quella natura morta si dissolve
perché il frutto è buono e profumato
e invoglia all’abbandono.
Notturno
Spenta è l’eco del giorno
restano solo i pensieri a far rumore
il sonno sopraggiunge
e ti rapisce
e il libro cade, non più serrato da due mani stanche.
A mia figlia che dorme
Veglierò su di te ogni istante
senza parlare
mentre la notte scivolerà via rincorsa dal giorno
e l’universo sarà ancora nascosto sotto le tue palpebre abbassate
su due occhi affollati di sogni.
100
Il tempo e le stagioni
di Antonia Zampolla
Il tempo
TEMPO che passa, TEMPO che trascorro, TEMPO che vivo.
“TEMPO” è una parola come un’altra.
Che valore ha questa parola?
É un valore che cambia, si trasforma, muta, muore e rinasce
prendendo un’altra dimensione.
Come la vita, il tempo è qualche cosa di prezioso:
“mai come adesso, a questa età mi accorgo che è già passato mezzo
secolo della mia esistenza”.
Genitori invecchiati, malati, bisognosi di amore, conforto,
accompagnarli piano, piano al termine del loro vivere in questo
pianeta.
Figli adulti, che vanno e vengono, senza ancor trovar la loro via,
entrano, escono,stravolgono continuamente abitudini e chiedono
sempre appoggio, consiglio per le loro irrequietudini.
Senza poi parlare del compagno che ti sei scelto per percorrer la
lunga strada del vivere insieme, “fin che morte non ci separi”.
“La casa” anch’essa è invecchiata; occorre metter mano a lavori
grossi, cambiar mobili e riordinarla tutti i giorni come i nostri animi.
Le forze interiori e soprattutto quelle fisiche sono diminuite, senza
poi parlare degli “acciacchi”.
“Mi vado a letto con un dolore, mi alzo con due”.
Come fare???
Bisogna continuare a lavorare e far fronte a tante cose nuove e tutte
insieme.
C’era una volta “UN TEMPO” per ogni cosa, correvo
continuamente, usavo tre mezzi di trasporto: ”auto, treno, autobus”
per raggiungere il luogo di lavoro.
Eppure non ero mai stanca!!!
Oggi il TEMPO “passa” come è passata la giovane età.
La dimensione del tempo è qualche cosa di meno affannoso, più
101
lento, come i movimenti del mio corpo.
Comprendi che più veloce non puoi andare.
C’è ancor tanto da conciliare,
ma non ce la puoi fare.
ECCO….. il tempo morto; DESIDERIO di tempo morto.
É proprio il tempo in cui si assapora….. quasi la sazietà, il gusto di
non aver più nulla da dire.
“TEMPO” no di noia, ma di uno stato nascente di altro desiderio di
vita ….. ed entrarci in silenzio
nella consapevolezza che nulla può essere più spostato
perché
É AVVENUTO PER SEMPRE
102
Le stagioni
Le stagioni hanno ognuna il loro fascino
Osservarle, viverle, nella loro pienezza.
Ognuna di loro offre… tante particolarità;
colori, sapori, umori.
La primavera con i suoi germogli, i primi boccioli, le prime
giornate di sole, con i suoi colori non ancora ben definiti, con il suo
clima mite: né caldo né freddo, con le sue prime pioggerelle mi
fanno pensare alla fanciullezza, alla mia tenera età, trascorsa, ormai
lontana.
L’estate, con la sua pienezza, come l’età adulta, vive in sé la
grandezza, l’invulnerabilità… il pensiero positivo.
La vita sembra meravigliosa.
Ascoltare la voce del sole è una gioia senza confini.
In estate come nell’età adulta, contemplo la bellezza, l’armonia di
ogni cosa che mi circonda.
L’autunno, paragonabile al brivido di una lacrima, ad una nube
grigia sul soffitto, alla penombra nello spazio, alla mezza età.
L’inverno: il tramonto delle illusioni
il fumo di un camino lontano
il silenzio che regna nella valle
la neve che scende dolcemente
un esile fusto d’albero…. solo
cielo grigio, come una perla estratta dal fondo del mare
il mondo “incantato” riposa.
L’affanno della vita si perde nel vuoto
silenzio, buio, paura.
Paura dell’ignoto
un ricordo presente e lontano
una presenza continua di amore e dolore
“consapevolezza” di dover morire prima che sorga una nuova alba
quante primavere ancora? Quante estati? Quanti autunni? Quanti
inverni in questa vita terrena???
Quanti in altra vita??? Ignoto!! Assoluto!! Infinito!!
103
“SGUARDI SULLA CITTÀ”
Incontri sulla porta di cucina
Indice
Presentazioni:
Loretta Bertozzi
Assessore alle Politiche di Welfare del Comune di Forlì…………… I
Lalla Golfarelli
Responsabile del Progetto Weird, ECIPAR Emilia-Romagna…... III
Maria Maltoni
Presidente Commissione Pari Opportunità del Comune di Forlì,
Responsabile del Comitato Impresa Donna CNA Forlì-Cesena… IV
Testi vincitori
Premio sezione narrativa
Amnesia
di Vanessa Sorrentino……………………………………….………1
Premio sezione poesia
Parole Ascolto
di Katia Zattoni…………………………………………………..….7
Premio speciale “all’ironia”
La vacanza
di Marco Maltoni…………………………………………..………13
Premio speciale “alla pagina di diario”
Dentro le mura: quello che le donne non dicono
di Daniela Imolesi Casadei……………………...…………………18
Segnalazione speciale
Segnalazione speciale di incoraggiamento per
Un giorno qualsiasi
a Eleonora Benetti…………………………………………………21
Testi segnalati per la pubblicazione
Via si parte di Laura Beoni……………………………….…….…22
Fortuna o rispetto? di Sabrina Catani………………….….…..…24
Pensieri a gradini di Daniela Coralini……………………………29
Anni raffermi di Serena Focaccia………………………….……..39
Pensieri a quattro mani di Ermes Fuzzi e Astrid Valeck…………42
Buonanotte di Gianluca Gatta…………………………….………50
Poesie di casa di Giorgio Gavelli………………………….………52
Il sogno e… la realtà di Maria Luisa Memma…………….………56
La differenza/ La ziron della nouvelle cuisine
di Mariangela Paganelli……………………..…………….………61
AAA. Dove vuoi [email protected] di Danila Rosetti…….……...65
La luna nera di Antonietta Valentini……………………….……..68
Cronaca da una cucina di Maria Filippa Zaiti…….…….…72
Rocchina di Antonia Rocchina Zampolla………………….………73
Presentazioni
Il tema della ripartizione dei compiti di cura tra i diversi
componenti della famiglia ha a che fare con la storica
divisione del lavoro tra uomini e donne, in famiglia e sul
lavoro.
Il lavoro delle donne, quello di cura tra le mura domestiche, di
accudire i bambini, organizzare la vita familiare e occuparsi
dei familiari anziani o ammalati, è il più sommerso ed ancora
poco visibile, pur essendo importantissimo.
Fortunatamente non sono più un’eccezione gli uomini che
desiderano stare vicino alle persone care nel momento del
bisogno, i padri che vogliono partecipare alla crescita dei figli,
i mariti che vogliono fare “la loro parte” in casa.
Anche i papà possono stare a casa con i loro bambini in caso di
malattia: lo prevede la legge dei “congedi parentali”, la n. 53
del 2000, che aiuta i papà a vivere di più con i loro bambini e le
mamme a lavorare più serene.
Purtroppo è ancora poco utilizzata e, a fronte di una forte
assunzione di responsabilità professionali da parte delle donne
lavoratrici, persiste, all’interno delle nostre case,
un’organizzazione dei ruoli di tipo tradizionale.
Obiettivo del Concorso è dare voce a donne e uomini, offrendo
loro l’opportunità di esprimere, attraverso opere letterarie
inedite, esperienze, emozioni, testimonianze di vita o storie
inventate, sul tema dei giochi di equilibrio tra uomo e donna,
che attraversano la loro vita all’interno delle mura domestiche.
Il successo della 1° edizione ci ha confermato che l’impegno
sostenuto dall’Amministrazione Comunale in collaborazione
con ECIPAR E.R nell’ambito del progetto WEIRD, ha
sensibilizzato sia donne che uomini sul delicato tema della
conciliazione e ci ha dato la spinta a continuare.
I
Ancora una volta le cittadine e i cittadini hanno saputo
cogliere, in questo momento di scrittura, sia le possibilità
espressivo- comunicative sia gli spunti di riflessione.
Con l’auspicio che diventi un appuntamento atteso ogni anno,
ringrazio le donne e gli uomini che poco hanno da invidiare ai
grandi autori in creatività e passione letteraria.
Loretta Bertozzi
Assessore alle Politiche di Welfare
del Comune di Forlì
II
Presentazioni
“WEIRD: Women and Enterprises Involved in Real
Development”, vuole ricercare e sperimentare metodologie e
pratiche efficaci per le pari opportunità, la conciliazione dei
tempi di vita e di lavoro nelle organizzazioni e nelle realtà
locali.
Donne e uomini sono una risorsa troppo preziosa per non
lavorare su innovazioni culturali e di contesto che ne
aumentino il benessere: benessere organizzativo nei luoghi di
lavoro, benessere personale e sociale nelle città e nel mondo.
E’ una necessità non solo etica e sociale: la difficile attenzione
alle differenze, che
qualsiasi realtà organizzativa ed
istituzionale deve affrontare produce conflitti, barriere di
comunicazione, difficoltà di condivisione e di lavoro in
comune, che ne frenano lo sviluppo e la competitività.
La partecipazione e il dar spazio alle idee è la chiave di volta di
Weird, che vuole trovare spazi e pratiche efficaci per far star
meglio donne, uomini e organizzazioni e conciliare lavoro e
vita. Il progetto interroga donne e uomini, ma sono le donne al
centro.
Sono ancora le donne che reggono i fili che tengono insieme le
vite, è per le donne che il lavoro di cura è passione e limite:
limite assunto nella percezione di sé, limite oggettivo e limite
culturale, reso greve da stereotipi duri a morire.
Lalla Golfarelli
Responsabile del Progetto Weird
ECIPAR Emilia-Romagna
III
Presentazioni
La cucina è da sempre il luogo dove la famiglia abitualmente si
incontra - e si scontra - quando emergono conflitti. Nulla,
quindi, è più adatto della cucina per ambientare storie di
conciliazione/conflitto, quali sono quelle che hanno partecipato
a questa seconda edizione del concorso “Sguardi sulla città”
nel percorso del progetto Weird, finanziato dalla Regione
Emilia Romagna e dall’Unione Europea, promosso dal
Comitato Impresa Donna della CNA dell’Emilia Romagna, e
realizzato in partnership da ECIPAR E.R., dal Comune di Forlì
e da altri soggetti.
Una delle più importanti e durature rivoluzioni del ‘900 ormai lo affermano tutti gli storici - ed io ne sono
profondamente convinta, sono i processi di emancipazione
femminile seguiti al lavoro extradomestico ed alla conquista
dei diritti politici. Non dimentichiamo che nel 2005 ricorre il
60’ anniversario del diritto di voto alle donne , stabilito nel
1945 con un decreto del Governo Bonomi nell’Italia ancora
divisa dalla guerra, con un provvedimento fortemente
significativo dal punto di vista dei diritti democratici. Le donne
poi, votarono per la prima volta, nel 1946.
Ma è il lavoro fuori dalla famiglia quello che più mette in
discussione la tradizionale suddivisione dei ruoli, perchè
quanto più comporta impegno e durata di tempo (ruoli di
responsabilità, imprenditoria, professioni) quanto più è difficile
da conciliare con il lavoro di cura familiare. Ciò nonostante il
fatto che le famiglie si siano “ristrette” come numero di
componenti, altra rivoluzione epocale prodotta dalla possibilità
di controllare la fertilità.
Ancora oggi vediamo donne che rinunciano ad un lavoro
“importante”, per consentire al proprio compagno di
raggiungere traguardi nella vita professionale, mentre
IV
solitamente non succede il contrario. La stessa cosa accade
quando gli impegni sono di carattere pubblico: quanti sono i
mariti che fanno da baby-sitter, mentre le mogli partecipano a
riunioni? Non molti, a giudicare anche dai dati sulla presenza
delle donne a livello politico ed istituzionale in Italia.
L’obiettivo di conciliare lavoro - ma anche partecipazione alla
vita sociale - e vita familiare è di grande attualità ed è stato
perciò posto giustamente al centro di molte attività realizzate
dal Comune di Forlì.
Ma oltre alla imprescindibile presenza di politiche e servizi, c’è
un aspetto culturale legato agli stili di vita ed alla
consapevolezza di sé, spesso ancora difficili da modificare.
Per questo un concorso di scrittura che chiede alle cittadine ed
anche ai cittadini, di riflettere sulle proprie esperienze e di
socializzarle è importante, perché fa uscire all’esterno ciò che
accade o si dice sulla porta della cucina, dandogli così una
valenza politica, cioè di cosa che interessa tutta la polis, la
città. Serve anche questo per progettare una qualità di vita
migliore per le donne e per gli uomini.
Maria Maltoni
Presidente della Commissione Pari Opportunità
del Comune di Forlì
Responsabile del Comitato Impresa Donna CNA
Forlì-Cesena
V
Amnesia
di Vanessa Sorrentino
Amava il suo intimo, il selvame suo intimo, quell’originaria
foresta che era in lui, sulla cui muta rovina stava verde
luminoso, il suo cuore.
R. M. Rilke - Elegie duinesi
Caterina aveva un male oscuro. Dormiva e sognava, faceva
sogni maldestri e incombenti. Nei sogni si presentava la stessa
situazione: lei che cercava di fare una cosa, ma uno strano
ostacolo glielo impediva. Un sogno tra tutti ricorreva. Cercava
dl rientrare in casa perché si era dimenticata qualcosa di
importante. Infilava le chiavi nella toppa, ma scivolavano senza
fare attrito nella serratura. Allora veniva presa dal panico e si
svegliava.
Puntualmente il telefono squillava, era Franco. Riconosceva lo
squillo, a differenza da tutti lì altri suoni che rimanevano
all’esterno, quando era lui a chiamare, lo squillo risuonava
come attraverso una cuffia con una piacevole vibrazione.
Caterina aveva la bocca impastata di sonno, ma cercava di non
mostrarlo.
Franco faceva il bibliotecario in un piccolo paese di provincia,
non molto distante dalla città F., dove abitava con Caterina.
Ogni mattina prendeva l’autobus per raggiungere la biblioteca
e lì catalogava i libri fino a sera. Pile di libri che nessuno
avrebbe mai letto. Ciò che lo legava a Caterina era un amore
etereo, ma non passeggero. Franco era la quiete che Caterina
non voleva disturbare, un giardino che doveva attraversare in
punta di piedi.
Caterina non riusciva a risalire a un fatto preciso che l’aveva
ficcata in quel buco. Il suo corpo le inviava strani segnali che
1
non riusciva a decifrare. Lo sentiva così lontano, come se non
le appartenesse. Quell’indecifrabile e continua emicrania la
opprimeva, le provocava un senso dì vertigine. No non è
niente, diceva il medico, ci vuole solo un po’ di riposo.
Adattamento: nella biologia dell’evoluzione, un processo che
rende un organismo più adatto a sopravvivere.
Subito dopo il trasferimento, Franco aveva trovato posto in
biblioteca e il suo lavoro gli piaceva. Avere un impegno
quotidiano lo rassicurava, aveva l’impressione di sedimentarsi
nel tempo. Si teneva aggiornato sulle nuove uscite e sapeva già
in anticipo quali libri si sarebbe trovato sul tavolo. Caterina
invece non sopportava la monotonia, non riusciva a rispettare
gli impegni. C’era una strana forza che la teneva lontana da
ogni abitudine, che le impediva ogni legame. L’unico legame
che riusciva a desiderare era quello che aveva con Franco.
Per qualche tempo aveva lavorato come cameriera in un
ristorante. Il locale era un ritrovo di giovani nella periferia di
F.. Entrava al tramonto e usciva a notte fonda.
Una sera fu colta da un malessere improvviso. Sentì un lieve
capogiro e nello spazio di pochi secondi cadde per terra. Il
vassoio che teneva in mano scivolò sulle gambe di un tizia che
per fortuna non si scompose. Si risvegliò sotto una luce fredda
e lunare. Le fecero alcuni esami, ma risultò che tutto era in
ordine, niente di fisico dunque. Una forte sensazione di
claustrofobia non la abbandonava.
In seguito provò a giocarsi fino in fondo con l’insegnamento.
L’idea di stare con i ragazzi la entusiasmava. Era convinta che
per insegnare sarebbe dovuta partire dagli interessi di ognuno
di loro.
Felicità: accordo tra le esigenze interiori di un individuo e
l’ambiente.
Si decise per una supplenza. Un giorno uno dei ragazzi
manifestò il desiderio di andare a visitare lo zoo. Tutti,
compresa Caterina, furono molto colpiti dalla visione di una
2
piccola scimmia che si muoveva lentamente dietro la gabbia
come fosse sotto ipnosi. Teneva gli occhi fissi verso il basso e
camminava in cerchio con le braccia a penzoloni. Provarono a
gettargli delle noccioline, ma l’animale non si accorse di
niente, era preso da una danza invisibile e assorta.
Caterina amava i ragazzi Quello che non sopportava della
scuola era la burocrazia. La compilazione dei registri, il voto, i
programmi le riunioni. Si sentiva vivisezionata. Durante una di
quelle numerose riunioni, si assentò. Una sua collega la
accompagnò in bagno e lì vomitò tutto. Quando la riportarono
a casa, presa da una crisi scaraventò a terra tutto quello che la
circondava e poi si lasciò cadere esausta sul divano. Non
avrebbe più rimesso piede in quel lager. Aveva bisogno di
respirare. Franco l’assecondò.
Rimase a letto per dieci giorni consecutivi. L’emicrania non le
passava e il corpo le si era improvvisamente coperto di piccole
macchie rosse. Il medico, dopo una visita accurata disse che
non c’era niente, accennò a una forma di stress.
Stress: risposta patologica agli stimoli negativi dell’ambiente.
Caterina attraversò una specie di quarantena. Le sembrava che
il mondo fosse governato da leggi divine e impersonali. Uno
specchio impassibile che non riflette altro che, sè stesso. Quella
notte ebbe un sogno, uno di quelli che affiorano ogni tanto dal
fondo. Come provenissero da un sottomarino immerso
nell’acqua. Sognò di tornare nella sua casa d’infanzia, nel
paese B. che aveva tanto amato, ma che da un certo punto in
poi aveva sentito come un insopportabile peso. Entrò dalla
porta di ingresso che era più pesante del solito. Un portone di
legno verde. Al posto delle stanze è cresciuta una vegetazione
selvatica e inestricabile. Sulle prime si spaventò, dov’erano
finiti i suoi ricordi? Non c’era più la cucina dai muri alti e
bianchi, il tinello che emanava un odore acre di detersivo, la
sua camera da letto stracolma di libri e di bambole. La sua casa
era diventata una foresta intricatissima, il pavimento si era
3
coperto di rovi, dal soffitto pendevano stoloni d’edera. La
vegetazione era talmente fitta da nascondere l’orizzonte.
Caterina aveva la sensazione di essere sotto l’influsso di un
incantesimo. Era spaventata e allo stesso tempo provava un
eccitante stupore.
Sentì il tepore del suo corpo e subito dopo solo l’impronta
calda nel letto. Un rumore di piatti i cucina. Franco ogni
mattina ripeteva il rito del caffè e poi di corsa al lavoro. Un
moto d’orgoglio. Ci riprovò. L’autobus la scaricò di fronte alle
porte del supermercato e lei entrò infreddolita. Indossò la
divisa e si sedette alla cassa, li rumore delle casse era ritmico e
infernale Sorrideva e incassava, incassava e sorrideva
indulgente. Al terzo sorriso le pareva già di essere un
manichino. Digitava numeri e puntava la luce del laser sul
codice a barre di scarpe, scatolette, montagne di oggetti.
Smistava carrelli e truppe di persone al ritmo incessante di bip
elettronici e annunci promozionali. Provava a cercare una
musica in tutto quel frastuono e forse la trovava, ma la perdeva
anche subito. Il nastro che portava la merce verso di lei girava
a ciclo continuo. Caterina si senti soffocare, di scatto si alzò
dalla cassa.
Provava una nausea fortissima. Raccontò alla sua collega che
forse era incinta e se ne andò di corsa. Tornando a casa, si senti
sollevata. La passeggiata sul viale la rinfrancò.
Nausea: malessere che si manifesta attraverso un’avversione
per il cibo, giramenti di testa, sudorazione e salivazione
abbondante.
Era sola nell’appartamento abbagliato dal sole le pareti
imbiancate di fresco. Lo sguardo assente come rivolto a un
interno plastificato. Una terribile sensazione la possedeva.
Sentiva che il mondo si era staccato da lei e navigava in acque
lontane e insondabili.
Fa un passo, è di fronte allo specchio. Chi le sta davanti ha
l’impressione di non esistere dentro ai suoi occhi. Caterina
4
mette su il caffè, è un rito. Aspetta che la moka fischi mentre i
pensieri stentano a decollare, come fossero rallentati
dall’effetto di un delay. Non esiste niente intorno a lei che non
sia perfetto e connotato da un alone di assenza. Lo vede solo
adesso, la sua casa è ossificata: un tavolo di formica al centro
della stanza, in un angolo una fila dì mensole con qualche
libro, un divano con un telo bianco posato sopra perché non si
sporchi. Dal soffitto un neon diffonde una luce abbagliante e
irreale. La sua casa, fredda e impersonale quanto la sala
d’attesa di una stazione.
Si guarda le mani, si accarezza le braccia fino alle spalle da cui
sporgono le ossa appuntite come spine. Si tocca il ventre
scavato le ossa del bacino spingono per uscire dalla pelle. Apre
d frigorifero qualche uova e un litro di latte, l’essenziale. Pensa
che il cibo per lei non ha nessuna importanza. Caterina vede
d’un colpo la sua gabbia, si ricorda la scimmia incontrata allo
zoo. Si sente distante, senza carne, come quelle sante che si
nutrivano solo di ortiche. All’improvviso un fischio, la moka
sul fuoco, la visione vacilla, si sente un forte tonfo per terra.
Il mio cuore è vuoto. Non penso ormai che a fuggire. Questa
mattina è così bianca. Mi sono alzata all’alba, ho caricato il
mio bagaglio sulla macchina - un vestito leggero, un paio di
scarpe e qualche libro. Ho chiuso il baule con un colpo secco e
ho messo in moto. Mentre guidavo cercavo di non pensare.
Guardavo le strade che si aprivano davanti ai miei occhi, la
luce che cambiava. Ho guidato per tutto il giorno dimenticando
di mangiare. La sera sono arrivata in un piccolo hotel
sull’autostrada, aveva un’insegna azzurra molto consumata. Ho
chiesto una camera e mi sono immediatamente addormentata.
Stamattina ho preso un caffè nel bar dell’autostazione. Avevo i
crampi allo stomaco. Insieme al caffè mi sono fatta portare
un’enorme fetta di dolce al cioccolato. Il locale era male
illuminato, al centro della grande sala c’era un esile neon che
lasciava nella semioscurità i tavoli più appartati. Dietro la
5
vetrata le nuvole scorrevano veloci. Cercavo di pensare ai
luoghi che avrei visitato, ma mi veniva in mente solo la mia
casa, quella dove stavo da piccola. I soffitti alti le pareti
bianchissime e le finestre che davano sul mare. L’orizzonte lì
era così largo. Con la mente planai e fui di nuovo a terra, tornai
a guardare la gente che si affaccendava in quel caffè. In un
angolo vidi una donna seduta, di fronte a lei c’era un uomo che
le parlava senza guardarla. La donna aveva un’espressione
impassibile, nulla sembrava toccarla. Teneva le mani composte
sulle ginocchia, portava un cappello che le copriva gli occhi.
Mi accorsi che alcune persone mi stavano osservando, allora
presi il portafogli dalla borsetta e pagai in fretta la colazione.
Salii in macchina, aprii la cartina stradale e mi persi nella
visione di strade, montagne e fiumi. Mi diressi verso il mare,
prendendo una strada a caso.
Non seguivo la mappa, mi lasciavo attrarre dai nomi dei paesi:
Torre Molino, Ortigia, Fontane Bianche, Fontane Bianche….
Avanzavo lentamente da una strada all’altra, il paesaggio
cambiava di continuo. Mi allontanava dalle vie caotiche del
centro e l’orizzonte si distendeva come un foglio bianco. Dai
vetri scorgevo lunghe file di alberi. Case solitarie circondate da
campi interminabili e distese di cielo che si aprivano
all’improvviso. Decisi di lasciare la macchina e proseguire a
piedi. Avevo indossato il mio vestito leggero e le scarpe basse.
Mi era presa una terribile voglia di farmi portare dal corpo
senza dovermi preoccupare di niente. Erano le gambe a
condurmi. Camminavo ai bordi della strada vicino al fosso,
mentre il vento muoveva le teste dei papaveri.
Passai la notte all’aria aperta, vicino al molo. Osservavo le navi
che salpavano. Il porto era affollato la gente si imbarcava per
chissà dove. Mi sono svegliata prima dell’alba, la luce del sole
mi scaldava le guance. Ho lasciato che l’aria fresca mi
inondasse il viso. Sono rimasta a lungo immobile a guardare il
mare, mi ricordava la mia casa.
6
Parole ascolto
di Katia Zattoni
Parole ascolto
Quante parole sulle pareti
rimbalzano
famiglia
casa
lavoro
ed io in mezzo mi siedo
a gambe incrociate
aspetto
ascolto.
Ascolto le parole che più forte
rimbalzano
e quelle che strapiombano
al centro
dove mi trovo
dove mi trovano
seduta
col viso tra le mani
in ascolto
in attesa.
Ascolto le parole che più forte
rimbalzano
orari
responsabilità
doveri
e quelle che mi feriscono
che imprimono dottrine.
7
Non riesco a fluidificare i flussi
non posso lenire i graffi
profondi
schizzi di suoni
lacerazioni di sillabe
al centro dove mi trovano
dove mi trovo
seduta
con gli occhi chiusi.
Anche questa mattina
quante parole sulle pareti
rimbalzano
uomo
donna
ruoli
al centro della cucina.
Poi apro gli occhi
muovo una mano
e le blocco
le fermo
con un dito le dissolvo.
Poi mi alzo in piedi
muovo un passo
ed esco dalla cucina
col silenzio mi riparo.
8
La Porta della cucina
Ogni volta che mi dici
esco
e subito dopo esci
ogni volta ho paura che non torni.
Ogni volta che mi saluti
affacciato alla porta della cucina
e subito dopo ti giri e te ne vai
ogni volta ho paura che sia l’ultima.
Eppure nulla è cambiato
nulla
fin dal primo giorno
tutto ci gira attorno
con movimento di stelle perfette.
La mattina
il risveglio, la colazione
nelle tazze l’atmosfera del caffè tostato
tutto ci unisce nello stesso pavimento
ci gira attorno tra le stesse mura.
La sera
il ritorno, la cena
nel forno il calore del pane scaldato
di nuovo sullo stesso pavimento
di nuovo tra le stesse mura
e tutto ci unisce
ci gira attorno
con movimento di stelle perfette
fin dal primo giorno.
Eppure, eppure
Ogni volta che mi dici
esco
affacciato sulla porta della cucina
9
e subito dopo esci
stringo il suono di quelle lettere
nel palmo della mano
e chiudo la porta della cucina
perché non scappino
perché ancora una volta
non sia l’ultima volta.
10
E’ un equilibrio strano
E’ un equilibrio strano
quello in cui tu ed io viviamo
quello in cui nuotiamo
aspettando un’altra onda
che ci renda naufraghi
nel nostro dormiveglia quotidiano.
E la sveglia del mattino
mi sveglia solo un po’
poi arrivi tu
col mio caffè
e le notizie del giornale
mi richiamano alla realtà:
i bambini a scuola adesso
poi io al lavoro
e tu lontano.
È un equilibrio strano
quello che insieme ci inventiamo.
Al gioco dei ruoli
ci gioco solo un po’
poi cominci tu
col tuo faidaté
e la tua fida esuberanza
mi ferisce l’egoismo:
insieme camminiamo
poi io ti adoro
e tu lontano.
11
È un equilibrio strano
quello che noi due creiamo,
quello in cui nuotiamo
fino alla prossima onda
che trovi naufraghi
nel nostro dormiveglia quotidiano.
12
La vacanza
di Marco Maltoni
Antonio e Teresa erano sposati da sei anni e si conoscevano da
quando ne avevano quindici. Il loro amore , come tanti, aveva
conosciuto un momento di crisi proprio dopo essere scesi
dall’altare per entrare fra le gioie ed i dolori della convivenza.
Ma l’arrivo di Cesare nonostante avesse aumentato in maniera
esponenziale i problemi economici e organizzativi all’interno
della coppia, aveva dato un’entusiasmante slancio morale ed
affettivo.
Antonio da alcuni anni lavorava, grazie ad alcune conoscenze,
presso una ditta di smaltimento rifiuti tossici. Il suo incarico
era quello di recarsi, col mezzo dell’impresa, presso il luogo in
cui erano stoccati i rifiuti, ingoiarli, portarli a destinazione e
vomitarli. Questa operazione non si sa bene per quale motivo
veniva sempre svolta di notte. Il titolare della ditta lo aveva più
volte rassicurato sul fatto che tutto venisse effettuato secondo
le norme di igiene e sicurezza ma Antonio che era persona
pignola, per sentirsi più sicuro, durante il lavoro indossava
sempre una mascherina di stoffa e un paio di guanti che si era
procurato a proprie spese. Quindi Antonio era costretto a
lavorare di notte e non rientrava mai a casa prima delle sette
del mattino. A quell’ora Teresa era già uscita di casa da circa
un’ora. Infatti da quando era nato Cesare, nel momento in cui
più di ogni altro avrebbe desiderato rimanere a casa con suo
figlio, era costretta a lavorare per contribuire all’esiguo
bilancio familiare. Dalle 6 alle 14 faceva le pulizie presso un
sexy bar a Barzotto Inferiore, l’anonimo paesino di periferia
dove lei e Antonio si erano trasferiti alla ricerca di canoni
d’affitto più abbordabili. Teresa aveva preso il posto di una
ragazza rumena che fortunatamente aveva fatto carriera ed ora
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invece di girare attorno al manico dello scopone, ruotava
attorno al palo della lap dance.
La somma degli stipendi dei giovani sposi tuttavia permetteva
loro di far fronte a malapena alle spese ed ai bisogni
fondamentali. Per questo Antonio aveva deciso di sacrificarsi
in un secondo lavoro che garantisse un piccolo extra per non
negare a Teresa la parrucchiera e per portarla, finalmente, in
vacanza.
Il secondo lavoro di Antonio consisteva nel vendere porta a
porta la famosa, a suo dire, enciclopedia illustrata degli animali
estinti. La parte difficile stava nel convincere il potenziale
cliente che i dodici volumi risultassero completamente in
bianco in quanto gli animali, essendosi estinti, non potevano
esser stati fotografati e studiati. Le vendite ovviamente
incontravano delle difficoltà, così, come terzo lavoro, Antonio
era entrato, in nero, nella ditta del fratello del suo titolare, in
qualità di finto puntatore durante il gioco delle tre scatoline. Il
suo ruolo era quello di puntare 50 euro per attirare l’attenzione
dei passanti ed invogliarli a giocare. Il problema stava nel fatto
che a fine serata, quando doveva andare a riscuotere la paga
pattuita, si sentiva spesso rispondere:
- dovresti avere 50 euro, ma siccome ne hai puntati e persi 100
dovresti darmene 50 tu.... Sei fortunato che mio fratello ti ha
raccomandato per cui siamo a posto così. - Di fronte ad una
simile situazione, Antonio aveva presentato le sue dimissioni
ma dopo essersi trovato in un cantiere edile col cemento fino al
ginocchio si era dichiarato entusiasta di continuare ad offrire la
propria collaborazione.
Di questa “allegra” famiglia facevano parte anche nonno Berto
(il padre di Antonio), il cane Emilio, il gatto Fufi ed il pitone
Manson.
Nonno Berto aveva sempre dato un bel contributo alla famiglia
avendo cura di Cesare ed accompagnandolo ogni mattina a
scuola. Ma da quando, dopo aver assistito in televisione ad un
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balletto di una avvenente soubrette, era stato colpito da
ischemia cerebrale perdendo l’uso della parola, il suo
contributo continuava a darlo solamente con la pensione di 300
euro mensili.
Perso l’ausilio del nonno, ogni mattina alle 5.50 Cesare veniva
portato dalla mamma a casa dei nonni materni presso i quali
rimaneva parcheggiato fino alle ore 7.30 quando Antonio,
uscito dal lavoro, lo passava a prendere per portarlo a scuola.
Espletato questo compito lo stesso andava a vendere
enciclopedie porta a porta fino alle 12 per poi tornare a casa,
preparare il pranzo e correre a scuola a recuperare il figlio. Al
pomeriggio faceva un riposino post-prandiale mentre Teresa
riordinava la casa, accudiva Cesare e preparava la cena. Dopo
cena al sabato a e alla domenica, Antonio usciva per fare il suo
lavoro di puntatore.
Vita dura! Decisamente. Fatta di tanto lavoro e poco tempo
libero. Una vita in cui i due coniugi cercavano di aiutarsi a
vicenda e di dividersi i compiti organizzando ogni minimo
particolare al fine di riuscire ad espletare le varie incombenze.
Ma finalmente si riuscì a mettere da parte un piccolo
gruzzoletto per regalarsi la tanto agognata vacanza.
Teresa grazie ad un amica aveva saputo di un’offerta last
minute per due persone in un bellissimo villaggio turistico in
Sardegna. Senza pensarci troppo i giovani sposi acquistarono il
pacchetto turistico. In questo posto da favola ovviamente non
era consentito portare oggetti che potessero risultare fastidiosi
per gli altri villeggianti tipo vecchi, bambini, animali o persone
con difetti fisici. Si presentavano quindi una serie di problemi
da risolvere molto in fretta: figlio, nonno, cane, gatto e pitone.
Fu Teresa, con l’ausilio delle opinioniste del salone couffeur
Marinella, a trovare una semplice soluzione per tutto.
Il figlio sarebbe stato sufficiente portarlo al centro estivo di
Padre Don Pedro Filini, il nonno Berto alla casa di riposo
“Ultima stazione”, il fedele cane Emilio abbandonarlo
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sull’autostrada Bologna - Firenze ed il gatto Fufi darlo in pasto
al pitone Manson che in quel modo si sarebbe saziato per circa
un mese.
Ovviamente tutto questo non poteva essere fatto a cuor leggero.
In fondo i poveri animaletti domestici si erano scavati un certo
spazio nei cuori della famiglia. Quindi la decisione di
sbarazzarsene richiese una discussione di almeno 15 minuti.
Ma la voglia e il bisogno di vacanza erano troppo forti ed
inalienabili. La cosa più difficile era stata convincere Cesare e
per questo si era reso necessario promettergli l’acquisto del cd
Tomb Rider 12.1 per la Play Station.
Siccome Teresa doveva lavorare fino all’ultimo istante prima
della partenza, era Maurizio che aveva l’incarico di mettere in
atto il piano “risoluzione finale”. Quando Teresa arrivò a casa
il marito le confermò che ogni cosa era sistemata e, con
entusiasmo, partirono per la Sardegna.
Arrivati però a Cala Gallina, mentre Maurizio sguazzava già
con i suoi braccioli nella piscina dell’Hotel e Teresa era nella
beauty farm col massaggiatore svedese, giunse una telefonata
che mise i due in leggera apprensione. Era Erminia la P.R. del
Salone Marinella che riferiva di alcune notizie battute
dall’agenzia di stampa ANSIA. Sembrava appurato che un
vecchietto morfologicamente molto simile a nonno Berto fosse
stato investito da un’auto mentre attraversava l’autostrada
Bologna-Firenze tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello.
Contemporaneamente un mastino molto simile a Emilio era
stato sbranato in un combattimento con un Pit Bull presso
l’ospizio “Ultima stazione” dopo che quattro vecchietti
avevano organizzato la sfida fra i due cani per poter
scommettere clandestinamente sul vincitore e rompere la
monotonia della casa di riposo.
Parve subito evidente che Maurizio aveva fatto un po’ di
confusione ed aveva invertito le destinazioni del nonno e del
cane. Ma questo non era un grosso problema dato che
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fortunatamente il risultato più importante, liberarsi dei due, si
era comunque ottenuto; anzi in questo modo non sarebbe stato
più necessario pagare la retta dell’ospizio.
Qualche preoccupazione nacque quando telefonò Don Pedro
Filini dicendo che al centro estivo non era stato lasciato il
bambino Cesare ma il gatto Fufi. E considerando quale fosse
stato il destino riservato al povero felino, un’eventuale
ennesima inversione dei ruoli non si presentava affatto di buon
auspicio. Teresa telefonò immediatamente alla vicina
pregandola di precipitarsi a casa e di controllare che Cesare
non fosse accidentalmente entrato nella teca del pitone
Manson.
Passano 45 minuti di angosciante attesa fino a quando squillò il
telefono:
- Pronto! - disse con voce rotta dall’emozione Teresa - Signora
sono la vicina. Stia tranquilla è tutto a posto. Cesare sta
benissimo, anzi ha organizzato una festicciola ed invitato a
cena alcuni amichetti ai quali ha pure cucinato una grossa
anguilla. Manson non è più nella sua teca, ma non si preoccupi,
ora lo cerco….-
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Dentro le mura: quello che le donne non dicono
di Daniela Imolesi Casadei
Sono le 20.30 di un normale martedì.
Sto disperatamente cercando di togliere il filtro della lavatrice
per pulirlo: perché non riesco mai a ricordarmene PRIMA che
il programma si blocchi? Perché mi ritrovo a raccomandarmi a
tutti gli angeli del Paradiso affinché mi diano una mano
nell’impresa, pensando con orrore al salasso di un intervento
dell’assistenza? (o, peggio! alla faccia dell’idraulico, che
l’ultima volta mi ha guardato con compatimento soppesando
qualche etto di calcare fibre tessili peli capelli ecc. che avevano
ostruito il sacro filtro?).
Boh!
Dalla sala da pranzo mi giungono suoni familiari: Giulio e
Anna, i miei figli di 12 e 9 anni, si stanno raccontando le
rispettive giornate ed io, come sempre, mi stupisco di quanto
siano bravi e “compatibili” fra loro.
Sono lontani anni luce dai racconti che sento da altre colleghe
madri a proposito di liti interminabili fra fratelli che volentieri
si menano pur di conquistare il posto davanti alla Play.
Ringrazio per questo la mia buona sorte: non potrei desiderarli
diversi da come sono, i due pupini e, come sempre, mi pento
immediatamente per gli urlacci che ho fatto loro prima di cena.
Cosa sono, in fondo, le mani ancora sporche dopo i ripetuti
inviti a lavarsele o i 10 metri-cubi di cose (leggi libri, giochi,
ciabatte e altro) che mia figlia è stata in grado di “seminare” in
45 secondi netti?
Ah, ecco il tintinnare consueto e metodico delle stoviglie
sporche che il mio metodico e consueto marito sta impilando
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ordinatamente nel carrello: prima i piatti piani, poi i fondi, poi
le posate. I bicchieri, certo, ci mancherebbe e....
- Acc! E questa padella dove la metto? - Mi sembra di sentirla
la domanda che si agita nella sua luminosa mente.
Già, la padella, perché non sia mai detto che mio marito faccia
due giri (intendo sala-cucina- sala-cucina) per liberare il tavolo
dai resti della cena: è una questione di principio. Mette a frutto,
anche in questo caso, la sua intelligenza e, consapevole,
ottimizza al massimo i tempi.
Sono sicura che abbia, anche a questo proposito, una teoria
basata sull’evoluzione della specie che dimostra come noi due
siamo diversi e complementari. In effetti, per quanti sforzi
abbia fatto, non sono mai riuscita a sgomberare il tavolo in
un’unica volta.
Mi consola il fatto che il movimento fa un gran bene alle
gambe.
Sono le 21 e approdo in cucina: quanti anni sono che noi due
viviamo insieme?
Faccio due conti: avevo 30 anni (non di primo pelo, vabbè), ne
ho 46, quindi sono 16 anni.
Sedici anni di vita insieme.
E, in tutto questo tempo, quante volte, oltre ad impilarli in
modo ordinato, mio marito è anche riuscito a mettere i piatti in
lavastoviglie?
Non so, non vorrei esagerare ma credo che le dita della mia
mano sinistra (che è completa) siano sufficienti per contarle.
Mi sembra già di sentirlo: - Ma, scusa, è la divisione dei ruoli;
e poi lo sai, puoi lasciarli lì, che magari domattina... Non viene
la Rita? ecco, può farlo lei! - Certo, caro, e io qui (e mi tocco ripetutamente la fronte) ci ho
scritto “Gio-Condor”! La Rita ci costa in un’ora quasi quanto
guadagno io. Francamente trovo sia uno spreco farle fare i
piatti: preferisco che pulisca un vetro! -
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Poi, fra l’altro, domani è mercoledì e la Rita viene solo il
lunedì e il giovedì....
Vabbè, che importa alla fine?
Ora che sto qui a dire, ho già pulito la cucina e poi... c’è la
radio a farmi compagnia.
Speriamo riesca a distrarmi da questo stupido pensiero fisso:
perché mio marito mi ha detto stamattina: - Non aspettarmi a
pranzo, che vado con Lele al corso di aggiornamento e faremo
tardi - ?
Peccato: Lele l’ho incontrato alla Coop e il corso di
aggiornamento, beh!...
Quella è un’altra storia.
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Un giorno qualsiasi
di Eleonora Benetti
Il giorno inizia con le urla della mamma. Alle sette in punto la
mamma si alza e incomincia a urlare perchè noi dobbiamo
andare a scuola. Apre subito la finestra e mi ritrovo davanti agli
occhi una luce fortissima.
Aspetto un po’ per alzarmi e guardo la sveglia; sono le sette e
quaranta e invece la mamma dice che sono le otto: forse non sa
leggere l’orologio….. Arrivo in cucina per fare la colazione:
sulla porta della cucina si incontra tutta la famiglia.
L’unica cosa che sa dire la mamma è” forza-dai”.
Continua a ripetere “dai! dai!...dai!....!”
Mentre bevo il latte lei mi pettina: le acconciature che mi fa le
ha studiate il giorno prima. Vado a scuola e poi torno a casa e
la mamma mi dice di cominciare subito il compito. Io ne faccio
un po’ e poi mi stendo sul divano in attesa del pranzo. Dopo
aver pranzato il babbo telefona per sapere se va tutto bene. La
mamma al pomeriggio fa “Battista l’autista” perchè deve
accompagnare me e mio fratello da tutte le parti: danza,
pianoforte, clarinetto, inglese, solfeggio….abbiamo mille
interessi e lei ci segue e ci aspetta pazientemente. La sera ci
divertiamo a fare i concertini io e mio fratello Riccardo: io
suono il pianoforte e lui il clarinetto e gli spettatori sono il
babbo e la mamma. Infatti, quando ritorna il babbo dal lavoro,
non fa neanche in tempo ad entrare in cucina perchè noi due lo
tiriamo per venire a sentire gli ultimi brani studiati. Alla fine
del concertino andiamo a letto. Sulla porta della cucina si
reincontra la famiglia per darsi la buonanotte. Il mattino
seguente sulla stessa porta si ricomincia da capo.
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Via si parte
Di Laura Beoni
Suona imperterrita la “sveglia birichina”
“Buongiorno!!!”
anche se fuori è ancora buio… sono le 7.00 della mattina.
Il profumo che fuoriesce dalla moka risveglia i sensi
assonnati...
Mentre il TG ci aggiorna sui tristi “fati”.
“Buongiorno Tesoro... Buongiorno Bambine...
Qui, sono già calde le briochine...
Latte yogurt cereali
Per dare l’energia alla giornata sono ideali...
Ciao maritino, guida pianino,
ti ho preparato un sano panino.
Non ti scordare la lista della spesa e di passare in lavanderia!
Queste commissioni sono sulla tua Via.
Su, Bambine la campanella della scuola non aspetta...
Mettetevi la sciarpa in tutta fretta”.
Via si parte nel traffico di città...
Prima o poi si arriverà.
Detto fatto il ciel è sereno
anche al lavoro arrivi in un baleno.
Una pausa per un caffè...
Poi uno snak veloce che poco tempo c’è.
Ma la corsa non si arresta,
vai a prendere le bimbe per portarle, poi, in palestra.
Finalmente è giunta sera...
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Tutti a casa per la cena.
Ad ognuno il suo daffare.
“Presto Bimbe c’è da apparecchiare”.
“E tu caro Maritino accendi il fornino,che la fame si fa sentire
e le verdure sono ancora da pulire!”
Finalmente seduti a tavola ci ritroviamo
e con un fiume di parole ci inondiamo...
I racconti della nostra rispettiva giornata
sono il momento più piacevole della serata.
E poi…….
mentre lui si appresta a sparecchiare
e la lavastoviglie ad avviare,
tu, le bimbe metti a letto con un bacio e una carezza
“buonanotte mie stelline fate sogni da regine”.
Arriva anche il nostro momento...
Sfiniti senza più fiato
ci scambiamo un tenero bacio
sul divano accoccolati
ci addormentiamo come due pesci innamorati.
E’ così che oggi funziona...
Siamo una famiglia, non una singola persona.
Quindi aiutarsi vicendevolmente è molto importante,
e collaborando l’amore si mantiene costante.
Non ci si annoia mai un momento,
e si può superare ogni turbamento.
L’equilibrio fondamentale per una serena vita familiare
è ripartirsi ogni faccenda che si presenta da fare.
Poi ovviamente se è la Mamma a coordinare…
Non ci si può sbagliare! !! !!!
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Fortuna o rispetto?
di Sabrina Catani
Devo ammettere di essere una donna fortunata, mio marito non
è mai stato il tipico maschio romagnolo (forse anche perché è
di origini venete) che vuole la donna brava in cucina e dedita a
casa e famiglia prima di ogni altra cosa.
Fin dai primi giorni del nostro matrimonio, mi ha aiutato in
quasi tutte le faccende di casa, stirare e lavatrice no però, e non
sono tuttora riuscita a convincerlo a provare, purtroppo.
Nonostante quattordici anni di convivenza, non sta mostrando
segni di cedimento e continua a passare l’aspirapolvere, rifare i
letti, lavare i piatti a mano o in lavastoviglie, pulire il bagno,
stendere i panni. Il suo punto forte però è la cucina, oltre a fare
la spesa e decidere abitualmente il menù familiare, prepara lui
le pietanze più appetitose.
In campo culinario io sono relegata alla cottura di: uova (in ben
tre varietà, sode, fritte o in camicia), pasta (al massimo al
pomodoro), bistecchine veloci in padella o alla piastra, verdure
lessate; quando sono in vena, preparo anche una discreta
polenta. Riesco anche a cimentarmi nell’inserimento del pancarrè nel tostapane e nella farcitura di piadine (comperate nella
“santa” baracchina, non preparate da me) con affettati e
formaggi. A dire il vero, sarei anche in grado di preparare
verdure fritte e cotolette, ma lo faccio in rarissime occasioni
perché il fritto fa male alla salute. Quando invitiamo amici a
cena, non si aspettano mai che sia io a preparare il cibo, tanto é
normale per loro vedere cucinare mio marito. Ho addirittura il
sospetto che temano un mio impegno nell’arte culinaria e, le
poche volte in cui ho preparato pietanze per loro, si sono stupiti
nel trovare alimenti commestibili. In realtà io nascondo doti
inimmaginabili, mia mamma sognava di fare di me una discreta
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casalinga e così mi ha insegnato a preparare la pasta fatta in
casa. Sulla carta, sarei in grado di fare la sfoglia, tirandola più
o meno a regola d’arte, per ricavarne succose tagliatelle,
deliziosi tortelli, invitanti cappelletti (rigorosamente alla
romagnola con ricotta e noce moscata). Purtroppo la dieta
impone di non eccedere con cibi ad elevata portata calorica e,
visto che già si esagera andando a mangiare fuori o dai
rispettivi genitori, evito di cimentarmi in tali pietanze.
Con un marito casalingo bravo quanto e più di me vi chiederete
cosa mi resta da fare. Beh, che io non sia una gran cuoca credo
lo abbiate capito, cucino per sopravvivere non per la gioia di
farlo, ma ho anche i miei lati casalinghi, stiro, spolvero,
riordino casa, pulisco il bagno, mi occupo delle migliaia di
lavatrici annue e mi interscambio con mio marito negli altri
vari compiti domestici. Le mie vere specialità sono le pulizie di
primavera (che quasi mai riesco a finire nella “stagione dei
fiori” e spesso, fra un impegno e l’altro, trascino fino all’estate)
e il cambio degli armadi, qui il mio dominio è incontrastato.
Mio marito non nutre alcun interesse in materia, tanto che non
sa né dove sono collocati i propri abiti né quanti siano. Per
evitare che indossi sempre le stesse cose, ogni tanto ruoto le
varie camicie, maglioni, pantaloni che possiede ponendo in
evidenza sempre cose diverse.
A me è tuttora affidata anche la gestione economica della
famiglia, nonostante qualche investimento “a rischio” che ha
eroso le nostre risicate finanze di lavoratori dipendenti.
Insomma, i nostri impegni casalinghi sono più che condivisi e
credo non sia possibile fare diversamente quando si lavora in
due e si ha anche una casa da mandare avanti.
La collaborazione fra di noi è agevolata dal fatto che mio
marito è un turnista e quindi si trova ad avere diverse mattine e
pomeriggi liberi (poi magari lavora il sabato e la domenica).
Ciò gli permette di godere della casa vuota per molto tempo
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durante la giornata, quale migliore occasione dunque per
pulire, fare la spesa e cucinare?
Io, invece, lavoro dal lunedì al venerdì con un orario fisso e
frequentemente devo prolungare la mia presenza in ufficio. Di
solito esco da casa la mattina presto e spesso rientro a sera
inoltrata. Con tali ritmi, il tempo a disposizione per le faccende
è veramente risicato.
Vi pare giusto poi che una donna dedichi tutto il suo tempo
extralavorativo alle faccende di casa? Io sono convinta che una
persona, uomo o donna che sia, debba anche godere di qualche
momento da dedicare a se stessa. La suddivisione di ruoli mi ha
permesso e mi permette, di ritagliarmi spazi per fare un po’ di
sport, per uscire, per curare interessi che vanno oltre le quattro
mura domestiche. Oltre a questo mi ha consentito di
conquistare traguardi che avrei fallito se tutto il carico familiare
fosse stato sulle mie spalle. Non parlo solo del fatto di essermi
laureata dopo il matrimonio e mentre già lavoravo, ma anche
della possibilità di potere dedicare tempo alla mia crescita
professionale. Ovviamente, mio marito ha pari diritti e pratica
sport, esce con gli amici, segue i suoi interessi.
La nostra vita di coppia non è fatta solo di funzioni casalinghe
o di hobby ma, come tutti, abbiamo altri familiari cui dedicare
le nostre attenzioni, in primo luogo genitori e figli. Mio marito,
anche in tema di assistenza ai congiunti, non ha mai mancato di
prodigarsi, è sempre stato presente sia in caso di bisogno dei
miei genitori, entrambi oramai anziani, sia dei suoi.
La nascita di un figlio non ha cambiato lo spirito del nostro
rapporto di coppia. Entrambi abbiamo imparato a cambiare i
pannolini, a pulire il bambino, a preparargli la pappa, a curarlo
in caso di malattia. Credetemi, è importantissimo per una neomamma avere un compagno in grado di accudire il bebè, specie
se la gravidanza è stata molto debilitante per lei.
Nostro figlio è nato a fine 1999 e mio marito ha subito
usufruito della Legge 53 dell’8 marzo 2000, prendendo oltre tre
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mesi di permessi per stare con lui. Io sono rientrata a lavorare
con tranquillità, perché sapevo di lasciare il bimbo con una
persona capace di fare il genitore e in grado di gestire eventuali
difficoltà.
La cosa più assurda è che, di fronte ad un interscambio di ruoli
come il nostro, la gente reagisce con stupore, spesso criticando,
piuttosto che apprezzando, il nostro modo di condividere le
vicissitudini familiari. Alcuni degli stessi nostri amici, o
presunti tali, non mancano di lanciare frecciatine nei confronti
del “mammo” o di rimarcare che “il bambino deve stare con la
madre”. C’è anche chi riscontra come il bimbo possa crescere
“disorientato”, non avendo l’esempio di un ruolo materno e
paterno ben distinto.
Assurdamente, le più critiche sono le donne, forse perché non
riescono a distaccarsi dal loro ruolo di mamme-tutto, madrimogli onnipotenti e onnipossenti, forse perché sono invidiose
di una situazione familiare in cui nessuno prevarica l’altro o
forse semplicemente perché nella loro vita non sono capaci di
fare altro.
Dalla mia esperienza, posso affermare che nostro figlio sta
crescendo bene. E’ socievole, tranquillo, non “va in sclerosi” se
la mamma non c’è (e succede spesso a causa del mio lavoro) e,
pur essendo piccino, cerca di aiutarmi nelle piccole faccende
domestiche (spero continui anche in futuro).
Condividere il ruolo di genitori ci ha poi consentito di
affrontare problemi di salute, anche gravi, che hanno colpito
più di un membro della nostra famiglia. Se avessi dovuto
sopportare da sola un carico di responsabilità e di assistenza ai
malati come quello che abbiamo avuto, ne avrei senza dubbio
risentito pesantemente, sia sul piano fisico, sia su quello
emotivo. Essere in due non risolve i problemi, ma sapere di
avere qualcuno con cui condividerli aiuta molto.
Vorrei concludere affermando che non sarei in grado di pensare
ad un rapporto di coppia diverso da questo. La natura stessa
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della nostra vita lo richiede, lavorando in due, e perciò venendo
meno il ruolo della donna-casalinga, occorre condividere tutto,
nel bene e nel male.
Se poi a volte succede che mio marito fa indossare a rovescio
la maglietta o le mutande o i pantaloni al bambino o se, quando
pulisce il bagno, non lo fa luccicare come nella pubblicità, che
problema c’è? Come non credo debba essere una tragedia se io
non eccello in cucina, non penso una donna debba essere
giudicata solo da questo.
Ovviamente anche per noi non è tutto felice e perfetto, i
problemi esistono, ogni tanto si litiga e proprio perché
decidiamo assieme, può succedere di non essere d’accordo su
una determinata scelta. Non è però un dramma, alla fine si
arriva ad un compromesso che mira sempre al bene comune.
Comunque, grazie al nostro modo di vivere, non sono sola a
dover affrontare la gestione familiare e, ancor più importante,
mi sento rispettata, giudicata e accettata per quello che sono e
non per quello che dovrei essere.
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Pensieri a gradini
di Daniela Coralini
Salgo le due rampe di scale che mi separano dalla porta del mio
appartamento, sbuffando ad ogni gradino conquistato,
ansimando per la fatica di portare quattro sacchetti (due per
mano) stracolmi di prodotti commestibili e non. La mia veloce
incursione al supermercato mi ha fruttato acquisti di ogni
genere. Di solito gli acquisti dovrebbero essere una sorta di
terapia fai da te contro le piccole e grandi frustrazioni alle quali
siamo sottoposte o ci sottoponiamo quasi giornalmente. Ma in
realtà spendere e spandere al super oggi ha aumentato il mio
senso di frustrazione portandolo alle stelle.
Puff…puff…2° piano … casa mia, cara piccola mia… mollo le
buste poco elegantemente sullo zerbino coloratissimo
(intenzionalmente ricco di colori per dare un tocco gioviale ed
energetico all’uscio). Mi sento scarmigliata, sottosopra. La
lunga sciarpa di lana penzola a terra spazzando il pianerottolo,
la frangia dei capelli ormai troppo lunga crea l’effetto tendina
facendomi sentire un pincher a pelo lungo, mentre cerco il
mazzo di chiavi rovistando dentro la borsa dove tutto c’è tranne
ciò che si cerca in quel momento. Incomincio ad innervosirmi.
Uff…ma dove sono? Mi accerto di non avere un buco nella
borsa. No tutto regolare…borsa integra… anche perché è un
acquisto di una settimana fa…se così fosse stato la cosa mi
avrebbe irritata non poco.
Mi attacco speranzosa al campanello… driiiinnnnn…. Tutto
tace…. busso… ribusso…. risuono….odo un ciabattare lontano
e un – ARRIVO! – netto e squillante, mentre le ciabatte si
avvicinano alla porta e il mio salvatore (nel senso che mi ha
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salvata non il nome di battesimo) spalanca l’uscio e assume lo
sguardo di chi ha visto un venditore di aspirapolvere.
Lo guardo. Mi guarda con un mezzo sorriso che è tutto un
programma. La frangia dei capelli mi copre completamente il
viso, contorco le labbra e soffio verso l’alto nel goffo e vano
tentativo di ricacciare i ribelli almeno alla sommità della
fronte…tentativo fallito. Lui sorride apertamente, anzi ride
senza ritegno ed esordisce: - Mi sembri…
Non lo lascio terminare. – Bau… arf… arf…- Mi è sempre
riuscito bene il verso del cane.
Afferro le sporte e con passo incerto ed ostacolato non solo dal
fardello ingombrante, ma anche dalla sua persona che non
accenna a spostarsi (troppo divertito dalla scena comica che si
è trovato di fronte), conquisto l’ingresso del focolare.
-Help! Aiuto! – bofonchio trascinando la spesa.
Il lui, che all’anagrafe fa Andrea, è il mio lui e meno male che
si riprende appena in tempo per alleggerirmi dal carico
prendendo i quattro sacchetti come fossero vuoti e li
distribuisce uno per sedia nella nostra mini cucina.
E adesso che ho un bisogno impellente di sedermi e le uniche
quattro sedie sono occupate dai sacchetti? Potrei optare per il
pavimento. Potrei stramazzare al suolo, così Andrea, preso da
un impeto di sindrome del crocerossino, potrebbe prendermi in
braccio e adagiarmi dolcemente sul divano. Con dolcezza
sfilarmi gli stivali, togliermi questa sciarpa che mi avvolge
come una boa e, magari, di sua iniziativa massaggiarmi i piedi
affaticati da una giornata tutta di corsa, visto che sono sempre
io che massaggio i piedi a lui.
Dolci sogni. Torno alla realtà. Quindi opto per qualcosa di
realizzabile. Mi avvicino a lui dopo essermi tolta il cappotto
appoggiandolo sul tavolo (ok la cucina per oggi è al gran
completo), mi inclino adagiando dolcemente la testa contro il
suo sterno. Questo è il mio messaggio di richiesta coccole. Le
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sue antenne non si sono ancora arrugginite e coglie la richiesta
al volo.
Mi prende il viso fra le mani e mi riempie fronte, guance,
palpebre, labbra e mento di tanti piccoli baci.
Quando fa il coccolone potrei perdonagli qualsiasi cosa…..beh,
ho esagerato, non proprio tutto!
Abbasso lo sguardo e lo piloto verso destra in direzione del
divano e… argh! Cosa spunta là sotto? Inclino il collo di
qualche grado impercettibile perché Andrea non si accorga
delle mie perlustrazioni visive e vedo bene: tre calzettoni di
colore grigio (il quarto si sarà dato alla macchia
definitivamente? Oppure con un’accurata caccia al calzerotto
spaiato avrò speranze di ritrovarlo nelle pieghe dei cuscini o
nelle oscurità del sotto divano?), i suoi mocassini neri
occhieggiano poco distanti dai calzettoni. Mi lascio andare a
peso morto contro il suo corpo. Andrea indietreggia fino a
toccare il bracciolo del sopraccitato divano e crolliamo sullo
stesso. Ridiamo come bambini. Alla montagna di indumenti
mal celati sotto di noi ci penserò dopo. Adesso voglio godermi
questo istante di vero paradiso casalingo che ancora sappiamo
regalarci.
- Amore – mi sussurra all’orecchio sinistro – questa sera siamo
invitati a cena da Roberto e Carlotta.
Mugugno sommessamente. E’ il quarto sabato sera consecutivo
che usciamo a mangiare: una volta al ristorante e tre volte con
questa a casa di amici. Io sono per la convivialità, l’amicizia,
sono la prima a fare la cosiddetta “baracca”, ma questa sera
avrei preferito un pasto caldo e frugale nel nostro minuscolo
cucinino e…. Non mi lascia terminare i miei pensieri
aggiungendo sornione: - Ah! Dimenticavo. Domani a pranzo ci
ha invitato mia mamma.
Balzo in piedi più veloce di un velociraptor. Andrea prosegue
per evitare un mio commento: - Preparerà le lasagne…lo sai
che le adoro. Poi l’arrosto con la salsa di funghi come solo lei
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sa fare e per chiudere in dolcezza… dadadada… il mascarpone
con scaglie di cioccolato extra fondente.
Golosastro di prima categoria. Poi non lamentarti quando fai
fatica ad abbottonarti i jeans. Pensavo di averti portato sulla
retta via di un’alimentazione sana, equilibrata e invece basta il
richiamo della mamma per far crollare la nostra piramide
alimentare.
Mentre questi pensieri si snodano nella mia mente sfodero un
sorriso di circostanza (scommetto che se mi guardassi in questo
preciso momento allo specchio il sorriso si rivelerebbe una
smorfia sorridente).
- Pastrocchio mio! – Andrea si alza dal divano trascinandosi
dietro due cuscini di cachemire color oro, (dono onorevole
della mia suocera nonché sua madre: cuoca sublime, sarta di
professione, magliaia per hobby, gazzettino del quartiere per
nascita e diletto). – Muci muci. Lo sai perfettamente che mia
mamma ti adora.
Si allontana in direzione del cucinotto, apre lo sportello
superiore del frigorifero ed estrae una lattina di aranciata già
aperta e ne finisce il contenuto in pochi sorsi. Appoggia la
lattina orfana del liquido arancione dall’anima frizzantina e
amarognola sul tavolo accanto al mio cappotto dimenticato in
un luogo a lui non idoneo e guadagna ciabattando lo studio
dove al buio vedo il riverbero azzurrognolo del computer
acceso.
Appena Andrea scompare dietro la porta semisocchiusa dello
studio, come un felino balzo verso il tavolo di cucina e
contemporaneamente afferro il cappotto issandolo sulla mia
spalla sinistra e con l’altra mano impugno la lattina, mentre con
il piede destro apro, con l’abilità di un veterano del palleggio lo
sportello sotto il lavello, con la precisione di un playmaker
insacco il barattolo nel sacco nero della spazzatura. Appendo il
cappotto all’appendiabiti del disimpegno notte già stracolmo di
giubbotti, cappotti, giacche, berretti di…. Andrea.
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Mi chino sotto il divano oltre ai tre calzettoni e alle scarpe nere
trovo un sacchetto di cioccolatini vuoto (e questi da dove
arrivano? Di solito sotto il divano trovo gomitoli di polvere.
Almeno il sacchetto fosse stato abitato da qualche cioccolatino)
e il leoncino di peluche di Giulia. La nostra piccola Giulia.
GIULIA!!! Che ore sono? Le 17.20. Avevo detto a mia madre
che sarei andata a riprendere mia figlia alle 17.30, perché
mamma ha la lezione di yoga. Dieci minuti per attraversare la
città.
- Andrea! – Apro la porta dello studio e lo trovo ipnotizzato
dallo schermo del suo portatile immerso nei suoi progetti.
Andrea è ingegnere meccanico presso un’azienda nota a livello
nazionale. Lavora spesso e volentieri anche a casa. – Corro da
mia madre a prendere Giulia. Ci vediamo tra poco.
- Sì amore – Gira il viso verso di me. Gli occhi sono un po’
arrossati, ma il sorriso è caldo e amorevole – Vi aspetto qui.
Devo terminare questo lavoro per lunedì.
Mi infilo il cappotto al volo e mi avvolgo la lunga sciarpa,
regalo di compleanno della suocera, attorno al collo. Afferro la
borsa e con le chiavi dell’auto in una mano e il leoncino
nell’altra. Esco sbattendo la porta… non l’ho fatto con
intenzione … mi è sfuggita dalle mani…sono sempre di corsa e
sottosopra.
Io sono Martina, ho 32 anni, sono madre di Giulia, moglie di
Andrea, figlia di mia madre e di mio padre, nuora della
mamma e del babbo di Andrea… direi un “albero genealogico”
alquanto originale. Ah, dimenticavo. Sono anche maestra di
violino al Liceo Musicale ed ex concertista. Ex perché da
quando è nata Giulia, tre anni e sette mesi fa, non c’è musica
più bella di lei.
Atterro davanti casa dei miei genitori. Confermo il verbo
atterrare perché per impiegare solo otto minuti per attraversare
la città ho veramente volato.
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Sull’uscio verde scuro, in tinta perfetta con il bianco
dell’intonaco esterno, mi aspetta mia madre nella sua eleganza
sobria ma femminilmente graziosa.
- Mamma… - la bacio sulle guance respirando a più riprese il
suo profumo di vaniglia e arancio – ma non devi andare a
yoga?
- Martina , piccola mia – per i genitori noi figli non cresciamo
proprio mai, nonostante ormai siamo madri, mogli, li abbiamo
superati in altezza da decine di anni, abbiamo viaggiato il
mondo. Siamo sempre i loro piccoli. Confesso che la cosa non
mi dispiace, anzi mi procura una profonda e piacevole
sensazione di amore e di calore che mi pervade il corpo fino
alle viscere e mi colma di amore filiale – Oggi è sabato e la
lezione di yoga non c’è.
Porto una mano alla fronte. Che sbadata! Dimenticavo che oggi
è sabato. SABATO!!! Entro nell’ingresso e guardo l’orologio a
pendolo di gusto raffinato e vedo un orario che rovina tutta la
raffinatezza dell’oggetto in questione: ore 17.40.
La mia mente elabora come un calcolatore elettronico
snocciolando orari: ore 18 rientro a casa approssimativo; ore
18.20 fine bagnetto di Giulia; ore 18.40 lavatrice, stendere
panni; ore 19.20 doccia e preparazione per la cena di Roberto e
Carlotta. Alle 20 rigorosamente a casa loro pronti per sedersi a
tavola: sono rigorosissimi in questo. Ops…. Urge anche
l’acquisto di un pensierino per la padrona di casa. Il piano
orario è tutto da rifare.
- Mamminaaaa! – All’udire di questa vocina melodiosa che
proferisce tale parola, alla vista del frugoletto che mi corre
incontro saltellante nella sua gonnellina jeans, con il
maglioncino rosa confetto e le calze mille colori, la mia mente
si svuota. Nulla è più importante. Il tutto è qui davanti a me ed
è l’amore: Giulia, figlia mia e di Andrea.
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Mi piego sulle ginocchia e lei mi vola tra le braccia
cingendomi il collo con le sue braccia burrose e mi perdo nel
suo profumo di infinito.
Quindici minuti per attraversare la città. Me la prendo comoda,
perché a bordo c’è Giulia e voglio assaporare il piacere del
racconto della sua giornata trascorsa dai nonni. Roberto e
Carlotta aspetteranno. Nella vita ci sono cose più importanti del
mettersi a tavola alle 20 spaccate.
Inoltre, adesso che ci penso, ho anche una montagna di
indumenti da stirare, i maglioni di lana da lavare a mano, i cesti
che traboccano. E la lezione di lunedì quando la preparo?
Domani a casa dei suoceri? Giammai. Forse domani notte?
Giulia si attacca al campanello di casa a più riprese. La porta si
apre e compare Andrea con un grembiule da cucina indossato
maldestramente, le maniche della camicia arrotolate, i capelli
arruffati e un po’ infarinati. Giulia spicca il volo tra le sue
braccia incurante, nella sua istintiva purezza, del grembiule
macchiato di salsa di pomodoro fresco.
- Babbo, babbino mio!
Andrea piegandosi l’acchiappa al volo. Babbo e figlia si
fondono in un abbraccio che mi scioglie all’istante. Che
importa se nella pila dei panni da lavare si aggiungeranno fra
poco maglioncino rosa, mini di jeans e calze multicolore.
- Andrea e la cena da… - non riesco a terminare la frase che
mio marito con il suo morbido carico si avvicina a me in modo
finto furtivo e con lo sguardo del bambino che ha combinato
una marachella sussurra: - Ho telefonato a Roberto e
scusandomi gli ho detto che questa sera non contassero sulla
nostra presenza, perché il progetto al quale sto lavorando deve
essere terminato entro lunedì e quindi mi attende un weekend
di super lavoro…. Piccola bugia a fin di bene.
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Caro Andrea anche questo adoro di te: riesci sempre (quasi
sempre. La perfezione non è di questa casa) a prevedere i miei
pensieri.
Butto un occhio curioso nel cucinotto e…AIUTO… scorgo il
tavolo ricoperto da posate di vario genere, scatolette, buste di
mozzarella semiaperte, schizzi di salsa di pomodoro che
punteggiano la base bianca, cumuletti di farina in quantità
variabile. L’occhio vira di 40° e si arresta spalancandosi sul
doppio lavabo di alluminio decor (rigorosamente antigraffio
vista la presenza di un marito che ogni tanto si improvvisa
cuoco) … ARIAIUTO! Padelle, padelline, tegami, coperchi,
mestoli, ciotole accatastati in bilico spaventosamente precario.
Mi rifiuto di continuare la ricognizione. L’occhio si ritrae in
quanto la padrona (cioè la sottoscritta) batte in ritirata verso il
salotto.
-OOOOH…. – l’esclamazione di stupore esce dalla mia bocca
seguito dall’eco sottile della vocina di Giulia che mi segue
saltellando. Il tavolo quadrato è apparecchiato a festa: tovaglia
rosso carminio, posate del servizio buono, bicchieri a calice,
tovaglioli verde smeraldo, candelabro con candele color oro e i
piatti per la pizza.
- Evviva … Evviva …- Giulia sembra un cangurotto mentre
gira attorno al tavolo battendo le mani e lanciando gridolini che
paiono trilli di campanellini.
Andrea ha appena infornato la pizza, la sua specialità.
Dal mio posto di osservazione lo guardo affaccendarsi e mi
ritrovo a pensare a Linda che si lamenta di Riccardo, marito
fuggiasco, sempre assente, svogliato con lei e con i figli. Così
Linda tira la carretta da sola a soli 37 anni è ingrigita e gli
angoli della bocca assunto da tempo la cosiddetta piega
dell’infelicità.
Cambio scena e vedo Francesca che, a sua volta, si lamenta di
Carlo che non vuole crescere, non vuole fare progetti, ma
vivere alla giornata e trascorrere le serate tra discoteche e pub.
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Dopo dieci anni di convivenza lei medita di fare le valigie e di
andarsene.
Giorgia, onde evitare quanto accade alle nostre due amiche di
cui sopra, si ritiene orgogliosamente una single di scelta in
quanto gli uomini che hanno costellato la sua vita non hanno
mai superato la prova del casalingo (Giorgia fin dai tempi della
scuola media è andata alla ricerca di un rappresentante di
genere maschile che abbia l’innata dote di accollarsi i lavori di
casa, che lei rifiuta, perché troppo assorbita dal suo istinto
carrieristico).
E io? Sono qui immersa in una serata a sorpresa organizzata da
mio marito, delizioso casinista di nascita con le sue scarpe
abbandonate in ogni dove, le sue camicie, i suoi calzettoni
sparpagliati sul letto, sul divano, in mezzo agli asciugamani, o
in altri luoghi meno sospetti. Per non dire delle serate, nonché
nottate trascorse nello studio immerso nel mondo dei suoi
progetti, mentre Giulia ed io ci trastullavamo con una favola o
qualche piacevole manualità creativa. Oppure quando si alza
presto al mattino, mette tutto sottosopra e scappa al lavoro per
rincasare solo per cena affamato come un branco di lupi.
Aggiungo anche il rifiuto genetico per ogni tipo di lavoretto
domestico: l’ultima volta che ha tentato di lavare i piatti il
servizio di porcellana è stato decimato nel giro di pochi minuti.
- Ecco qua. Pizza party per le mie donne preferite! – arriva in
sala con la teglia fumante di pizza appena sfornata.
Giulia applaude e si tuffa sul trancio che le spetta con gli occhi
sfavillanti di felicità e prima di addentare ci guarda entrambi,
poi affonda i dentini nella morbida pasta lievitata e riccamente
farcita. Andrea alza il bicchiere colmo di birra: - Alla nostra
serata. A Giulia, a Martina e... alla pizza preparata da me
medesimo.
Brindo con l’acquolina alla bocca e mentre gusto il primo
boccone fragrante di deliziose promesse mi trovo ad ammettere
che al mattino ti alzi quatto quatto ed eviti ogni più piccolo
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rumore per non disturbare il nostro sonno, apparecchi per la
prima colazione e a volte ci lasci anche un biglietto con la
dedica del giorno. Ci sono sere nelle quali riemergi dalle tue
full immersion lavorative e ci raggiungi sul tappeto per
improvvisare giochi e scherzi. Inoltre quando i lavori di casa
mi costringono ad ore di forzata clausura tu parti in bicicletta
con Giulia e rientrate con tante novità ed esperienze.
Sai essere speciale come questa sera. Sono uscita di casa con
l’idea che mi attendesse una serata noiosa con il desiderio di
fare altro. Ti ho lasciato davanti al computer e ti ho ritrovato
“perfetto organizzatore di serata familiare”.
Basta lamentarmi. Cosa sono le stoviglie da lavare, le lavatrici
da caricare, i panni da stirare, le stanze da riordinare, le
trasferte al supermercato da incastrare tra una lezione di musica
e il pediatra di Giulia? Di fronte all’amore che si respira nella
nostra casa e rende tutti e tre gioiosi.
E’ vero che spesso faccio una fatica ercolina per riuscire a
ritagliarmi un paio di ore per una seduta dalla parrucchiera. E’
vero che a volte arrivata a sera, dopo aver corso per l’intera
giornata, mi accompagna la sensazione di aver combinato
poco. Ma è soprattutto vero che sono fortunata di averti
accanto e di non annoiarmi mai con te...
Sono così felice questa sera che ti confesso che domani, per la
prima volta, verrò ben volentieri a pranzo dai tuoi genitori. E
sento che tua mamma comincia a starmi simpatica.
Amore, finito di mangiare però pulisci tu la cucina. Stasera mi
metto in ferie e mi godo il maritino versione casalingo doc.
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Anni raffermi
di Serena Focaccia
Forse adesso
Questo pane che non lievita
e tu che non arrivi a dirmi storie nuove
il tempo che si sbriciola
guardandosi oltre un tavolo
senza parole giuste
quelle che non hai stirato
e ordinato nei cassetti.
Sapere che non basta quando
manca l’ora acerba del mattino
perché troppo presto o forse adesso
confonderai le chiavi sulla porta.
Allora se puoi non domandarmi
dei tuoi anni ormai raffermi
anche io sto cercando il mio sapore
sullo scaffale dei bicchieri scompagnati.
39
L’attaccapanni
Ti ho scelto come attaccapanni
a cui appendere cappelli
e delusioni gialle.
Ti riusciva bene con quelle braccia
larghe e la smorfia disarmante
sulle labbra.
Eri anche utile per parlare
di letteratura e attualità
e qualche libro interessante
me lo hai consigliato.
Ricordi che ti parlavo dei tuoi occhi
colore della Nutella? Ma non ho capito
se ti facesse piacere...
certo è che non hai mai avuto
buona memoria.
40
Addormentata su un divano rosso
Mi ritroverai
nel seme di mela
smarrito nel piatto
e nella mollica
di pane fra le dita
mentre nubi incuranti
sbirceranno dai vetri
in una stanza riempita
di gesti ormai stanchi.
E forse vorrai essere la brezza che mi avvolge
le spalle e il raggio di sole
impigliato fra i capelli.
Arrotolata sui miei pensieri
come un gatto aspetto
che il tuo respiro mi accarezzi
le palpebre ancora chiuse.
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Pensieri a quattro mani
di Ermes Fuzzi e Astrid Valeck
OGGETTI, AMORI E PICCOLE NEVROSI DI CUCINA
Faccio molta fatica a svegliarmi, al mattino.
Scendo i due piani di scale che mi separano dalla cucina con gli
occhi semichiusi e il passo strascicato.
Con un gesto ormai automatico accendo la macchina per il
caffè espresso, apro le persiane e cerco, con il mio sguardo
ancora perso nei sogni, l’alba del giorno che tarda a farsi
strada, offuscata dalle luci tremolanti dei lampioni.
Mi occorre una buona mezz’ora, seduta sullo sgabello,
abbracciata alla mia tazza di caffè fumante prima di ingranare e
capire che sono proprio io, che sono sveglia, che mi stanno
chiamando e domandando cose precise, per le quali ci si
aspetta una risposta.. insomma vogliono proprio me!
Ci sono giornate che nascono stanche più di altre, dove una
tazza di caffè non basta a farmi partire, e così ne provo una
seconda, ma anche questa non sortisce alcun effetto e, mentre
me ne sto imbambolata, incapace di scattare nella frenetica
giornata che mi sta chiamando a gran voce, ecco che, invece,
per il mio amato sposo è tempo di grandi imprese, grandi
pulizie, grandi cambiamenti.
Insomma, io sono qui seduta incapace non solo di sollevarmi
dallo sgabello - caldo, invitante come il trespolo di un
pappagallo - che cerco di convincermi ad alzarmi, ad andare in
bagno, a prepararmi, capace solo di emettere grugniti e non
ancora parole, e lui è già sul piede di guerra, che sbraita per il
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disordine (il mio) che si annida all’interno dei mobili della
cucina (la nostra).
Che poi, voglio dire, disordine è una parola un po’ vaga.
L’importante è che io trovi ciò che mi serve....
Non ho mai capito questa sua necessità di mettere ordine tra le
cose che mi riguardano o che mi appartengono: le carte del
lavoro, la scatola del cucito, i nastri, i gomitoli di lana, tutto ciò
che mi appassiona per le attività manuali, i libri e la cucina.
È vero, ho un rapporto passionale con questo piccolo luogo
della nostra casa. In cucina mi piace leggere con la schiena
appoggiata al termosifone, mi piace disegnare, scrivere e
paciugare, non solo cucinare e pranzare.
La sento mia. Ognuno in casa ha il suo luogo speciale: chi la
propria camera, chi il garage.
La cucina mi appartiene e mi indispongo non poco per le
intrusioni tra gli oggetti e l’andirivieni di più persone attorno ai
fornelli.
Mi urta la sensazione di sovraffollamento che percepisco.
Questa mattina il mio sposo ha deciso di fare ordine, o meglio
di farmi fare ordine, e di rendere più funzionale
l’organizzazione degli spazi.
Vorrei strangolarlo: lui e la sua Gestalt!
Un po’ perché non sono ancora sveglia, un po’ perché la cucina
è per me il luogo della memoria.
Ha vinto lui.
Mi siedo per terra, apro uno sportello. Improvvisamente sono
andata in moto.
Chi ha detto che tutti i contenitori tondi devono contenere
altrettanti contenitori tondi in ordine di grandezza e così quelli
quadrati e quelli rettangolari?
Ah, già, questione di organizzazione funzionale. Tutto preciso
secondo criteri di economia, efficienza ed efficacia.
Ma qui sono nella MIA cucina e lo spazio - il mio spazio - lo
voglio occupare come più mi pare e piace. Forme e grandezze
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si mescolano su un unico piano, rifiutando di impilarsi, e
creando curiosi giochi di costruzioni e incastri. All’occhio
esperto (il suo) sembrano molto caotiche. All’occhio non
esperto (il mio) molto divertenti.
Spesso mi sono chiesto dove nascano la maggior parte dei
conflitti all’interno di una coppia.
Dai figli?
No!
Perché crescono in modo incomprensibile e sanno come
raggiungere l’autonomia e la maturità eludendo ogni sistema di
sorveglianza o amorosa comprensione (paterna o materna). In
poche parole, conoscono a fondo chi li ha generati e sanno
sempre come fotterti.
Il lavoro?
No!
Perché chi vive insieme e riesce a lasciarlo fuori dalla porta di
casa, comprende meglio il piacere del proprio clan o totem.
Le ferie?
No!
Perché quando si è giunti al punto in cui ognuno sa riposarsi e
gustare del proprio tempo libero, comprende anche che
ciascuno ha il suo modo preciso di intendere le vacanze, il
riposo o i divertimenti.
Quanti esempi potrei ancora elencare senza trovarne uno che
motivi i dissidi, le incomprensioni e le profonde ferite che si
generano e causano conflitti titanici, quanto quelli che nascono
in ... cucina.
Da lì, dal luogo del gusto, dell’anima, dell’eros, del gruppo,
dello scambio, del sorriso e del mal di testa, prendono forma e
si manifestano i mostri come l’HIDRA.
Come posso rapportarmi alla mia compagna io che amo la
GESTALT e l’ordine seriale? Gli oggetti li vedo l’uno vicino
all’altro indipendentemente dal colore e dalla funzione. Ma li
vedo avvicinati o incastrati a seconda delle dimensioni.
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È il momento dei barattoli di vetro. Sono tanti, accatastati tra
un panierino in vimini, le patate, le cipolle, i sacchetti della
farina, i tegami per il forno; c’è anche un pandoro, frutto di
recenti acquisti.
La lamentela per la loro ingombrante presenza è veramente
antica, ci accompagna sin dalle origini del nostro stare insieme.
Sempre tenuti da conto, sempre buttati o regalati a mamme e
suocere (tanto brave a far conserve e a sottolineare l’inutile
presenza di questa donna – io - all’interno della cucina, vista la
mia palese incapacità a ricoprire il ruolo della perfetta azdora)
e poi, sempre cercati quando si tratta di preparare quantità
industriali di ragù per far fronte alle esigenze di figli famelici
da un lato e alle nostre continue assenze, dall’altro.
E per inciso, i barattoli, quando servono, non ci sono mai.
Non devo, però, scordarmi l’obiettivo di questa faticata:
rendere più funzionale la cucina.
Apro un altro sportello. Vi trovo due pimer ad immersione non
funzionanti, una grattugia elettrica a cui mancano alcuni pezzi
fondamentali e un tagliere in marmo per il formaggio privo di
lama.
Quanti ricordi. Forse è per questo che non riesco a fare pulizia
e a buttare via tutto.
Sono pezzi “antichi”, appartenuti a mia mamma, a mia nonna,
o a mia suocera, e mi accompagnano ormai da diciassette anni;
tanto è il tempo che è passato da che ci siamo sposati.
E vero, sono rotti e non funzionano più, ma sono testimoni di
tanti successi e di altrettanti guai culinari, e prenderli in mano o
semplicemente trovarmeli davanti ogni volta che apro lo
sportello è un po’ come guardare una foto e ripensare a persone
ed avvenimenti.
E poi, forse, potrebbero essere riparati. Perché cedere
costantemente al consumismo?
La nostra tavola è sempre apparecchiata, dalle 6.30 alle 21.
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E lei l’unica testimone della nostra presenza all’interno di
queste mura domestiche.
Chi entra e chi esce, chi mangia e chi si alza.
Dall’alba a tarda notte.
E lei sempre lì, con i piatti, i tovaglioli, le posate e poi di volta
in volta il bricco per il thè, o la zuppiera. Sempre apparecchiata
per un desco che ha più del self service che del piacere rituale
di ritrovarsi insieme per condividere, non solo il cibo ma anche
un po’ della nostra vita.
Quando ero ancora una ragazzina e abitavo con i miei genitori
e i miei fratelli, si mangiava tutti insieme e sempre alla stessa
ora. E anche vero che mia madre non lavorava fuori casa, era
sempre lì in casa, a scandire i tempi dei riti.
Il pimer ad immersione troneggiava vicino ai fornelli, con la
presa costantemente inserita. Veniva utilizzato per moltissime
preparazioni: dai passati alle salse, dal sugo alla panna
montata.
Sempre esposto all’esterno, raccoglieva l’unto e la polvere ed
era difficile tenerne puliti il pulsante e il cavo elettrico. Per
questo il mio l’ho sempre tenuto riposto nella sua custodia di
cartone, riparato all’interno di un pensile. Prima si è crepata la
base poi ha smesso di funzionare completamente. Mi
dispiaceva buttarlo via dopo tanti anni di onorato servizio, così
quando me ne hanno regalato uno nuovo li ho tenuti entrambi.
Il secondo ha avuto vita ben più breve.
Attaccata per la prima volta la spina alla presa di corrente, si è
completamente smontata: c’è chi ha attribuito tale catastrofe
alle mancate qualità casalinghe della sottoscritta, ma questo era
da mettere in conto!
Non sono feticista!
Non riesco a creare quell’aura romanzata che la mia compagna
sa ricamare con abile destrezza intorno agli oggetti della
cucina.
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Perché?! Quando si rompe la macchinetta del caffè espresso,
lei per poco assume il broncio e se non ha ancora bevuto la
calda bevanda può perfino arrivare ad inumidire gli occhi!
Perché?! Con quella macchinetta abbiamo condiviso tante
tazzine bollenti, di primo mattino. La sera o le rare volte che ci
troviamo insieme a fine pranzo.
- L’hai già preso? - ...No, ...ti ho aspettato!...- Lei vede quella macchinetta come
una cosa viva, con una storia onorevole, con la dolcezza che
non è propria del caffè, ma che comunque va pensata in coppia.
Perché si sa, il cibo e l’amore... lo dicono anche gli psicologi.
La macchinetta non funziona, un cuore spezzato, un’attesa
tradita, una magia interrotta.
E io, brutto buzzurro, antiromantico, la razionalità fatta carne,
plebeo mentecatto che dico?
Impreco.
Si impreco, dando il via ad una serie di considerazioni (per
usare un eufemismo) sulla tecnologia moderna e sul
consumismo.
Abbozzo, perfino, una apologia della moka e della caffettiera
napoletana. Ah, la nostalgia per la vecchia moka che non
tradisce mai!
Intanto seguito ad individuare argomenti salutisti: i pionieri del
West con il loro tegame annerito sul fuoco e un cucchiaio di
polvere buttato nell’acqua; qualche vecchia tazza tenuta da
mani macchiate da ore di duro lavoro nei campi....
“L’aggiusti vero? Mi piace tanto quella cremina! Ti prego...
fallo per me”. Quest’ultima parte della frase è pronunciata con
le sopracciglia aggrottate, la bocca socchiusa e gli occhi
imploranti.
Per un attimo penso ad un incendio di dimensioni bibliche che
arde le piantagioni di caffè (per quanto io nutra grande rispetto
per l’America Latina) e tutti gli impianti di torrefazione e le
fabbriche della Girmi, Termozeta, Gaggia, Saeco.
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È un attimo, solo un attimo di lucida follia.
Il preventivo richiesto al laboratorio di riparazione per piccoli
elettrodomestici sfiora il costo della macchinetta nuova.
Mi ritrovo con il cacciavite e le pinzette in mano.
Inizia la battaglia.
Smonto la macchinetta, cercando di raggruppare le viti, le
guarnizioni, i bulloni secondo i criteri che sono propri di un
essere razionale.
Le incrostazioni di calcare all’interno della camera di
ebollizione raccontano le centinaia di migliaia di caffè
preparati in questi anni.
Sarà inefficace ogni intervento fino a quando non proverà con
l’olio di gomito e un piccolissimo cacciavite.
In ferramenta trovo una sola delle due guarnizioni che servono.
La signora che mi porge la merce è molto anziana. Lavora in
quel piccolo negozio, insieme al marito, da chissà quanti anni.
Quando specifico l’uso che dovrò fare del materiale acquistato
si guardano per un attimo brevissimo, quasi impercettibile e
mentre lei mi consegna lo scontrino entrambi mi osservano con
aria dolce e comprensiva. D’improvviso un moto di solidarietà
prende luce sul volto del commerciante.
- Quella puoi trovarla solo dove vendono i ricambi per le
macchine agricole. Uno, potrebbe credere ad una presa in giro, eppure in
quell’indicazione laconica ci sono indizi che fanno pensare a
lunghi anni di esperienza.
Anche lei sorride, e quello è il segnale. E’ tutto vero. Vado
compro e torno a casa.
Ce la faccio! Ce l’ho fatta! Naturalmente riesco anche a
modificare la posizione di un ammortizzatore in gomma che
riduce il rumore della pompa. Naturalmente prendo la scossa
durante le prove di montaggio. Naturalmente l’apparente
complessità di quella scatola si è rivelata di una semplicità
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estrema se messa in rapporto agli stati d’animo espressi dalla
mia compagna nel corso dei lavori. Il tavolo della cucina è il
campo di battaglia.
Non so se provo maggiore soddisfazione per il fatto di essere
riuscito oramai a risolvere il problema o per aver occupato uno
spazio così importante senza che lei abbia rotto le scatole per
un solo attimo.
Mentre mi improvviso tecnico di piccoli elettrodomestici cade
sulla mia testa la solita dolce mazzata, detta con un sorriso
particolarmente melenso :“So che ce la farai!”
È una battuta che devo ricordarmi per la prossima volta in cui
le suggerirò di far ordine tra gli oggetti della cucina...la sua.
La battaglia iniziata verso le 15 ha termine alle 21. Ho vinto, su
tutto, su tutti. Questa sera prendiamo un caffè cheek to cheek
sui tappeti del salotto, la TV spenta, la cucina riordinata, i figli
a letto. Accendo anche una candela profumata.
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Buonanotte
di Gianluca Gatta
Nella stanzetta. Al buio. Mano nella mano. Buonanotte. ‘notte.
Mi raccomando, questa sera ti addormenti senza fare storie. Sì.
Ti addormenti subito. Sì. Siamo d’accordo, ora mettiti comoda
e dormiamo. Le gambe tra le lenzuola. Si accomodano. Poi
silenzio. Qualche secondo. Si mette la mano nei capelli.
Abbassa la testa. Chiudo gli occhi. Un buon modo per
meditare. Pensare. Organizzare la giornata di domani. Con la
sua mano sotto la mia. Al buio. Babbo? Alzo la testa. Che c’è?
Acqua. Apro gli occhi. Ma non potevi chiederla prima? Voglio
l’acqua, babbo. Piagnucola. Va bene, te la vado a prendere. Si
alza. Apre la porta. Il corridoio. A piedi scalzi. Solo calzini. In
cucina: certificazione di qualità. E’ ancora sveglia? Che cosa
ha fatto? Cosa vuole? Prendi il biberon, non il bicchiere. Mi
raccomando la coperta. D’accordo. Ritorna nella cameretta.
Ecco l’acqua. Si è seduta, intanto. Nel letto. Afferra il biberon.
E beve. Lui la guarda. Mentre beve. Non pensa. La guarda.
Assonnato. Fatto. Dice. Mi tende il biberon. Bene, adesso
dormiamo. Lo prendo. Chiudo la porta. Il biberon per terra. Al
buio. Mano nella mano. Buonanotte. ‘notte. Mi raccomando,
non cominciare a muovere le gambe sennò non ti addormenti.
Sì. Silenzio. Tutti immobili. Silenzio. Babbo!? Non è possibile.
Ce c’è? Sento puzza. La puzza. Ma puzza di che? Avrai fatto
una scoreggia. No, sento puzza di piedi. Dai, avanti: dormi.
Sento puzza: è la puzza dei tuoi calzini - Dieci minuti prima:
quei calzini fanno una puzza terribile; li ho tenuti tutto il
giorno, è normale che puzzano; cavateli, va là; che palle; dai,
cavateli che dopo non riesce ad addormentarsi; ma figurati! li
tengo, mi scoccia - Cosa devo fare? Me li devo togliere? Si.
Non ha dubbi. Come al solito. Mi alzo. Apro la porta. In bagno.
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Accende la luce. Si toglie i calzini. Nel cestone della biancheria
sporca. Al bidè. Seduto sul water. Si lava i piedi. Il sapone. Fra
le dita. L’acqua. Li asciugo. Ritorno nella cameretta. Sulla
porta. Adesso non ci sono più scuse: dormiamo. Si. D’accordo.
Chiude la porta. Al buio. Mano nella mano. Buonanotte. ‘notte.
Silenzio. Chiudo gli occhi. Vorrei pensare. Ma non ci riesco.
Penso che penso. Non penso a niente. Il buio. E la sua mano. Il
suo respiro. Veloce. Le sue dita si muovono. Tengo le mie
immobili. Sposto un po’ la mano. L’allontano. Mi segue. E’
sveglia. Prendo la sua mano. La immobilizzo sotto la mia. Sta
ferma. Adesso. Un po’. Dopo si anima. Si divincola. Mi pizzica
un polpastrello. Di continuo. Una tortura. Quasi. Resisto. Fra
un po’ smette. Le riafferra la mano. La blocca. Ma il respiro. E’
fondamentale. Quando non si sente, dorme. Adesso si sente.
Conto fino a sessanta. Non mi muovo. E conto. Che buio che
c’è. Non si vede niente. Sigillata. Forse dorme. Fa scivolare
indietro la mano. La sua mano resta immobile. Il respiro.
Rallentato. Buon segno. Impercettibile, quasi. Mi alzo. In
silenzio. Primo passo. La pianta del piede si spiccica dal
pavimento. Sudato. Cazzo. Mi fermo. Origlio. Tutto OK. Un
altro passo. Poi sul tappeto. Strofina i piedi. Apre la porta. Un
fascio di luce debole. Proprio sul suo letto. Porca miseria.
Speriamo che non. Babbo? Dove vai?
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Poesie di casa
di Giorgio Gavelli
Stanchezza (2)
Anche se mi sento molto stanco,
in questa sera d’agosto,
mentre lentamente cammino
verso casa,
il mio animo è lieto
così pieno di voi,
della vostra immagine,
delle vostre voci.
Un saluto, la cena,
qualche risata
e un po’ di tv
distesi sul tappeto,
si riunisce così
ogni sera
la nostra “tribù”.
E quando vado lontano
le ore insieme
sono ancora qui,
dentro di me,
mi afferrano forte,
mi danno ebbrezza
e scalciano via
ogni stanchezza.
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Letti disfatti
Alzarsi di fretta al mattino
e lasciarsi alle spalle
il letto disfatto
è un po’ come portarsi
la notte per strada
come un’ impronta, un viatico
che segna la tua giornata.
sogni sereni, incubi, solitudine,
abbracci amorosi,
amplessi appaganti,
litigi furiosi
o semplicemente apatia,
indifferenza, stanchezza,
sono dentro di te.
Siamo noi la nostra casa
e il nostro letto
un’ altra vita,
quella della malattia
o del riposo,
dell’amore o del silenzio
e dei sogni ad occhi aperti.
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Tanto dolore
Tanto dolore è sceso
tirato dentro a piene mani
solo da noi.
Che gusto c’è a farsi male così
ogni giorno un po’ di più,
in queste stanze
che diventano bunker da guerra.
Questa casa,
un tempo accogliente,
è ora un antro infernale
che invoglia alla fuga.
Non abbiamo saputo gestirci
e duellando fra di noi abbiamo smarrito la via.
Ci siamo impantanati qui
infliggendoci ferite
ogni giorno più gravi
e dissanguandoci a poco a poco
abbiamo perso le forze che, solo unite,
ci avrebbero tratto da qui.
Chi fu che tirò il primo affondo?
La verità si è persa nel tempo,
ciascuno ha torti,
ragioni e rimpianti,
ma così moriamo lentamente
senza andare in nessun luogo
diverso da questo.
Che fare ora chissà?
Dammi la mano
e aiutiamoci un poco,
tiriamoci fuori di qui,
poi ciascuno
sceglierà la strada che vuole.
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Patatine fritte
Rientro sempre più tardi,
ma riconosco l’odore delle patatine
che stanno friggendo,
quelle che un tempo
cucinavi solo per me,
per allietarmi,
per sederti sulle mie ginocchia
e assaggiarne qualcuna,
in intimità:
un goccio di vino
e poche fettine
saziavano la gola,
l’anima e il cuore.
Ancora s’insinua
fuori dalla cucina
quell’odore,
ma è divenuto pesante, nauseabondo,
chiude lo stomaco,
come tutte quelle liti
senza fine fra noi.
C’è dentro ormai,
tutta la distanza che ci separa
e ci allontana sempre più:
l’olio bollente, il sale
bruciano ora
sulle nostre ferite aperte.
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Il sogno e …la realtà
di Maria Luisa Memma
C’è tanta gente che soffre di solitudine.
Ma io no, proprio no…
Stamattina mi sono svegliato e d’istinto mi sono allungato per
afferrare la penna e frugare in cerca di questo vecchio
taccuino vuoto e sto ancora qui a scrivere di me stesso dopo
aver messo la data in alto…
Da “il lamento di Epicuro”
Di Kate Christensen
IL SOGNO
Finalmente sono arrivata in Abruzzo, un viaggio allucinante in
mezzo a una bufera di neve, e ora sono qui , appoggiata allo
stipite della porta che dà nella grande cucina della vecchia casa
di nonna e ti guardo indaffarato. Sento un profumino,
scommetto che stai cucinando il tuo famoso pollo all’aglio: si,
si, lo so, lo so, l’aglio abbassa la pressione e… appesantisce
l’alito.
Ci salutiamo commossi: è da tempo che non ci vediamo;
desideravo passare qualche giorno con te e proprio nella casa di
nonna, la casa delle estati giovanili e spensierate.
Quanto vissuto racconta questa immensa cucina, punto centrale
di tutta la casa: il grande camino lo si vede entrando, accostata
c’è la furnacella a fianco la profonda vasca di marmo
rettangolare, una madia, a seguire un incasso nel muro con le
conche per la raccolta dell’acqua, vicino un’altro incasso per la
credenza chiusa a chiave, solo nonna ne era la padrona, ci
custodiva il suo tesoro: vasellame vario da usare nei giorni
56
importanti,e in fine, al centro, la tavola che poteva ospitare più
di dieci persone; ah, già, dimenticavo la botola per scendere in
cantina: suscitava la mia curiosità di bambina, ma era più forte
la paura che mi incuteva.
Chiudo gli occhi e rivedo nonna che, accanto al camino, con
una padella nera fa saltare le revotiche: stendeva in padella un
semplice impasto semi liquido fatto di farina e acqua, e dopo
averlo abbrustolito da una parte, con un gesto sicuro della
mano dava un colpo e ... oplà, cuoceva l’altra.
Lei sembrava giocare e noi golosi non ne eravamo mai sazi.
Anche se stanca del viaggio ho voglia di chiacchierare con te
papà e con te tornare nel passato. Ti ricordi di quella domenica
d’agosto quando eravamo tutti a tavola in attesa di gustare la
pasta alla chitarra che nonna aveva preparato cucinando per
l’intera mattina?
Eccola la tijella: la pasta ben accomodata dentro quella
particolare zuppiera, fumante e profumata di ragù speciale,
nonna la tiene con entrambe le mani, si gira per metterla in
tavola e urta te, che, a capo tavola, parlando gesticolavi e...
SPLASH, la tijella si capovolge e finisce sul pavimento: tutti
gli occhi sono lì, sul pavimento. Si era fatto silenzio, poi si
incrociarono le accuse, ma tu, con una fragorosa risata,
frantumasti il momento di rabbia generale. Non ti rimaneva che
portarci tutti a mangiare gli arrosticini su al convento, ti
conveniva!
Ora mi stai ricordando di quel malrovescio che mi hai dato
quel giorno a tavola; del tutto meritato, tu dici? Ma papà,
avevamo gli zoccoli nuovi, regalo di nonna; facevamo rumore,
si, ma sapessi che divertimento zoccolare su e giù per il vicolo
acciottolato! A noi non sembrava di fare tanto fracasso, certo è
che la signora Italia ci rimproverò in modo esagerato. Ecco
perché entrando in cucina, e dopo essermi seduta a tavola per il
pranzo, alla tua richiesta di voler sapere cosa era successo, mi
alzai per imitare in modo farsesco la signora Italia, e mimai
57
tutta la scena, non mi ero ancora riseduta, quando la tua mano
colpì il mio viso. E’ stato il primo e ultimo schiaffo che io
ricordi: non potevi sopportare che io, bambina, prendessi in
giro un adulto. Da quel giorno scambiai, con mia sorella , il
posto a tavola: non più alla tua destra, ma dall’altra parte del
tavolo, vicino a nonna che era intervenuta, non con parole,
guai! ma con un cenno degli occhi.
Severo, eri severo; tu mi dici giusto, si, ma molto severo.
Parlare ora con te, da adulta, mi riesce meglio, è più bello;
allora niente discussioni, le regole erano regole!
E quella volta del castigo: una settimana intera chiuse in casa;
io, mia sorella e nostra cugina; quante me ne hanno dette, loro
non ne avevano colpa, e nel periodo delle vacanze estive, per
giunta!
Hai ragione, l’avevo combinata grossa; ma, non la sai tutta , ti
avevo raccontato una mezza verità. Ci avevi fatto sedere tutte e
tre sulle sedie di cucina, di fila contro il muro, e volevi sapere
da me cosa avevo fatto. Con la mia amica del cuore,
Mariannina, e con suo fratello più grande, siamo “scesi” a
Pescara, volevamo vedere il sorgere del sole stesi sulla
spiaggia, in riva al mare, semplicemente fantastico, a sedici
anni poi....
Tornati al paese , contavo sul fatto che la porta di casa non
veniva mai chiusa a chiave e invece... così andai a casa di
Mariannina.
Quel che successe poi fu il finimondo; ma avere sedici anni
vuoi dire avere desideri inconfessabili, ci si sente grandi,
affamati di novità. Si , si, non capisco, già, io non ho figli,
come posso capire la responsabilità di un padre si, va bene, hai
ragione tu, come sempre.
E quell’altra volta, quando…
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E.... LA REALTÀ
Si il viaggio allucinante l’ho fatto, di notte, con la neve che
batteva contro il vetro della macchina, sono arrivata il più
presto possibile, per constatare, al mio arrivo, quel che era
successo: che avevi trattenuto le tue ultime forze per percorrere
il vecchio vicolo, per tornare nella tua vecchia casa, per cadere
pesantemente nella tua vecchia poltrona e liberare così lo
spirito in un ultimo respiro. Da sempre hai sperato che
accadesse così, ma non così presto! Tristezza e disincanto nel
ritrovarti in quel modo.
Sono appoggiata allo stipite della porta che dà nella grande
cucina dove ti hanno composto, al centro, e ti guardo e la
cucina diventa piccola, piccola. Poi quel bacio gelido...
doveroso, perché tutti se lo aspettano, io no.
Ciao, caro “PAMADO”, nomignolo di tua creazione,di
suprema ironia, dove “PA” sta per padre, “MA” sta per madre,
e “DO” sta per domestico.
E come ti gigioneggiavi a definirti pamado, caricando
enfaticamente l’interpretazione del tuo personaggio per
soddisfare la tua vanità, ricercando le nostre attenzioni e
suscitando la nostra comprensiva e divertita ammirazione.
E poi i cerimoniali che non sopporto, ma ai quali non posso
sottrarmi. A piedi attraversiamo lentamente il paese, in mezzo
ad un brusio di preghiere e invocazioni, e, lungo la discesa di
quel bel viale fiancheggiato da alberi, percorso innumerevoli
volte da adolescente, mi accorgo che semplicemente mi viene
da cantare, si canto:
“Il carrozzone va a vanti da sè
con le regine, i suoi fanfi i suoi re
ridi buffone per scaramanzia
così la morte va via ...
59
e continuo, sicura di essere ascoltata da te:
“bella la vita che se ne va
un fiore, un cielo, la tua ricca povertà
il pane caldo, la tua poesia
tu che stringevi la tua mano nella mia.”
sento che ti piace perché sento che ridi e allora continuo:
“bella la vita dicevi tu….
e si però, però, però…
proprio sul meglio… ha detto no.
bella la vita che se ne va
i nostri sogni, la fantasia
ridevi forte e la paura era allegria.
e avrei voglia di cantarla a squarciagola, con tutta la forza della
rabbia e nostalgia che ho in corpo, ma, non posso, apparirei
chiaramente… stonata, molto stonata.
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La differenza/ La ziron della nouvelle cuisine
di Mariangela Paganelli
La differenza
In casa ero la padrona, qualsiasi cosa io facessi a mio marito
andava sempre bene. Anche per il mangiare egli non era
noioso, un piatto di minestra ed una fetta di carne, con
contorno di insalata, per lui era sufficiente. Dimenticavo: la
domenica e, perché no, anche infra settimana, una ciotola di
crema, fatta alla maniera casalinga, era per lui una prelibatezza.
Appena entrato in casa si fermava sulla porta della cucina
chiedendo: “crema?” e, alla mia risposta affermativa, la
ricompensa era un abbraccio affettuoso e baci schioccanti sulle
guance.
Miro non aveva più i genitori ed io solo la mamma che spesso
si fermava da me per aiutarmi. Le bambine erano ancora
piccole ma da mio marito non avevo nessun aiuto materiale, lui
lavorava sodo, facendo anche gli straordinari, la busta paga me
la consegnava intatta ma tutto era sulle mie spalle.
Con le bimbe piccole ho affrontato le malattie infettive, i
problemi della scuola e delle amicizie nonché i pianti per i
primi amori.
Sono passati tanti anni, le ragazze si sono sposate ma ci
sentiamo amiche e quando ci troviamo insieme, nella mia
cucina, il pensiero corre sovente ad un episodio di paura,
fortunatamente finito bene grazie anche alla prontezza del loro
babbo.
Avendo avuto nel pomeriggio una riunione condominiale,
terminata tardi, ero preoccupata per la cena. La più grande
delle figlie era già sposata e la piccola, si fa per dire, ancora in
casa con noi, era come suo padre, non si interessava di niente,
61
in casa non sapeva fare nulla, neanche cuocere un uovo e fu
proprio l’uovo la causa dello spavento.
Dunque, rincasata tardi non sapevo che Nadia dovesse uscire e
lei, non sapendo cosa mangiare, si stava cuocendo un uovo al
tegamino mentre suo padre, tranquillo, guardava la televisione.
Entrata in cucina, mi fermai inorridita: sul fornello in un
padellino l’olio galleggiava e la fiamma era alta.
In quel preciso momento Nadia buttò l’uovo nel tegame e l’olio
bollente schizzò fuori, provocando un’alta fiammata.
Urlammo tutte e due ed io, pronta, la spinsi lontano mentre
Miro, corso prontamente, riuscì a spegnere il fuoco e la
fiamma.
Non vi dico la paura e le parolacce che le dissi.
Ancora adesso, pur ridendo, Nadia me le rinfaccia ma io
ribatto: - Perché, insegnando a tutte e due le stesse cose, la
grande le sa fare bene e la piccola no?! La risposta è: - La grande rassomiglia a te e la piccola…. tutta
suo padre! -
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La ziron della nouvelle cuisine
Tre madame indaffarate
in cucina se ne stan,
spignattando tra i fornelli
un pranzo preparar.
Mentre il lor signore
in panciolle se ne sta
pregustando e annusando
un profumo:
di risotto, scampi
seppioline e zafferano.
Insalata ricciolina,
acciughine al vinagril con contorno di patatin.
Delicata e affascinante
una pirofila di salmone.
Fagottini avvoltolati
in pancetta,
erba cipollina
nel sughin di besciamella
e panna.
Vin ghiacciato,
al punto giunto
accompagnato dal gelato
delizia del palato!
Oh, mio signore!
Dicono in coro le madame:
s’accomodi,
al nostro desinare.
Il signore, gongolante,
accarezzando
or l’una or l’altra,
l’acquolina sente già
e, con grazia “felina”
63
s’avvicina al desinar.
Ma…. ahimè,
cosa succede !!!....
Un inconveniente
strano, sua eccellenza
disorientato si ritrova
tutto appiccicato, con in testa
rovesciato il risotto
la pirofila, il gelato
innaffiato dal vin Santo!
Signore! osa dire:
- questo, che vuol dire ? –
Soavemente le signore
sorridenti ma,
con sguardo inviperito….
lo accusano:
- maschilista! Mentre noi lavoravamo
in panciolle te ne stavi.
Ora gusta il nostro pranzo
noi, al ristorante andiamo!!!
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AAA. Dove vuoi [email protected]
di Danila Rosetti
Se non sai che fare
dove vuoi andare?
Al pascolo urbano
è una fattoria
per vecchi e bambini
che c’è da vedere?
La cigna che cova
cova a lungo le uova
e le guarda stupita
della lunga attesa.
Così la fanciulla – anche lei in attesa –
si incoraggia e aumenta
la pazienza di mamma
ormai sfiorita come la margherita
che abbassa la testa
non sa più che dire – è sempre sospesa –
anche lei in attesa
chi la scaccia col piede
chi la guarda ammirato
chi la sfoglia e la bagna
la bagna d’amore
e lei si accontenta
di una mano benigna
che le guardi e sospiri
sospiri d’amore
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Se non sai che fare
dove vuoi andare?
Al pascolo urbano
è un grande circo
un circo all’aperto
che c’é da vedere?
Chi fa il giocoliere
chi suona e chi lagna
chi corre e chi striscia
chi si appoggia a un bastone
chi si stupisce.
A sentire i grilli
i grilli di sera
e vedere la luna
la luna la luna.
E parlare e parlare
e sognare un bambino
da amare e amare
e anche adorare.
Poi nasceva il bambino
che dormiva di giorno
e di notte piangeva
e la nonna diceva
che era tutto normale
e ti dava una mano
e sussurrava piano
e portava pazienza
e diceva la scienza
e ci vuole pazienza
il bambino piccino diventerà adulto
adulto - bambino
66
e ci vuole pazienza
e ci vuole esperienza
e ci vuole una mano
BABBO BABBO BABBINO
ADESSO SONO GRANDE
MI SO ALLACCIARE
LE SCARPE
DA SOL
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La luna nera
di Antonietta Valentini
Giro la chiave nella serratura e apro la porta di casa. L’ingresso
è buio ma dalla cucina arriva un fascio di luce: mia moglie è
già tornata. Appoggio a terra la borsa e lascio il cappotto e le
chiavi sul tavolino dell’ingresso, poi mi fermo un attimo nella
penombra del corridoio e mi accorgo della musica.
È un cd di musica classica e viene dalla cucina: di solito non è
un buon segno. Mi concentro meglio sugli altri rumori: l’acqua
che esce dal rubinetto del lavello, poi un oggetto metallico
sbattuto con forza, un tegame o una posata. Uno sportello della
cucina viene aperto e poi subito richiuso con rabbia. Rumori
nervosi, scoordinati, e sotto una musica di arpe e violini. C’è
qualcosa che non torna.
Entro in cucina e lei non si gira neppure. Sta armeggiando con
le mani nel lavello, mentre una pentola d’acqua bolle sul fuoco,
riempiendo la stanza di vapore.
- Diavolo, accendi quella cappa, non vedi che i vetri sono tutti
appannati! - vorrei dirle, ma sto zitto.
Lei mi ha sentito entrare ma non dice nulla.
- Ehi, sono tornato!
- Ciao. - risponde. Poi si volta un istante verso di me e accenna
un sorriso striminzito. E’ convinta che io non mi sia accorto di
nulla ma in realtà so già tutto quello che c’è da sapere: è una
giornata storta. Il motivo adesso non importa: forse è successo
qualcosa in ufficio, forse ha litigato con sua madre o forse, e
questo è il caso peggiore, non è successo assolutamente nulla.
Nulla di brutto e nulla di bello. Io lo capisco subito appena
entro in casa, a volte anche prima che mi rivolga la parola,
semplicemente osservandola. Come stasera.
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Luna nera, dunque, così almeno la chiamo io, e adesso tocca a
me decidere che strada seguire. Vorrei chiederle
semplicemente - cosa c’è che non va? - ma so per esperienza
che non funziona. Prima regola: evitare il campo minato delle
domande dirette. All’inizio lo facevo qualche volta, ma lei si
rivoltava come un serpente e mi rispondeva gelida assolutamente nulla, perché me le chiedi? - Era l’inizio di una
battaglia dove ogni cosa che dicevo o facevo riusciva solo a
peggiorare la situazione. Lei sapeva di essere stata scoperta,
quasi denudata, e tornare indietro diventava molto complicato,
sia per lei che per me. Col tempo ho imparato che devo fare
finta di nulla, perché così lei si sente più forte, credendo di
tenermi nascosto il suo segreto. La seconda alternativa è quella
che di solito adotto: la fuga. La lascio bollire a fuoco lento nel
suo brodo di pensieri e mi stendo sul divano in attesa che mi
chiami per la cena. Le racconto qualcosa dell’ufficio, poi le
dico che sono distrutto e aspetto davanti alla televisione del
salotto, mentre l’eco del suo ribollire arriva in ogni angolo
della casa. Di solito quando la cena è pronta la situazione è già
più tranquilla e bastano un paio di frasi intelligenti e un
apprezzamento su quello che mi ha preparato per iniziare il
lento ritorno alla normalità.
Ma stasera mi sento temerario, voglio rischiare: resto con lei in
cucina.
Prima di tutto spengo il lettore di cd poi mi siedo, appoggio il
giornale sul tavolo e inizio a sfogliarlo. Lei non sopporta
quando spengo la musica così di colpo, ma apparentemente non
reagisce e continua a pulire nervosamente l’insalata nel lavello.
- Lo sapevi che i campi magnetici dei corpi celesti sono in
grado di spiegare tutte le azioni degli esseri umani? Senti qui:
secondo uno studio recentemente pubblicato negli Stati Uniti,
tutte le scelte dell’uomo possono essere spiegate con una
complessa serie di funzioni matematiche che tengono conto dei
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campi magnetici gravitazionali dei corpi celesti, e
principalmente della luna. Non è incredibile? Ho inventato tutto, l’articolo non esiste, ma lei ci casca.
- Ma siamo pazzi? - replica senza voltarsi, ma con voce irritata
- Chi ha scritto queste sciocchezze? Sarebbe come dire che la
libertà di azione non esiste! - Hai ragione, ma qui c’è scritto proprio così. - Fingo d leggere.
- Gli studiosi avrebbero dimostrato che alcune grandi decisioni
che hanno cambiato il corso della storia umana sono spiegabili
con un complesso insieme di formule matematiche e
analogamente gli astri celesti inciderebbero non solo sul nostro
umore, ma anche sulle decisioni piccole e grandi che tutti noi
prendiamo nel corso della giornata. Le implicazioni di questa
scoperta...Questa volta si gira di scatto.
- E’ vero, la luna e i pianeti spostano tutti i giorni le maree e
quindi sicuramente avranno degli effetti anche sull’uomo. Ma
da questo a dire che le nostre scelte sono determinate! - Mentre
si asciuga le mani nel grembiule continua quasi con rabbia:
- Alla fine siamo comunque noi i responsabili delle nostre
azioni, siamo noi che decidiamo come agire o reagire alle cose
che ci succedono e ti dirò di più, credo anche che siamo noi che
decidiamo e costruiamo ogni giorno la nostra felicità o la
nostra infelicità... - Sì, credo proprio che questa ricerca sia una grande
stronzata...- le rispondo continuando a sfogliare distrattamente
il giornale. Nel frattempo intuisco che le parole che ha appena
pronunciato le stanno risuonando dentro e cominciano a
produrre l’effetto giusto.
Poi inizio a leggerle un articolo di cronaca, un articolo vero. Mi
ascolta, interviene, ormai è tutta discesa. A questo punto mi
alzo, chiudo il giornale e inizio ad apparecchiare la tavola. A
modo mio, naturalmente.
70
Mentre arriva con la pasta squadra la tovaglia un po’ storta e le
posate spaiate, ma non dice nulla. Accendo la televisione e
iniziamo a mangiare: lentamente cominciamo a rilassarci e
parliamo un po’ della giornata. Ormai è fatta, la luna nera è
passata. Finita la cena mi alzo io per fare il caffè e lei mi
guarda riconoscente.
Mentre le giro le spalle sento che prende in mano il giornale e
inizia a sfogliare. So già cosa cerca e aspetto la domanda.
- Non trovo quell’articolo sull’influenza dei campi magnetici
che mi leggevi prima. Ti ricordi dov’è? - Non c’è. - Le rispondo con calma. Poi mi giro e versando il
caffè nelle tazzine continuo: - L’ho inventato io. Alzo lentamente gli occhi e la vedo mentre mi fissa con la
bocca semiaperta per la sorpresa. La fisso anch’io e in pochi
secondi di silenzio ci diciamo tutto il male e tutto il bene che
pensiamo l’uno dell’altro.
Poi, di colpo, scoppiamo a ridere.
71
Cronaca da una cucina
di Maria Filippa Zaiti
ore 8
cerco tracce
una briciola una goccia di caffè
il vasetto aperto della marmellata
la tua presente assenza
oggi è solo
un veloce post - it sul frigo
ore 14.30
il piatto profuma
delle tue spezie preferite
dal telefono arriva
un insapore faròtardi
anche oggi il microonde
è lo strumento dell’attesa
ore 21
sei passato a cambiarti
- una stupida cena di lavoro –
hai detto senza guardarmi
sto contando sulla tovaglia
i nostri giorni insieme
poche righe nella trama fitta
di solitudine bianca
no domani per te sarò solo
una lettera sul televisore
72
Rocchina
di Antonia Rocchina Zampolla
Nelle meravigliose colline della valle del Bidente c’è un
piccolo paese chiamato “Galeata”.
E’ lì che Rocchina, 12 anni nel 1964, abitava in un
appartamento all’ultimo piano di un condominio chiamato il
“Casinone”.
Una modesta famiglia di sette persone la sua, con mamma,
papà e ben due sorelle e due fratelli, poche risorse economiche
e ogni cosa bisognava guadagnarsela con tanto sacrificio e
rinuncia. Anche raggiungere l’appartamento all’ultimo piano
diventava una faticaccia con le borse della spesa o i fratellini in
braccio.
La vita quotidiana di Rocchina non era molto facile.
Era la più grande dei fratelli e tutte le incombenze della casa
toccavano a lei. Doveva barcamenarsi con la scuola, i fratelli
da accudire, dare una mano nelle faccende domestiche,
confrontarsi con le altre ragazzine della sua età, doveva
rinunciare continuamente ai suoi desideri, ai suoi sogni, alla
sua spensieratezza.
Era chiamata costantemente a responsabilità più grandi di lei.
I genitori provenivano dal meridione ed avevano una mentalità
abbastanza rigida rispetto ai ruoli femminili e maschili.
D’altra parte, anche l’epoca in cui avveniva la sua formazione
non era molto diversa dal pensiero dei suoi genitori. Infatti,
quando aveva un po’ di tempo per incontrarsi con le sue
compagne, poteva appurare dai loro racconti, lo spirito di
sacrificio e generosità, caratteristiche tipiche delle donne, che
veniva loro inculcato sin dalla più tenera età.
73
Inoltre, nel piccolo paese si era continuamente sottoposte
all’osservazione attenta da parte dei suoi abitanti, non priva di
giudizi.
Rocchina era una ragazzina molto timida, chiusa, con un’aria
trasognata, alcune volte sembrava fosse fra le nuvole, sembrava
che sognasse ad occhi aperti e in realtà molto spesso si isolava
nei propri pensieri per spirito di sopravvivenza.
Immaginava di incontrare un principe azzurro che con una
carrozza trainata da quattro bellissimi cavalli: “due neri e due
bianchi” arrivava e con energia, con foga, con sveltezza, la
prendeva, la sollevava, la metteva sulla carrozza e con un gesto
svelto, tirava le redini e.... via come il vento, la portava
lontano, lontano, in un mondo molto diverso da quello in cui
era vissuta.
Gli anni passavano e Rocchina terminata la scuola dell’obbligo
dovette partire per andare a fare la stagione (la cameriera) al
mare, per tutto il periodo estivo. Partì sapendo che al ritorno
avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, perché la famiglia aveva
bisogno di risorse economiche e non avrebbe potuto così,
continuare gli studi.
Mentre prestava servizio in una pensione di Cesenatico però, il
destino volle che un bel giorno ricevette una telefonata da parte
di sua madre che le comunicava di aver vinto la borsa di studio
per la quale aveva concorso alla fine dell’anno scolastico
tramite lo svolgimento di un tema.
La madre aveva così deciso che la ragazzina avrebbe potuto
continuare gli studi con quel contributo e l’aveva iscritta alla
scuola professionale per l’infanzia.
Rocchina apprese la notizia con felicità, ma non poté nè
scegliere, nè opporsi alle decisioni della famiglia.
Nella zona balneare dove prestava servizio, fece esperienze del
tutto nuove, trovandosi per la prima volta in un contesto
diverso da quello sino ad allora conosciuto.
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Ebbe modo di incontrare ragazze della sua età, abituate però, a
ben altro vissuto. Infatti, mentre lei doveva lavorare, loro erano
in vacanza, potevano divertirsi, flirtare con i ragazzi e
spassarsela. Provava nei loro confronti sentimenti contrastanti
di invidia e compiacimento, giudicando il tutto secondo la
propria etica (educazione).
Nonostante ciò fu un’esperienza piena di emozioni e non
mancò anche di sperimentare qualche piccola trasgressione,
vissuta comunque, con conflittualità.
Nei tre mesi estivi ebbe il suo primo incontro sentimentale con
un cameriere che prestava servizio nella stessa pensione.
Quell’incontro fu una tempesta di pensieri ed emozioni che
terminò alla fine della stagione, riportandola come un ciclone
nella situazione precedente con tristezza, demotivazione e poca
voglia di continuare a vivere.
Con il mese di settembre arrivò l’inizio della scuola. Rocchina
cominciò a frequentare le superiori, prendeva la corriera che
passava dal suo paese e si recava tutte le mattine a Forlì. Aveva
poco tempo per studiare, perché appena tornata a casa c’era
tanto da fare, ma era talmente forte in lei l’orgoglio, la voglia
di farcela e di dimostrare, che si alzava la mattina all’alba per
esercitarsi.
Alle superiori conobbe nuove ragazze cittadine, con abitudini
diverse dalle sue, più emancipate e più scaltre, ma, figlie tutte,
della stessa epoca sociale, dedite ai doveri famigliari, al
sacrificio, ai compiti ben definiti e stabiliti per le donne.
Conobbe in quel periodo anche un ragazzo che abitava in un
altro paese della valle del Bidente: “Meldola”.
Il ragazzo viveva con gli zii perché la madre se ne era andata
quando lui era piccolo. Era un ragazzo problematico, con un
immenso bisogno d’affetto, fragile, gentile, educato.
Furono proprio queste qualità, che colpirono il cuore della
ragazzina, dedita a occuparsi sempre del prossimo prima che di
sè stessa.
75
Dopo un breve tempo di conoscenza reciproca, il ragazzo
cominciò a frequentare la casa e la famiglia di Rocchina e si
fidanzarono ufficialmente.
Terminate le superiori, Rocchina venne assunta in un asilo a
Bologna.
Doveva partire di nuovo e allontanarsi dal suo piccolo paesello
per affrontare una grande città, così grande che a lei sembrava
di dover andare in America. Il giorno che dovette presentarsi
all’amministrazione comunale di Bologna, partì con una paura
terribile. Aveva paura di perdersi, paura di non farcela, paura di
non essere accettata.
Ma come succede spesso nella vita, riuscì a farcela, si integrò
bene nella nuova situazione, fece la pendolare per un po’ di
mesi e poi si trovò una sistemazione presso una famiglia.
Solo alla fine della settimana tornava a casa dai suoi al paesino.
Il fidanzato intanto partì per il servizio militare.
Rocchina prestò servizio presso il capoluogo dell’Emilia
Romagna per ben quattordici anni.
Fece tantissime esperienze; alcune molto belle, altre un po’
meno.
A quei tempi andavano di moda gli “hippy” e così conobbe
ragazzi con i capelli lunghi e ragazze che facevano parte di
movimenti femminili. Il mondo stava cambiando, le donne si
stavano ribellando, facevano capannello, rivendicavano i loro
diritti, si facevano chiamare: “Le Femministe”.
La povera ragazza era confusa, ma stava assaporando cose
elettrizzanti; da un lato si sentiva sollevata da mansioni e
doveri da compiere e dall’altro era attratta da quei meravigliosi
ragazzi e ragazze che avevano il coraggio di protestare, cantare,
suonare le chitarre in Piazza Maggiore, passare una notte in
prigione, sventolare bandiere, urlare slogan.
Furono esperienze davvero forti per lei.
Cominciò a vedere le cose da altri punti di vista; il suo
carattere, pur mantenendo la traccia iniziale, cambiò e divenne
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meno timida, più espansiva, più moderna, più emancipata, più
coraggiosa, più ribelle.
Si innamorò di un uomo più grande di lei, era un dirigente del
partito comunista, ma dovette rinunciare perché nessuno
avrebbe mai accettato questo suo nuovo stato. Avrebbe dovuto
affrontare cose molto pesanti, come tagliare i rapporti con la
famiglia d’origine, sottoporsi ai giudizi della gente e sentirsi
emarginata da tutti. Avrebbe dovuto iniziare una nuova vita
rinunciando agli affetti e a tutto ciò che la legava al suo
passato.
Sposò così, il ragazzo che aveva come fidanzato e nacque un
figlio, ma lei continuò a lavorare nella grande città ancora per
diversi anni, tornando a fare la pendolare. Nella sua nuova
situazione fu molto più dura conciliare i tempi del lavoro, della
famiglia, del figlio, ecc...ecc….
Furono anni difficilissimi.
Rocchina ora, ha cinquantadue anni.
Il marito, quel ragazzo che partì per il militare quando lei per la
prima volta conosceva il sapore dell’indipendenza, è rimasto
con le sue idee da vecchio maschilista.
Ma Rocchina, per sopravvivenza, sogna ancora il suo principe
azzurro che con una carrozza trainata da quattro bellissimi
cavalli: “due neri e due bianchi” la porta in un mondo migliore
dove vivono insieme una vita da sogno, nel rispetto e nella
condivisione di piaceri e doveri e dove, le opportunità sono alla
pari per entrambi. Girano il mondo in carrozza per portare ad
altri sogni di giustizia e tanto.... tanto amore, dove ogni padre,
fratello, marito e figlio ti rispettano e ti amano per ciò che sei e
non solo per ciò che ti hanno insegnato ad essere.
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INCONTRI
Lettura interpretata a più voci
tratta dal laboratorio di scrittura creativa e
lettura espressiva
FORLI’ 27 giugno 2005
PRESENTAZIONE
INCONTRI è l’esito finale del laboratorio che Il Gruppo di
Lettura San Vitale ha organizzato per il Progetto “W.E.I.R.D.Women and enterprises involved in a real development – La
Ricerca Azione 2005”: un canovaccio, anzi, potremmo
chiamarlo un vero e proprio copione. Perché la sua produzione
proviene non solo da un perpercorso di “scrittura creativa” a
cui hanno partecipato alcune donne della città di Forlì, ma
anche dai percorsi “tecniche espressive di base” e “lettura
espressiva” con i quali, quelle stesse donne, hanno dato vita,
ognuna con i propri mezzi espressivi, a momenti molto
emozionanti. Esprimersi ha voluto dire, in un piccolo gruppo
come il nostro, aver voglia di raccontarsi e di ascoltare gli altri,
comunicare. Si è cercato di stimolare abilità espressive
semplici che tutti noi possediamo ma che spesso ci
dimentichiamo di avere e di utilizzare e che, nel campo
teatrale, diventano fondamentali per la buona interpretazione di
un brano da leggere o da mettere in scena.
INCONTRI, una lettura interpretata a più voci tratta dai testi
scritti dalle donne che hanno partecipato al percorso di
Scrittura Creativa condotto da Lucia Zucchi, docente presso il
dipartimento di italianistica dell’ Università di Bologna, è stato
interpretato dalle sei partecipanti più temerarie: Eleonora
Benetti, Lorenza Cappucci, Barbara Gaudenti, Cesarina Lucca,
Maria Luisa Memma e Katia Zattoni. Esse hanno presentato
l’evento al pubblico il 27 giugno 2005 alla Circoscrizione n°3
del Comune di Forlì, accompagnate dal vivo dalla suadente
musica di una fisarmonica. Gli stili: prosa, poesia, acrostico. I
temi: “se fossi”, “mi piace, non mi piace” ed altri ancora. La
messa in scena si è svolta nell’entusiasmo e nella voglia di
mettersi in gioco di queste sei donne che con pochi
1
suggerimenti dati in prova dalle due conduttrici, Mariarosa
Damiani, Presidente del Gruppo di Lettura S.Vitale e Valeria
Nasci, attrice del Gruppo, sono riuscite a mettere in scena una
situazione divertente ed emozionante. Hanno saputo leggere e
recitare i loro scritti trasmettendo al pubblico molta allegria,
coraggio e bravura. Alcune di loro hanno dimostrato di essere
molto portate per la scena ed è comunque stato importante per
tutte, anche per quelle loro compagne di percorso che hanno
preferito restare in platea, diventare, almeno, spettatrici più
consapevoli.
il Gruppo di Lettura San Vitale
2
INCONTRI
Alcune donne aspettano il loro turno nella sala d’attesa
dell’ambulatorio di un medico. Le sedie sono a semicerchio. Le
nostre protagoniste sono molto originali. Sono: Barbara e sua
figlia Eleonora, Cesarina, Lorenza e Marialuisa.
Pensano a voce alta, noi le sentiamo, loro non si sentono tra
loro:
MUSICA
Cesarina:
Mamma mia quanta gente che si deve far visitare dal medico!
Non importa. Aspetterò come tutte le altre.
Marialuisa: (guardando altezzosa tutte le altre)
allora.. prima di me c’è quella con gli occhiali, poi la signora
con il doppio mento, quella con la maglia rosa che la ingrassa
un casino…certo che io qua sono la più decente eh!
Eleonora: (pettinando una bambola)
ma perché la mamma deve sempre portarmi con lei quando va
dal dottore? Non può chiedermi di accompagnarla quando va
dal parrucchiere? Che mi piace tanto quando si fa i ricci…
Barbara: (canticchia sfogliando una rivista)
un estate al mare e…e… voglia di remare e.. .e… un ‘estate al
mare…
Lorenza: (che già da prima cercava nella borsa)
ma si può essere più sbadate? Dove le ho messe le chiavi?!
Nell’ingresso!!! Vabbè… una scusa per cenar fuori…alla
faccia di mio marito!
3
Katia: (entrando in scena)
Potessi essere a casa in questo momento! E pensare che
stamattina… Le tazze della colazione sono lavate.
Il letto lo farò stasera... Con le lenzuola giù prenderà aria.
Stasera, al rientro, troverò uno stuolo di riccioli di polvere: mi
saluteranno e mi seguiranno dovunque. Li odio!
Ci vorrebbe proprio un po’ di abbronzatura.
Sì.... magari come l’anno scorso… che il mare non l'ho visto
neanche in cartolina!
Devo assolutamente comprare un rossetto nuovo. Quello che
ho non mi piace più. Ci vuole un colore più adatto all'estate.
E quel romanzo di Camilleri che ho visto ieri… E una risma di
carta... Ma quando troverò il tempo? Oggi no! Domani, forse
nel pomeriggio... Avrò messo in borsa tutti documenti per le
pratiche di oggi?
Mai che riesca a fare con un po' di calma!
Devo telefonare per la festa di quartiere... Guarda te se anche lì
mi dovevano incastrare…!»
Cesarina:
Di corsa dal lavoro a casa, di corsa le scale, di corsa butto il
mio quotidiano abbraccio di libri, libretti, quaderni, fogli
multicolori sul divano. Si sparpagliano e lo occupano.
-Se invece del divano avessi comprato una libreria sarebbe
stato meglio. Intanto non ci si può sedere mai.Ho trasportato alla rinfusa nell’acquaio le tazze, i piatti, i
coltelli della colazione. Ho acceso il fuoco sotto la pentola, così
il prossimo che arriva vi butta gli spaghetti. Ho riordinato il
pavimento cacciando a calci ciabatte e scarpe sotto il letto. La
trapunta per coprire i guanciali… mi vedo ancorà lì a chiudere
la finestra aperta per pudore e sorridere raccontandomi una
storiella sull’uso delle corna.
4
Raccatto alcuni esiti di analisi, afferro un foulard che mi segue
svolazzando leggero, sollevo dal divano la borsa alzando una
nuvola di fogli rosa, azzurri, gialli e corro perché il medico ha
quasi finito il suo tempo. Invece c’è ancora gente. Sono seduta.
Non prendo una rivista, non voglio vedere, non voglio leggere,
non voglio sapere. Chiudo gli occhi. Aspetto.
Marialuisa:
Mi chiedo perché alle sette e si devono fare tante cose Ma quali
cose, quali? La spesa al supermercato e mai che sia solo uno: a
volte le offerte speciali sono anche in quell’ altro o in
quell’altro ancora e mi dico sempre ma queste cose non si
potrebbero fare anche più tardi non so alle dieci? Non mi corre
dietro nessuno! Ah già la visita obbligatoria a sua madre dove
non so mai cosa dire… anche se ne avrei di cose da dire... e io
che avrei voglia di andare al mare!
Ah questo poi no! Le code, troppa gente, troppo caldo, no ti fai
un bel bagno e ti rinfreschi le idee!
Ah le scelte sono solo sue! Le più intelligenti, le più ispirate e
io come una trottola via! a corrergli dietro!
Se potessi fare e disfare a modo mio…
Meno male che arriva il lunedì lui prende il treno e va a
lavorare… bello il lunedì: finalmente sola… che meraviglia!
tutta questa meraviglia poi...devo rassettare pulire lavare
stirare… però mi organizzo come voglio io, come pare a me e
bevo il mio caffè con calma in terrazza.
Oh quasi dimenticavo che deve venire l'operaio per la caldaia,
poi devo andare in banca per lui e domani dovrò anche fare la
fila in posta .... Sinceramente non dovrei lamentarmi cinque
giorni su sette sono solo miei posso fare tutto quello che
desidero è per questo che gli dico sempre speriamo che ti
mandino in pensione il più tardi possibile !
Barbara: (da seduta)
5
Tutto l'anno passa correndo fra mille incombenze, impegni,
responsabilità.
A volte mi sembra di avere il mondo intero sulle spalle, a volte
avrei tanto bisogno d'aiuto, di una parola che centra il
problema, di uno sguardo stupito e non abituato alla mia
presenza.
Dimentico di essere persona, mi proietto al di fuori di me,
dandomi interamente ad ogni persona che mi vive accanto e,
talvolta, scordo perfino di avere desideri.
Anche la vita cittadina mi opprime: detesto il traffico, la
confusione e l'aria malsana.
Amo í grandi spazi e gli orizzonti infiniti.
Per questo tutti gli anni attendo con ansia quasi patetica la
vacanza in montagna nella mia amata Austria, il mio luogo
dell'anima.
Per questo una mattina all'alba, una di quelle albe solitarie che
rubo al catalogo dell'universo, mi sono ritrovata a piangere sul
terrazzo dell'agriturismo nel Gastein, felice, felice di essermi
finalmente affacciata sul terrazzo della mia anima e di avervi
scoperto ancora così tanta luce e così tanta freschezza.
Lorenza: (parla a Katia che fa controscena di quella che non le
interessa molto il discorso della sconosciuta).
Sette anni! Sette anni di spostamenti con la mia auto e poi con
il mezzo dell'azienda, per correre in ufficio e poi correre nelle
varie sedi, e correre ancora in comune, al Servizio sociale, al
Servizio Sanitario e correre, correre ancora spostandomi da una
città all'altra, anche più volte nello stesso giorno e poi ancora in
ufficio.
Sette anni di corse contro il tempo, dove la mente ancora prima
correva avanti anticipando i miei pass,i e il mio respiro si
appesantiva, strozzando in gola la voce che poi usciva incerta e
rotta, quando invece il mia ruolo mi imponeva di rappresentare
sicurezza.
6
Sette anni di panni da stirare sempre accumulati, di sensi di
colpa quando mi veniva richiesta quella particolare maglietta,
proprio quella, che invece giaceva magari fra la biancheria
ancora da lavare.
Sette anni di progetti non più nemmeno pensati, di sogni non
più sognati, di immagini e pensieri mai più trascritti e forse
allora persi per sempre.
Poi quel letto di ospedale quasi desiderato, quella malattia
amica che invece era venuta a salvarmi dalla morte vera, quella
dell'anima.
E dunque... basta!!! Voglio riappropriarmi del mio tempo, della
mia casa, degli affetti.
Voglio muovermi lungo le strade, guardando i campi coltivati a
grano, o i filari che si piegano sotto il peso dell'uva. Voglio
vedere e non più solo guardare, voglio vivere e non più solo
sopravvivere e poi voglio riuscire a scrivere, raccontando di
una vita vissuta.
Eleonora: (alla mamma)
Tutti i giorni dell'anno verso le sei del pomeriggio mi chiedo
come riesco a fare tutto quello che faccio e mi stendo su! letto
cercando di riposare.
Ma subito mi viene in mente quella noiosissima idea: quella dei
compiti.
Mi alzo velocissimamente afferro la cartella tiro fuori i
quaderni e guardo...
che cosa?
Ho da fare 3 esercizi più 2 schede.
Le faccio il più velocemente possibile cercando di cavarmeli
dal mezzo ma sono molto lunghi gli esercizi e anche molto
difficili…
Poi (naturalmente dopo avere finito i compiti) mi fermo une
ottimo mi calmo e dico fra me:
7
"Basta stress mettiamoci a suonare qualche pezzettino al
pianoforte."
Dopo vado in camera mia mi butto sul letto a scrivere una
pagina di diario o una poesia.
Finalmente una di loro prende coraggio e dopo questo
susseguirsi di pensieri intimi e privati le nostre donne parlano
tra loro.
Katia:
signora…ma il dottore quanto ci mette ad arrivare?
Lorenza:
io credevo fosse già dentro a visitare qualcuno…
Marialuisa:
Ah, sei tu la prima? Ecco perché mi chiedevo proprio a chi
toccava prima di me!
Cesarina:
E tu bella bimba cosa ci fai dal medico?
Eleonora:
accompagno la mamma
Barbara:
sì, dobbiamo farci fare una ricetta.
Tutte:
è vero…
Eleonora:
lo conoscete il gioco del se fossi…?
8
Lorenza:
Oh! Finalmente sono il vento, posso volare tra gli alberi e dare
ad essi la voce, posso far volare il ramo inerte e regalargli
ancora un brivido di vita, poi librarmi nell’aria e dare sfogo a
tutta la mia potenza, per godermi il risucchio del vortice che
genero, mi pare d’essere un demone anche i miei ululati sono
agghiaccianti. Poi mi quieto e divento brezza, accarezzo i fili
d’erba, increspo l’acqua, sollevo i colori delle corolle, poi torno
birbante e ricreo scompiglio…
Katia:
Se fossi acqua, vorrei essere l'acqua di un fiume. Sai, uno di
quelli di montagna.
Non come il Po o l'Adige che attraversano città e città. Ma un
fiume che nasce e muore in montagna.
Con l'acqua fredda e trasparente come il ghiaccio. Dove dentro
ci tuffi le mani e le vedi così come sono. Ma solo per un
attimo, però, perché poi sei costretto a levarle.
Se fossi l'acqua di un fiume così, vorrei che il sole mi venisse a
trovare, ogni giorno. Ma, poiché ho fretta e devo andare, non
potrebbe scaldarmi e intorpidirmi.
Se fossi l'acqua di un fiume così, chiederei alla notte di farmi
compagnia, di nascondermi tra le sue coperte e di venire con
me per qualche minuto...
Cesarina:
Se fossi….Se fossi una nebbia leggera coprirei la città e le
darei pace. Attutirei i suoni, allontanerei gli incontri che
rischiano di diventare scontri, renderei armoniosi i colori.
Sarei umida, ma non fredda: darei sollievo alle piante senza
intirizzirle.
Se fossi una nebbia leggera sarei amica degli incontri
clandestini, di coloro che hanno qualcosa da nascondere, ma
non palazzi dalle mura spesse.
9
Se fossi una nebbia leggera sarei un fenomeno di qui, del mio
paese e qui potrei restare anche dopo impalpabile, ma presente.
Eleonora: (a filastrocca)
E sapete il gioco del mi piace non mi piace?
A me piace il gelato, il succo, il pianoforte, il salame, la danza,
i balletti, i cavalli, i concerti di Ciaikovskj, il clarinetto e la
banda.
Cesarina:
e cosa non ti piace?
Eleonora:
il giorno piovoso, le giornate troppo calde, il trombone, la tuba,
il corno, la televisione e le sere scure!
Eleonora:
mamma ma a te quando eri bambina come me cosa piaceva?
Cosa facevi?
Barbara:
Quando la bambina Barbara era bambina parlava e dormiva coi
gatti ed ancora lo fa.
Quando la bambina Barbara era bambina sognava di diventare
cantante come diceva la sua nonna ed ora, invece, ogni tanto
rimane senza voce, divorava dolci e cioccolata ed ora deve
stare attenta per non ingrassare.
Quando la bambina Barbara era bambina aveva paura del mare
ed ancora, negli incubi notturni,sogna il mare che la vuole
inghiottire. Si divertiva a passare il tempo col suo babbo ed
oralo ritrova nei sogni, come un messaggero dell'altrove.
Amava cucinare ed ora lo fa. Quando la bambina Barbara era
bambina aveva paura del buio ed ogni tanto cadeva dal letto e
tuttora odia la notte e tutto il suo scuro.
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Katia:
Che simpatica compagnia che siamo…
Cesarina:
viene voglia di raccontarsi, avendo il tempo…
Marialuisa:
il tempo c’è, il dottore non arriva!
Lorenza:
ma che non arrivi! in fondo siamo più libere qui dentro che a
casa nostra
Katia:
con tutte le cose che dovremmo fare…
Barbara:
è vero!
Eleonora:
Mamma cosa vuol dire? Che adesso veniamo sempre dal
dottore?
tutte ridono
Cesarina:
non ti preoccupare la mamma ti porta anche ai giardini
vedrai…
Elena:
dove ci sono le belle farfalle…
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Cesarina:
sì le farfalle... farfalle come noi…
Eleonora:
Ho visto, ricordo,
farfalla tra l erba di un prato.
Elena:
Hanno parlato.
Cesarina:
Siamo farfalle
dolci colori della natura.
Katia:
Vorremmo volare in alto
fino a sfiorarti il viso
Marialuisa:
con le ali perfette
che si aprono
a mostrare l’arcobaleno
Cesarina:
ma le nostre ali
leggere di farfalla
non si muovono.
Barbara/Eleonora:
Sognaci libere.
Barbara:
Pensaci di un pensiero sincero, totale ed illimitato.
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Katia:
e diventeremo immensità.
Lorenza:
L’immensità, sai, vola
Vola con un soffio
Cesarina:
Vola con un solo respiro.
Lorenza:
Ho rivisto, ricordo
Farfalle tra le nuvole del cielo
Lorenza/Katia:
Preziosi regali della premura.
Fine con il giro tondo.
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A cura di:
ECIPAR Emilia Romagna S.C.a r.l.
Largo Molina, 9 – 40138 Bologna
Grafica di:
Achtoons s.r.l.
Via S.Caterina di Quarto, 50 - 40127 Bologna
Finito di stampare nel mese di ottobre 2005 da:
BIME Tipo-litografia snc – Via S.Zavaglia, 20/24 – 40062
Molinella (BO)
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