sguardi sulla città - Donne che lasciano il segno
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sguardi sulla città - Donne che lasciano il segno
“SGUARDI SULLA CITTÀ” La collezione raccoglie i testi di tre differenti eventi: il concorso “Tempi di vita e tempi di lavoro”; il concorso “Incontri sulla porta di cucina”; la lettura “Incontri” tratta dal laboratorio di scrittura creativa e lettura espressiva. “SGUARDI SULLA CITTÀ” Tempi di vita e tempi di lavoro Indice Presentazioni Loretta Bertozzi Assessore Politiche di Welfare e Pari Opportunità Comune di Forlì………………………………………………………… I Lalla Golfarelli Responsabile del Progetto Weird, ECIPAR Emilia-Romagna…... II Lucilla Pieralli Presidente Comitato Impresa Donna CNA Emilia-Romagna…… IV Testi vincitori L’ultimo giorno dell’anno – sezione narrativa di Daniela Ciani……………………………………………..…… 1 Poesie della Città - sezione poesia di Maria Aulizio……………………………………………........ 15 Premio speciale "nuove cittadine" Donde habita la ausencia di Maria Esther Funes Zannier...................................................... 18 Premio speciale "all'ironia" Il più bel regalo di Natale di Danila Rosetti………………………..………………………. 28 Premio speciale "all'amicizia" Fiorenza di Giorgia Monti…………………..…………………………… 33 Premio speciale "alla pagina di diario" Io: l'emigrante di Marialuisa Memma…………………..……………………… 37 Testi segnalati per la pubblicazione Riflessioni sulla solitudine di Annadele Assirelli……………… 45 La mia città a Natale di Eleonora Benetti……………………… 46 Vita quotidiana in città di Daniela Boccalatte…………………. 47 Gocce di ricordi di Ersilia Coccia………………….…………… 55 E' la mia fantasia di Catia Conficoni………………………….... 56 Una mattina d'inverno di Antonella Erbacci…………………... 58 L'alba di una nuova vita di Barbara Gaudenzi………………… 60 Una giornata qualsiasi di Roberta Fiorini…………………..….. 61 Pedalando… pedalando… una maestrina negli anni sessanta di Renata Franca Flamigni…..........................................................65 Basta correre di Liviana Lucchi……....……….………….…….. 70 Scelte di Diella Monti…...……………………………………….. 73 Il volo di Antonia di Fulvia Mura………….………..……...….. 74 Il mio primo lavoro di Mariangela Paganelli..…………………..77 E la vita corre di Sabrina Piallini………………......……………80 Spiare il giorno di Danila Rosetti………………..……....….…... 82 Quel tocco in più di Debora Teresa Stenta………..……….…….87 Scorci paesani di Caterina Tisselli……………………...….…….91 A capo chino di Patrizia Tomidei……...………………….…….. 92 Viaggio verso sera di Elena Zaccheroni………......……..………98 Il tempo e le stagioni di Antonia Zampolla……………...…….. 101 Presentazioni La presente raccolta di testi inediti di donne forlivesi nasce dalla convinzione che esistano, nella nostra città, numerose e sconosciute scrittrici, donne creative o semplicemente use a mettere i propri pensieri e riflessioni in linguaggio scritto che meritano di aver voce ed essere valorizzate. Il tema che abbiamo scelto per il concorso di scrittura è strettamente connesso con l’esperienza delle donne, con la loro quotidianità fatta di lavoro, studio, famiglia, figli. Le testimonianze pervenute parlano dei giochi d’equilibrio con cui le donne affrontano la permanente carenza di tempo e la necessità di mantenere in equilibrio più ruoli. Lo fanno in modi diversi, compresa l’ironia e i toni semiseri che ridanno leggerezza ad una tematica e ad un’esperienza a volte lacerante. Il tema della necessità di conciliare lavoro e vita famigliare entra dunque con questa pubblicazione in una dimensione culturale e del divertimento, dopo essere stata al centro di numerose politiche dell’Amministrazione Comunale di Forlì. Esperienze diverse di flessibilità del lavoro, riorganizzazione degli orari dei servizi pubblici e apertura di servizi più flessibili e capaci di rispondere alle esigenze delle donne e delle famiglie moderne sono state un ambito di lavoro costantemente monitorato dal Comune di Forlì. Ringraziamo ECIPAR e Comitato Impresa Donna E.R. per averci coinvolto nel progetto WEIRD e la Regione Emilia Romagna per averlo finanziato dandoci l’occasione di continuare a lavorare concretamente su tali tematiche sia in modo tradizionale, sia in modo divertito come è avvenuto col concorso di scrittura. Loretta Bertozzi Assessore Politiche di Welfare e Pari Opportunità Comune di Forlì I Presentazioni L'Agenda Duemila della Commissione Europea per il periodo 2000/2006 indica i temi della gender salience e della democrazia paritaria come temi centrali delle sue politiche. In Emilia-Romagna la femminilizzazione del mercato del lavoro costituisce uno degli elementi di maggiore differenziazione positiva rispetto ad altre aree del Paese. Continua però la segregazione orizzontale: le donne, per esempio, sono quasi assenti nel settore delle nuove tecnologie. Continua la segregazione verticale: le opportunità di promozione e carriera, i livelli retributivi, le funzioni dirigenti sono “dispari”, le donne rappresentano quasi il 70% dei lavoratori atipici; le donne lavorano di più, fra lavoro visibile e invisibile, di ogni altra in occidente. Anche nella nostra Regione le donne adulte mettono a rischio lavoro e carriera per la maternità e la cura, specie tra i 29 e i 49 anni, età che coincide con il momento cruciale per la vita della donna, l'epoca della riproduzione e della cura dei figli. La ragione di queste difficoltà sembra risiedere nel fatto che la maggior parte degli interventi di pari opportunità non riesce a incidere su quel modello tradizionale di gestione delle risorse umane e dei tempi, che per anni ha mirato all’omologazione tra maschio e femmina in un’ottica prevalentemente maschile. E’ ancora poco diffusa la cultura del valore della cura e della relazione condivisa socialmente e fra generi e generazioni, il ché mette sovente le donne in condizione di dover affrontare ed effettuare scelte che, nella gran parte dei casi, sono significativamente influenzate da modelli culturali tradizionali, secondo i quali le responsabilità e i carichi di assistenza e di cura ai bambini, agli anziani e alle persone non autosufficienti sono attribuiti alle donne e fra le donne, spesso, alle più deboli, incrementando così lo stereotipo di irrilevanza delle competenze relazionali non formali, che penalizza soprattutto un genere e le “altre” provenienze (le immigrate). Come dice Silvia Gherardi in “Il genere e le organizzazioni” intendiamo attraversare esperienze, organizzazioni, lavori come II laboratori “per le negoziazioni quotidiane delle relazioni di genere, considerandole una delle arene sociali in cui la doppia presenza è manifesta e ha iniziato a cambiare i confini tra gli universi simbolici del maschile e del femminile”. Lo stesso tema della conciliazione, se inquadrato in questa prospettiva, esce da un’ottica riduttiva di ricerca di soluzioni per le esigenze ed i bisogni personali del soggetto femminile, legati a specifici e definiti cicli vitali, per divenire elemento di innovazione del sistema produttivo e del tessuto sociale, chiave di volta di un sistema integrato di politiche organizzative d’impresa, di politiche sociali e di politiche del territorio più rispondenti ai bisogni soggettivi di donne e uomini, insomma un discorso civico. La mossa di apertura del progetto Weird per avviare questo discorso civico, che parte dal genere, è un evento culturale e sociale insieme, è questo concorso di scrittura per guardare la città con occhi di donna. Lalla Golfarelli Responsabile del Progetto Weird ECIPAR Emilia-Romagna III Presentazioni Sono un’imprenditrice e presiedo il Comitato Impresa Donna della CNA dell’Emilia-Romagna. Nella nostra Regione le donne che lavorano sono tante e tante sono le lavoratrici autonome, le professioniste e le imprenditrici e, se guardiamo ai più recenti ingressi nel mondo del lavoro, le lavoratrici atipiche, che sono la grande maggioranza delle giovani lavoratrici. Queste donne che intraprendono, che lavorano, che si danno da fare, che rappresentano una componente determinante del tessuto economico diffuso, devono anche affrontare il problema della conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita. Lo affrontano e lo risolvono alla grande, con ben poco aiuto e condivisione da parte dei loro compagni di vita, anche grazie al sistema di welfare locale. In questi giochi di equilibrio si esprime tutta la loro, la nostra forza, un poco del nostro potere e molta della nostra fatica. A Forlì il Comune ha promosso numerose iniziative per far diventare la conciliazione una scelta civica e non un affare privato. Le misure di conciliazione non possono che essere territorializzate ed è senza dubbio più facile per le donne interagire in sede locale: ne hanno la forza, possono trovare gli elementi di fiducia che le motivino, possono tessere alleanze e fare lobby. Ora il Comune di Forlì è partner del Comitato Impresa Donna nel progetto Weird; incantesimo. É a partire dalle parole delle donne di questa città che vogliamo dare inizio al progetto, scoprendo le strade per vivere meglio senza rinunciare ad una parte o ad un’altra di sé stesse, per progettare una città a misura anche nostra e per convincere gli uomini che ne vale la pena: se questo non è un incantesimo! Lucilla Pieralli Presidente Comitato Impresa Donna CNA Emilia-Romagna IV L’ultimo giorno dell’anno di Daniela Ciani Chiunque si fosse avventurato, verso le sei della mattina dell’ultimo giorno dell’anno, lungo lo stretto corridoio di terra battuta che fiancheggia la vecchia palestra dismessa, non avrebbe potuto non notarlo. È evidente che sono ben poche le persone che, se non afflitte da cani insonni ed incontinenti, in una data tanto topica e ad un’ora così poco adatta alle passeggiate rigeneranti, si inoltrerebbero per quel tratturo scuro e poco invitante, che ha l’unico, incerto merito di condurre ad un lembo di prato, al limitare del quale non si staglia l’onnipresente e perentorio divieto di introdurre – dicono proprio così i cartelli, “introdurre”, come se si riferissero alla spina del fon ed alla presa di corrente – cani. Se però il nostro mattiniero passante, o la nostra mattiniera passante, ché non pare il caso di differenziare per genere gli eventuali infelici proprietari di piccoli, medi o grandi cani di città, si fossero lasciati tentare dalla promessa di un poco di erba impietrita dall’incontro con la brina, allora, dicevamo, avrebbero senz’altro notato la breccia nel muro della casa che affianca il sentiero, proprio in faccia alla palestra, e non è escluso che sarebbero stati tentati di avvicinare l’occhio allo spiraglio per dar sfogo ad una legittima curiosità. In questo caso, avrebbero colto con lo sguardo l’intera visione del piccolo giardino, che un tempo forse era stato cortile e che ora, seppur umiliato dal freddo, non nascondeva la segreta ambizione di apparire un parco in miniatura, sul quale si affacciavano il retro della grande casa a due piani e il fronte di una casetta ad un piano unico con soffitta, due camere, cucina, bagno, glicine lungo il muro e lanterna sul portoncino. Alle sei della mattina dell’ultimo giorno dell’anno, tre finestre illuminate segnalavano che le abitanti avevano definitivamente sconfitto il sonno per quel giorno e si preparavano ad affrontare le ore che le separavano dall’inizio di un nuovo anno. Al piano nobile, Teresa, la padrona di casa, con i piedi infilati in 1 grossi calzini di lana ed in buffe pantofole in forma di gatto Gardfield, avvolta in una felpa sformata buttata sul pigiama, stava preparando in fretta un’abbondante razione di pappa per Filippo, il siamese più viziato se non dell’intera città, senz’altro del quartiere, che peraltro vanta una popolazione felina di tutto rispetto. Come tutte le notti il suo sonno era stato breve e tormentato ed alle quattro si era ritrovata a fissare un punto più o meno corrispondente alla sommità dell’armadio, cercando con la mano il morbido pelo di Filippo e ripassando mentalmente l’ordine degli impegni per quella giornata. Primo: sei ore stramaledette senza computer. Cosa diavolo c’era che non funzionava nella testa degli amministratori che compravano i computer in Irlanda? Da tre settimane aspettavano il pezzo di ricambio. Il massimo dell’efficienza. Sempre più difficile condividere la scrivania con la collega. Chissà se c’erano dei traffici dietro i computer irlandesi? Fossero state delle bistecche illegali, si poteva capire, ma dei computer!?! A quel punto delle sue meditazioni un ronfare leggero le aveva segnalato che Filippo intendeva dare inizio alla manovra di avvicinamento alla pappa. Normalmente queste comprendevano prima le fusa, poi un rapido scompigliare di coperte ed infine il pezzo forte: miagolii disperati, sonori, inarrestabili, che la inseguivano mentre lei si precipitava in cucina, per punirla del ritardo informando i vicini, in un modo che non poteva essere ignorato, della sciatta attenzione riservata a chi l’onorava della sua compagnia. Si era alzata velocemente per impedire lo sviluppo delle richieste feline e, trovati a tastoni calzerotti, ciabatte e felpa, si era avviata il più silenziosamente possibile – non era il caso di svegliare Rachele – verso la cucina. Mentre tirava fuori dal frigorifero la pappa del gatto, continuava a ripassare l’indice ragionato dei compiti. Secondo: una spesa abbondante per il pranzo del giorno dopo. Carne da brodo, finocchi e insalata scarola, straccetti di salmone per le tartine, olive - quelle verdi, grosse, polpose, lussuriose - spumante. Sarebbe stato un primo dell’anno tranquillo tutto sommato: solo il babbo, Rachele e lei, niente a che vedere con l’anno precedente e con la casa invasa dai fratelli, la cognata e i nipoti. A proposito di nipoti – terzo – doveva assolutamente ricordarsi di 2 telefonare al nipote maggiore, prima che partisse per la vacanza, perché passasse a ritirare il contributo della zia al finanziamento della settimana in montagna. Quarto, (a questo punto, ormai uscita dal bagno, si era attardata un poco a compiangersi per il freddo che, da quando la tradizionale dieta estiva aveva insperatamente sortito effetto, la tormentava e le faceva ricordare che, appena concluso il periodo festivo, doveva mettersi a caccia di un idraulico volonteroso per la pulizia della caldaia) quarto, dunque, telefonare a Cosetta e a Valeria per gli auguri e per declinare qualsiasi invito a passare insieme la serata. La conoscevano da tanti anni, ma non demordevano. Troppa malinconica e faticosa noia nelle serate passate a mangiare, aspettando quella mezzanotte assolutamente deludente. Da tempo ormai non si sentiva più la buona volontà sufficiente a mantenere quella parvenza di civiltà che serve a non stravaccarsi con un libro in mano, senza collaborare alla degustazione, alla lavatura dei piatti, all’ascolto svogliato delle ultime cassette, insomma non aveva bisogno di quel rito per tirar tardi. Quinto, sesto e settimo, pulire casa, cucinare e, se reggeva il tempo asciutto, tentare di tagliare i rami dell’albero che premevano contro la finestra, dopo aver invaso il terrazzino. Non era sicura che per gli immobili valessero gli stessi principi applicabili ai motori, certo però che, da quando lei e la figlia Rachele avevano ereditato la grande casa, non era ancora riuscita a provare nessuna delle gioie della proprietà, mentre i dolori erano riusciti a stremarla. Doveva chiedere una mano alle ragazze, per quei rami. Tutte avevano già partecipato ai suoi sforzi vani per trovare un giardiniere disponibile ad un prezzo ragionevole, insieme avrebbero trovato il modo di contenere la furia vitale del grande albero. Il pensiero dei rami invasori l’aveva fatta andare verso la finestra, con la tazza del caffè in mano: in fondo al giardino, nella casetta nella quale da cinque mesi abitavano Fabrizia e Beatrice, la luce della cucina era accesa. Teresa si era girata di scatto verso l’orologio appeso sulla porta, trattenendo il fiato, colpita dall’idea che fosse tardi, invece le lancette l’avevano rassicurata sul fatto che erano le sei della mattina, la sua insonnia non l’aveva tradita, aveva tutto il tempo per andare a curiosare sul motivo della levataccia delle amiche. Tre minuti, diciannove gradini ed un giardino dopo, avvolta nella 3 felpa, Teresa bussava alla finestra e il vetro si apriva quel poco che bastava a lasciar intravedere un occhio di Fabrizia. - Cosa succede? - Stiro! Entra, la chiave è nella porta. L’ingressino e la sala erano al buio, la porta della camera da letto chiusa, la cucina illuminata e calda, molto calda, dal momento che era quasi interamente occupata da una grande asse da stiro, dietro la quale Fabrizia armeggiava con un pesante ferro semiprofessionale a vapore. La piccola tavola quadrata era ingombra di panni già stirati e due delle quattro sedie erano occupate da quelli che ancora aspettavano l’irritato intervento della proprietaria. - Ma quante siete in questa casa? Stai stirando solo i tuoi o hai raccattato i panni di tutta la strada? - Quella delinquente di mia figlia si cambia sei, sette volte al giorno, poi lascia tutti i vestiti ammucchiati sulla sedia in camera, così anche se sono puliti sono importabili, perché sono tutti stropicciati. - Lasciaglieli così! - Sono i miei. Si mette i miei vestiti, l’animale! Se voglio andare a lavorare con qualcosa di decente addosso, debbo stirarli per forza! - Ma non sei in ferie? Vai a lavorare lo stesso? - Sono in ferie, ma oggi vado ugualmente in ufficio, devo finire delle fatturazioni, sono sola, lavoro tranquilla, sto là fino alle undici poi vado a trovare mia mamma, verifico se ha bisogno di qualcosa e torno a casa. Hai già preso il caffè? Sgombra la tavola, le fette biscottate sono sul mobiletto, il caffè è appena fatto e il latte è caldo, facciamo colazione. - Non faccio mai colazione la mattina, però prendo un altro caffè. Vai a ballare questa sera? E la Beatrice cosa fa? - Mi hanno invitato ad andare a ballare, ma non so se ci andrò davvero. È il primo capodanno senza Lui e mi sento già un gran magone...- e aveva addentato con furia una bianca galletta di riso soffiato e pressato, cosparsa di un velo di marmellata all’arancia, volonterosamente spalmata dall’amica. - Devo proprio prendere un caffè! – Silenziosa come un gatto, favorita dai suoi quaranta chili scarsi e dall’attitudine a veleggiare rapida e nervosa attraverso la vita, Marta, la locataria del piano terra della grande casa, apparve improvvisa ed inattesa, contribuendo alla prima scarica di adrenalina della giornata. Immediatamente dopo e 4 sicuramente in seguito alla sua entrata in scena, si verificarono nell’ordine i seguenti eventi: il caffè, che Teresa stava versando, si rovesciò sulle sue ginocchia provocando un “Uh!” che nessuno avrebbe potuto definire soffocato; Filippo, che si era acquattato non visto su una pila di camicie e magliette stirate, spiccò un balzo che portò lui sul davanzale e le magliette a terra, sparpagliate fra la sedia e la finestra; il ferro semiprofessionale, distrattamente brandito da Fabrizia, piombò sull’asse con un tonfo e dalla camera un grugnito segnalò che Beatrice si era svegliata. Apparentemente ignara dello scompiglio, seguita dall’occhiata stupita di due amiche ammutolite, Marta si lasciò andare sulla sedia lasciata libera dal gatto e dai panni, considerò per un poco l’opportunità di mangiare una galletta, poi sottrasse la caffettiera dalle mani di Teresa, si versò una più che generosa razione di caffè e, con un sorriso soddisfatto, che la faceva assomigliare allo stregatto di carrolliana memoria, si abbandonò sullo schienale. - Ho appeso un’altra mensola! – comunicò e lasciò cadere un silenzio che, nelle sue intenzioni, doveva adeguatamente sottolineare la grandezza dell’impresa compiuta. Marta aveva traslocato nella grande casa da diciotto giorni, assieme ad una collega di lavoro che viveva praticamente dal fidanzato e, quindi, poco o nulla interferiva nella missione di stipare l’appartamento con soprammobili acquistati nei mercatini dell’usato, oggetti pescati nelle aste, vecchi mobili ceduti da conoscenti che avevano finalmente deciso di svecchiare il loro arredamento, tutti pazientemente restaurati, ridipinti, rimessi in funzione da Marta, con l’ausilio di una considerevole collezione di attrezzi da lavoro dalle più svariate funzioni, normalmente acquartierati dentro i cassetti, dietro le ante, sopra le mensole, praticamente in ogni stanza. Per otto ore al giorno, a volte dieci, Marta si occupava dell’amministrazione di due o tre aziende: vestiva un tailleur pantalone gessato, impugnava una valigetta porta computer e riusciva a produrre un tono di voce insospettatamente autorevole, arrochito ad arte dalle quaranta e passa sigarette fumate. Per altre otto, a volte dieci ore, infilata in una tuta che sarebbe stata stretta ad un ragazzino, tagliava, forava, segava, incollava, avvitava, tingeva oggetti di svariate forme e dimensioni. Le restavano forse quattro ore, a volte sei, per dormire, lavarsi, far spese, intrattenere rapporti 5 sociali e, sì, a volte anche mangiare. Le amiche, che fra loro la chiamavano, con affetto ed un po’ di timore, “il Bucaniere”, sapevano che avrebbero potuto contare su di lei nei seguenti casi: perdita di orecchini, forcine, tappi di tubetti di dentifricio, con conseguente intasamento di tubature; consumazione e/o incrinatura di gambe di mobili e relativa instabilità; opacizzazione di legni, vetri e specchi, superfici lavabili e non; malfunzionamento di piccoli elettrodomestici. Dovevano invece temerla in tutti i casi in cui avesse proposto un radicale cambiamento della disposizione e natura di mobili e suppellettili, perché si preparavano per loro ore molto faticose di facchinaggio e pseudo assistenza tecnica. Dopo il suo devastante ingresso quella mattina, Fabrizia non trovò di meglio che affermare incongruamente, con appena una sfumatura di irritazione nella voce, mentre raccoglieva i panni che una volta erano stirati: - Debbo truccarmi. - Dobbiamo anche tagliare i rami dell’alberone – si affrettò ad aggiungere Teresa. Non c’entrava niente, ma doveva pur scegliere un momento per dirlo prima o poi. - Non adesso – Fabrizia - Ci vuole la sega elettrica – Marta - Bisogna fare attenzione a non svegliare la tartaruga – Teresa - Credevo restasse in letargo e basta...- Fabrizia - Sarebbe meglio estirpare anche l’albero davanti a questa finestra, fa troppa ombra – Marta - Se liberiamo dalle erbe il pezzo di muro in fondo, prepariamo il posto per il barbecue – Teresa - Potremmo costruire da sole un caminetto attrezzato – Marta - Debbo truccarmi! – Tagliò corto Fabrizia, prima che Marta potesse organizzare il prossimo turno di lavoro. Alle sette e quindici di quella mattina, tre donne lasciarono la grande casa per avviarsi al lavoro, mentre Beatrice, ormai rassegnata alla perdita del sonno – non soffriva di insonnia lei – si trascinava in cucina in cerca di una colazione consolatoria. Alle 11 della mattina dell’ultimo giorno dell’anno, Rachele si spalmava lo smalto sulle unghie dei piedi, in perfetto equilibrio sull’orlo della vasca da bagno, mentre accanto a lei Beatrice si 6 provava l’ennesima gonna di lana, spigata, marrone, ruggine e grigia, che forse era appartenuta alla nonna o era stata acquistata dalla madre, nei giorni in cui non si decideva a cambiare gli occhiali da vista. - Potremmo anche scegliere di andare in Egitto, quando scenderanno i prezzi, dopo l’epifania. L’Argentina non mi attira poi tanto. – Stava dicendo Rachele con studiata lentezza, ritoccando l’angolo destro dell’alluce. - E’ così nervoso che potrebbe essere un fallimento questa serata. Ci credi che adesso si veste solo con le firme? – Diceva Beatrice, ma non rispondeva all’amica, continuava un proprio ragionamento sul suo moroso. Potevano continuare per diverso tempo a discorrere di argomenti paralleli, ciascuna seguendo i propri pensieri, ma senza perdersi le battute dell’altra, un po’ come quei lettori abbastanza abili che tengono in sospeso sul comodino due libri per volta, cosa per altro autorizzata dal decalogo del lettore “literary correct”. - Potrebbe portarmici, no? Ho studiato troppo e la mamma non si sopporta! Ho bisogno di cambiare aria. Voglio vedere i cammelli. Rachele frequentava, da quello che sua madre riteneva un tempo troppo lungo, la facoltà di Veterinaria. Per arrivare a questa frequenza si era dovuta sorbire due maestre che non esitavano a strapazzare gli alunni, un’insegnante di lettere che aveva una insana passione per le ricerche, regolarmente effettuate dai genitori e cinque anni di liceo classico ai quali era sfuggita viva per quello che considerava uno dei rari miracoli della sua esistenza. Adesso era abbastanza soddisfatta, anche se, per motivi che le erano completamente oscuri, la laurea le sarebbe stata attribuita a seguito della sua capacità di imparare a memoria il nome delle ossa di svariate specie di animali, senza alcuna verifica delle sue capacità pratiche. Ovviamente non perdeva occasione per esercitarsi in proprio: i gatti e la tartaruga le fornivano qualche opportunità di allenamento; era sempre lei che, acchiappati i rondoni che finivano nel camino, si arrampicava sulle terrazze dei condomini vicini – aveva sviluppato una grande abilità nello sfuggire ai portinai – per lanciarli nel volo di ritorno alla libertà e, quando i pompieri erano intervenuti per liberare il solaio dal grande favo di vespe che vi si era installato, lei aveva prestato la sua occhiuta assistenza. Certo non 7 mancavano spiacevoli episodi che era meglio dimenticare, come quella volta che, armata di grossi guanti da giardiniere, aveva cercato di costringere a scavarsi una tana nella terra un enorme topaccio, scambiato per una talpa, ma nessun professionista serio può vantare un percorso senza significativi incidenti. Amava le diete, la palestra a periodi alterni, il buon cinema e non sopportava i peli sulle sue gambe. Beatrice invece si era dedicata alle scienze politiche. Amava la cucina, i ritardi propri e la puntualità altrui, i vestiti usati e le tisane profumate. Insomma avevano svariati argomenti di conversazione. - Voglio andare a comprare un nuovo lettore di CD – disse Beatrice, prendendo una decisione sulla maglia da mettersi. - Io faccio il bagno, mi depilo e vado a vedere nelle agenzie di viaggi se ci sono sconti convenienti per l’Egitto, poi ci penso, tanto stasera non esco. – Rispose Rachele. Sempre alle 11 di quella mattina, Fabrizia aveva perso le chiavi del cancello e non poteva uscire dalla fabbrichetta dove lavorava. Dovevano essere nella borsa: rossetto, specchio, spazzolino da denti, fazzoletto da naso, agendina, occhiali di riserva, portamonete, CD di De Andrè da masterizzare, sigarette con accendino, ma niente chiavi. Forse le aveva appoggiate sul bancone del front-office quando era entrata: fatture e bolle di accompagnamento in pile semiordinate, listini di prezzi, pubblicità dei concorrenti, l’elenco dei clienti a cui erano stati inviati gli auguri di Natale e niente chiavi. Fabrizia si considerava una lavoratrice capace, rapida, affidabile, efficiente e, in quel momento, maledettamente disordinata. “Zio pepe” imprecò mentalmente, buttando all’aria la sua scrivania “erano qui”. Aprì i cassetti, sapeva benissimo di non averle messe in un cassetto, ma non poteva lasciare qualcosa di intentato. Frugò la scrivania del capo, anche se non era entrata affatto nel suo ufficio in precedenza e fece bene, perché in quel modo ritrovò un certo ordine di merce che pensava di aver smarrito prima di Natale. “Sono scesa dalla macchina con la borsa in una mano e sicuramente avevo le chiavi nell’altra” vuotò di nuovo la borsa “le ho appoggiate un momento” ributtò all’aria il bancone delle colleghe all’ingresso, ormai incurante delle rimostranze che l’avrebbero accolta alla ripresa del lavoro in gennaio “se non lasciassero qui tutti questi fogli ritroverebbero tutto proprio come l’avrebbero lasciato”. Si arrestò un attimo a rimettere 8 in fila congiuntivi e condizionali, poi si avviò a passo di carica verso il magazzino. “Non ci sono stata – si diceva strada facendo – non posso averle lasciate là”. Ma una forza oscura la spingeva a cercare anche dove non aveva senso farlo e intanto ripassava tutti i disordini con cui combatteva quotidianamente “Beatrice deve capire che i vestiti vanno rimessi nell’armadio, siamo in due nella stessa stanza accidenti. La mia cognata non può portare tutti quei panni da lavare alla donna che si occupa della mamma, è pagata per far compagnia alla mamma, per portarla fuori, non è per cattiveria, ma i panni bisogna che se li lavi da sola o almeno che ne porti pochi per volta, o che non glieli faccia stirare”. Intanto spostava fogli di laminato dietro ai quali sicuramente non potevano nascondersi le sue chiavi. “Il laminato verniciato non deve stare qui, dove sono? Dove sono? Le scarpe antinfortunio debbono rimetterle nell’armadietto. Dove le avrò messe? Debbo telefonare al capo per farlo venire ad aprirmi. Che imbranata che sono!”. Alle 11 e 45, stremata, con il cellulare in mano, si lasciò andare sul sedile dell’auto e piombò pesantemente sul mazzo di chiavi che stava cercando. Alle 14 dell’ultimo giorno dell’anno, Teresa aveva diligentemente infilato la sua tesserina elettronica dentro la fessura della macchina marcatempo, nella direzione sbagliata. Lo faceva quasi sempre e si attirava sguardi compassionevoli e disgustati di colleghi che aspettavano il loro turno. Conclusa in qualche modo l’operazione ed inforcata la bicicletta, si era diretta verso il supermercato. Pedalando si sentiva come uno dei “Cavalieri che fecero l’impresa” ed effettivamente era un’impresa raggiungere il Centro commerciale. Le aiuole rotonde che nottetempo spuntavano al centro degli incroci, in precedenza tanto opportunamente presidiati da tranquillizzanti semafori, riuscivano senza dubbio a facilitare la circolazione delle automobili, ma si intestardivano a rendere sempre più complicata la vita delle cicliste, già abbondantemente sprovviste di piste ciclabili. Al supermercato poi, era un’impresa, racimolato un euro che si fosse smarrito nelle tasche del giaccone, agguantare un carrello e tuffarsi nella bolgia prefestiva. Teresa si rimproverava, in quelle occasioni, due vizi capitali: l’assoluta mancanza di aggressività e l’improvvida altezza contenuta. Altezza ed aggressività erano entrambe caratteristiche che le sarebbero state d’aiuto, le avrebbero infatti evitato il desiderio di abbandonarsi all’oblio di una bottiglia di 9 cognac, lei che era completamente astemia, quando non riusciva a raggiungere l’ultimo tetrapak rintanato nello scaffale più alto o quando, ormai davanti alla cassa, in attesa da un tempo immemorabile, gettato l’occhio verso le invitanti caramelle senza zucchero, veniva spintonata e sorpassata da qualcuno. Erano già le 15 quando, per aprire il portone di casa, si sporse oltre il manubrio della bicicletta, al quale erano appese tre pesanti borse di plastica che segnalavano la sua vittoria sul supermercato del giorno prefestivo. Nell’ingresso della grande casa venne accolta da Fabrizia, seduta su un gradino con la testa fra le mani, Marta già in tuta, che brandiva una sega elettrica, Beatrice, che reggeva un pacco di medie dimensioni e Rachele in pigiama azzurro con orsetti, che abbeverava le piante con un minuscolo annaffiatoio verde. Tutta la truppa seguì Teresa, carica di borse, lungo le scale, fino al suo appartamento. - Fa sempre più freddo qui dentro – constatò Rachele. - Lo so – Ammise la madre, mentre puliva le verdure per il brodo. - Dovremo cercare l’idraulico – ricordò Fabrizia. - Ho comprato il nuovo lettore per CD – comunicò Beatrice. - Io invece ho procurato quello che ci serve per fare la festa agli alberi del giardino – annunciò trionfante Marta. - Allora lo facciamo oggi? – La voce di Fabrizia non nascondeva la speranza di un ripensamento. - Io non sono capace – avvertì Rachele. - Io vi preparo una merendina, tanto adesso è troppo tardi per pranzare! – Concluse Beatrice. Mezz’ora dopo al brodo provvedeva la pentola a pressione, Beatrice preparava il thè e Rachele era partita per certi acquisti di frutta secca. Fabrizia aveva finito di raccontare la sua mattinata da incubo, dal momento che, dopo il mistero delle chiavi scomparse, aveva dovuto affrontare l’“affaire” della madre in vena di ricatti affettivi, il caso della collaboratrice domestica polacca intenzionata a passare per conto suo l’ultima notte dell’anno e l’arcano della collega che decide di prolungare le ferie e lo comunica l’ultimo giorno dell’anno. Su una scala non abbastanza lunga ed in compenso non abbastanza sicura, Teresa si protendeva con la sega in mano verso il primo ramo da tagliare. Immediatamente sotto di lei, con una mano appoggiata, a 10 sorreggerla, sulle natiche, Fabrizia dava ordini a Marta che tentava di tagliare l’albero ormai secco, davanti alla finestra della cucina della casetta. Filippo si teneva a rispettosa distanza e trasaliva tutte le volte che Teresa, memore dei documentari dell’infanzia “Sulle rive del fiume San Lorenzo”, urlava - cadeee! Fra lo stupore delle lavoratrici, i rami cadevano veramente, venivano tagliati in pezzi con una mannaia, normalmente utilizzata da Marta per trinciare i polli surgelati, e Fabrizia andava in missione fino al cassonetto, con enormi fasci di legno e fronde fra le braccia, inseguita da raccomandazioni a darsi un’aria presentabile mentre incrociava i passanti agghindati a festa, diretti all’ultima passeggiata dell’anno in centro. Nelle due ore successive il giardino fu messo a ferro e fuoco, il rumore delle seghe elettriche era assordante e le abitanti della grande casa erano perse in un universo di equilibri instabili, movimenti non abituali, pesi sollevati e spostati, fino a che finalmente Teresa urlò: - Basta adesso! Smettetela di fare le segaiole! Cadde un silenzio improvviso, irreale, che sembrò dover durare abbastanza da rigenerare gli spiriti afflitti dagli stridii delle seghe e dai tonfi del legno, se non fosse stato per il fatto che dalla strada si fece largo il canto delle litanie di una processione, che si snodava lungo la via. Le tre amiche si guardarono costernate, cercando di ricordare se al rumore si erano accompagnate imprecazioni o sproloqui di cui tre donne per bene dovessero vergognarsi, poi l’alzata di spalle di Fabrizia segnalò che, tanto peggio, era ora del thè. Alle 19, tre signore cinquantenni ed una ragazza piena di buoni propositi, sedevano attorno al tavolo della cucina della casetta in fondo al giardino, con una sigaretta in mano e una tazza di thè ormai vuota davanti. La ragazza piena di buoni propositi stava dicendo: - Facciamo così: la mamma va a prendere la nonna, mangiamo insieme poi si prepara per andare a ballare. Io resto con la nonna fino alle 10 di sera, poi la nonna resta con Teresa e Marta fino all’una o le due e a quell’ora la mamma torna a casa. Fabrizia, che era la mamma in questione, stava interpretando, in maniera molto convincente, le ansie della protagonista di un film dal titolo “Senso di colpa e desiderio”. 11 - Magari la Marta vuole uscire?!? – domandò incerta. - Non mi sono fatta i capelli, non ho niente da mettermi.... - cominciò ad enumerare Marta. - Se il problema sono i capelli, te li metto a posto io – propose Beatrice, che si era già dimenticata la sua strategia organizzativa. - Non è vero che non hai niente da metterti, il vestito rigato va benissimo! – La rassicurò Teresa - Con quello ci vado a lavorare, non posso andare a ballare con i vestiti con cui vado a lavorare, se ne accorgerebbero. - Chi se ne accorgerebbe? – Domandò Teresa, ma la sua domanda cadde nel vuoto. - Vacci tu a ballare! – Ribatté invece Marta, con un tono di sfida. - Io? Io? – Teresa era l’incarnazione dell’incredulità – Non mi ricordo neppure come si fa a ballare! - Ti insegno! – Beatrice cercava sempre di risolvere i problemi di tutte. - Non so se me la sento di andare a ballare – cominciò Fabrizia – se poi lo incontro nella sala da ballo, quello mi rovina la serata – “quello” era l’ex marito. – Non mi trovo neanche tanto bene con quella compagnia... - Non devi andarci se non sei a tuo agio! Comunque, con tutte le sale che ci sono, non è detto che tu incontri proprio il bischero – Teresa faceva sfoggio di saggezza. - Vieni, Teresina, guarda come si fa a ballare! – Beatrice aveva spostato la tavola e stava armeggiando con una trappoletta grigioargento. - Se vado a prendere la mia mamma, poi non so dove metterla a dormire – rifletteva Fabrizia. - Io dormo sul divano con il piumone. – Propose Beatrice. Fu proprio mentre una coinvolgente musica latino-americana si decideva ad uscire dallo strumento di Beatrice, che Rachele irruppe nella stanza. - Mi hanno fatto di nuovo la multa! – Esclamò. – Il permesso per il parcheggio dei residenti era bene in vista questa volta, voglio proprio vedere cosa si inventano! Ho anche litigato con Alessandro. Dice che invece di spendere tutti quei soldi in Egitto, mi regala un mappamondo! Adesso vado a letto e dormo fino a Pasqua! Tutte la guardarono in silenzio. Gli sguardi delle tre donne adulte 12 dicevano: “Sono tutti così i maschi! Non fidarti delle loro promesse!”. Lo sguardo di Beatrice diceva “dagli un cazzotto! Se vuoi ti aiuto!". Poi cominciarono a parlare tutte insieme. Teresa si lamentò dell’organizzazione dei parcheggi per i residenti in centro città. Fabrizia raccontò di quella volta che il suo ex marito accettò di andare in ferie in Croazia e dopo un giorno di permanenza volle tornare a casa. Marta elaborò una consolatoria teoria, secondo la quale era molto meglio non andare via da casa durante il periodo festivo. Beatrice elencò tutte le ragioni per le quali avrebbe rotto qualsiasi rapporto con un uomo che avesse rifiutato di portarla in Egitto. Rachele sperimentò sulle altre l’effetto del discorso di addio al moroso, che avrebbe tenuto incollato al telefono lo sprovveduto Alessandro, il giorno dopo. - A proposito! – Ricordò improvvisamente Rachele – il nonno ha telefonato per dirci che domani va a mangiare con quegli amici di Ravenna. - Come sarebbe? – Chiese allarmata Teresa – ma non gli hai detto che si era impegnato a venire da noi? Ho fatto il brodo! Ho comprato il salmone, e non i ritagli, quelli che costano meno, un bel pezzo di salmone affumicato! - Dice che si è dimenticato. Dice che si era impegnato con loro da tempo. - Adesso lo chiamo subito! – E Teresa scattò in piedi. - Inutile, gli amici passavano a prenderlo alle sette. E’ già partito. Dorme da loro e sicuramente si è dimenticato il cellulare. – La bloccò Rachele, occupando la sedia lasciata libera dalla madre. - Ho fatto il brodo! – Ripeté Teresa, col tono di chi vede naufragare tutte le speranze in un lago denso e caldo e saporoso di ala di cappone. - Ma non sarai mica preoccupata per il brodo vero? – Chiese Fabrizia e Teresa cercò di incenerirla con lo sguardo. - Lo mangiamo noi! – Propose Marta – Ci metto due minuti a preparare i passatelli! – E stava già arrotolandosi le maniche della tuta. - Vado a prenderlo! – Scattò Rachele. - Passa da casa mia – le gridò dietro Marta – in frigorifero ci sono degli affettati. 13 - Io vado a prendere mia madre, – comunicò Fabrizia – stiamo tutte qui a mangiare. - Dai Teresa, balla con me – e Beatrice agguantò Teresa con il proposito di trascinarla in un tango. Alle nove della sera dell’ultimo giorno dell’anno, quando rientrò a casa, seguita da una madre eccitata dall’idea di una nottata in compagnia, Fabrizia trovò sala e cucina trasformate. In cucina la tavola era apparecchiata con il “servizio buono” di Teresa. Le sedie erano sufficienti, perché Marta ne aveva portate due delle sue, ma al tavolo era stato aggiunto il tavolinetto della sala, per far posto a tutto. Rachele aveva portato la frutta secca, Marta si era ricordata di certi tortelli di zucca che languivano nel freezer e li aveva aggiunti ai passatelli, poi aveva predisposto tutto per un’enorme zuppiera di radicchi con i “bruciatini” e l’aceto balsamico. Teresa aveva procurato il formaggio di fossa, regalo di natale di un fratello. Beatrice era andata a saccheggiare, in soffitta, la piccola scorta di vini e spumanti. In mezzo alla tavola c’era un grande vassoio di tartine al salmone, con le olive e con quel tale paté che Cosetta aveva portato da Parigi. In sala, il divano era stato accostato al muro e Teresa, avvolta in uno scialle, si stava esibendo nella sua versione di una scatenata Lap dance, sotto lo sguardo scandalizzato di Rachele. Marta aveva sottratto le lunghe trecce di lucine dall’albero di natale della collega e aveva addobbato il giardino, aiutandosi con metri di filo elettrico che avevano atteso quell’occasione per saltar fuori dalla cassapanca. Alle dieci Beatrice si dedicò al telefono: convinse il moroso che, sì, si sarebbero visti, ma dopo mezzanotte, mica poteva lasciar sola la nonna! Poi comunicò agli amici di Fabrizia che lei era partita, proprio quella sera, per una “tre giorni a Roma” assieme ad una certa parente alla quale non si poteva negare un favore: povera mamma! Fu sempre Beatrice che, accaldata per il ballo e già un po’ brilla per il vino, con grande tempismo, fece saltare il primo tappo di spumante a mezzanotte in punto. Se il proprietario del cane incontinente, fosse stato costretto a tornare sui suoi passi, lungo il sentiero che costeggia la vecchia palestra, poco dopo la mezzanotte dell’ultimo giorno dell’anno, non avrebbe potuto fare a meno di sentire la musica e le risate che, attraverso il giardino della grande casa, arrivavano fino alla strada. 14 Poesie della città di Maria Aulizio Città vecchia Cuore antico nascosto nei vicoli angusti rumori che irrompono col fragore di una città che fugge finestre deserte imprigionate dietro sbarre di ferro in pareti scolpite lapidi in memoria sfida al divenire incessante all’invenzione continua al prodotto alienante di una civiltà che non può aspettare rimbalzo sui muri di suoni lontani ovattati di voci di chi narra storie con ritmi e scansioni d’un tempo custoditi nel cuore dei vecchi racconto arcaico mai scritto raccontato elaborato esaltato 15 nel sogno di un passato vivo e non ancora vissuto del tutto città vecchia odore stantio familiare di cose ammucchiate odore di angoli a marcire nell’umidità di un’ombra perenne sconosciuta al sole città vecchia dove uomini antichi portano addosso abiti impregnati di odori stagnanti e giacche ben serrate sul petto che fanno da schermo al cuore per salvare ciò che resta di loro. 16 Per non morire di vita Fuggire in un altrove un cortile rosseggiante di gerani esplosione in barattoli di latta ciarpame ammucchiato nell’angolo di Pigrin il robivecchi di Schiavonia la vecchina che tiene pulito il suo territorio con la granata di saggina bambini scalzi urlanti in un carosello di corse a rimpiattino intonaco che cede a grossi frammenti ferite rimarginate dal tempo ricordi che compaiono e si attenuano fino a dilatarsi nel respiro del presente visione di un mondo che non è riuscito a sciogliere nel pianto il dolore cortile della memoria di corteccia antica dialogo solitario messaggio dell’inconscio contenitore di sogni e fantasie che non riesce a sedare mediatore tra il sogno che resiste e il tempo di vivere un altrove per non morire di vita. 17 Donde habita la ausencia di Maria Esther Funes Zannier .....bocanada azul tu ausencia. (Carlos Norberto Carbone) Hoy estoy de nuevo aquì Hoy estoy de nuevo aqui en este cuarto. Entre los salmos de los grillos en este lecho donde duerme la luna y una hebra de lágrima camina lenta y cae en la boca que no canta plegarias por la puerta entreabierta se cuela el cielo callado y por la grieta del muro se escapa la muerte. 18 Dove risiede l’assenza di Maria Esther Funes Zannier ..…folata blu la tua assenza (Carlos Norberto Carbone) Oggi sono di nuovo qui Oggi sono di nuovo qui in questa stanza. Fra i salmi dei grilli in questo giaciglio dove dorme la luna e un filamento di lacrima cammina lenta e cade nella bocca che non canta preghiere attraverso la porta socchiusa ci si cola il cielo zitto e attraverso la crepa nel muro scappa la morte. 19 (Dedicado a mi hija Gabriela) Libre No te aprisiones en el tormento de las lágrimas. Arma tu mochila y vete. Busca un sol calienta tus huesos. Rompe cadenas la libertad es dejar fluir el ser. No insistas en el tormento y la plegaria. Sé tù. Alegria, agua viva roca y espuma esfuerzo y paz amor y tolerancia. Entonces. Solo entonces florecerà tu sendero. 20 (dedicato a mia figlia Gabriela) Libera Non ti imprigionare nel tormento delle lacrime. Prepara il tuo zaino e vattene Cerca un sole scalda le tue ossa. Rompi catene la libertà è lasciare scorrere l’essere. Non insistere nel tormento e nella supplica. Sii tu. Allegria, acqua viva roccia e schiuma fatica e pace amore e tolleranza. Allora. Solo allora fiorirà il tuo sentiero. 21 Partida Porque partieron los amados solo el silencio desanda las habitaciones. Porque partieron los amados el mate envejece en la cocina tejiendo esperanza sin retorno Gieco y Charlie susurran su música sin olvido. Porque partieron los amados la memoria pinta retratos de colores seduce los espejos devela los secretos de los libros y en un exceso de imaginación sobre blancos papeles caminan las historias. Porque partieron los amados mi otoño es más intenso bordado de despobladas voces me abandono al borde del olvido mi mano de alfarero atrapa un cielo azul el diáfano del mar y un intangible amor 22 Partenza Perché se ne sono andati gli amati solo il silenzio percorre le stanze. Perché se ne sono andati gli amati il mate invecchia in cucina tessendo speranze senza ritorno Gieco e Charlie sussurrano la loro musica senza dimenticare. Perché se ne sono andati gli amati la memoria dipinge ritratti a colori seduce gli specchi rivela i segreti dei libri e in un eccesso di immaginazione su bianche carte camminano le storie. Perché se ne sono andati gli amati il mio autunno è più intenso ricamato di spopolate voci mi abbandono sulla soglia della dimenticanza la mia mano da ceramista afferra un cielo azzurro il diafano del mare e un intangibile amore 23 “Cayendo de la luna está la casa los Geranios le inventan costelados naufragios” (Teresita Flores) La Casa Tus puertas añosas me reciben. Cómo estas después de tantos años papá es el àngel azul que me acompaña. Recuerdo tus historias. Estás en el brote más alto de mi asombro. Busqué otros planos de existencia valiosa de amor de hijos que trasciendan rechazando la realidad vulgar y cotidiana asomada como agonía entre el amor y su tiempo. He vuelto, con el brillo dorado de mi otoño. Y tú centenaria de recuerdos cuéntame como las historias de huarpes y conquistadores del brote del rosal y de las vides. Tu voz de cuando en cuando es un cristal sutil que me interrumpe. Antigua carcaza de nostalgia donde se fueron los amados. Crujen en el aire los recuerdos se alucinan detrás las ventanas. Compartamos la historia que habita entre tus muros. Hay un cielo, un sol, una esperanza un vino rojo en la llanura y un viento claro que lo atrapa. 24 Cadendo dalla luna c’è la casa i gerani le inventano costellati naufragi (Teresita Flores) La casa Le tue porte anziane mi accolgono. Come stai dopo tanti anni papà è l’angelo azzurro che mi accompagna. Ricordo le tue storie. Ti trovi nel germoglio più alto della mia meraviglia. Ho cercato altri piani d’esistenza preziosa d’amore di figli che trascendano rifiutando la realtà volgare e quotidiana affacciata come agonia fra l’amore e il suo tempo. Sono tornata, con la lucentezza dorata del mio autunno. E tu centenaria di ricordi raccontami come le storie dei Huarpes e dei conquistatori del germoglio del roseto e delle viti. La tua voce di tanto in tanto è un cristallo sottile che mi interrompe. Antica carcassa di nostalgia dove se ne sono andati gli amati. Scricchiolano nell’aria i ricordi si confondono dietro le finestre. Condividiamo la storia che abita fra le tue mura. C’è un cielo, un sole, una speranza un vino rosso nella pianura e un vento chiaro che lo afferra. 25 (dedicado e mis hijos que tuvieron que buscar su futuro fuera del país) Los Hijos La historia comenzó cuando la noche se quiebra a la mitad sin tiempo desde lo profundo. Esqueleto de niebla desdibujaron los pichones y la lluvia desbordó mis ojos un sol de espanto abandonó los días. En este universo precario armé el nido. Libré batallas navegué el espacio. Como tren sin luces caminé en la noche. Arropé los pajaros. Despojé el invierno. Puse un arcoiris. Fui soldado que lucha frente a su propio abismo. Les crecieron alas, brillantes lustrosas con el color del futuro les pinté los ojos. Llevan el sol en el pico navegan espacios. Atraviesan mares en el horizonte azul, suena su canto de miel y esperanza. 26 (dedicato ai miei figli che hanno dovuto cercare il proprio futuro fuori dal paese) I figli La storia è iniziata quando la notte si spezza a metà senza tempo dal profondo. Scheletro di nebbia si sono sfuocati i piccioni e la pioggia ha straripato i miei occhi un sole spaventoso ha abbandonato i giorni. In questo universo precario ho costruito il mio nido. Ho condotto battaglie ho solcato lo spazio. Come un treno senza luci ho camminato nella notte. Ho coperto gli uccelli. Ho denudato l’inverno. Ho messo un arcobaleno. Sono stata soldato che lotta di fronte al proprio abisso. Gli sono cresciute ali, brillanti splendenti con il colore del futuro gli ho dipinto gli occhi. Portano il sole nel becco solcano spazi. Attraversano mari nell’orizzonte blu, risuona il suo canto di miele e speranza. 27 Il più bel regalo di Natale di Danila Rosetti Era un venerdì freddo e buio, uno di quei giorni così rugoso che non vedi l’ora che finisca la notte per respirare un po’ di luce fresca e onesta. Già di prima mattina incominci a scalpitare, pensi che ormai è passata anche questa settimana, basta ancora un piccolo sforzo e via si vola come un siluro in tutti gli impegni del post-lavoro. Il venerdì poi attira come una calamita, sembra che ci sia solo questo giorno per gli incontri, i seminari culturali, l’inaugurazione di mostre, le premiazioni, i concerti, gli approfondimenti e chi più ne ha più ne metta. Solo che non finisci mai, sfori sempre con l’orario, all’ultimo momento si aggiunge sempre una cosina, un problemino, un bruscadino di traverso che ti stravolge tutta la scaletta rimuginata e ripetuta a memoria dalle sei di questa mattina! E vai, ore diciotto, è finita giusto in tempo per un’occhiata veloce al giornale, preparazione accurata del borsone da meditazione con le tue coperte, la borsa con “gli ori”- (e’ burslè) portamonete, documenti di riconoscimento, fazzoletti da naso, bottiglietta di acqua possibilmente senza fori, quadernino degli appunti, penna/matita immancabilmente spuntata, chiavi della macchina, chiavi di casa, sembra che ti debba portare l’equipaggiamento per il Polo Nord, occhiali di scorta, perché non si sa mai, poi cosa manca, qualcosa mancherà di certo, parti, saluti, chi c’è, c’è e si lamenta che non starai facendo troppe cose, alla tua età, che non trascurerai la famiglia, che cosa ti sarà venuto in mente anche questa volta, con questo nuovo corso, non bastava che il venerdì facevi già il corso di yoga, chi ringrazia il cielo che finalmente ti cavi dalle palle che così la smetti con la solita manfrina sulla televisione che vi sliquida il cervello, che è la fiction della fiction, che vi dà un’idea rovesciata del mondo, che per fare le cose devi passare dalla porta e te le devi guadagnare, che neanche il grillo parlante era più insopportabile e te lo fa capire alla grande così che quando valichi la porta non sai più se devi espiare una colpa o devi attraversare le Alpi, annibalescamente parlando, o devi sentirti liberata. Impugni le chiavi 28 della macchina, ti scivolano dalle mani e si fanno tre rampe di scale a tempo zero, ci metti dieci minuti a ritrovarle che si sono incuneate nel didietro del didietro della cassapanca e dopo avere smadonnato perché ti si mettono proprio tutte contro, apri la porta, il pulsante FUNZIONA, meno male che c’è una cosa che funziona e vai. La tua bella auto che una volta era bianca e adesso non si sa bene di che colore sia diventata PARTE, c’è la benzina per arrivare a DESTINAZIONE. Il traffico è inimmaginabile, non si sa bene perché ma poco prima di Natale incominciano inspiegabili, interminabili code, ingorghi, vortici vorticosi di pedoni, biciclette, motorette, macchinette, guidatori in gara di indisciplina, passano con il rosso, con il giallo, si fermano incantati quando viene un barlume di verde, si dimenticano che esiste la possibilità che ci siano due verdi in contemporanea, sono estimatori di tutti i santi, anche di quelli ormai dimenticati, quelli inseriti solo nei calendari di frate indovino, ormai parlano solo ai cellulari, accendono la televisione, fanno scendere incazzati il bambino che non trattiene più il bisognino, tirano i panettoni dai finestrini, accendono i petardi dentro la macchina, la fine del mondo. Trovare parcheggio è un’impresa che neanche Mennea, avevi un freddo boia ma adesso questo parcheggino con dieci manovre in venti centimetri, le ruote che si mangiano il marciapiede, vedrai che ti ha fatto venire una bella imbes-cia e quando scendi dalla macchina l’aria ti taglia come una coltellata. Scarichi baracca e burattini, lo sportello ti si incastra nel marciapiede e ti ci vogliono altri dieci minuti per richiuderlo, finalmente smonti le tende, sei davanti alla porta d’ingresso della palestra e tiri un respiro di sollievo. Duecento mega watt di luce ti sparano nelle pupille dilatate e ti imbarbagliano, cerchi un po’ di buio per vederci qualcosa. Entri. C’è una fila di sedie, si fa per dire, cinque poltroncine di legno come quelle delle vecchie littorine dei treni di trenta anni fa, mi ci sono già sbucanati due paia di pantaloni della tuta, incastrati nella capocchia dei chiodi lievemente rialzati al bordo della sedia già di per sé ruvida, di fronte alla palestra “D”, un fogliettino di carta scritto a mano, appeso alla porta, la tua stella cometa, non ti puoi sbagliare, quella è la grotta, non fare caso se adesso esce un alleluia particolare, non è ancora terminata la lezione di danza del ventre, uno, due, tre, quattro, urla l’insegnante ormai svociata, uno, due, tre, quattro si affievoliscono i suoni, 29 incominciano ad uscire alla chetichella le allieve, alcune con balconetti mozzafiato, altre vatusse che neanche Veruska, alcune stralunate, ti sorridono per compatimento, che naspa il corso di meditazione! Uno, due, tre, tre allieve, più l’insegnante che passa con l’incensiere per togliere il malodore. C’è già in atto l’effetto coprifuoco dell’imminente Natale, anche se in verità, anche in condizioni di normalità, il manipolo è sempre stato ridotto. Stasera ripasso dei chakra, prima dieci minuti di scuotimento al ritmo dei tamburi del Bronx, poi sedute a gambe incrociate aspettate la spirale di energia che esce dalla lampada di Aladino e incomincia ad avvolgervi nel suo mantello come la madonna della misericordia ma non ti riesce il viaggio sul tappeto volante, ogni tanto c’è una fermata imprevista o qualche sosta fuori programma, alcuni colori non sembrano neppure conosciuti tanto stentano a farsi vedere, insabbiati nelle paludi dei diverticoli intestinali. A proposito. Raccolta veloce dell’equipaggiamento e sprintata finale nel bagno. Quando ci sono le condizioni necessarie e sufficienti i tubi si chiudono e non ne vogliono sapere, quando il clima è avverso si aprono le cataratte del cielo e se la ridono, meno tu che a parte che non ti accontenti dell’aperta campagna, quando c’è, vallo a cercare un wc in condizioni estreme! C’è, manca tutto quello che serve, ma ce ne fosse, hai pure la tua trousse che adoprerai alla bisogna. Respiro di sollievo, viene pure l’acqua da una gomma verdolina che sembra di dover innaffiare il giardino, ti ci vogliono dieci minuti per rivestirti, la tua bella borsa tuttofare ancora una volta non ti ha tradita, basta cercare e ci trovi tutto. Riparti, il corridoio è lungo e da sempre tappezzato dalle fotografie delle vecchie glorie sportive, quelle belle fotografie in bianco e nero dove ogni volta che guardi scopri una faccia che già conoscevi e che oggi ha solo un po’ più di bianco nei capelli e qualche ruga di traverso. Le panche ti aspettano, c’è solo la Mary, che già che tu non sei una gran parlatrice, beh con lei è una bella gara a tirarle fuori qualche parola, meno male che in poco tempo arrivano anche le altre ragazze, che altrimenti era dura vincere al gioco del silenzio! Ma chi arriva! Ma veh chi c’è? La Ada! L’insegnante, quella vera, l’Ada non si offende, è impegnata in uno dei suoi supertours e allora la sostituisce la sostituta. E’ in una forma strepitosa, tacchi che te solo a vederli ti vengono le vertigini, punte che neanche le babbucce delle mille e una notte ci fanno un baffo, 30 ride tutta, la sua pelle trabocca di sorriso, ha trovato un venditore di creme che l’ha trasfigurata, senti i raggi del sole che se non ti allontani un po’, ti bruci, riparti con i tuoi bagagli e ti accucci nel tuo solito cantoncino, stuoino, cinture, mattoni. L’Ada vola: i piedi si tengono così, il pisiforme si appoggia cosà, la gobba no, il gatto, il cane, l’albero, se vi crolla la gamba, trovatevi un aiutino,........un tappeto di parole, una cascata che neanche il Niagara, infine rilassamento, volo di coperte, maglie, maglioni, cappotti…sopra la testa le risate dal Paradiso, si avvicina il Natale, il comico la fa da padrone, si sa. Riparte la luce, pupille sparate, chiuse aperte, uno stress da visita oculistica. Dopo la cuccia, la nanna, ti sembra la lavanderia pubblica, si piega di tutto, calzini, lenzuolini, giubbetti, pantacalze, cerniere spalancate, borsoni trabocchetto, una beauty farm, manca solo il bagno nel fieno, traboccanti specchiere, rimmel, bagnoschiuma, foulards profumati, non trovo le chiavi, son dentro la borsa, il problema è che non c’è più la borsa. Ricostruzione in tempo reale del pomeriggio, come minimo rischi una emorragia cerebrale, non parliamo della tachicardia parossistica, voli nel bagno, ci vola il tuo cuore, tu non ci stai dietro, la borsa non è appesa all’attaccapanni, ricorri nella palestra, la perlustri con gli occhi sbarrati, non vedresti neanche con il laser. Guardi sotto la panca, rovisti dentro il borsone, caso mai nella crisi di identità avessi infilato tutto dentro, eppure no, ti pare di ricordare che una la tenevi a tracolla e un’altra in mano, ritorni nel bagno, non si sa mai. Niente, non c’è proprio. Inizi il mesto bilancio delle perdite, passi per gli euro, non so la cifra esatta ma sai sotto Natale ti porti sempre qualche cosina in più caso mai vedessi l’occasione della tua vita, la patente con la fotografia di quando avevi diciotto anni, la carta d’identità, beh lì c’era una fotografia recente, l’avevo appena fatta, la tessera coop-conad, il bancomat, le vecchie lire, che fra dieci anni non varranno più niente ma non te ne riesci a separare, la carta di credito, la tessera sanitaria, il quadernino dei tuoi appunti, senti i pezzi traballare, i bigliettini con tutte le annotazioni, trasferite dalla borsa estiva a quella invernale tutte d’emblée, se no ti perdi le stagioni e poi cos’altro c’era, di tutto e di meno, adesso quando lo dirai a casa, non riesci neanche ad immaginare, un misto tra insulti e compatimento, senti già il freddo della doccia. Esci che sei uno straccio, pensare a tutti i mali del mondo non fa che aggravare la tua 31 situazione, quando uno se le va proprio a cercare col lanternino, code infinite per la denuncia dei documenti e altrettante per il loro rifacimento. Va bene, prima o poi doveva capitare, facciamocene una ragione, non vale la pena tormentarsi oltre. Non vedi più niente, solo lei è lì, ferma da due ore sulla cassapanca, sdegnata da tutti, dimenticata dalla sua legittima proprietaria, mogia, scombussolata dal frastuono, risplendente della sua solitudine. M’illumino di più dell’immenso, infinita sfinita, l’accarezzo tutta, c’è tutta (chi mai poteva pensare di prendersene su un pezzo!) apro tutte le cerniere, tutte le cose al loro posto, il cellulare con tutti i tuoi numeri segreti, il quadernino con tutti i tuoi pensieri, i bigliettini che conservi da secoli, gli appunti di tutto quello che devi, vuoi, dovrai fare, siamo alla trasfigurazione, -u’m’s-ciopa e’còr, u’m’travàlla, l’è e’piò bèll righèl ad Nadèl - il più bel regalo di Natale. 32 Fiorenza di Giorgia Monti Fiorenza, nome serioso e démodé, non le si addice per niente. Lei è una che sognava molto, ci credeva ed è riuscita. Era l’inizio degli anni settanta - Fiorenza ne aveva otto - quando sua madre decise per la separazione. Era l’inizio degli anni settanta in una piccola Forlì…forse per quello crebbe refrattaria ad ogni convenzione. Non si è mai ritenuta particolarmente audace, voleva solo sentirsi sé stessa, cioè qualcuno. Ma sarà stato per quell’ineluttabile sorriso, per quella sua ironia un po’ scomoda, che gli adulti - insegnanti in primis - e perfino i coetanei, provavano l’irrefrenabile impulso di tenerla dentro le righe. Praticamente una missione. Fiorenza non faceva la diversa, lo era. Le piacevano i calzoncini corti nell’ora di ginnastica alle medie, rossi con i bordini bianchi e le piacevano gli occhi furbi dei ragazzotti sulle sue gambe snelle. Certo che c’era malizia! Tutta quella degli allora tredicenni con un’implosione di adrenalina in atto. Era bello quando la provocazione si esauriva con uno sguardo appagato e appagante. Il fatto - devo ammetterlo - suscitò un discreto clamore, tanto più che aveva socializzato molto con la Maura, la ripetente. Ma le catastrofiche ripercussioni sulla sua moralità e sul suo rendimento scolastico, rigorosamente pronosticate, non ebbero luogo. Con grande sorpresa degli esperti. Queste cose le so perché io c’ero. Sì, insomma, non siamo mai state grandi amiche, ma la conosco da sempre. Stesse scuole, stessa classe e vite diverse, eppure Fiorenza mi è sempre piaciuta. In seguito si salvò anche dalla parrocchia - segno che Dio esiste - e da quelle frequentazioni sinistre ed incongruenti. Adorò solo e soltanto Don Pietro - alias Peter, così come fu battezzato dalla nostra classe di effervescenti liceali - che le impartì i primi rudimenti del “marafone”, confermandole che l’essere veri è il più grande atto di onestà verso sé stessi ed il mondo e il primo passo verso il cuore di ognuno.… Retorica? Beh, provare per credere. 33 Mi chiedo perché sia tornata, voglio dire a vivere qui. Fortunatamente con il lavoro che fa non è costretta a rimanere per periodi troppo lunghi. Quando in casa parlo di Fiorenza l’atmosfera si elettrizza. Mia madre comincia a recitare un rosario di nefandezze a proposito delle famiglie di divorziati e delle devastanti conseguenze sulla prole. Prova ne è Fiorenza, così irrequieta, quell’anima in pena alla perenne ricerca di chissà che cosa. Non ha il coraggio di ammettere quanto la invidia, quanto abbia segretamente ammirato tutta quell’energia, tutta la sua intraprendenza… tutta quella libertà. Più divertente è mio padre. Lui, marito metodico e padre per automatismo. Lui, uomo in falsa carriera. Lui, che al ruolo di divorziato ha sempre ambito senza mai riuscire, a questi discorsi s’imbestialisce. Vorrebbe almeno godersi il suo stato di adultero ordinario senza rigurgiti di coscienza, senza essere costretto a pensare che poteva scegliere, che poteva essere una persona migliore. Guardandoli ripeto spesso a me stessa: “perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Sono così concentrati nella recita della famiglia modello che il minimo fuori programma li destabilizza. Il giorno che s’accorgono dell’assurdità della loro condizione questi s’ammazzano, magari insieme, col gas.… la cosa veramente tragica è che in realtà se ne sono accorti un sacco di tempo fa e hanno preferito accoccolarsi nel posto più comodo. Quale succoso frutto di questo sodalizio, io dovrei evidentemente essere lo specchio della felicità. Appunto. Quando la madre di Fiorenza si separò fece quello che doveva fare e si mise a lavorare. La mattina partiva così presto che neanche riusciva a vederla. La sera era già pronto il pranzo per il giorno successivo, sempre. Fiorenza è cresciuta felice, niente urla, piatti rotti, niente pugni alle porte o contro i muri o peggio. La sera guardava sua madre muoversi nella casa con padronanza assoluta, la osservava pulire riordinare stirare cucinare e poi pulire riordinare stirare e cucinare. Comunque presente, attenta. Non si è mai riconosciuta la sua forza, quella stessa dignità e determinazione, ma ha saputo trasformare quella carica in qualcosa di suo da realizzare altrove. A Fiorenza volevano spegnere i sogni, ecco perché finse a lungo di non averne, per salvarli. Un diploma in lingue e poi di corsa alle 34 Belle Arti a Firenze per specializzarsi in archeologia e restauro. Non erano secoli fa, ma a quei tempi a Forlì al massimo aspiravi ad un posto come commessa o “segretaria d’azienda”. Questa volta Fiorenza sorprese anche me. In questa città la trasgressione giovanile s’intendeva ancora in modo diverso e le strade erano soltanto due. O frequentavi Rimini e Riccione e aderivi a tutte le nuove tendenze - dai funky-freak ai dark fino all’avvento dell’house -, cavalcando le prime luci dell’alba come un pioniere alla conquista del West, o restavi a fare il tossico a Forlì per protesta, anche se non si è mai saputo esattamente contro cosa. Fiorenza no, senza atteggiamenti da intellettuale o snobbistici di sorta, lasciava che le mode le passassero attraverso ereditandone sempre e solo lo spirito più sano e genuino: il divertimento. Oggi molte cose sono cambiate e anche se non proprio in modo migliore, molte più scuole ti preparano a partire e per fortuna molti più giovani partono. Io no, sono sempre rimasta. Responsabile vendite, che poi vuol dire “segretarione” in “aziendone” dove imprenditori ruspanti - cresciuti a sangiovese e salsiccia - sciorinano tutto il loro sapere in materia di dialetto, bestemmie e belle gnocche. Ma negli affari riescono bene. Del resto poi si sa: gente “spagogna” e laboriosa in quel di Romagna e grazie a questa terra prospera e generosa io posso farmi le ferie ai Caraibi. Ripensandoci, Fiorenza ha un’ottima ragione per essere qui: sua madre. Il passare del tempo è l’unica legge al mondo uguale per tutti. L’ho incontrata per la prima volta un mese fa al discount, sportiva come sempre, ma molto più magra di prima. Era con un uomo bellissimo, così bello che non riuscivo a capire. Poi ho sentito alcuni ragazzi mormorare cose tipo “…le piace la roba grossa…il negro…” e allora ho capito, ho capito perché in quegli occhi c’era qualcosa che non avevo mai visto prima. E dire che Vasco ce lo insegnava tanti anni fa… ma siamo proprio sicuri che la colpa sia tutta d’Alfredo?! Alyune è ricercatore. Si conoscono da otto anni. S’incontrarono a Parigi a una conferenza sul carbonio 14. Mentre li guardavo uscire con in mano le sporte della spesa mi sono sembrati in equilibrio. Difficile, ma in equilibrio. Giuliano lavora in banca. L’ho conosciuto in spiaggia a Cervia tre 35 anni fa, ma potrebbero essere trenta. La partita, la moto, gli amici e la birra. Moto e birra piacciono anche a me, ma non lo sposo. Da qualche parte deve essermi rimasto un sogno. Quando l’ho rivista ieri in centro Fiorenza era da sola. Abbiamo preso l’aperitivo insieme, un rituale molto in voga in questa rinnovata Forlì - fanalino di coda della modernità - e che - ebbene sì, confesso - trovo anch’io davvero stuzzicante. Infatti ce ne siamo fatti due. Fissando il rosso del suo “Americano” Fiorenza mi ha detto: “Vogliamo un figlio”. “Ma sei sicura?” ho chiesto senza nemmeno rendermene conto. “Mi trovi ancora troppo giovane?” il sorriso acceso, benevolo. “E il tuo lavoro?” ho continuato vigliacca. “Io sono il mio lavoro”. Affermazione più che esatta. Non si è turbata neanche un po’. Mi sono scolata il mio mezzo bicchiere d’un fiato e l’ho guardata dritto in faccia con l’alcol che mi pungeva gli occhi. E’ stato in quel preciso momento che me la sono rivista sfilare davanti dentro i suoi calzoncini corti. “Sai, nel salto in alto non eravamo brave per niente, ma io non ho mai più visto nessuno correre veloce quanto te. Eppure mi sa che a resistenza ti ho battuta alla grande”, le parole mi si sono rincorse senza darmi il tempo di pensare… la sensazione improvvisa di aver finalmente preso coscienza di me. “Non ne ho mai dubitato” è stata la sua risposta. Siamo uscite e abbiamo camminato insieme fino a piazza Saffi, ampia e vuota come sempre. La grande novità sono gli sguardi inquieti degli extracomunitari - acini spersi ciondolanti agli angoli che non sai mai a che cosa stanno pensando… chissà, forse solo a casa loro. Prima di salire sul tram Fiorenza mi ha detto: “Mi sei sempre piaciuta Betta”. Stavo quasi per ringraziarla, ma poi ho risposto semplicemente: “Anche tu”. 36 Io: l’emigrante di Marialuisa Memma Mi sorridi e mi chiedi: “Dai, raccontami ancora come è stato quel viaggio.” E io “ma Lalla, ancora vuoi che ti racconti di quel viaggio?” Ammicchi e mi dici “ti faccio un caffè, ti offro una sigaretta e tu incominci a raccontarmi di quel viaggio che ti ha allontanato da me, pur sapendo che per te era importante.” Era il 9 agosto 1980, avevo preso questa decisione qualche tempo prima. Mi ripetevo che dovevo dare un taglio al passato, ancora molto presente, per iniziare un nuovo viaggio. Il viaggio dell’infanzia e dell’adolescenza era stato veloce ed eccitante; avevo impiegato vent’anni per diventare una giovane donna, ma è bastato il viaggio successivo, lunghissimo, attraverso luoghi e paesi diversi, con soste e permanenze di varia durata, per vedere, conoscere e sviluppare particolari rapporti e già non ero più una giovane donna. Il lavoro mi offriva un’opportunità: entravo a far parte di un gioco pieno di pericoli e insidie, ma la mia determinazione mi portava ad affrontare qualsiasi ostacolo. “Ti ricordo che quel sabato 9 agosto alla stazione non c’era nessuno a salutarmi. No, sto dicendo una bugia, scusami, una persona c’era, ma non era la persona che volevo; c’era il “Giulie”, allora era l’amico più vicino a me. Da allora non l’ho più rivisto.” In quel periodo troncavo bruscamente tutti i rapporti, con tutti. Se quel giorno mi fossi concessa l’opportunità di piangere, avrei respirato con meno affanno; credevo, allora, che le lacrime fossero sinonimo di arrendevolezza, chissà a chi dovevo mostrare di che tempra ero fatta. Durante il viaggio non riuscivo a concentrarmi sulla lettura del romanzo che mi ero portata, guardavo dal finestrino senza vedere, i miei pensieri avevano preso la velocità del treno, avevano preso il tormento dello sferragliare rumoroso sulle rotaie: avrò fatto bene, 37 avrò fatto male, avrò fatto bene, avrò fatto male... La decisione di trasferirmi in Romagna per lavoro, accettando l’avanzamento di carriera, l’avevo risolta in fretta, ora dovevo prevedere e valutare la realtà nuova a cui andavo incontro. Una certezza l’avevo, qualsiasi realtà avessi trovato, una cosa sola non mi sarei mai permessa: ritornare da dove ero partita. Chissà perché ero così intransigente con me stessa, chissà perché mi attribuivo tante colpe. Negli anni settanta il matrimonio era ancora indissolubile e io mi ero permessa di rompere quel legame, e in quel posto, nella mia provincialissima città, non trovavo più il mio spazio. Mi sentivo una mosca bianca. Le “comari” non mi affrontavano a viso aperto, ma mi additavano e bisbigliavano cose terribili su di me e sulla mia separazione, senza conoscere la verità, naturalmente. La mamma, afflitta dalle chiacchiere, trovava conforto andando continuamente in chiesa; a sostenermi in quella situazione difficile “lo sai bene, c’eri solo tu e naturalmente papà”. Mentre mi faccio trasportare dal treno, verso la nuova destinazione, questo mio pesante bagaglio di emozioni si trasforma in un nodo che mi prende alla gola e, finalmente, si trasforma in lacrime silenziose e irreprimibili. Ricordo ancora la signora seduta di fronte a me, nella carrozza, che mi guarda stupita in modo comprensivo e con discreta intuizione non mi rivolge nessuna di quelle domande banali e fastidiose. E via, via si va attenuando il mio tormento, e, nel frattempo, si arriva alla stazione di Bologna: è tutta bianca! Sono riuscita a vedere, nella parete della stazione, lo squarcio che la bomba dell’attentato terroristico, di qualche giorno prima, ha prodotto. Le cose che avverto di più sono quel bianco accecante ma opaco della calce che ricopre tutto e un silenzio stonato, insolito in una stazione. In tutto quel dramma che si percepiva, il mio affanno, le mie angosce emergono: ero talmente immersa, solo, nella mia storia personale che riducevo tutto il mondo che mi circondava, solo, ad eventi e notizie. Si riprende mestamente il viaggio. Nell’ultima ora di percorso che mi avvicina a Faenza, mi accorgo, 38 finalmente, di vedere cosa c’è al di là del finestrino: terra di Romagna, terra scura, grassa e generosa, estesi campi con alberi da frutta, colline con accurati filari di viti, talmente precisi che sembrano disegnati con riga e squadra. Al mio arrivo, l’albergo mi appare confortevole, ancora non sapevo che avrei dovuto trascorrervi ben nove lunghi mesi. La camera è grande con pesanti mobili scuri, l’armadio antico ha un grande specchio che rimanda la mia figura: mi vedo ancora più piccola, il mio viso... smarrito. Forza, non c’è tempo per recriminare, e poi è perfettamente inutile, forza, una bella doccia servirà a rinfrancarmi da questa calda e pesante giornata. E poi, ti ho telefonato. Tu e il tuo piangere a singhiozzi, a differenza di me hai le “lacrime in tasca”, io, a fare il giullare, a dirti delle cavolate per riuscire a farti ridere tra le lacrime. Una cosa, sorellina, non ti ho mai detto: quando mi coricavo in quel grande letto anonimo, mi mettevo le braccia attorno al petto e mi abbracciavo, mi stringevo e mi addormentavo pensando alle nostre chiacchiere fatte sottovoce, per non farci sentire, a quelle confidenze che ci scambiavamo e che ci hanno tenuto compagnia per tanti anni, quando ancora dormivamo nella nostra vecchia camera, ricordi? Ed eccomi a trent’anni con lo spirito pronto a sfruttare l’opportunità di iniziare un altro percorso di vita completamente diverso dal precedente: una nuova città mai visitata, incontri con persone mai conosciute, un luogo di lavoro tutto da reimpostare, colleghe di lavoro inconsuete e… il dover soggiornare in un albergo. “Sei ancora curiosa di sapere di quel periodo che ho trascorso in albergo?” Mi dici: “curiosissima, e sai il perché? Un po’ invidiavo la tua vita che immaginavo avventurosa, mentre io mi “trastullavo” con due bimbi scatenati, un marito rapito dal suo lavoro e una casa che doveva sempre apparire linda.” Ti rispondo: “d’accordo”. I proprietari di quell’alberghetto erano una coppia quanto mai mal assortita, ma, sin dall’inizio, i nostri rapporti furono caratterizzati dalla generosità. Cercavano, riuscendoci, di trattarmi come una persona di famiglia. 39 I momenti più tranquilli e sereni li trascorrevamo tutti attorno alla tavola per la cena serale; a quelle cene partecipavano, assieme ai proprietari, amici loro, alcuni clienti fissi, avventori, insomma non sapevo mai con precisione chi o quante persone avrei potuto incontrare e conoscere; poi, dopo cena, si rimaneva tutti in compagnia a far chiacchiere o a giocare a carte, nell’assenza più totale di un televisore! Al mattino mi aspettava il nuovo posto di lavoro: tutto da organizzare. Ricordo che mi bastava attraversare la piazza ed ero arrivata, aprivo la serranda del negozio Upim e con le tre colleghe si iniziava la giornata: ero entusiasta, piena di idee da realizzare, avevo la direzione di un punto vendita che consideravo “mio”, potevo gestirlo a mio piacimento, pur rispettando i canoni aziendali e come referente avevo il direttore del punto vendita di Ravenna. Il negozio era piccolo, incorporato in un vecchio e fatiscente albergo di Faenza; si parlava da sempre di ristrutturazione, ma ci vollero diversi anni, molto impegno e tanti sacrifici prima di riuscire a realizzare quel sogno, sogno che diventa realtà nel 1989! Noi quattro eravamo denominate le “Colonne portanti” dell’Upim di Faenza. Ora mi chiedi: “Come ti sei ritrovata nel passaggio da un negozio con uno staff di trenta persone a uno di tre persone?” Be’! Certo lo smarrimento a volte mi assaliva, ma non sono mai caduta in depressione: c’erano talmente tante cose da affrontare e risolvere e con le tre colleghe, più o meno della stessa età, si collaborava con entusiasmo, non sto mentendo, è la pura verità; forse anche perché con la responsabile che mi aveva preceduto, avevano trascorso anni allucinanti. Solo una delle tre colleghe, a voler essere sincera, mi deluse: il tempo aveva svelato il suo carattere ipocrita e questo fu il motivo per cui presi le debite distanze da lei, con lei discutevo solo ed esclusivamente di lavoro. Con le altre due signore, pur avendo caratteri decisamente diversi, si creò un’intesa di reciproco rispetto e di stima; ora, siamo legate da una profonda amicizia. Come vedi, la settimana volava con un ritmo intenso, ma le domeniche e altre giornate festive erano più lunghe e più malinconiche: mi ritrovavo a girovagare per la città a piedi e notavo 40 un numero irragionevole di biciclette. Forse non sai che, qui in Romagna, è il mezzo più utilizzato per gli spostamenti, altro che macchina! Per non parlare dei tram di Faenza! Pare ne esistano solo due: uno che va e uno che viene, ma a quali orari? Ti metti lì e... aspetti…. Prendi la “bici” fai prima. E così mi sono comperata la prima bici della mia vita: una “Graziella”. Ero molto orgogliosa del mio nuovo acquisto, potevo girare in libertà, ma attenta a non cadere, vista l’inesperienza. “Perché ridi?” - ti dico - e tu “Mi fa paura andare in bicicletta, io preferisco la macchina, mi dà più sicurezza” - e io - “per carità, alla guida di un’auto e in mezzo al traffico mi sento come nel mezzo di una “bolgia infernale” non capirai mai quanto è entusiasmante pedalare!” Ora vuoi sapere: “Ma le serate non ti venivano un po’ a noia ?” Precisamente a noia no, ma desideravo qualcosa di diverso da frapporre, qualcosa di più interessante e l’occasione mi venne offerta da una cliente che frequentava il negozio. Vivendo in una piccola città apprendi velocemente che le persone si conoscono fra di loro, se non tutte, quasi tutte. Questa amabile signora, tramite l’ufficio di sua competenza, mi diede la possibilità di acquistare un abbonamento per la stagione teatrale, e così mi sono gustata tutte le commedie che erano in cartellone quell’inverno. Non ti dico l’eccitazione per i preparativi di quelle sere, ricordo che saltavo la cena e ben agghindata andavo, da sola, a teatro, che conquista! Ricordo anche di aver ricevuto un invito per partecipare alle serate che il “Circolo cittadino” organizzava in bellissime e antiche sale di proprietà del Comune, situate sopra il teatro. Mi resi conto subito che ero entrata nel “Sancta Sanctorum” della città, non a tutti i faentini era concesso questo privilegio. A dire la verità l’ambiente o, meglio ancora, l’opportunità di conoscere persone che ostentavano chi erano, cosa facevano o cosa possedevano, non riuscivano a farmi sentire a mio agio. In breve, il tutto non fu di mio gradimento, e, dopo alcune serate, a cui partecipai anche per pura curiosità, declinai altri inviti. Una cosa molto carina e interessante mi capitò invece visitando la città, ormai sempre in sella alla mia bici. 41 Gironzolando nei giorni di riposo, catturò la mia attenzione un cartellone posizionato all’ingresso della “Scuola d’Arte Minardi”, dove erano elencati corsi di pittura, scultura, intarsio e altro, corsi aperti a tutti, a vari livelli. Entrai incuriosita e la mia curiosità fu subito appagata da Mariacarla, la segretaria, che mi presentò l’insegnante Ivana, la quale gentilmente mi diede tutte le notizie circa l’iscrizione e la partecipazione al corso di pittura, era ciò che desideravo intraprendere. L’ambiente si dimostrò piacevole e stimolante: le persone conosciute ai corsi serali, serate che non avrei mai voluto avessero fine, erano persone creative. Ci si confrontava, ci si raccontava, nascevano sentimenti di stima e di amicizia, si rideva e si scherzava e si lavorava con tele, pennelli, oli e con serenità si dava voce alle diverse capacità creative. Oggi mi manca moltissimo. Mi mancano i personaggi che ho avuto l’opportunità di conoscere: la signorina Clementina, bravissima nell’acquerello, zitella per vocazione. Narrava interminabili storie del suo vissuto, raccontava di appartenere ad una famiglia importante di albergatori, anticamente nel suo “Albergo Corona” unico albergo di Faenza, ricordava che i clienti arrivavano in carrozza... C’era l’estroversa e simpatica Nives con i suoi dipinti perfetti; Paola che dipingeva quadri a olio introspettivi dove riusciva a collocare i suoi spiritelli sempre e dovunque, come una firma. Poi c’era quel ragazzo, di cui non ricordo il nome, che raffigurava, a tinte forti e in modo peculiare, una serie di visi di anziani, li chiamava i suoi nonni. E poi c’era anche quel tipo stravagante che, dopo aver lavorato di giorno nei campi, partecipava ai corsi serali di pittura, la sua grande passione, riusciva a procurarsi dei veri sacchi di iuta per poi trasfigurare su di essi corpi di innamorati sempre in attesa di eventi. Poi ho conosciuto... e poi, e poi… Che bel gruppo, che bella atmosfera si respirava. Tuttavia però, quello di cui sentivo sempre più il bisogno era un appartamentino, piccolo, piccolo, ma tutto mio, non ce la facevo più a vivere in una camera d’albergo, ma le ricerche in merito erano vane. 42 Avevo capito, dalle domande che mi rivolgevano i proprietari, che il loro modo di agire con circospezione, era dovuto al fatto che ero una “donna sola”, di questo passo non avrei mai trovato casa! E non potevo certo sposare il primo personaggio che mi avrebbe attraversato la strada per far contento l’eventuale proprietario dell’appartamento. “Ti giuro - Lalla - è stato il problema più grosso che, in quel periodo, mi ritrovavo a dover risolvere.” A quante porte ho bussato ? Un’infinità. Ho incontrato anche persone maleducate, offensive, non si ha la misura dell’arroganza che assume il potere fino a che non ci vai a sbattere. Ma il mio personale “Angelo custode” - e tu sai di chi sto parlando si diede molto da fare e finalmente dopo nove mesi di “preghiere” firmai il contratto d’affitto: avevo trovato, sì casa, ma, soprattutto avevo incontrato una coppia di proprietari che non avevano pregiudizi nei miei confronti, bensì mi accordavano fiducia. Era una coppia anziana di contadini, avevano investito i loro risparmi in quell’appartamento che avrebbero abitato una volta andati in pensione e io avevo, oltre all’obbligo di pagare l’affitto, l’impegno morale di custodirlo e restituirlo nuovo, come me l’avevano consegnato: così avvenne. La loro affabilità e generosità la esprimevano portandomi in dono cassette di frutta a seconda delle stagioni: non ho mai mangiato frutta così buona. Non ti sto a raccontare l’euforia e la stanchezza del trasloco, ma ti voglio parlare invece di una circostanza che mi ha fatto riflettere e cambiare atteggiamento. Trovato casa dovevo sistemare la parte burocratica e tra le varie scartoffie dovevo compilare la pratica di cambio di residenza. “Tutto normale” - dirai tu. “E no”- ti rispondo - su questo foglio del comune, che conservo ancora, c’è scritto “... presenta richiesta di immigrazione....” Io ero diventata un’emigrante? Era un appellativo che non mi apparteneva: mi ero trasferita da Cremona a Faenza, praticamente dal nord ero scesa al sud, non in cerca di lavoro, ma bensì trasferita per meriti, nella stessa azienda e con grado superiore, insomma avevo fatto “carriera” e mi si dava dell’emigrante. Sapevo che gli emigranti erano quelle persone che dal sud Italia raggiungevano le città del nord, città come Torino e Milano, dove 43 cercavano e trovavano lavoro in grandi fabbriche; oppure quelle genti che espatriavano in Germania, Svizzera, America in cerca di lavoro e di chimeriche speranze di far fortuna, io proprio un’emigrante non mi sentivo, lo percepivo come un’offesa. Poi è arrivato il momento della riflessione: migrare significa movimento, significa cambiare e le motivazioni possono essere infinite e io, per motivi personali, volevo cambiare la mia vita, ho voluto lasciare il mio luogo d’origine per stabilirmi altrove e le circostanze sul posto di lavoro me lo hanno concesso e con il mio impegno, la mia serietà e forza di volontà ho realizzato il cambiamento: quindi ero a tutti gli effetti un’emigrante. Dopo ventitre anni vissuti in Romagna mi considero Romagnola d’adozione. Ora tu mi chiedi se sento nostalgia della città in cui sono nata e in cui ho vissuto e lavorato fino all’80, ti rispondo semplicemente: no, nostalgia della città no, poiché penso che si sta bene là dove si vive serenamente bene; mentre invece ho ricordi struggenti e nostalgie di persone care, sia le persone care che ci hanno lasciato per sempre, sia per le persone che amo ma sono costretta ad incontrare e rivedere saltuariamente. 44 Riflessioni sulla solitudine di Annadele Assirelli Risveglio Amore, vorrei che al mattino quando ti svegli ascoltassi in silenzio i battiti del tuo cuore, aspirassi il profumo dell’inverno, sentissi la paura della solitudine e, in un momento di abbandono, ti accorgessi che non sei più solo. Incontro Le ombre della sera si accovacciano nelle strade buie. Ne distinguo una in lontananza: è la tua che cerca la mia anima. Futuro Se leggi nel tuo futuro guarda le foglie gialle di una quercia attraverso i riflessi del cielo. Sembrano anime morte uccise dal peccato, dolori del rimpianto di una meta perduta. Dialogo Al calar del sole quante volte ti ho pensato, amato, discusso... E tu culli nel tuo cuore le mie parche parole. La sera La sera è dolce, i colori tenui, il mare si increspa di onde omogenee. E’ la calma piatta che prelude all’amore. Solo un pensiero riempie il mio viaggio verso l’ignoto. Pensami forte, amore mio. 45 La mia città a Natale di Eleonora Benetti La mia città a Natale sembra impazzita con la gente che corre di là, altre persone che corrono di qua: insomma non hanno la tranquillità. Ma io mi chiedo; perché corrono poi così in fretta? Sembrano dentro una barzelletta! La mamma mi dice: "vanno a prendere i regali" io credo, invece, che abbiano molta ansia che arrivi il Natale chissà perché..... Magari l'avranno i bambini che la mattina di Natale trovano stupiti i regali. Il 24 dicembre corrono ancora di più: forse nel pomeriggio dovranno distribuire i regali comprati! Chi lo sa?! Il 25 ciascuno sta in casa propria. Il 26 sembra che la città sia calma; ma il 27 sono ancora in ansia e lo sapete perché? C'è capodanno, tutti aspettano il 2004, tutti a prendere i botti per il 31 notte. Io ho scritto questo testo il 2 gennaio con la gente in ansia per la Befana. Ma perché ci sono le luci nella città, quelle stellone appese in centro, perché la città non è più normale? Si respira nell'aria l'elettricità della gente, perché la gente pensa solo a festeggiare il Natale ma, esso, si festeggia nel cuore. 46 Vita quotidiana in città di Daniela Boccalatte La piccola strada bianca che stavo percorrendo copriva di polvere le mie scarpe. Sentivo i sassi sotto i piedi, dovevo stare attenta a non inciampare nelle buche che qua e là incontravo, ma a quell’ora del mattino sentivo una brezza così rara e fresca a cui mai e poi mai avrei rinunciato. Quella passeggiata, la mattina presto, diventata ormai un’abitudine, mi dava la carica per tutta la giornata e ne avevo veramente bisogno e poi c’era lui, che non conoscevo, ma la cui figura era diventata ormai familiare. Camminava in senso opposto al mio con un’andatura un po’ dondolante, ma con passo sicuro. Percorreva la mia stessa strada e, al momento di incrociarci, i nostri occhi si sfioravano in uno sguardo sempre più intenso. Questo creava in me ogni giorno un’emozione nuova. - “Il caffè... il caffè è pronto, dai, vieni a fare colazione con noi, su alzati!”- “La mamma è un ghiro!” Le voci mi arrivano come una doccia fredda e interrompono il mio sogno. Anche oggi un risveglio forzato. Riuscirò mai a far capire alla mia famiglia che soffro d’insonnia e che le prime ore del mattino sono per me le migliori, quelle dal sonno più profondo? La mia giornata comincia così... Entro come uno zombi in cucina guardando quelle persone, che gentilmente mi offrono il caffè, come fossero extraterrestri. Dov’è lo sconosciuto che bramo di incontrare? Mi sforzo di entrare subito nel mio ruolo, apparecchio la tavola, sorrido facendo capire che apprezzo molto il fatto di aver trovato il caffè pronto e subito vengo bersagliata: - “Mamma, ci sono i biscotti al cioccolato?”- “Io vorrei un toast, ma subito, devo essere in ufficio presto e se arrivo in tangenziale dopo le otto rimango imbottigliato nel traffico!” - 47 - “Il latte caldo non c’è?” - “Non metterci lo zucchero, sono a dieta!” - “Mamma nel mio latte mettici due cucchiaini di miele” - “Cara, ci sono tante arance... non le farai andare a male... perché non mi fai una spremuta!” - “Anch’io la vorrei, allora niente latte, solo caffè, ma, per favore, passala al colino lo sai che odio le pellicine dell’arancia!” Io continuo, come sempre, a predicare che le arance fanno bene anche mangiate a spicchi, ma le mie parole anche questa volta cadono nel vuoto. Il primo ad uscire di casa è mio marito che lavora fuori città e mi raccomanda: - “Ricordati le bollette da pagare, sono vicino al telefono, scadono domani e vedi di telefonare al muratore, lo sai che c’è solo dalle 12 alle 12,30. Stasera voglio stare leggero, fammi trovare solo un po’ di verdura cotta...” Un bacio frettoloso e via... Dopo un po’ anche i figli escono di casa, non prima d’aver litigato sulle priorità del bagno. - “Ciao mamma, vado in biblioteca a finire la relazione” - dice la più grande. - “Mamma, mi devi firmare il compito in classe, presto!” - dice il secondo. Mai una volta che riesca a farmelo vedere con calma: sempre all’ultimo minuto. Poi, mentre do un’occhiata veloce al compito, aggiunge: - “Mamma come mi sta questa felpa? Non ti sembra un po’ sporca?” - “A me pare pulitissima, l’hai messa solo una volta e sta proprio bene con i pantaloni a quadri!” - Rispondo sperando di aver esaurito tutti i suoi dubbi. - “No, vedi c’è un’ombra qui, in fondo alla manica, non vorrai mica che vada in giro come uno straccione! E’ meglio quella blu, però ha una piega nella manica, me la puoi stirare? Intanto io passo il phon sui capelli!” Marco frequenta la prima superiore e da quando è in banco con Lucia, ho notato che sta attentissimo a come si veste, consuma flaconi di deodoranti e dopobarba, anche se non ha ancora nemmeno l’ombra di un pelo. Poi gli è venuta una vera e propria fobia delle 48 pieghe, non ne vuole vedere né sui pantaloni, né sulle felpe e nemmeno sulle magliette che porta a contatto della pelle, secondo lui si dovrebbe stirare di nuovo tutto prima di indossarlo. Finalmente anche loro escono di casa e mi lasciano il bagno libero. Accendo la radio: la musica mi mette di buonumore. Sono le otto meno un quarto e alle nove devo essere in ufficio. Inizia la corsa contro il tempo. Mi lavo e mi vesto velocemente, poi comincio a rifare i letti; le camere dei ragazzi sono un vero disastro ci sono vestiti dappertutto. Inizio a piegarli con cura, poi, guardando l’orologio li appoggio velocemente sulle rispettive sedie dando alle camere una vaga parvenza di ordine. Sparecchio la tavola e lavo le tazze, prima però, metto su l’acqua per cuocere il riso, così sarà solo da riscaldare e condire per pranzo. Suona il telefono: è mio marito. - “Che confusione, sembra di telefonare ad una discoteca!” - “E’ la radio...” - ribatto. - “Volevo solo ricordarti che oggi possono circolare solo le targhe dispari, lo sapevi vero? Stai attenta a non prendere una multa!” - “Certo che me ne ricordavo” - mento - “anzi stavo proprio per uscire di casa...” - “Ah, un’altra cosa: quando vai al supermercato, tesoro, prendimi anche il giornale, che io non l’ho comprato!” Lo saluto e intanto guardo l’orologio: le 8.20 non ce la farò mai! Mancano ancora cinque minuti alla cottura del riso, ma lo scolo ugualmente. Lo rimetterò poi a cuocere insieme al condimento. Decido di non pulire il bagno, lo farò al ritorno. Il mio orologio da polso segna le 8.30 quando esco di casa considerando che rimane indietro di cinque minuti la settimana e che tutti i lunedì lo metto avanti di 10 minuti per essere in vantaggio, calcolo velocemente che, essendo giovedì, dovrebbero essere più o meno le 8.28. Scendo le scale di corsa e mi ritrovo addosso Naika, il nostro cane, che mi lecca la faccia e mi lascia l’impronta di due zampate sul cappotto. Sì, lo so, dovrebbe mangiare, ma ora proprio non posso, mangerà al mio ritorno. Salgo in macchina e schiaccio l’acceleratore. Cambio però il percorso quotidiano per non rischiare di incontrare un vigile, meglio 49 evitare i semafori. L’andatura della mia automobile aumenta progressivamente; suono il clacson ad una persona anziana che va in bicicletta quasi in mezzo alla strada; do i fari ad una macchina che sta uscendo da un cancello. Eccomi finalmente all’ultimo incrocio, al semaforo scatta l’arancione, metto la freccia e schiaccio l’acceleratore, il rosso scatta proprio quando sono in mezzo all’incrocio, riesco a passare. Arrivo in ufficio senza aver incontrato un vigile, ce l’ho fatta! Guardo di nuovo l’orologio: sono in ritardo sull’orario delle targhe alterne, ma in anticipo sull’orario di lavoro, comincio subito. Alle 10.30 i responsabili degli uffici vengono convocati per una riunione sulla riorganizzazione. Sono ancora nell’ufficio del direttore, mentre furtivamente guardo l’orologio: le 12.20. La riunione si protrae fino alle 12.45. Appena rientro nel mio ufficio mi precipito al telefono e compongo il numero del muratore. Una vocina flebile, sua madre, mi risponde che è già uscito e che non sa a che ora rientrerà la sera, e che, dopo cena, andrà subito al circolo. Alle 14 esco dall’ufficio e vado verso casa. Per strada mentre penso al pranzo realizzo che manca il pane. Il forno ormai è chiuso, ma passo davanti ad una latteria che vende anche generi alimentari. Metto la macchina con due ruote sul marciapiede, accendo le luci di emergenza e attraverso la strada tra le auto già in coda verso la zona industriale, per il turno del pomeriggio. Riesco a rimediare tre panini e un po’ di piadina. Mentre pago scorgo un signore che sorseggia il caffè tranquillamente leggendo il Corriere, sarei quasi tentata di chiedergli se me lo vende (il giornale) ma poi mi trattengo e lascio perdere. Mio figlio Marco è già rientrato affamato come al solito e lo trovo che sgranocchia patatine. - “Come mai non ho visto la ciotola di Naika?” - chiede. Gli spiego con calma che non sto trascurando il suo cane ma che sono dovuta uscire prima di casa e lui, un po’ offeso, va in giardino ad occuparsene. Intanto preparo il pranzo e finalmente ci mettiamo a tavola. Sto già sparecchiando quando sua sorella arriva tutta trafelata e chiede di essere accompagnata in stazione: deve consegnare una relazione all’università, quel pomeriggio, ed è l’ultimo treno utile per arrivare in tempo. 50 Anche oggi salta il pranzo ed io le preparo un panino per il viaggio. Più tardi riassetto la cucina, pulisco il bagno, lavo qualche indumento. Suona il telefono: è la ex-maestra di scuola materna di mio figlio, che per me è anche una cara amica; mi parla della recita scolastica che vorrebbe realizzare con i genitori della classe e, memore dei lavori realizzati insieme, mi chiede di aiutarla a stilare il copione: l’ambientazione è nella notte di Natale, ma i protagonisti saranno i folletti, argomento appena svolto in classe. Non mi tiro indietro e, visto che la prima riunione si terrà il sabato successivo, le prometto di preparare già qualcosa per quella data. Mio figlio mi chiede di aiutarlo ad eseguire il compito di inglese che si rivela più difficoltoso del previsto, tento per un po’ di spiegargli le regole grammaticali, ma vedo che si spazientisce, anche perché deve ancora studiare storia e oggi ha l’allenamento di basket. Mi faccio comunque promettere che il giorno successivo avrebbe riguardato tutto, anche se so già che non succederà. Sono già le 18 quando suona di nuovo il telefono: è mio marito. - “Sono appena uscito dall’ufficio, fra tre quarti d’ora sarò a casa, vado io a prendere Marco. Stasera c’è la partita, dobbiamo cenare presto, ciao a tra poco!” Mentre riattacco il telefono, i miei occhi si posano sulle bollette grappettate, le prendo e mi precipito fuori di casa, prima, però, provo a telefonare al muratore: niente, nessuna risposta. L’ufficio postale è ancora aperto e mi metto in coda, poi corro al supermercato e, appena entrata, cerco con gli occhi il quotidiano che mio marito desidera, ma non lo vedo. Ci sono tutti: il Carlino, la Voce, il Momento, ma il Corriere no. Una commessa mi conferma che è terminato, comunque comincio a pensare alla cena. Scelgo e peso finocchi, cavolfiore, broccoletti e carote, poi un po’ di carne, il latte per domattina.... Al banco gastronomia c’è troppa gente e opto per il prosciutto confezionato. Al reparto surgelati mi attirano gli spinaci in offerta e le cotolette di pesce: ne faccio un po’ di scorta. Prima di andare a casa dirigo l’auto verso il semaforo, all’angolo c’è proprio un’edicola e lì trovo finalmente il quotidiano. Arrivata a casa, mentre scarico le borse dalla macchina, vedo mio marito che sta parcheggiando, scende anche mio figlio con il suo 51 borsone sportivo. Mi aiutano a portare in casa la spesa mentre chiedono: - “E’ pronta la cena?” Mentre sistemo la spesa passo mentalmente in rassegna i tempi di cottura delle verdure che ho acquistato al supermercato e, nella classifica stilata, al primo posto compaiono gli spinaci surgelati, per cui la scelta è presto fatta. Accendo il fuoco sotto la graticola e apparecchio la tavola. Il giornale ha tenuto occupato mio marito solo una decina di minuti e si siede a tavola dicendo: - “Ho una fame da lupo” Ma non doveva stare leggero e mangiare solo un po’ di verdura? Per fortuna è avanzato un po’ di riso, ne faccio un bel piatto e lo porto in tavola; per secondo carne ai ferri e contorno di spinaci. Va tutto bene, fino alla domanda fatidica: - “Cosa ha detto il muratore?” Spiego con calma che non sono riuscita a trovarlo e naturalmente questo lo fa alterare... - “E’ mai possibile che devo occuparmi io di tutto? Dovrò telefonare io, che sto fuori tutto il giorno, al muratore, mentre tu che sei sempre a casa, te ne dimentichi! Così i giorni passano e quello chissà quando verrà a vedere il lavoro da fare!” - Poi continua: - “Quando chiedo qualcosa in questa famiglia, nessuno lo fa mai!” (Mentre nella mitologia greca nessuno era Ulisse, in casa nostra nessuno sono io). Subito si alza di scatto, va al telefono e compone il numero del muratore.... naturalmente lo trova e concorda subito per l’appuntamento. - “Ecco fatto, ci vuole tanto?” - Dice soddisfatto rimettendosi seduto a tavola. Subito dopo, però, si rialza guardando l’orologio e dice: - “Andiamo, la partita sta per cominciare!” Come, di già? Mi sono appena seduta a tavola, ho messo in bocca solo due o tre bocconi... ma per lui è già tardi, anche se in realtà occorrono solo pochi minuti per arrivare al palazzetto... - “Questa è una partita importante, vedrete quanti tifosi avversari, sul giornale è scritto che hanno organizzato quattro pullman, bisogna arrivare presto, lo sai che voglio sedermi sempre al mio posto!” - 52 - “Mamma dov’è la bandiera? Me l’hai stirata? E le sciarpe, dove sono?” La bandiera è stirata, ma le sciarpe sono ancora stese in lavanderia, corro a prenderle... sono un po’ umide, potrei asciugarle con il phon, ma mio figlio, con la faccia contrariata, me le prende dalle mani. - “I cappellini? Non avrai per caso lavato anche quelli?” - “Assolutamente no, dopo quella volta che si sono ristretti, non ci penso proprio a lavarli di nuovo, guarda nello zaino!” - Rispondo. Una volta recuperato tutto il materiale i due sono pronti e mi guardano con aria interrogativa: - “Come, tu non vieni?” - “Ma, veramente...starei a casa volentieri e poi... Federica non è ancora rientrata... dovrà cenare... ” - azzardo. - “Lo sapevo, anche oggi trovi una scusa, ma perché ti abbiamo fatto l’abbonamento? Tanto a te non interessa minimamente il basket!” Sentenzia mio marito con rimprovero. Veramente, non ho certo chiesto io l’abbonamento: mi hanno fatto... “una sorpresa”! Guardo la tavola apparecchiata, il mio piatto ancora pieno e dico eroicamente: - “Okay, vengo con voi!”- “Va bene”- Rispondono sorridendo - “ti aspettiamo in macchina, ma fa’ presto, siamo già in ritardo!” Sparecchio la tavola buttando letteralmente piatti e bicchieri dentro il lavandino, mi metto il cappotto e mi precipito di sotto. Ancora una volta Naika mi corre incontro chiedendo il suo pasto, questa volta corro a prendere la sua ciotola e le porgo le crocchette. Scodinzola felice. Spazientiti i due tifosi cominciano a suonare il clacson. Appena salita in auto, partono a tutto gas brontolando e, come se non bastasse, durante il tragitto, viene fuori la discussione sui pasti di Naika che non dovrebbero essere troppo ravvicinati, così si raccomanda il veterinario, ed io mi domando ancora una volta chi nella nostra famiglia ha voluto il cane. Entriamo nel palazzetto completamente vuoto, i giocatori non sono ancora usciti neppure per il riscaldamento. Prendiamo posto sulle gradinate vuote nella solita fila, ci sediamo nel solito posto. 53 Dopo circa 20 minuti i giocatori entrano in campo per il riscaldamento e arrivano i pullman dei tifosi avversari che si posizionano esattamente sulle gradinate del lato opposto al nostro, ben attrezzati di megafono, tamburi, trombe, striscioni e bandiere. - “Ecco, vedi, abbiamo fatto appena in tempo, te l’avevo detto che sarebbero stati in molti” - dice mio marito soddisfatto. In realtà le gradinate dove siamo seduti si riempiono solo poco prima dell’inizio della partita. I tamburi rullano per tutto il tempo, i cori ininterrotti riempiono la mia testa di frastuono. Rientriamo a casa verso le undici. Noto sul tavolo della cucina i resti della cena frugale di Federica che stranamente è già a letto. Si è addormentata con la luce accesa e il libro aperto, piano piano lo tolgo e spengo la luce. Mio figlio, come di consueto, mi chiama per la buonanotte: gli rincalzo le coperte, gli do un bacio e passo la mia mano tra i suoi capelli... - “Mamma, ti voglio bene, grazie di essere venuta alla partita, ti sei divertita?” Annuisco sorridendo. - “Buonanotte mamma, ah, la mia felpa è asciutta?” - “Domattina sarà pronta!” - Rispondo e spengo la luce. Sistemo un po’ la cucina e metto la felpa sul termosifone caldo. Vado a letto al buio, mio marito dorme già profondamente: ha avuto una giornata intensa. Anch’io sprofondo subito nel sonno, ma come al solito mi sveglio nel cuore della notte. Guardo furtiva l’orologio luminoso: sono le due. Sto lì un po’ a pensare, poi mi alzo silenziosamente e vado in cucina. Prendo carta e penna e comincio a scrivere: “Era una notte strana... nel cielo splendeva una luna così luminosa che rischiarava tutto il villaggio dei folletti...” 54 Gocce di ricordi di Ersilia Coccia Gocce di ricordi scendono lievi come rugiada sul giardino della memoria, velano gli occhi di malinconia e dimorano in silenzio nel profondo dello spirito. Gocce di ricordi illuminano di azzurro la luce degli occhi e schiudono le labbra in un delicato sorriso. Gocce di ricordi regalano emozioni, disegnano pensieri come le prime gocce di pioggia che, incontrando il velo tranquillo di un lago, creano piccoli cerchi che lentamente si dissolvono… 55 E’ la mia fantasia di Catia Conficoni Voglio scappare via Voglio correre lontano Fuggire con la fantasia Andare senza la tua mano, Non ne posso più E non ne posso più di te Non ne posso più E non ne posso più di te Eppure c’è qualcosa che Che mi aiuta a vivere Eppure c’è qualcosa che Che mi aiuta a ridere... E’ LA MIA FANTASIA E’ LA MIA FANTASIA Resisto ancora qui Anche quando tu non ci sei mai Perché non sei come vorrei Tu non puoi tu non dai Non ne posso più E non ne posso più di te Non ne posso più E non ne posso più di te E t’immagino E t’invento E vorrei tutto Tutto quello che non sento E’ LA MIA FANTASIA E’ LA MIA FANTASIA E t’immagino E t’invento E vorrei tutto Tutto quello che non sento 56 é con la fantasia che non vedo come sei é con la fantasia che non vedo é con la fantasia che tu sei come vorrei é con la fantasia che t’invento E t’immagino E t’invento E vorrei tutto Tutto quello che non sento é con la fantasia che non vedo come sei é con la fantasia che non vedo é con la fantasia che tu sei come vorrei é con la fantasia che t’invento E t’immagino E t’invento E vorrei tutto Tutto quello che non sento é con la fantasia che non vedo come sei é con la fantasia che non vedo é con la fantasia che tu sei come vorrei é con la fantasia che t’invento é con la fantasia…………….... 57 Una mattina d’inverno di Antonella Erbacci Le stagioni si susseguono una dopo l’altra e con ritmo regolare cadenzano il tempo; ma cosa me le fa distinguere tra loro? Il cambio degli indumenti nell’armadio, il lavaggio delle tende e un lungo elenco di lavori da svolgere ognuno nel proprio periodo altrimenti non si avrà più tempo per farli. Che tristezza! Ma dove sono andati i colori, gli odori, i sapori, i suoni? Da quanto tempo sono spariti? Mi viene un dubbio: forse non sono mai spariti e sono io a non vederli più. Ora siamo in pieno inverno e mentre mi reco al lavoro alle 7.30 del mattino, mentre è ancora buio, io penso già alla cena, cosa manca in dispensa, quando fare la spesa, quando accendere la lavatrice e quando stendere i panni. A stirare ci penserò domani. Devo andare a prendere mia figlia alla stazione. Poi l’appuntamento dal medico per la mamma. Infine la farmacia. Mi sono ricordata di tutto? Speriamo! Poi se le metto tutte in fila e mi organizzo, nel poco tempo che mi rimane fuori dell’orario del lavoro, ce la faccio. Coraggio! Ce l’ho pur sempre fatta. E se succede un imprevisto e non riesco più a mettere in fila tutto? Intanto sono arrivata al lavoro e non ricordo da dove sono passata, cosa ho visto, cosa ho sentito. Allora un urlo straziante che sento provenire dal più profondo del mio corpo, esplode togliendomi quasi il respiro. E’ un urlo silenzioso, che sento solo io e mi obbliga a fermarmi. Devo scendere assolutamente da questa giostra, che continua a girare vorticosamente, per capire chi sono, dove sono e cosa faccio, perché credo proprio di essermi persa. Sono scesa e mi assale una gran paura: mi sento sola e il vuoto sembra essersi impadronito di me. Provo un gran dolore e penso che forse è meglio tornare sulla giostra, non pensare più a nulla e lasciarsi trasportare. Ormai è troppo tardi; sono precipitata troppo in fondo e non so 58 nemmeno se riuscirò più a riemergere. Aiuto! Qualcuno mi aiuti! Non mi sente nessuno………quando all’improvviso sono pervasa da una forte emozione. Ora che mi starà succedendo? Mi commuovo al nascere di questo nuovo giorno, non per l’evento in sé, ma semplicemente perché me ne sto accorgendo. E’ meraviglioso! Vedo cambiare il colore dell’aria: si sta schiarendo e tra poco si capirà se il sole si farà vedere oppure no. Ascolto: non c’è ancora molto traffico e sento cantare alcuni uccellini, poi una serranda che si alza, una finestra che si apre, le campane che suonano, la porta che si apre e si richiude, passi veloci che vanno e vengono, un bambino che piange. Apro la finestra e annuso l’aria: è pungente e fresca. Passa il camion della nettezza urbana e mi riempio i polmoni di smog. Tra poco qualcuno inizierà a cucinare e mi arriveranno odori di peperoni, di cipolla o di chissà cos’altro; odori che in queste viuzze strette, viaggiano… viaggiano, insinuandosi ovunque. Un leggero venticello mi accarezza il viso, mi faccio baciare dall’aria ingorda d’amore e bacio a mia volta desiderosa d’amare e abbracciare il mondo. Squilla il telefono! Forza al lavoro! Risalgo felice sulla giostra pronta ad affrontare questa nuova giornata. Oggi, può girare quanto vuole questa giostra; non mi spaventa più, perché finalmente so, che la posso fermare e scendere a godermi anche un solo attimo di vita. Non le permetterò più di allontanarmi da me stessa e di impossessarsi della mia vita. Ora, in questa mattina d’inverno ho capito di viaggiare in un mondo meraviglioso, fatto di piccole ma grandi cose: dipende da me la loro grandezza e la loro bellezza. Ho capito che più duro e difficoltoso è il viaggio, più bello è il luogo dove si arriva. Ho capito che prestare attenzione al mondo è come prestare attenzione a sé stessi. Ho capito di vivere, non solo perché sono nata, ma soprattutto, perché consapevole di esserci. 59 L'alba di una nuova vita di Barbara Gaudenzi Era l'alba di una mattinata primaverile quando vidi per la prima volta in vita mia, il trascolorare del blu notturno nel rosa carico di un cielo radioso. Non era molto bello il panorama che si offriva al mio sguardo dai vetri dell'ospedale Pierantoni, se non per qualche dissolvenza luminosa della campagna circostante che azzardava una timida ed impacciata elegia. Eppure era una visione nuova, perché mai avevo assistito alle consegne della notte al giorno in un luogo banale come può essere un qualsiasi quartiere cittadino. In fondo era solo un giorno come tanti altri, che quasi non ci accorgiamo che iniziano e subito sono finiti. Ma per me non era un giorno così e non lo era neanche per mia figlia che stava bussando alla vita proprio in quel momento; alba nell'alba. Non era la prima volta che mi trovavo a partorire, ma era il primo travaglio vissuto contemplando l'alba. Pensai che, da quel momento in poi, anche mia figlia avrebbe avuto tante albe inconsapevoli nella sua città, e che qui si sarebbe svegliata, preparata e vissuto la sua vita. Fu un pensiero dolce e rassicurante: sembrava quasi che la città la stesse aspettando! E lei fece presto ad arrivare, cancellando ogni dolore con la sua presenza rosea di piccola donna, gioiosa come un'alba che racchiude in sé tutte le aspettative del nuovo giorno. Un'alba come tante, uguale ma diversa, fresca e fragrante in ogni angolo di mondo. 60 Una giornata qualsiasi di Roberta Fiorini Sono Anita, ho 40 anni, tre figli, un marito, molte amiche, qualche amico. Mi sveglio al mattino felice di esserci, ma innegabilmente preoccupata di riuscire a fare stare tutto nella giornata: ci deve stare il Piccolo con la sua irrequietezza dei 2 anni e mezzo, con il suo bisogno di amore, con la sua aggressività e spericolatezza. Poi c’è la Grande, quasi 17 anni, innamorata, felice, alla ricerca di un suo equilibrio oltre i genitori; poi la Piccola, 9 anni e mezzo, determinata, quasi troppo, permalosa, con il rischio che si indurisca, che perda dolcezza. Infine il Marito, un buon marito, senza dubbio, ma sicuramente potrebbe maggiormente condividere la gestione famigliare, dall’ICI ai lavori domestici, ma si sa gli uomini sono così: vogliono sentirsi amati e partecipi di una famiglia che vedono però poche ore al giorno. Eppure bisogna riconoscere che se anche non fanno molto e quello che fanno spesso lo fanno male, comunque servono, e non solo a due cose (la seconda delle quali è sicuramente aprire le noci di cocco). Poi ci sono molte amiche: qualcuna dà e riceve, qualcuna dà, qualcuna no, comunque nell’insieme, ritengo che gli scambi continui con le amiche arricchiscano moltissimo la vita quotidiana, aprendo molti punti di vista; poi c’è la famiglia allargata, ecc. ecc.. Ce n’è abbastanza per spaventarsi, ma quello che più mi spaventa è il mio bisogno di sentirmi indispensabile agli altri: so che è una grave forma di egoismo, costa moltissimo, ma non ne potrei fare a meno, mi fa sentire viva, utile, a volte necessaria. Pago il prezzo e mi godo questo amore, forse utilitaristico, anche se non so per chi. Mi sveglia di solito il Piccolo, che arriva di corsa nel mio letto, lo metto sotto le coperte, mi abbraccia e mi dice: “ti amo mamma”, che felicità! Ci riaddormentiamo abbracciati fino al saluto della Grande, che corre a prendere l’autobus, un veloce “in bocca al lupo” per la verifica di turno e già, ancora a letto, il primo senso di colpa: dovrei alzarmi prima di lei, prepararle la colazione, chiacchierare, eppure il letto è così dolce che a fatica me ne stacco alle 7.30: e poi via il 61 biberon al Piccolo (rigorosamente dalla mamma), latte cacao, toast, torta, denti, grembiule, pannolino ecc. ecc.... Alle 8.25, ma più spesso alle 8.35, tutti pronti per partire con il Babbo. Ecco i miei 10 minuti per prepararmi: se tolgo gli occhiali davanti allo specchio mi riconosco, non si vede quell’ombra, quella dura riga, o ruga, che compare con gli occhiali: sto invecchiando? Certo e questo tutto sommato non mi angoscia, o per lo meno l’alternativa è peggio, è riuscire a sincronizzare i tempi con il Marito che mi preoccupa, i suoi capelli bianchi sono altro dai miei, che vanno assolutamente coperti, producendo un nero innaturale che fa sparire ogni dolcezza. Fortunatamente comunque non posso soffermarmi troppo su queste sciocchezze, è ora di andare a lavorare: il viaggio d’andata è in genere una delle mezze ore più rilassanti della giornata, una bella trasmissione radiofonica ed un datore di lavoro comprensivo mi risparmiano l’ansia dell’orario e posso godere del paesaggio in ogni sua stagione. A quest’ora saremo già al decimo senso di colpa ed è quello di arrivare tardi in ufficio, mentre l’undicesimo è quello di essere estremamente rilassata: non devo guardare qualcuno che sale sulle sedie, che ha bisogno di coccole o fa il muso, devo solo lavorare. Forse sto banalizzando la mia situazione lavorativa, non è così semplice, devo cercare di mediare, di capire, di aggiornarmi, ma tutto sommato non è così difficile perché l’ambiente è abbastanza sereno, insomma se il mio lavoro lo fa un uomo è molto impegnativo se lo fa una donna è pur sempre pubblico impiego! Raramente sono chiamata a vestire abiti non miei, a forzare un mio atteggiamento, più spesso devo districarmi fra equilibri precari, ma devo ammettere che per ora, e so che sarà così solo per poco ancora, il lavoro mi aiuta a trovare sicurezza, entusiasmo e a volte soddisfazioni. Se non lavorassi forse mi sentirei soffocare da lavatrici, ferro da stiro, aspirapolvere e panni sporchi, così posso esercitare il pensiero rispetto al sentimento che pervade la mia vita. Si fa presto l’ora del ritorno ed il viaggio è diverso perché cascasse il mondo alle 16.30 devo essere a Forlì: ho i tempi intermedi per ogni località e se arrivo tardi si adombrano gli splendidi occhi della Piccola: ci sono, arrivo tesoro, magari c’è traffico, un trattore un camion, l’autovelox. Poi a prendere il Piccolo dai nonni, baci e 62 abbracci e sento lo sguardo e il dubbio della Piccola: lo amerà più di me? Non amo nessuno più dell’altro, i vostri tre sorrisi sono quanto ci sia di meglio al mondo, anche se esprimono uno forza, uno determinazione ed uno dolcezza, ognuno di loro mi riempie la vita (queste sdolcinature vanno bene sussurrate non scritte). Si parte poi con ginnastica o musica o la spesa i parenti ecc., si arriva a casa tardi e qui iniziano i guai, apro la porta terrorizzata pensando al disordine, alla polvere, ai panni ecc., questa è la vera fatica di Sisifo, uno pensa con sollievo di aver finito di stirare ed ecco la cesta dei panni sporchi si riempie nuovamente, si cucina per due ore e dopo 2 - 4 ore è tutta merda. Ho riflettuto sull’opportunità di farsi aiutare da una collaboratrice domestica, ma penso proprio che sia come un amante: crea più problemi di quanti non ne risolva. Per esempio deve essere in regola, o no? (Ovviamente la collaboratrice non l’amante) se sì costa troppo, se no mi sentirei una sfruttatrice, poi non avrei il coraggio di dare ordini, insomma è meglio che mi arrangi e mi tenga il disordine. Ogni giorno conto i lavori mentalmente e li ordino, attribuendogli un tempo di esecuzione, che però non riesco mai a rispettare, è sempre troppo tardi per la mia tabella di marcia e l’umore non è mai quello che vorrei: vorrei apparecchiare cantando, coinvolgere tutti nella preparazione della cena, tenere la TV spenta, per far fiorire il dialogo. Qualche volta sento che sta andando tutto per il meglio: il Piccolo mi aiuta, la Grande racconta la sua giornata (e più lei è innamorata e più io mi preoccupo, però come è contagiosa e splendente nella sua felicità); a volte invece va tutto storto, si urla, si sgrida, si piange, il Piccolo morde la Piccola, la Grande si lamenta: sono come la capra il lupo e il cavolo, e io sogno sentimenti profondi, idilliaci ma poi devo pensare ad evitare che si sbranino. So che a volte basta poco, un altro punto di vista, una parola giusta ed il casino quotidiano può diventare festa, famiglia e condivisione. Mi aiuterebbe sicuramente una fede prêt-à-porter e non ho ancora capito se è vero che la cerco e non la trovo, se già cercarla è averla o se mi piace troppo dire che la cerco e poi cerco di non trovarla mai. Comunque bene o male ci mettiamo a tavola a volte al completo a volte no: prima discussione TV accesa o spenta? Seconda discussione: se è accesa quale programma si guarda? E siamo all’ennesimo senso di colpa: se si guardano i cartoni il 63 Piccolo sta buono e si cena dignitosamente, se si guarda il telegiornale il suo disappunto per il mondo esplode con lanci vari, urla eccetera. Ho sempre pensato che i figli viziati e capricciosi fossero frutto esclusivo di genitori incapaci e senza palle, mi devo ricredere o inserirmi in quest’ultima categoria. Il Piccolo morde, urla, tira i capelli, non mangia la verdura, si sdraia a terra ed io impotente prendo morsi, tirate di capelli ecc., che sia la vecchiaia? Bene o male si cena e in un attimo è ora di portare a letto i bambini: tiro fuori dal cassetto la dolcezza, una breve tombola o una filastrocca, baci e abbracci e spenta la luce una amara consapevolezza: a nessuno di loro sono riuscita a dare tutto l’amore che merita. Via si riparte con i lavori di casa, quelli più silenziosi vista l’ora. Alla fine di tutto mezz’ora di cyclette con un buon libro, poi a letto. Spengo la luce e penso all’enorme fortuna di avere tre figli nel loro letto, il marito nel nostro: forse non ho più sogni da gestire e carte da giocare, non ho carriere da percorrere, ho i capelli bianchi e molti sensi di colpa e spesso non so che pesci pigliare con adolescenti in crescita, piccole pesti, comunque sia spero che tutto questo duri il più a lungo possibile. Per ora sono qui, continuo a sbagliare, chiedo scusa per i miei errori e poi risbaglio e poi richiedo scusa, amo e sono amata (almeno spero), ogni tanto mi sembra di toccare il cielo con un dito e ogni tanto mi sembra di sprofondare in un abisso, eppure sono felice di esserci, ogni giorno, ogni momento, spero di non incontrare mai un camion sulla mia strada (chissà se in tal caso direi “cazzo” o “mio Dio”), e di poter continuare ad assolvermi e ad essere sempre questa pedante cresciuta brava bambina, non so ancora se per vocazione o se per paura del giudizio degli altri. C’è una lapide al cimitero ebraico di Venezia che riesce a far percepire a chi legge tutto l’amore di una famiglia per una donna, madre e moglie e nello stesso tempo riesce a far capire l’angoscia di una fine irreversibile e terrena. 64 Pedalando... pedalando… una maestrina negli anni sessanta di Renata Franca Flamigni Per tanti anni frammenti della mia infanzia sono rimasti assopiti all’infuori di qualche accenno frettoloso in famiglia o con mia madre con la quale ho condiviso tali vicende, ma ora, persone e vicende si sono messe a chiamarmi con insistenza, sfumando logicamente i momenti tristi per dare priorità a quelli gioiosi. Così, mi rammento quando, bambina, fra i tanti giochi di aggregazione che si facevano nei cortili oltre la corda e la palla, aveva grande rilievo il dimostrare di saper andare in bicicletta inteso come valore simbolico di crescita e di autonomia. Ricordo che per dare dimostrazione di questa mia capacità agli amici mi allenavo di frequente, inforcando di nascosto la bicicletta “Bianchi” di mio padre. Era una bicicletta grande e massiccia, con i freni a bacchetta ed il manubrio largo, di colore nero. Pedalavo di continuo passando col corpo sotto al cannone, sul quale mio padre agganciava la cartella di cuoio, utilizzata come porta documenti, e, al momento di frenare, buttavo entrambi i piedi a terra dimostrando la mia abilità di ciclista di appena sei anni se riuscivo a trattenerla in equilibrio senza farla cadere. Nonostante tutto svariate erano le cadute, le ginocchia sbucciate piene di croste nonché le suole consumate delle scarpe che mio padre soleva rinforzare con dei piccoli salvatacchi in metallo a forma di mezzaluna. I rimproveri conseguenti erano d’obbligo ed io caparbia insistevo in queste guide finché non divenni padrona del mezzo sulla bicicletta nuova di mia madre. Averne una in dono era per me un sogno che si realizzò molto più tardi, come regalo di promozione per aver superato l’esame di ammissione alla prima media. Su quella bicicletta, dove a malapena, seduta sulla sella, toccavo i pedali con la punta delle scarpe, mi sentivo una regina capace e sicura di guidare il suo destriero di metallo. Da questo preambolo è chiaro come tale mezzo abbia accompagnato 65 un lungo tratto della mia infanzia e dell’adolescenza dandomi l’autonomia necessaria quando studentessa, ogni mattina, pedalando veloce, lasciavo gli odori ed i profumi della campagna, perché risiedevo nel forese e raggiungevo la sede dell’Istituto Magistrale che frequentavo. Allora il traffico era meno caotico d’oggi ed il maggior problema si presentava soprattutto durante il rigore dell’inverno quando tutta imbacuccata e con l’eventuale aggiunta dell’ombrello nonché della sacca dei libri, dovevo fare lo slalom fra le pozzanghere più o meno profonde della mia lunga strada sterrata, o così detta strada bianca, oppure prestare attenzione per non scivolare sulla neve ghiacciata che rimaneva a lungo sul terreno, prima di raggiungere la strada principale asfaltata. Come tutti i ragazzi ero diventata talmente sicura da guidarla, in rettilineo, senza mani. Esibendomi, passavo sotto la bella statua di Icaro che osservava gli studenti frettolosi, impavido ed indifferente nella sua nudità mentre io, raggiunta la meta, contemplavo con stizza le mie nuove calze di filanca spruzzate di gocce di fango e le mie scarpe bagnate. A volte rivolgevo un pensiero fuggevole al bel giovane muscoloso: “anche io prima o poi saprò volare con le mie ali ma non sarò avventata, mio caro, non voglio raggiungere il sole, quel che valgo lo dimostrerò, ho solo bisogno di tempo!” Poi ancora accaldata mi dirigevo veloce all’ingresso secondario dell’Istituto riservato alle “femmine” mentre la gradinata principale dell’edificio dai grandi marmi bianchi che si affaccia sul piazzale della Vittoria era destinato ai maschi. Incomprensibile per noi ragazzi tale distinzione da parte del preside, visto che esistevano classi miste al suo interno. Uno dei tanti stereotipi era anche il grembiule nero da indossare fino all’ultimo giorno di scuola che ci rendeva abbastanza anonimi agli occhi dei professori, dei quali per altro rilevavamo le stranezze. Ricordo ad esempio, la “prof.” di filosofia che, al suo ingresso in classe, spargeva gocce di profumo al pino silvestre seguito da gesti plateali fatti col fazzolettino di batista ricamato. Noi ironizzavamo, dandoci gomitate significative sull’entrata di tale dama nella stalla ed aveva forse le sue ragioni visto che stavamo tante ore nello stesso ambiente, ma non era piacevole essere considerati un branco di pecoroni. A lei avrei voluto chiedere: “mi conosci o sono per te un 66 nome scritto sul registro? Guardami, io esisto!” Tutt’altra persona era il professore d’italiano: elegante se pur nel suo vestito vissuto, teneva sempre il quotidiano in tasca; consapevoli della sua cultura e professionalità quando entrava in classe, lo accoglieva un silenzio rispettoso. Ci proponeva di entrare con lui nel mondo della letteratura, conoscendo vita ed opere di grandi scrittori e poeti, ci apriva le menti e, senza che ce ne avvedessimo, ci aiutava a crescere. Poco prima del suono della campanella d’inizio lezioni, ci raggiungeva il gruppo composto delle ragazze e dei ragazzi provenienti dal collegio Tartagni, successivamente sede dell’Istituto Professionale per il Commercio ed ora in via di ristrutturazione per altri scopi, accompagnate da una suora che tornava a riprenderli alla fine della mattinata. Alle ore 14.15 lo stomaco cominciava ad avere le sue esigenze pertanto al suono della campanella volavamo verso l’uscita come rondini al proprio nido. Inforcavo la mia due ruote ed in men che non si dica raggiungevo casa ed il piatto fumante che mi attendeva pronto in tavola. Terminati gli studi, quel poco di infarinatura didattica sperimentata osservando le insegnanti durante le lezioni nelle visite alle scuole elementari, o al giardino d’infanzia Montessori situato all’interno dell’Istituto Magistrale, doveva servire da stimolo per intraprendere un lavoro così complesso quale è l’educazione dei minori. Palese l’abisso che c’è fra l’essere studenti che non vedono l’ora di dimostrare la propria maturità e l’aiutare gli altri a raggiungere la stessa nelle varie fasi di crescita. Da parte mia avevo un progetto alla cui realizzazione intendevo perseverare. “Da grande farò la maestra!” ripetevo da sempre. Figura idealizzata, la mia, in contrapposizione a quella che era stata l’insegnante delle prime classi elementari severissima e distaccata, maniaca dell’ordine, delle aste, della punteggiatura e della bella calligrafia da conseguire con l’esercitazione a casa su pagine e pagine di rotondeggianti vocali e slanciate consonanti che dovevano toccare le righe del quaderno. Non meno severo fu l’insegnante di 4° e 5° elementare, al quale do merito di avermi saputo infondere la fiducia nelle capacità di studio. Ricordo che per mantenere il silenzio nella numerosa classe si serviva di una canna che faceva cadere sulla punta delle dita dei malcapitati scolari scoperti a chiacchierare. 67 Alla richiesta dei genitori di come era andato il profitto scolastico tutti noi sorvolavamo sulla punizione inflitta, pena l’aggiunta di scappellotti per mancanza di buona condotta. Ma tornando agli anni ‘60, cioè al termine dei miei studi, capivo benissimo che una cosa era idealizzare un lavoro ed un’altra era riuscire a svolgerlo. Ero stata catapultata nel mondo degli adulti e delle sue regole. Ben presto mi resi conto che la credibilità come persona è fatta di tanti piccoli passi superando delusioni e sogni per raggiungere piccole conquiste. Iniziai dalla “gavetta”, ossia come supplente e come insegnante nei doposcuola e in corsi serali rivolti agli adulti che ancora non erano in possesso della licenza elementare, intervallati da altri periodi come commessa presso i grandi magazzini “Standa” appena aperti, operaia “pelapolli” in un macello di pollame e operaia di macchina in una fabbrica di utensili in plastica, per dare risposte pratiche alla mia necessità di guadagno in attesa di fare l’insegnante. A quei tempi, anche nel territorio forlivese forte era l’analfabetismo, sia reale che di ritorno, ed io da novembre a maggio, per diversi anni, dalle 20 alle 22, insegnai in plessi scolastici del forese che ovviamente raggiungevo con la mia fidata bicicletta, spesso in compagnia di mia madre che appartata e paziente attendeva la fine delle lezioni. Le strade a quell’ora tarda erano spesso deserte e male illuminate soprattutto verso la campagna; distanti anche le abitazioni le une dalle altre e pochi gli agglomerati ed una ragazza da sola, in bicicletta, poteva dar adito ad approcci poco simpatici. Ricordo un episodio spiacevole accadutomi, una sera di primavera, dopo una lezione. All’uscita non trovai più la bicicletta al solito posto, vane le ricerche intorno e fuori dalla recinzione. Stanca e molto dispiaciuta per il furto subito, io e mia madre, appoggiandoci ora l’una ora l’altra, all’unica bicicletta rimasta, riprendemmo il cammino. Giungemmo a casa spossate ed infreddolite. Per quel mese, pensai, mentre faticavo a prendere sonno, una parte corposa del mio stipendio di circa £ 30000, sarebbe servita per l’acquisto di un nuovo mezzo del quale non potevo fare a meno pena la mia sostituzione, in quanto non avrei potuto raggiungere in alcun modo il posto di lavoro. La frazione di Coriano dove io abitavo, annoverava pochi negozi di riferimento: il macellaio, il calzolaio, un negozio di alimentari con 68 accluso bar e distributore di benzina, infine la mia ancora di salvezza, il meccanico, dal quale acquistai una nuova bicicletta a rate, essendo conoscenti di famiglia ed in buoni rapporti di vicinato. Un altro episodio che ricordo con piacere mi accadde l’anno successivo durante un corso A, sempre di scuola serale, che raggruppava persone frequentanti la 1° e 2° classe elementare. Il plesso era dislocato in una vecchia e grande casa leggermente distante dall’isolato delle abitazioni, verso la nuova rotonda che ora porta alla zona industriale di Coriano da un lato e alla via Orceoli e Punta di Ferro dall’altra. Era una sera d’inverno, avevo acceso il fuoco con la legna accatastata accanto alla stufa situata al centro della stanza, una mastodontica “Becchi” in terracotta di un bel rosso vivo, in attesa dei miei allievi adulti per i quali io ero la “maestrina”. Giunse il primo che timidamente mi fece la richiesta di aiutarlo a scrivere una cartolina postale affettuosa alla ragazza da poco conosciuta per poterla rivedere dandole un appuntamento. La sua scrittura era incerta, ma trapelava una forte emozione per il messaggio che stava scrivendo e per la nuova capacità di comunicazione in suo possesso oltre la semplice firma. “Non è mai troppo tardi!” Recitava il titolo di una trasmissione televisiva allora in voga, tenuta dal maestro Manzi ed io mi sentivo investita dallo stesso ardore ed entusiasmo. Quegli anni ’60 sono trascorsi come un lampo nel cielo, insieme alla mia giovinezza diventando oramai storia del passato; restano vividi i ricordi dei primi approcci col mondo del lavoro, la fatica per ottenerlo, la dignità raggiunta come persona. La mia bicicletta di allora è ancora lì, oramai sgangherata ed arrugginita in garage ma mi accompagna tuttora, senza fretta, nei miei giri a passeggio verso il centro della città. Pur avendo altri mezzi ed essendo sollecitata dai miei familiari ad usarli, non desidero metterla da parte, mi piace il suo cigolio. Quando poso gli occhi su di lei, mi sovviene il tempo dei ricordi e il sogno di un lavoro, forse idealizzato ma che, a modo mio, sono riuscita a realizzare affinando, credo, sensibilità e tatto per i problemi altrui, esperienza professionale e soddisfazioni con la speranza di aver comunicato a tanti bambini, ora adulti, il piacere e la curiosità di imparare. 69 Basta correre…… di Liviana Lucchi Siamo a metà gennaio e proprio in questi giorni ha festeggiato il trentesimo compleanno mio figlio minore; trent’anni sono passati! Sono davvero tanti e non mi sembra vero. Mi viene da sorridere, penso che fra poco più di un mese l’altra mia figlia, quella maggiore, ne compirà trentanove…. e come inevitabilmente succede in queste occasioni, il pensiero corre all’indietro con un susseguirsi di ricordi ed emozioni. Adesso posso anche “fermarmi” a pensare, posso anche “fermarmi a ricordare”, posso anche perdere tempo perché non devo più correre. Si, correre! Correre sempre per mancanza di tempo, e se te ne prendevi un po’ per te dopo ti sentivi in colpa per tutto ciò che rimaneva indietro e ciò che non era stato fatto. Per me è stato “il dovere sempre correre” la cosa più difficile e non il lavorare fuori casa. Madre natura mi ha donato tanti pregi, fra i quali, dolcezza, sensibilità, intuito, ma non certo la rapidità o la sveltezza. Mi piace essere impegnata e fare di tutto, ma ho bisogno dei miei tempi, di non avere fretta altrimenti mi viene l’ansia, l’angoscia, la paura di non farcela. Adesso sono in pensione insieme a mio marito; i miei due figli sono diventati grandi ed io mi sento una donna appagata e serena che si sta godendo i suoi sessant’anni nel migliore dei modi, nonostante i problemi piccoli e grandi che ogni giorno si devono risolvere e superare. Mi ritengo una persona molto fortunata perché nella vita sono riuscita ad avere tutto ciò che desideravo, ma è anche vero che mi sono conquistata tutto con tanta volontà, speranza, lavoro, sacrificio giorno dopo giorno, anno dopo anno. Infatti, dico sempre che non vorrei assolutamente tornare indietro, se mi fosse concesso, perché sto bene così. Ogni frutto ha la sua stagione! Mi è sempre piaciuto lavorare, vivere, oziare e anche soffrire nel presente, senza mai dimenticare il passato carico di esperienze, ma 70 con la mente rivolta sempre a progettare il futuro. Nonostante abbia lasciato la scuola troppo presto, sono riuscita a fare il lavoro che volevo, che mi piaceva: “la segretaria in ufficio” lavoro che mi ha impegnato tante ore al giorno per più di quarant’anni. Sono riuscita a conciliare lavoro, famiglia, figli, marito, lavori di casa e non sono assolutamente pentita. Ho fatto una scelta di vita che mi ha realizzato sia come donna, che come moglie, che come mamma. Sono convinta che se avessi fatto solo la “casalinga” non sarei stata “meglio” perché sarebbe stato un modo ripetitivo di vita, un modo impossibile di rapportarsi, di confrontarsi e stare con gli altri. Anche ora che non lavoro più fuori casa, sento la necessità di uscire, incontrare gli altri, anche solo per fare quattro chiacchiere, magari solo per un’ora e trovo sempre qualche motivo per andare da qualche parte. Me la sono proprio dovuta guadagnare questa “pensione”; ma ora che ci sono arrivata mi sento in ferie tutti i giorni con tanto tempo per me e da dedicare ai miei famigliari. Ho avuto la grande fortuna di diventare nonna e quindi sono sempre disponibile per il mio nipotino, che ora è un ragazzino; inoltre sto restituendo a mia mamma; ora vedova; con tanta pazienza e amore tutto ciò che lei ha fatto per me, tutto il suo aiuto per permettermi di andare a lavorare. Dopo tanti anni di “automobile” ho riscoperto la “bicicletta” e mi piace molto andare in giro per la città e dintorni, vederla trasformare, cambiare, seguire il tempo con il suo traffico, le sue rotonde ecc. ecc. In questa città ci sono nata e cresciuta e perciò ne sono innamorata. L’ho vista ricostruire dopo la guerra, l’ho vista trasformare in tutti questi anni, per adattarsi alle esigenze della sua popolazione e del modo di vivere con il tempo, ma è sempre rimasta una piccola città di provincia a “dimensione d’uomo”, semplice come la sua gente ma con tutte le sue tradizioni e la sua storia. Mi piacciono i romagnoli, schietti e lavoratori, spontanei e a volte un po’ focosi, ma in fondo in fondo sinceri e bonaccioni. Romagnoli, figli della terra perché quasi tutti i nostri nonni erano contadini e quindi legati alla natura e alle stagioni. La Romagna è “un angolo di paradiso”, come recita quella antica poesia dialettale, che il suo illustre poeta ha dedicato alla sua terra 71 senza volerla sconvolgere con grattacieli e costruzioni strane, ma lasciandole i suoi spazi e renderla un “solatio, dolce paese”. Forlì ha continuato poi ad espandersi in lungo e in largo con semplice intelligenza e ha saputo sfruttare le bellezze e le risorse della natura, ed insieme alle città limitrofe ha creato posti di lavoro e centri di scambio culturali e ricreativi, attraverso valli, colline e mare. Mia madre fa parte di quelle “donne” che hanno avuto il coraggio di uscire dalla famiglia patriarcale per farsi un nucleo famigliare proprio ed insieme al marito costruire, lavorare, aiutarsi e crescere. Ho quindi imparato da lei tante cose e la considero una maestra, per come sapeva districarsi fra il lavoro agricolo, i magazzini della frutta e la famiglia. Ho cercato di fare tesoro di quelle esperienze cambiando magari quello che credevo meglio, soprattutto nei confronti dei figli, e penso di esserci riuscita, almeno in parte, e di poter terminare la mia vita lavorativa con un bilancio positivo. Anche mia sorella e mia figlia sono delle mamme e delle lavoratrici e sono anche loro convinte che è “una gara dura”, anche se il progresso ha portato elettrodomestici, asili nido, scuole materne, ecc. ecc. però la vita va vissuta e l’importante è partecipare. Siamo oggi quattro donne di quattro generazioni con quattro realtà di lavoro diverso (agricoltura, impiego privato, scuola pubblica, abbigliamento), ma siamo tutt’e quattro convinte che sia giusto così, perché vivere e lavorare arricchisce lo spirito e la personalità, perciò la donna può trasmettere ai figli e alla propria famiglia tutta l’energia necessaria. 72 Scelte di Diella Monti Di fronte allo sguardo preoccupato di mia madre ed alle tasche vuote e più volte rammendate di mio padre, ho scelto: ho scelto di non scegliere quella scuola, quel lavoro, quel futuro................ "ho scelto". Di fronte ad occhi desiderosi e pieni di promesse e alla sicurezza di una mano avvolgente, ho scelto: ho scelto di non scegliere di perdere lo sguardo nella linea infinita dell'orizzonte................. "ho scelto". Di fronte al calore della famiglia, dei figli, allo sguardo di chi sembrava avere bisogno di presenza e protezione lì, in quel momento di più, ho scelto: ho scelto di non scegliere di volare.................. "ho scelto". Di fronte all'idea non sempre mia di felicità, a ciò che è bene e a ciò che è buono per noi, e quindi anche per me, ho scelto: ho scelto di non scegliere i miei sogni, il mio desiderio....................... "ho scelto". Di fronte alla provocazione, al giudizio, all'annullamento della persona in un ruolo, alla solitudine e alla squalificazione di una pretesa senza riconoscimenti, ho scelto: ho scelto di non scegliere la nullità, ed ho aperto le ali verso il riscatto...................... "ho scelto". Di fronte al successo, alla vetta conquistata, agli impegni infiniti, ma comunque ancora di fronte alla non stima, alla demolizione quotidiana di un'immagine scomoda, ho scelto: ho scelto di non scegliere la fatica di una conquista senza riconoscimenti... "ho scelto". Oggi, di fronte a macerie rovinose di sogni non sognati e di desideri fittizi, di vite compresse e spinte come ombre all'interno di una metropolitana in corsa, oggi.... voglio riappropriarmi della mia anima e, almeno per una volta provare a scegliere di SCEGLIERE! 73 Il volo di Antonia di Fulvia Mura Sul pavimento di terra battuta, imbrattato qua e là dagli escrementi della capra, il finestrino aperto lascia cadere un raggio di luce pallida che presto trascolora nella tinta rosata dell'alba. Una figura massiccia di donna, infagottata nello scuro viluppo di panni rattoppati, si leva dal pagliericcio e infila a tracolla l'inseparabile borsa di tela. Nell'uscire urta col capo grandi mazzi d'erbe, appesi a seccare alle travi del soffitto basso. Antonia la guaritrice - Antonia la strega, per alcuni - si inoltra a passo svelto nei prati per raccogliere nell'ora più propizia le piante medicinali con cui preparerà i suoi rimedi, celeberrimi nelle terre che si stendono tra Scorticata e il Montefeltro. Biancospino per placare il galoppo dei cuori affannati (basteranno tre o quattro tazze di infusione al giorno per ventun giorni di seguito). Acetosella rinfrescante, da gustare cruda con olio e limone per alleggerire il sangue "grosso". Borragine pelosa e bardana, da macerare in olio per l'eczema dei bambini. E poi ci sono le erbe proibite, quelle di cui si bisbiglia con circospezione tra donne nelle lunghe veglie invernali davanti al fuoco. Erbe per liberarsi di una gravidanza indesiderata, o per legare a sé l'uomo amato. Soprattutto, erbe per il volo magico. Antonia sorride tra sé stendendo la mano callosa, dalle unghie spezzate, ad estirpare con forza una radice di aconito. Insieme a cicuta e belladonna, le scioglierà più tardi nel grasso fuso di montone per ottenere l'unguento del volo. Questa è la sua magia più grande, il terribile segreto ereditato da sua madre e da sua nonna: un unguento portentoso che, spalmato sul corpo nelle Quattro Tempora dell'anno, può trasportarla nei luoghi e nelle epoche più strabilianti, strappandola almeno per qualche ora 74 alla miseria e alla solitudine della sua vita quotidiana. Un privilegio pericoloso, invidiato e temuto, che potrebbe dannarla al rogo se solo l'arciprete sospettasse qualcosa... Antonia non sa neppure bene cosa le accada, durante la vertigine esaltante del volo. Il suo corpo sfiorito, senza età, non si muove dal pagliericcio pulcioso della capanna; pare addormentato, mentre la mente vola - quella sì, eccome! - ad esplorare dimensioni misteriose. L'ultima volta è stata diversa da tutte le altre. Antonia ricorda di avere fluttuato a lungo nella solita nebbia opalescente, squarciata da lampi colorati e da voci ovattate, finché i suoi occhi si sono aperti su un altro viso di donna. Bello, severo, intento. La donna guidava uno strano carro a quattro ruote, non trainato da alcuna bestia visibile, rumoroso e velocissimo. Intorno a lei, su una strada incredibilmente larga e pulita, sfrecciavano decine di altri carri simili. Antonia aveva considerato con attenzione ogni particolare: i capelli scorciati come le streghe durante gli interrogatori, le brache maschili indossate in pieno giorno e senza alcun imbarazzo. La donna si era fermata davanti ad una specie di castello d'argento e cristallo, composto da più torri raggruppate intorno ad un corpo di guardia centrale, pullulante di persone bianco vestite e di carri ornati da grandi croci rosse. Era entrata sicura, nonostante fosse priva di scorta, e si era cambiata d'abito indossando una bizzarra uniforme immacolata. Frammenti di voci concitate avevano ferito le orecchie di Antonia. "Presto, dottoressa, da questa parte: è un codice rosso!" "Meno male, Giulia, temevo non ti avessero rintracciata..." "Ossigeno!" "Dannazione, lo stiamo perdendo!" Macchie confuse ruotavano intorno al viso della donna, china su un corpo d'uomo abbandonato sul lettino. Tutti i presenti sembravano dipendere dai comandi e dalle disposizioni di lei. Tutti le parlavano con grande rispetto e considerazione. Gli occhi di Antonia si inumidirono per la commozione: dunque esisteva un luogo, o un tempo, in cui le guaritrici come lei potevano vivere e lavorare sicure. Poi, la scena era cambiata. La donna si era rivestita dei suoi vecchi panni, molte ore più tardi, ed 75 era risalita sul carro. Il suo sguardo, prima fiero e determinato, si era fatto via via più teso e dolente, correndo spesso al braccialetto metallico che portava al polso sinistro. Il suo viaggio attraverso la città si era interrotto molte volte, davanti a grandi botteghe traboccanti di ogni genere di mercanzie. Ad ogni fermata la donna si caricava di borse strane, fatte di una tela sconosciuta, simile a carta sottile ma resistente, che poi riponeva nella parte posteriore del carro. Infine era arrivata davanti ad una torre con tante finestre ed era entrata con tutte le sue borse dentro un tubo magico, pieno di bottoni colorati, che saliva e scendeva ininterrottamente per tutta l'altezza dell'edificio. Aveva aperto una porta con la chiave e altre facce si erano affollate intorno a lei. Due piccole, una grande e una pelosa. "Uffa, mamma, mi avevi promesso di venire a vedere la recita di Natale!" "E a me avevi promesso di andare a comprare le figurine." "Insomma, Giulia, su di te non si può mai fare affidamento. Non sei mai puntuale. Quando lavori ti dimentichi di tutto. Sono finite anche le crocchette del cane." L'ultima immagine che Antonia vide fu l'espressione triste della donna mentre apparecchiava la tavola scusandosi. Il volo magico era finito anche quella volta. In ogni luogo - e forse in ogni tempo - c'è un prezzo da pagare per essere donna. 76 Il mio primo lavoro di Mariangela Paganelli Quando amici e parenti fanno visita ad una famiglia, e questa ha bambini piccoli, la domanda di rito è: “cosa farai da grande?” Quando era rivolta a me, senza esitare, di getto rispondevo: “la maestra!” E nel dire così, mi vedevo di fronte ad una numerosa scolaresca ben ordinata e brava. Il sogno è rimasto nel cassetto. Nell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, le scuole, quelle ancora agibili e non distrutte dai bombardamenti, erano chiuse. Chi avrebbe potuto insegnare se tutta la popolazione italiana era sfollata nelle campagne lontane o nascosta nei rifugi? Quando la guerra finì, avevo dieci anni. Il nostro piccolo casolare in campagna, era stato distrutto e il poco bestiame era stato ucciso dalle bombe o rubato da soldati e civili. Così papà vendette quel fazzoletto di terra che ci era rimasto e ci trasferimmo in città, dove trovammo, per miracolo, una minuscola abitazione. Era da mettere in ordine ma papà era bravo: sapeva fare di tutto. E trovò anche lavoro come muratore, dal momento che si iniziava a rimuovere le macerie per ricostruire le case e si riprendeva a vivere normalmente con grandi sacrifici, perché mancava tutto e il “mercato nero” la faceva da padrone. Con noi abitava la nonna paterna e in quel periodo nacque mia sorella. Le fabbriche ripresero a produrre e mamma fu assunta in uno stabilimento importante che diede lavoro a mezza città. Oggi, non esiste più. Forse il mio primo lavoro fu quello di accudire la mia sorellina, di andare a fare la spesa e tenere in ordine la casa: aiutata dalla nonna. Privatamente, sollecitata da una maestra nostra amica, presi la licenza elementare e mi ritrovai a tredici anni senza un titolo di studio e senza lavoro. Ma leggevo di tutto, anche il giornale sportivo di papà, e scrivevo tutto quello che mi piaceva e mi emozionava. Quando mia sorella compì tre anni, la mamma iniziò a portarla 77 all’asilo ed io trovai lavoro da una sarta. Per me questo fu il primo lavoro. Facevo a piedi quattro chilometri, andata e ritorno per andare dalla signora Irma, una bravissima sarta, non più giovane ma molto conosciuta. Certo l’inizio fu difficile, dovevo sottostare alla sua disciplina, ai suoi ritmi di lavoro e alla sua severità, mentre ero stata abituata a stare in casa, coccolata da una nonna molto affettuosa. Ma, a poco a poco, mi abituai e il lavoro mi piacque. Ero la “piccolina”, infilavo gli aghi, mettevo a posto i rocchetti del filo, facevo il cavalletto. Spazzavo il laboratorio quando la signora Irma il lunedì tagliava il lavoro della settimana. Ricordo che accarezzavo quelle morbide e fruscianti stoffe mai viste. Ed imparai anche a cucire a macchina. La domenica mattina, andavo a consegnare il lavoro alle clienti che, se erano generose, mi davano una mancia. Quel piccolo guadagno era tutto mio e lo potevo spendere come volevo: misera cosa ma mi permetteva di comperare un quaderno o una penna per scrivere il mio diario o i miei fantastici racconti di favole. D’estate mi concedevo un gelato dal carretto che passava per strada e il gelataio attirava la gente urlando a gran voce e suonando la campanella. Compravo anche la mia rivista preferita che usciva tutte le settimane (che ancor oggi compro e leggo), dove prediligevo la moda. Mi divertivo a ritagliare le modelle e a organizzare con una mia amica sfilate di moda sotto gli occhi attenti di nonna Maria; e i dispetti di mia sorella che voleva giocare con noi. Ma noi non la volevamo essendo troppo piccola e le modelle di carta troppo fragili. Mi piaceva quando Irma mi mandava a comperare filo, bottoni o ovatta. Andavo nel negozio della Teresina in centro: un grande negozio che, oltre a rifornire le sarte, serviva anche le signore “bene” della città. Era grandioso e mi perdevo a guardare quelle meraviglie esposte: le calze di seta, l’abbigliamento intimo, gli strass e i bottoni gioiello che abbellivano i vestiti, come dettava la moda del momento. Quando il modello esigeva bottoni ricoperti della stessa stoffa del vestito, andavo da una signora che chiamavo fra me “la bottonaia”. Era una donnina minuta, anziana, con un reticolato di rughe nel viso. 78 Abitava al pianoterra di una casa vecchia, in un vicolo ancor più vecchio della città. Entrando nel salotto, si respirava l’aria dell’800, con poltrone damascate e lise, cuscini ricamati. Tavolini con tanti ninnoli e fotografie color seppia. Alla finestra aveva pesanti tende che lasciavano passare poca luce e ancor meno aria. Poi, mia sorella prese il morbillo e io ne fui contagiata. Mentre lei, piccola, se la cavò con il decorso della malattia, per me fu più preoccupante ne risentirono gli occhi e fui ricoverata in ospedale dove, mi trovarono una miopia congenita, peggiorata dal morbillo. Iniziai a portare gli occhiali e, per non affaticare la vista, dovetti lasciare la sartoria. E così finì il mio primo lavoro fuori casa, in lacrime. Poi, trovai lavoro come commessa che mi servì, quando mi sposai, per avviare un’attività assieme a mio marito: attività che portammo avanti per 30 anni. Ora sono in pensione e mi dedico al mio hobby preferito: leggere di tutto e scrivere ancora poesie e fantastiche favole per i miei nipotini e pronipoti (sono bisnonna). Con questo racconto ho spolverato il mio sogno nel cassetto (e nel mio cuore). Scrivere, leggere, correggere. Imprigionando ricordi ed emozioni in fogli di carta che la polvere del tempo mai cancellerà. 79 E la vita corre di Sabrina Piallini Dolce inverno E’ sera e mi affaccio alla finestra. Scorgo lassù nel cielo freddo gelido la luna. Questa grande palla luminosa, sembra essere cullata dal vento come una ninna nanna. Mi fa molta tenerezza vederla lassù sola tra le nubi. Sembra volerti accanto per una dolce compagnia. E’ una notte indimenticabile, luminosa anche se fredda ma tanto bella. E’ una notte di un dolce inverno. Due righe Due righe….. giusto il tempo per pensare a ciò che sarà domani. Il mio domani lungo come un libro o breve come queste parole. Niente e nessuno lo realizza io sola, sola con me stessa. Notte Non toglietemi la notte fatta di mille misteri, di mille colori, di mille suoni. Questa magica notte in cui mi lascio andare a magici sogni. Il mio giorno è troppo reale troppo vissuto tra ambiguità e responsabilità tra gioie e dolori e la felicità estrema la pace, l’amore li ritrovo solo quando chiudo gli occhi nella notte….. 80 Questa sono io La voglia di amare la paura di morire, il bisogno di sognare, la gioia di vivere, la voglia di correre di ballare di ridere. Il bisogno di pregare, la tristezza, il malumore, la gelosia. La gioia di donare, la voglia di essere libera non sapere cosa fare, mettersi ad urlare. Il bisogno di piangere, essere dolce essere crudele sentirsi donna, essere bambina. La tristezza di un gesto sospetto, di uno sguardo. Amarsi senza capire, odiarsi senza volere…….. questa sono io. Sognare E la vita corre, và avanti come al solito senza un attimo di pausa. Senza un minuto che ti possa far prender fiato, eppure continuo a sognare. Sogno quando assonnata cerco la sveglia che segna l’inizio di una giornata, sogno mentre le macchine si rincorrono lungo le strade e una quantità di facce mi passano accanto, senza capire cosa sento. Sogno quando mi arrivano alle orecchie le note di un canzone, sogno quando.… ma forse non sto sognando, sto solo VIVENDO… 81 Spiare il giorno di Danila Rosetti Volano pigri i rotoli di carta igienica sull’occhio vigile del rullo nero implacabile calcolatore. Alle dieci di mattina confondi gli ananas della Costa d’Avorio i caspi di ricciolina campana, le scatolette per cani e gatti la Simmental per single forzati sorridi alla rabbia plagiata del piantagrane quotidiano sul centesimo mancato, sul regalo inarrivato, sul cappotto macchiato.... Bollino... scontrino... mancino… La sera sei tu a volare sul tapis roulant: pieghi fazzoletti asciutti, riponi le camicie sbiancate dalla candeggina delicata e tra lenzuola ammorbidite da intrugli avvelenati trangugi un sonno forzato buongiorno/buona giornata /arrivederci ai cani, ai gatti, ai cristiani, ai musulmani. Spii il giorno dal vetro freddo del terrazzo, un sospiro corto intrappolato nel pigiama scolorito. L’arcobaleno clonato nelle bandiere ridenti 82 i più mattinieri sfiancati dai motori svogliati segnati dal tempo dal gelo passato. Il muro scrostato, la scala a pioli arrugginita, i primi capelli bianchi mascherati tra nuovi colori brillanti una primizia dei grandi magazzini suggerita dalle clienti informate. Riparte il rullo imbonitore tra la dispensa di rum del primo pensionato abbuiato cartocci di pistacchi incuriositi mescolati alle zucchine appassite del successivo cliente. - Le patate vanno pesate! L’offerta delle arance è già finita? No......, hai dimenticato la retta della mensa scontrino... bollino.... cestino… Domani spezzato sveglia all’alba. Stivi casse di verdura ritorni nel fondo della notte chiusa. Il bambino ti ha aspettato poi è crollato nel divano insieme alla nonna di turno il tuo compagno è appena rientrato, sconfitto nel match con la madre demente. Ridono le sigarette profumate delle prestazioni mancate. Cammini a piedi scalzi, alzi le ali fredde della sveglia, una lama di sole alleggerisce il cuore della stanza. Vedi già il mare, la laguna, l’acqua del Nilo, 83 le donne incedere lente con gli otri sulla testa per cucinare, vestire i bambini, scambiare un po’ di sale. Un bacio veloce sulla fronte un contatto di mani, il mio corpo chinato sul tuo uno scambio di incombenze. Il puzzo della guerra secca il tubetto dei colori. Intridi le mani nel rosmarino: le case di tulipani bagnate dai mulini a vento, ti prepari un panino e una bottiglia di acqua naturale. Sali sul campanile, il sole è un abbraccio tutto tondo spargi le briciole lontano. Corrono i treni delle stagioni coi loro carichi di merci, clementini senza semi, carciofi, pomidoro rossi ramati. Chinate a raccogliere spinaci il falcetto affilato nella terra secca, riempiono le ceste colorate le contadine attempate avvolte nei pastrani pesanti, il fazzoletto legato dietro la nuca. E’ una bella giornata, l’aria è frizzante, le scarpe slucidate. La luce artificiale, le vetrate pesanti, un tappeto di coriandoli dimenticati, una ricetta sgualcita da mostrare. Procede lenta la litania stomatite, enterite, proctite. In bella vista luccicano 84 le polveri bianche, alfabeti del mondo antibiotici, antidepressivi, antidolorifici…. Si dilata il confine della notte: cefalea, paura... misurino, scontrino, fobia, marea,.... resto, codice... smettetela di bombardare! Indossi la tuta e scappi via, - incominciate col massaggio del piede, si lavora sulle sequenze! -: gomukhasana, halasana, nemastè... Finito il rilassamento, raccogliete gli strumenti della lezione: gommino, mattoni, cupolino. Ti ferma la polizia: - libretto, patente, un normale controllo -, le scarpe slacciate, le mani sudate, una doccia calda e un pigiama felpato. Qualche nuvola spazzata dal vento, ondeggiano i rami gemmati dell’alloro volano aquiloni improvvisati sportine e fogli accartocciati, in bella vista i cassonetti colorati bottiglie di plastica rovesciate spaventapasseri su frange di orti curati, fossati appena falciati, montagne di rifiuti mascherati. Il pesco multicolore un innesto azzardato, parli alle rondini appena tornate ai cani da guardia stupiti. Palloncini bianchi svolazzano sulla cancellata verniciata di fresco: Maria, ben arrivata. Sfalciate di biacca sulle colline un raggio di laser il sole del primo 85 mattino, il cappuccio sulle spalle accartocciate, il bancone pieno di fragole esagerate, in bella vista i vasetti di frutta sciroppata - piantiamo un albero per un neonato! – il deserto non è un vuoto, è un kilim colorato, una carovana in movimento lento e duro coi suoi giochi e il suo fuoco. Scendono freddi i petali di neve, un filo di spago attorno al ramo stringe l’appello disperato del gattino sperduto. Sono in svendita gli abiti da sposa, esce Maria vestita a lutto, il fazzoletto nero stretto al collo un mazzo di primavera in mano. 86 Quel tocco in più di Debora Teresa Stenta Sveglia alle ore 7.25: il solito pensiero sull’inutilità della vita e sul freddo che farà in bagno a quest’ora. Mi alzo, tolgo la maglia del pigiama, l’ascella non è perfettamente depilata ma tanto di uomini che possano accorgersene nella mia vita non ce n’è nemmeno l’ombra. Vado in bagno con la mia canottiera di lana ben infilata sotto il pantalone del pigiama di flanella infeltrito e costellato di pirulini grigi in seguito a tutti i lavaggi sbagliati che ho fatto. Pipì, bidet, piedi, mani, viso, ascelle. L’acqua calda ovviamente non viene a quest’ora. Tutto a freddo. Crema viso protettiva a schermo totale contro l’inquinamento e deodorante sono le mie uniche armi di bellezza. Inforco gli occhiali che sennò non vedo niente, ma poi, puntualmente, quando infilo la maglia mi dimentico di toglierli e mi rimangono incastrati tra i bulbi oculari e il collo della maglia facendomi smadonnare. Vado in cucina, mangio un po’ di biscotti intinti nel succo di frutti tropicali, vitamina C e fibre, prima nota esotica della mia giornata avvolta nel gelo e nella nebbia. Sciacquo la tazza che ho usato e preparo il packet-lunch con gli avanzi di 2 giorni prima aggiungendo la solita mela o banana che nell’impeto salutista-ottimista della seconda parte dei miei preparativi mattutini decido di mangiare a pranzo ma che poi rimetterò in ogni mio packet-lunch per i 4 giorni successivi fino a che non mi toccherà mangiarla contro voglia quando è tutta squacciata e ammaccata. Gli ultimi ritocchi (tipo lavarsi i denti), e magari mi metto anche un bel paio di orecchini indiani che mi sono regalata per l’ultimo San Valentino (seconda nota esotica della giornata). Sono pronta per l’operazione imbacuccamento nel parka così tanto femminile, i guanti acquistati sull’Helbronner, la fascia da sciatore che copre fronte e orecchie ma lascia respirare la cute (ci manca pure la forfora tra le mie disgrazie) e mi lancio nella mia solita pedalata quotidiana 87 verso l’ufficio. Ogni giorno feriale dell’anno, neve, vento, pioggia o afa, io pedalo verso l’ufficio attraversando le tre vie più intasate della città, respirando lo smog di quegli stronzi che hanno la fortuna di avere una macchina sotto il culo e rischiando ad ogni traversa di finire sotto un’auto che non controlla la pista ciclabile prima di svoltare. Una volta ho provato a mettermi la mascherina anti-smog ma mi si sono accostati dei tipi in una macchina che, già evidentemente in preda all’ilarità da alcune centinaia di metri, mi hanno chiesto se avevo una sigaretta, e poi sono sgommati via ridendo. Non c’è bisogno di dire che ogni mattina arrivo in ufficio con l’ascella già ceduta e così tento tutto il giorno di non fare movimenti che implichino l’alzata delle braccia, anche se spesso capita di dover prendere un faldone situato proprio in cima alla mensola più alta. E va be’, tanto non è certo con un collega che vorrei farmi una storia, semmai dovesse capitarmi di averne una. Sto in ufficio, svolgo la mia mansione di addetta alle vendite di valvole e raccordi per impianti industriali, e così passo le mie giornate lavorative, con lo sguardo che cade sempre lì, su quel piccolo pezzo di mondo incorniciato dalla mia finestra, su quel muro bianco della ditta qui accanto e sull’albero che gli cresce davanti, osservando come quel ritaglio di paesaggio cambi con il trascorrere delle ore nella giornata, e come sia bello soprattutto quando il sole cala e il muro da bianco diventa rosa. Svolgo il mio dovere e penso a tutto il tempo che passa, a tutti i viaggi del sole che si succedono, a tutte le stagioni che, una dopo l’altra, colorano il mio muro, a tutte quelle persone che conducono una vita in armonia con quei colori, e a volte penso alle cose che potrei fare se non stessi qui. A volte penso ai disegni che potrei tracciare, alle torte che potrei cucinare, ai sentieri che potrei percorrere, ai burattini che potrei costruire, alle gonne che potrei cucire, alle fiabe che potrei inventare, alle foto che potrei scattare. Mangio il mio pranzo lasciando la mela dentro la busta, ascolto le critiche dei colleghi ad altri colleghi, annuisco distrattamente. Nel pomeriggio le ore passano tra i controlli dello stoccaggio di valvole a membrana, a sfera, a farfalla, e il mio incantamento momentaneo nel guardare il muro che da rosa diventa rosso e poi viola. Nel mio mondo fuori dalla finestra le valvole a farfalla si 88 metterebbero a svolazzare leggiadre fino al bocciolo che sta per fiorire sul ramo sottile sottile che è nato da poco dall’albero, quelle a membrana nuoterebbero negli stagni delle villette asettiche e pastellate della zona industriale che spio ogni mattina dalla mia bici e quelle a sfera farebbero giocare tanti bambini insieme alle mamme e ai papà che hanno deciso di non lavorare più. L’ombra dell’albero si fa sempre più alta e nel cielo c’è una striatura bianca di un aereo. Poi fa buio, presto. E così mi ritrovo all’ennesima primavera e come ad ogni primavera il mio piccolo svago diventa sempre più grande, perché riesco a vedere il tramonto per un tempo più lungo e il buio piano piano arriva sempre più tardi, mentre le giornate si allungano gradualmente e regalano un ritorno a casa in bici più piacevole. I giorni continuano a scorrere a ritmo di pedalate e mele lasciate ad ammaccarsi nello zaino. Le ascelle continuano a non essere depilate, anche se tra un po’ dovrò iniziare, quando sarà tempo per le maniche molto corte. Oggi è venerdì, per fortuna, e dal lavoro a casa voglio percorrere una strada nuova. La primavera incipiente mi dà un brivido sconosciuto. Passo dal campetto. Le bici potrebbero entrare solo condotte a mano, così scendo e mi prendo il mio tempo per assaporare quest’aria frizzante di rinnovamento. L’aria è sospesa e leggera, i primi insetti iniziano a solcarne le vie e i primi uccelli iniziano a celebrare il ritorno delle giornate più calde. La gente che ha aspettato questo ritorno inizia a riversarsi sui prati del campetto; uomini che nel dopolavoro si incontrano per un calcetto, coppie di amiche che si preparano alla prova bikini correndo fiaccamente sulla stradina asfaltata, bambini che dondolano pericolosamente su pneumatici appesi per giocare, vecchiette col cane al guinzaglio che si incontrano probabilmente ogni sera dentro lo spazio-cagatoio per cani, adolescenti in motorino all’entrata del parco che si prendono in giro a vicenda mentre le ragazzine più sviluppate lanciano sguardi languidi ed eseguono la loro danza seduttiva, ma in genere inefficace di fronte ai più immaturi coetanei maschi che ancora pensano solo alla Playstation e alle marmitte (non che cambieranno poi molto crescendo). E io mi perdo in quest’atmosfera di rinascita e mi adagio sull’erba lasciando scappare ogni pensiero fuori dalla mente e dagli occhi. 89 Respiro le urla eccitate dei bimbi e l’abbaiare allegro dei cani che non hanno più bisogno del cappottino di tweed. Ascolto questa quiete e godo del profumo dell’erba tagliata da poco che macchia i vestiti. Mi arrendo al piacere semplice e appagante di essere qui, senza finestre o mura a delimitare i miei sensi, anzi, li spingo più che posso fino al massimo della loro possibilità percettiva. Tutto è avvolto in una luce chiara e bellissima. Voglio addormentarmi qui e risvegliarmi domattina ricoperta di rugiada fragrante e di fili d’erba. Domani penso proprio che farò una bella torta, magari allo zenzero, così, con un tocco esotico in più nella mia vita. 90 Scorci paesani di Caterina Tisselli Nel piccolo paese sapore acre di ipocrisia salsedine incolore, sotto un sole infuocato che volge al tramonto nelle fessure a strisce di persiane chiuse. Sopra asfalti neri la vita impavida con i suoi ritmi assapora e accoglie la dolce donna che versa lacrime argentate simili ai riflessi cangianti delle pieghe marine. Impietoso tramonto avvolto da stelle argentee manto di cielo ovattato da sogni notturni speranze vane e vuote illusioni celate nel cuore deserto di donne sole, crisalidi senza ali. 91 A capo chino di Patrizia Tomidei Pianto grane in mezzo ad un evento Pianto grane in mezzo ad un evento. Faccio la danza della pioggia, spero che un uragano spazzi via la polvere dei miei ardi insulti. Discuto con il mio ego, metto a tacere i dubbi con una museruola per giganti, grido contro il nulla in un litigio senza fine. Pazzo chi prende per mano la sua pazzia e le indica l’uscita. Impaziente scruto con avidità il futuro, per decidere il mese delle messe e raccogliere i frutti della siccità. L’attesa è più estenuante della noia. Mescolo le carte e baro, imbarazzante ed incerto il profitto ottenuto nella vana speranza di liberarmi della volontà di azione. Stacco le targhette luminose inviatemi dal fronte, l’attacco con un po’ di saliva alla morale della gente. Cerco di consegnare una medaglia per un gesto altrimenti insensato e chiudo il mio rispetto, intinto nella nomea del perbenismo, dietro ad un sì dal sapore acerbo. A capo chino, verso un terreno crepato dalla stupidità, accetto ogni insulto, 92 lascio scemare il coraggio lo trasformo in una scorza per giovani erranti. Raccolgo la mia vanga, abbandonata nell’angolo più lontano e riprendo a girare la terra, a concimare gli eventi. Il rumore dei miei colpi, sovrasta lo scoccare del tempo. Una goccia cade provocando un boato inaspettato, uno scroscio di impavido ottimismo sbarra la strada al caldo soffocante. La pioggia porta un equilibrio precario, affascinante, il coraggio stagnato sulla terra viene allontanato lontano da un rigagnolo. Qualcuno, al posto mio vedrà i frutti di un buon raccolto. 93 Reminiscenze Capoverso del presente specchio di una identità trafitta, messa in croce brutalmente, ciondolante fra sconfitta e vittoria, lontana come è lontano il cielo, inquieta come libertà incatenata a dogmi senza tempo, a religioni a cui si crede a stento. Monologo interiore senza parole, soltanto funesti gesti, sbiechi e irrisori. Rinascita incompleta di un’anima distante secoli da sé stessa, vicina a mille altre, indefinite auree con aspirazioni insipide e futuri di incontrastata ipocrisia. Idiomi sul dunque e il forse, crisi, crisi indissolubile come nubi cangianti tiepide e leggere, cariche di sola pioggia fredda. Ricordi riallacciano frontiere cancellate sulla carta, dimentichi della polvere caduta, del sudore, concime per una terra assetata di fatica. Giorni, lasciano giorni, indimenticabili ritagli di vita che creano circostanze di umana ricchezza. 94 Istanti Sono solo istanti passano in fretta auto veloci nella notte i fari sbiadiscono all’arrivo dell’alba solo il fumo aleggia in ricordo del falò che ha estinto ogni cosa dando vita alle ceneri dei rimpianti. Sono solo istanti fuggiaschi senza nome clandestini sbarcati per caso in un territorio precario. Ospiti indesiderati fermentano rancori già esistenti mentre il tempo avanza fautore di pregiudizi. Sono solo istanti finiscono grazie a Dio e ci riportano l’onore perduto lasciandoci aridi e nuovi liberi dalla sensazione snervante dell’insulto sollevati dall’odore dell’onta sfumato negli umori altrui. Sono solo istanti intensi e sfuggenti percorsi privi di meta eresie colpevoli di esistere tormenti senza natura. Logoranti occasioni trasformano un piccolo rumore in un tonante boato 95 per poi svanire in un momento assurdo lasciando solo un ricordo spiacevole a coronare una giornata assurda mentre il grigiore sbiadisce cedendo posto alla luce perché in fondo sono solo istanti. 96 Il distacco Mi distacco con cautela dal mio saldo bozzolo attaccato al ramo più alto nel bosco che non ha memoria. Lascio ogni vecchia scoria a colorare le dimore dei ricordi mentre faccio il conto delle cose da portare con me. Mi distacco con cautela la calma non è che un’illusione per convincermi che non c’è altro da dimenticare a parte ciò che ho già scordato. Lascio il tempo a consumare i ricordi sperando inutilmente che almeno esso trovi piacevole la parte di me che scivola nel dimenticatoio urlando e strepitando che non vuole essere buttata via. La mia indole imbrattata dalla tempera di un pittore maldestro rimane macchiata da un disegno indefinito che sa solo di astratto. Mi distacco con cautela la calma non è che un’illusione non mi volto indietro la mia decisione è irremovibile. Il bozzolo che mi ha ospitato lo lascio avvinghiato senza esultanza ad un ramo alto nel bosco che non ha memoria. Addio ad ogni azione che ho già rimosso addio a me stessa alla mia reminiscenza priva di padrone e di storia. 97 Viaggio verso sera di Elena Zaccheroni Dolore dell’anima Taglia come lama affilata il gelido silenzio di chi non vuole ascoltare di chi getta via le tue parole, i tuoi sogni e continua il suo cammino incurante di te Preme sul cuore il peso della delusione di un affetto regalato a chi non sa che farsene e invade i tuoi sogni un volto che è estraneo ai tuoi giorni ma che hai scolpito nella mente Lascia un sapore amaro quella lacrima che ti riga il viso contro il quale si accanisce il freddo di un’alba invernale. 98 Il viaggio Alla fine hai intrapreso il tuo viaggio verso sera, senza di me con lo sguardo sembravi cercare una luce forse non più di questa terra Penosa è stata la tua partenza tra noi parole sempre più rare gesti e sguardi a sostituirle nello sgomento dell’attesa Ora io, smarrita, attraverso queste stanze vuote dei tuoi passi e del suono della tua voce ma ti ritrovo nei volti e nei luoghi e nelle mie parole che rompono il silenzio Mi rifugio nel pianto per sciogliere il dolore di un’assenza che non si misura di una perdita che non si colma con l’unico conforto del bene immenso che mi hai voluto, mamma. 99 La resa D’un tratto, i passi muovono verso quella direzione dove l’Es può erompere con forza e l’anima allargarsi fino a contenere il tutto La mente si sforza di annullare quei giorni per non sentire troppo dolore ma il cuore, nemico, l’asserraglia torturandola, spietato Infine, l’evento temuto accade quella natura morta si dissolve perché il frutto è buono e profumato e invoglia all’abbandono. Notturno Spenta è l’eco del giorno restano solo i pensieri a far rumore il sonno sopraggiunge e ti rapisce e il libro cade, non più serrato da due mani stanche. A mia figlia che dorme Veglierò su di te ogni istante senza parlare mentre la notte scivolerà via rincorsa dal giorno e l’universo sarà ancora nascosto sotto le tue palpebre abbassate su due occhi affollati di sogni. 100 Il tempo e le stagioni di Antonia Zampolla Il tempo TEMPO che passa, TEMPO che trascorro, TEMPO che vivo. “TEMPO” è una parola come un’altra. Che valore ha questa parola? É un valore che cambia, si trasforma, muta, muore e rinasce prendendo un’altra dimensione. Come la vita, il tempo è qualche cosa di prezioso: “mai come adesso, a questa età mi accorgo che è già passato mezzo secolo della mia esistenza”. Genitori invecchiati, malati, bisognosi di amore, conforto, accompagnarli piano, piano al termine del loro vivere in questo pianeta. Figli adulti, che vanno e vengono, senza ancor trovar la loro via, entrano, escono,stravolgono continuamente abitudini e chiedono sempre appoggio, consiglio per le loro irrequietudini. Senza poi parlare del compagno che ti sei scelto per percorrer la lunga strada del vivere insieme, “fin che morte non ci separi”. “La casa” anch’essa è invecchiata; occorre metter mano a lavori grossi, cambiar mobili e riordinarla tutti i giorni come i nostri animi. Le forze interiori e soprattutto quelle fisiche sono diminuite, senza poi parlare degli “acciacchi”. “Mi vado a letto con un dolore, mi alzo con due”. Come fare??? Bisogna continuare a lavorare e far fronte a tante cose nuove e tutte insieme. C’era una volta “UN TEMPO” per ogni cosa, correvo continuamente, usavo tre mezzi di trasporto: ”auto, treno, autobus” per raggiungere il luogo di lavoro. Eppure non ero mai stanca!!! Oggi il TEMPO “passa” come è passata la giovane età. La dimensione del tempo è qualche cosa di meno affannoso, più 101 lento, come i movimenti del mio corpo. Comprendi che più veloce non puoi andare. C’è ancor tanto da conciliare, ma non ce la puoi fare. ECCO….. il tempo morto; DESIDERIO di tempo morto. É proprio il tempo in cui si assapora….. quasi la sazietà, il gusto di non aver più nulla da dire. “TEMPO” no di noia, ma di uno stato nascente di altro desiderio di vita ….. ed entrarci in silenzio nella consapevolezza che nulla può essere più spostato perché É AVVENUTO PER SEMPRE 102 Le stagioni Le stagioni hanno ognuna il loro fascino Osservarle, viverle, nella loro pienezza. Ognuna di loro offre… tante particolarità; colori, sapori, umori. La primavera con i suoi germogli, i primi boccioli, le prime giornate di sole, con i suoi colori non ancora ben definiti, con il suo clima mite: né caldo né freddo, con le sue prime pioggerelle mi fanno pensare alla fanciullezza, alla mia tenera età, trascorsa, ormai lontana. L’estate, con la sua pienezza, come l’età adulta, vive in sé la grandezza, l’invulnerabilità… il pensiero positivo. La vita sembra meravigliosa. Ascoltare la voce del sole è una gioia senza confini. In estate come nell’età adulta, contemplo la bellezza, l’armonia di ogni cosa che mi circonda. L’autunno, paragonabile al brivido di una lacrima, ad una nube grigia sul soffitto, alla penombra nello spazio, alla mezza età. L’inverno: il tramonto delle illusioni il fumo di un camino lontano il silenzio che regna nella valle la neve che scende dolcemente un esile fusto d’albero…. solo cielo grigio, come una perla estratta dal fondo del mare il mondo “incantato” riposa. L’affanno della vita si perde nel vuoto silenzio, buio, paura. Paura dell’ignoto un ricordo presente e lontano una presenza continua di amore e dolore “consapevolezza” di dover morire prima che sorga una nuova alba quante primavere ancora? Quante estati? Quanti autunni? Quanti inverni in questa vita terrena??? Quanti in altra vita??? Ignoto!! Assoluto!! Infinito!! 103 “SGUARDI SULLA CITTÀ” Incontri sulla porta di cucina Indice Presentazioni: Loretta Bertozzi Assessore alle Politiche di Welfare del Comune di Forlì…………… I Lalla Golfarelli Responsabile del Progetto Weird, ECIPAR Emilia-Romagna…... III Maria Maltoni Presidente Commissione Pari Opportunità del Comune di Forlì, Responsabile del Comitato Impresa Donna CNA Forlì-Cesena… IV Testi vincitori Premio sezione narrativa Amnesia di Vanessa Sorrentino……………………………………….………1 Premio sezione poesia Parole Ascolto di Katia Zattoni…………………………………………………..….7 Premio speciale “all’ironia” La vacanza di Marco Maltoni…………………………………………..………13 Premio speciale “alla pagina di diario” Dentro le mura: quello che le donne non dicono di Daniela Imolesi Casadei……………………...…………………18 Segnalazione speciale Segnalazione speciale di incoraggiamento per Un giorno qualsiasi a Eleonora Benetti…………………………………………………21 Testi segnalati per la pubblicazione Via si parte di Laura Beoni……………………………….…….…22 Fortuna o rispetto? di Sabrina Catani………………….….…..…24 Pensieri a gradini di Daniela Coralini……………………………29 Anni raffermi di Serena Focaccia………………………….……..39 Pensieri a quattro mani di Ermes Fuzzi e Astrid Valeck…………42 Buonanotte di Gianluca Gatta…………………………….………50 Poesie di casa di Giorgio Gavelli………………………….………52 Il sogno e… la realtà di Maria Luisa Memma…………….………56 La differenza/ La ziron della nouvelle cuisine di Mariangela Paganelli……………………..…………….………61 AAA. Dove vuoi [email protected] di Danila Rosetti…….……...65 La luna nera di Antonietta Valentini……………………….……..68 Cronaca da una cucina di Maria Filippa Zaiti…….…….…72 Rocchina di Antonia Rocchina Zampolla………………….………73 Presentazioni Il tema della ripartizione dei compiti di cura tra i diversi componenti della famiglia ha a che fare con la storica divisione del lavoro tra uomini e donne, in famiglia e sul lavoro. Il lavoro delle donne, quello di cura tra le mura domestiche, di accudire i bambini, organizzare la vita familiare e occuparsi dei familiari anziani o ammalati, è il più sommerso ed ancora poco visibile, pur essendo importantissimo. Fortunatamente non sono più un’eccezione gli uomini che desiderano stare vicino alle persone care nel momento del bisogno, i padri che vogliono partecipare alla crescita dei figli, i mariti che vogliono fare “la loro parte” in casa. Anche i papà possono stare a casa con i loro bambini in caso di malattia: lo prevede la legge dei “congedi parentali”, la n. 53 del 2000, che aiuta i papà a vivere di più con i loro bambini e le mamme a lavorare più serene. Purtroppo è ancora poco utilizzata e, a fronte di una forte assunzione di responsabilità professionali da parte delle donne lavoratrici, persiste, all’interno delle nostre case, un’organizzazione dei ruoli di tipo tradizionale. Obiettivo del Concorso è dare voce a donne e uomini, offrendo loro l’opportunità di esprimere, attraverso opere letterarie inedite, esperienze, emozioni, testimonianze di vita o storie inventate, sul tema dei giochi di equilibrio tra uomo e donna, che attraversano la loro vita all’interno delle mura domestiche. Il successo della 1° edizione ci ha confermato che l’impegno sostenuto dall’Amministrazione Comunale in collaborazione con ECIPAR E.R nell’ambito del progetto WEIRD, ha sensibilizzato sia donne che uomini sul delicato tema della conciliazione e ci ha dato la spinta a continuare. I Ancora una volta le cittadine e i cittadini hanno saputo cogliere, in questo momento di scrittura, sia le possibilità espressivo- comunicative sia gli spunti di riflessione. Con l’auspicio che diventi un appuntamento atteso ogni anno, ringrazio le donne e gli uomini che poco hanno da invidiare ai grandi autori in creatività e passione letteraria. Loretta Bertozzi Assessore alle Politiche di Welfare del Comune di Forlì II Presentazioni “WEIRD: Women and Enterprises Involved in Real Development”, vuole ricercare e sperimentare metodologie e pratiche efficaci per le pari opportunità, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle organizzazioni e nelle realtà locali. Donne e uomini sono una risorsa troppo preziosa per non lavorare su innovazioni culturali e di contesto che ne aumentino il benessere: benessere organizzativo nei luoghi di lavoro, benessere personale e sociale nelle città e nel mondo. E’ una necessità non solo etica e sociale: la difficile attenzione alle differenze, che qualsiasi realtà organizzativa ed istituzionale deve affrontare produce conflitti, barriere di comunicazione, difficoltà di condivisione e di lavoro in comune, che ne frenano lo sviluppo e la competitività. La partecipazione e il dar spazio alle idee è la chiave di volta di Weird, che vuole trovare spazi e pratiche efficaci per far star meglio donne, uomini e organizzazioni e conciliare lavoro e vita. Il progetto interroga donne e uomini, ma sono le donne al centro. Sono ancora le donne che reggono i fili che tengono insieme le vite, è per le donne che il lavoro di cura è passione e limite: limite assunto nella percezione di sé, limite oggettivo e limite culturale, reso greve da stereotipi duri a morire. Lalla Golfarelli Responsabile del Progetto Weird ECIPAR Emilia-Romagna III Presentazioni La cucina è da sempre il luogo dove la famiglia abitualmente si incontra - e si scontra - quando emergono conflitti. Nulla, quindi, è più adatto della cucina per ambientare storie di conciliazione/conflitto, quali sono quelle che hanno partecipato a questa seconda edizione del concorso “Sguardi sulla città” nel percorso del progetto Weird, finanziato dalla Regione Emilia Romagna e dall’Unione Europea, promosso dal Comitato Impresa Donna della CNA dell’Emilia Romagna, e realizzato in partnership da ECIPAR E.R., dal Comune di Forlì e da altri soggetti. Una delle più importanti e durature rivoluzioni del ‘900 ormai lo affermano tutti gli storici - ed io ne sono profondamente convinta, sono i processi di emancipazione femminile seguiti al lavoro extradomestico ed alla conquista dei diritti politici. Non dimentichiamo che nel 2005 ricorre il 60’ anniversario del diritto di voto alle donne , stabilito nel 1945 con un decreto del Governo Bonomi nell’Italia ancora divisa dalla guerra, con un provvedimento fortemente significativo dal punto di vista dei diritti democratici. Le donne poi, votarono per la prima volta, nel 1946. Ma è il lavoro fuori dalla famiglia quello che più mette in discussione la tradizionale suddivisione dei ruoli, perchè quanto più comporta impegno e durata di tempo (ruoli di responsabilità, imprenditoria, professioni) quanto più è difficile da conciliare con il lavoro di cura familiare. Ciò nonostante il fatto che le famiglie si siano “ristrette” come numero di componenti, altra rivoluzione epocale prodotta dalla possibilità di controllare la fertilità. Ancora oggi vediamo donne che rinunciano ad un lavoro “importante”, per consentire al proprio compagno di raggiungere traguardi nella vita professionale, mentre IV solitamente non succede il contrario. La stessa cosa accade quando gli impegni sono di carattere pubblico: quanti sono i mariti che fanno da baby-sitter, mentre le mogli partecipano a riunioni? Non molti, a giudicare anche dai dati sulla presenza delle donne a livello politico ed istituzionale in Italia. L’obiettivo di conciliare lavoro - ma anche partecipazione alla vita sociale - e vita familiare è di grande attualità ed è stato perciò posto giustamente al centro di molte attività realizzate dal Comune di Forlì. Ma oltre alla imprescindibile presenza di politiche e servizi, c’è un aspetto culturale legato agli stili di vita ed alla consapevolezza di sé, spesso ancora difficili da modificare. Per questo un concorso di scrittura che chiede alle cittadine ed anche ai cittadini, di riflettere sulle proprie esperienze e di socializzarle è importante, perché fa uscire all’esterno ciò che accade o si dice sulla porta della cucina, dandogli così una valenza politica, cioè di cosa che interessa tutta la polis, la città. Serve anche questo per progettare una qualità di vita migliore per le donne e per gli uomini. Maria Maltoni Presidente della Commissione Pari Opportunità del Comune di Forlì Responsabile del Comitato Impresa Donna CNA Forlì-Cesena V Amnesia di Vanessa Sorrentino Amava il suo intimo, il selvame suo intimo, quell’originaria foresta che era in lui, sulla cui muta rovina stava verde luminoso, il suo cuore. R. M. Rilke - Elegie duinesi Caterina aveva un male oscuro. Dormiva e sognava, faceva sogni maldestri e incombenti. Nei sogni si presentava la stessa situazione: lei che cercava di fare una cosa, ma uno strano ostacolo glielo impediva. Un sogno tra tutti ricorreva. Cercava dl rientrare in casa perché si era dimenticata qualcosa di importante. Infilava le chiavi nella toppa, ma scivolavano senza fare attrito nella serratura. Allora veniva presa dal panico e si svegliava. Puntualmente il telefono squillava, era Franco. Riconosceva lo squillo, a differenza da tutti lì altri suoni che rimanevano all’esterno, quando era lui a chiamare, lo squillo risuonava come attraverso una cuffia con una piacevole vibrazione. Caterina aveva la bocca impastata di sonno, ma cercava di non mostrarlo. Franco faceva il bibliotecario in un piccolo paese di provincia, non molto distante dalla città F., dove abitava con Caterina. Ogni mattina prendeva l’autobus per raggiungere la biblioteca e lì catalogava i libri fino a sera. Pile di libri che nessuno avrebbe mai letto. Ciò che lo legava a Caterina era un amore etereo, ma non passeggero. Franco era la quiete che Caterina non voleva disturbare, un giardino che doveva attraversare in punta di piedi. Caterina non riusciva a risalire a un fatto preciso che l’aveva ficcata in quel buco. Il suo corpo le inviava strani segnali che 1 non riusciva a decifrare. Lo sentiva così lontano, come se non le appartenesse. Quell’indecifrabile e continua emicrania la opprimeva, le provocava un senso dì vertigine. No non è niente, diceva il medico, ci vuole solo un po’ di riposo. Adattamento: nella biologia dell’evoluzione, un processo che rende un organismo più adatto a sopravvivere. Subito dopo il trasferimento, Franco aveva trovato posto in biblioteca e il suo lavoro gli piaceva. Avere un impegno quotidiano lo rassicurava, aveva l’impressione di sedimentarsi nel tempo. Si teneva aggiornato sulle nuove uscite e sapeva già in anticipo quali libri si sarebbe trovato sul tavolo. Caterina invece non sopportava la monotonia, non riusciva a rispettare gli impegni. C’era una strana forza che la teneva lontana da ogni abitudine, che le impediva ogni legame. L’unico legame che riusciva a desiderare era quello che aveva con Franco. Per qualche tempo aveva lavorato come cameriera in un ristorante. Il locale era un ritrovo di giovani nella periferia di F.. Entrava al tramonto e usciva a notte fonda. Una sera fu colta da un malessere improvviso. Sentì un lieve capogiro e nello spazio di pochi secondi cadde per terra. Il vassoio che teneva in mano scivolò sulle gambe di un tizia che per fortuna non si scompose. Si risvegliò sotto una luce fredda e lunare. Le fecero alcuni esami, ma risultò che tutto era in ordine, niente di fisico dunque. Una forte sensazione di claustrofobia non la abbandonava. In seguito provò a giocarsi fino in fondo con l’insegnamento. L’idea di stare con i ragazzi la entusiasmava. Era convinta che per insegnare sarebbe dovuta partire dagli interessi di ognuno di loro. Felicità: accordo tra le esigenze interiori di un individuo e l’ambiente. Si decise per una supplenza. Un giorno uno dei ragazzi manifestò il desiderio di andare a visitare lo zoo. Tutti, compresa Caterina, furono molto colpiti dalla visione di una 2 piccola scimmia che si muoveva lentamente dietro la gabbia come fosse sotto ipnosi. Teneva gli occhi fissi verso il basso e camminava in cerchio con le braccia a penzoloni. Provarono a gettargli delle noccioline, ma l’animale non si accorse di niente, era preso da una danza invisibile e assorta. Caterina amava i ragazzi Quello che non sopportava della scuola era la burocrazia. La compilazione dei registri, il voto, i programmi le riunioni. Si sentiva vivisezionata. Durante una di quelle numerose riunioni, si assentò. Una sua collega la accompagnò in bagno e lì vomitò tutto. Quando la riportarono a casa, presa da una crisi scaraventò a terra tutto quello che la circondava e poi si lasciò cadere esausta sul divano. Non avrebbe più rimesso piede in quel lager. Aveva bisogno di respirare. Franco l’assecondò. Rimase a letto per dieci giorni consecutivi. L’emicrania non le passava e il corpo le si era improvvisamente coperto di piccole macchie rosse. Il medico, dopo una visita accurata disse che non c’era niente, accennò a una forma di stress. Stress: risposta patologica agli stimoli negativi dell’ambiente. Caterina attraversò una specie di quarantena. Le sembrava che il mondo fosse governato da leggi divine e impersonali. Uno specchio impassibile che non riflette altro che, sè stesso. Quella notte ebbe un sogno, uno di quelli che affiorano ogni tanto dal fondo. Come provenissero da un sottomarino immerso nell’acqua. Sognò di tornare nella sua casa d’infanzia, nel paese B. che aveva tanto amato, ma che da un certo punto in poi aveva sentito come un insopportabile peso. Entrò dalla porta di ingresso che era più pesante del solito. Un portone di legno verde. Al posto delle stanze è cresciuta una vegetazione selvatica e inestricabile. Sulle prime si spaventò, dov’erano finiti i suoi ricordi? Non c’era più la cucina dai muri alti e bianchi, il tinello che emanava un odore acre di detersivo, la sua camera da letto stracolma di libri e di bambole. La sua casa era diventata una foresta intricatissima, il pavimento si era 3 coperto di rovi, dal soffitto pendevano stoloni d’edera. La vegetazione era talmente fitta da nascondere l’orizzonte. Caterina aveva la sensazione di essere sotto l’influsso di un incantesimo. Era spaventata e allo stesso tempo provava un eccitante stupore. Sentì il tepore del suo corpo e subito dopo solo l’impronta calda nel letto. Un rumore di piatti i cucina. Franco ogni mattina ripeteva il rito del caffè e poi di corsa al lavoro. Un moto d’orgoglio. Ci riprovò. L’autobus la scaricò di fronte alle porte del supermercato e lei entrò infreddolita. Indossò la divisa e si sedette alla cassa, li rumore delle casse era ritmico e infernale Sorrideva e incassava, incassava e sorrideva indulgente. Al terzo sorriso le pareva già di essere un manichino. Digitava numeri e puntava la luce del laser sul codice a barre di scarpe, scatolette, montagne di oggetti. Smistava carrelli e truppe di persone al ritmo incessante di bip elettronici e annunci promozionali. Provava a cercare una musica in tutto quel frastuono e forse la trovava, ma la perdeva anche subito. Il nastro che portava la merce verso di lei girava a ciclo continuo. Caterina si senti soffocare, di scatto si alzò dalla cassa. Provava una nausea fortissima. Raccontò alla sua collega che forse era incinta e se ne andò di corsa. Tornando a casa, si senti sollevata. La passeggiata sul viale la rinfrancò. Nausea: malessere che si manifesta attraverso un’avversione per il cibo, giramenti di testa, sudorazione e salivazione abbondante. Era sola nell’appartamento abbagliato dal sole le pareti imbiancate di fresco. Lo sguardo assente come rivolto a un interno plastificato. Una terribile sensazione la possedeva. Sentiva che il mondo si era staccato da lei e navigava in acque lontane e insondabili. Fa un passo, è di fronte allo specchio. Chi le sta davanti ha l’impressione di non esistere dentro ai suoi occhi. Caterina 4 mette su il caffè, è un rito. Aspetta che la moka fischi mentre i pensieri stentano a decollare, come fossero rallentati dall’effetto di un delay. Non esiste niente intorno a lei che non sia perfetto e connotato da un alone di assenza. Lo vede solo adesso, la sua casa è ossificata: un tavolo di formica al centro della stanza, in un angolo una fila dì mensole con qualche libro, un divano con un telo bianco posato sopra perché non si sporchi. Dal soffitto un neon diffonde una luce abbagliante e irreale. La sua casa, fredda e impersonale quanto la sala d’attesa di una stazione. Si guarda le mani, si accarezza le braccia fino alle spalle da cui sporgono le ossa appuntite come spine. Si tocca il ventre scavato le ossa del bacino spingono per uscire dalla pelle. Apre d frigorifero qualche uova e un litro di latte, l’essenziale. Pensa che il cibo per lei non ha nessuna importanza. Caterina vede d’un colpo la sua gabbia, si ricorda la scimmia incontrata allo zoo. Si sente distante, senza carne, come quelle sante che si nutrivano solo di ortiche. All’improvviso un fischio, la moka sul fuoco, la visione vacilla, si sente un forte tonfo per terra. Il mio cuore è vuoto. Non penso ormai che a fuggire. Questa mattina è così bianca. Mi sono alzata all’alba, ho caricato il mio bagaglio sulla macchina - un vestito leggero, un paio di scarpe e qualche libro. Ho chiuso il baule con un colpo secco e ho messo in moto. Mentre guidavo cercavo di non pensare. Guardavo le strade che si aprivano davanti ai miei occhi, la luce che cambiava. Ho guidato per tutto il giorno dimenticando di mangiare. La sera sono arrivata in un piccolo hotel sull’autostrada, aveva un’insegna azzurra molto consumata. Ho chiesto una camera e mi sono immediatamente addormentata. Stamattina ho preso un caffè nel bar dell’autostazione. Avevo i crampi allo stomaco. Insieme al caffè mi sono fatta portare un’enorme fetta di dolce al cioccolato. Il locale era male illuminato, al centro della grande sala c’era un esile neon che lasciava nella semioscurità i tavoli più appartati. Dietro la 5 vetrata le nuvole scorrevano veloci. Cercavo di pensare ai luoghi che avrei visitato, ma mi veniva in mente solo la mia casa, quella dove stavo da piccola. I soffitti alti le pareti bianchissime e le finestre che davano sul mare. L’orizzonte lì era così largo. Con la mente planai e fui di nuovo a terra, tornai a guardare la gente che si affaccendava in quel caffè. In un angolo vidi una donna seduta, di fronte a lei c’era un uomo che le parlava senza guardarla. La donna aveva un’espressione impassibile, nulla sembrava toccarla. Teneva le mani composte sulle ginocchia, portava un cappello che le copriva gli occhi. Mi accorsi che alcune persone mi stavano osservando, allora presi il portafogli dalla borsetta e pagai in fretta la colazione. Salii in macchina, aprii la cartina stradale e mi persi nella visione di strade, montagne e fiumi. Mi diressi verso il mare, prendendo una strada a caso. Non seguivo la mappa, mi lasciavo attrarre dai nomi dei paesi: Torre Molino, Ortigia, Fontane Bianche, Fontane Bianche…. Avanzavo lentamente da una strada all’altra, il paesaggio cambiava di continuo. Mi allontanava dalle vie caotiche del centro e l’orizzonte si distendeva come un foglio bianco. Dai vetri scorgevo lunghe file di alberi. Case solitarie circondate da campi interminabili e distese di cielo che si aprivano all’improvviso. Decisi di lasciare la macchina e proseguire a piedi. Avevo indossato il mio vestito leggero e le scarpe basse. Mi era presa una terribile voglia di farmi portare dal corpo senza dovermi preoccupare di niente. Erano le gambe a condurmi. Camminavo ai bordi della strada vicino al fosso, mentre il vento muoveva le teste dei papaveri. Passai la notte all’aria aperta, vicino al molo. Osservavo le navi che salpavano. Il porto era affollato la gente si imbarcava per chissà dove. Mi sono svegliata prima dell’alba, la luce del sole mi scaldava le guance. Ho lasciato che l’aria fresca mi inondasse il viso. Sono rimasta a lungo immobile a guardare il mare, mi ricordava la mia casa. 6 Parole ascolto di Katia Zattoni Parole ascolto Quante parole sulle pareti rimbalzano famiglia casa lavoro ed io in mezzo mi siedo a gambe incrociate aspetto ascolto. Ascolto le parole che più forte rimbalzano e quelle che strapiombano al centro dove mi trovo dove mi trovano seduta col viso tra le mani in ascolto in attesa. Ascolto le parole che più forte rimbalzano orari responsabilità doveri e quelle che mi feriscono che imprimono dottrine. 7 Non riesco a fluidificare i flussi non posso lenire i graffi profondi schizzi di suoni lacerazioni di sillabe al centro dove mi trovano dove mi trovo seduta con gli occhi chiusi. Anche questa mattina quante parole sulle pareti rimbalzano uomo donna ruoli al centro della cucina. Poi apro gli occhi muovo una mano e le blocco le fermo con un dito le dissolvo. Poi mi alzo in piedi muovo un passo ed esco dalla cucina col silenzio mi riparo. 8 La Porta della cucina Ogni volta che mi dici esco e subito dopo esci ogni volta ho paura che non torni. Ogni volta che mi saluti affacciato alla porta della cucina e subito dopo ti giri e te ne vai ogni volta ho paura che sia l’ultima. Eppure nulla è cambiato nulla fin dal primo giorno tutto ci gira attorno con movimento di stelle perfette. La mattina il risveglio, la colazione nelle tazze l’atmosfera del caffè tostato tutto ci unisce nello stesso pavimento ci gira attorno tra le stesse mura. La sera il ritorno, la cena nel forno il calore del pane scaldato di nuovo sullo stesso pavimento di nuovo tra le stesse mura e tutto ci unisce ci gira attorno con movimento di stelle perfette fin dal primo giorno. Eppure, eppure Ogni volta che mi dici esco affacciato sulla porta della cucina 9 e subito dopo esci stringo il suono di quelle lettere nel palmo della mano e chiudo la porta della cucina perché non scappino perché ancora una volta non sia l’ultima volta. 10 E’ un equilibrio strano E’ un equilibrio strano quello in cui tu ed io viviamo quello in cui nuotiamo aspettando un’altra onda che ci renda naufraghi nel nostro dormiveglia quotidiano. E la sveglia del mattino mi sveglia solo un po’ poi arrivi tu col mio caffè e le notizie del giornale mi richiamano alla realtà: i bambini a scuola adesso poi io al lavoro e tu lontano. È un equilibrio strano quello che insieme ci inventiamo. Al gioco dei ruoli ci gioco solo un po’ poi cominci tu col tuo faidaté e la tua fida esuberanza mi ferisce l’egoismo: insieme camminiamo poi io ti adoro e tu lontano. 11 È un equilibrio strano quello che noi due creiamo, quello in cui nuotiamo fino alla prossima onda che trovi naufraghi nel nostro dormiveglia quotidiano. 12 La vacanza di Marco Maltoni Antonio e Teresa erano sposati da sei anni e si conoscevano da quando ne avevano quindici. Il loro amore , come tanti, aveva conosciuto un momento di crisi proprio dopo essere scesi dall’altare per entrare fra le gioie ed i dolori della convivenza. Ma l’arrivo di Cesare nonostante avesse aumentato in maniera esponenziale i problemi economici e organizzativi all’interno della coppia, aveva dato un’entusiasmante slancio morale ed affettivo. Antonio da alcuni anni lavorava, grazie ad alcune conoscenze, presso una ditta di smaltimento rifiuti tossici. Il suo incarico era quello di recarsi, col mezzo dell’impresa, presso il luogo in cui erano stoccati i rifiuti, ingoiarli, portarli a destinazione e vomitarli. Questa operazione non si sa bene per quale motivo veniva sempre svolta di notte. Il titolare della ditta lo aveva più volte rassicurato sul fatto che tutto venisse effettuato secondo le norme di igiene e sicurezza ma Antonio che era persona pignola, per sentirsi più sicuro, durante il lavoro indossava sempre una mascherina di stoffa e un paio di guanti che si era procurato a proprie spese. Quindi Antonio era costretto a lavorare di notte e non rientrava mai a casa prima delle sette del mattino. A quell’ora Teresa era già uscita di casa da circa un’ora. Infatti da quando era nato Cesare, nel momento in cui più di ogni altro avrebbe desiderato rimanere a casa con suo figlio, era costretta a lavorare per contribuire all’esiguo bilancio familiare. Dalle 6 alle 14 faceva le pulizie presso un sexy bar a Barzotto Inferiore, l’anonimo paesino di periferia dove lei e Antonio si erano trasferiti alla ricerca di canoni d’affitto più abbordabili. Teresa aveva preso il posto di una ragazza rumena che fortunatamente aveva fatto carriera ed ora 13 invece di girare attorno al manico dello scopone, ruotava attorno al palo della lap dance. La somma degli stipendi dei giovani sposi tuttavia permetteva loro di far fronte a malapena alle spese ed ai bisogni fondamentali. Per questo Antonio aveva deciso di sacrificarsi in un secondo lavoro che garantisse un piccolo extra per non negare a Teresa la parrucchiera e per portarla, finalmente, in vacanza. Il secondo lavoro di Antonio consisteva nel vendere porta a porta la famosa, a suo dire, enciclopedia illustrata degli animali estinti. La parte difficile stava nel convincere il potenziale cliente che i dodici volumi risultassero completamente in bianco in quanto gli animali, essendosi estinti, non potevano esser stati fotografati e studiati. Le vendite ovviamente incontravano delle difficoltà, così, come terzo lavoro, Antonio era entrato, in nero, nella ditta del fratello del suo titolare, in qualità di finto puntatore durante il gioco delle tre scatoline. Il suo ruolo era quello di puntare 50 euro per attirare l’attenzione dei passanti ed invogliarli a giocare. Il problema stava nel fatto che a fine serata, quando doveva andare a riscuotere la paga pattuita, si sentiva spesso rispondere: - dovresti avere 50 euro, ma siccome ne hai puntati e persi 100 dovresti darmene 50 tu.... Sei fortunato che mio fratello ti ha raccomandato per cui siamo a posto così. - Di fronte ad una simile situazione, Antonio aveva presentato le sue dimissioni ma dopo essersi trovato in un cantiere edile col cemento fino al ginocchio si era dichiarato entusiasta di continuare ad offrire la propria collaborazione. Di questa “allegra” famiglia facevano parte anche nonno Berto (il padre di Antonio), il cane Emilio, il gatto Fufi ed il pitone Manson. Nonno Berto aveva sempre dato un bel contributo alla famiglia avendo cura di Cesare ed accompagnandolo ogni mattina a scuola. Ma da quando, dopo aver assistito in televisione ad un 14 balletto di una avvenente soubrette, era stato colpito da ischemia cerebrale perdendo l’uso della parola, il suo contributo continuava a darlo solamente con la pensione di 300 euro mensili. Perso l’ausilio del nonno, ogni mattina alle 5.50 Cesare veniva portato dalla mamma a casa dei nonni materni presso i quali rimaneva parcheggiato fino alle ore 7.30 quando Antonio, uscito dal lavoro, lo passava a prendere per portarlo a scuola. Espletato questo compito lo stesso andava a vendere enciclopedie porta a porta fino alle 12 per poi tornare a casa, preparare il pranzo e correre a scuola a recuperare il figlio. Al pomeriggio faceva un riposino post-prandiale mentre Teresa riordinava la casa, accudiva Cesare e preparava la cena. Dopo cena al sabato a e alla domenica, Antonio usciva per fare il suo lavoro di puntatore. Vita dura! Decisamente. Fatta di tanto lavoro e poco tempo libero. Una vita in cui i due coniugi cercavano di aiutarsi a vicenda e di dividersi i compiti organizzando ogni minimo particolare al fine di riuscire ad espletare le varie incombenze. Ma finalmente si riuscì a mettere da parte un piccolo gruzzoletto per regalarsi la tanto agognata vacanza. Teresa grazie ad un amica aveva saputo di un’offerta last minute per due persone in un bellissimo villaggio turistico in Sardegna. Senza pensarci troppo i giovani sposi acquistarono il pacchetto turistico. In questo posto da favola ovviamente non era consentito portare oggetti che potessero risultare fastidiosi per gli altri villeggianti tipo vecchi, bambini, animali o persone con difetti fisici. Si presentavano quindi una serie di problemi da risolvere molto in fretta: figlio, nonno, cane, gatto e pitone. Fu Teresa, con l’ausilio delle opinioniste del salone couffeur Marinella, a trovare una semplice soluzione per tutto. Il figlio sarebbe stato sufficiente portarlo al centro estivo di Padre Don Pedro Filini, il nonno Berto alla casa di riposo “Ultima stazione”, il fedele cane Emilio abbandonarlo 15 sull’autostrada Bologna - Firenze ed il gatto Fufi darlo in pasto al pitone Manson che in quel modo si sarebbe saziato per circa un mese. Ovviamente tutto questo non poteva essere fatto a cuor leggero. In fondo i poveri animaletti domestici si erano scavati un certo spazio nei cuori della famiglia. Quindi la decisione di sbarazzarsene richiese una discussione di almeno 15 minuti. Ma la voglia e il bisogno di vacanza erano troppo forti ed inalienabili. La cosa più difficile era stata convincere Cesare e per questo si era reso necessario promettergli l’acquisto del cd Tomb Rider 12.1 per la Play Station. Siccome Teresa doveva lavorare fino all’ultimo istante prima della partenza, era Maurizio che aveva l’incarico di mettere in atto il piano “risoluzione finale”. Quando Teresa arrivò a casa il marito le confermò che ogni cosa era sistemata e, con entusiasmo, partirono per la Sardegna. Arrivati però a Cala Gallina, mentre Maurizio sguazzava già con i suoi braccioli nella piscina dell’Hotel e Teresa era nella beauty farm col massaggiatore svedese, giunse una telefonata che mise i due in leggera apprensione. Era Erminia la P.R. del Salone Marinella che riferiva di alcune notizie battute dall’agenzia di stampa ANSIA. Sembrava appurato che un vecchietto morfologicamente molto simile a nonno Berto fosse stato investito da un’auto mentre attraversava l’autostrada Bologna-Firenze tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello. Contemporaneamente un mastino molto simile a Emilio era stato sbranato in un combattimento con un Pit Bull presso l’ospizio “Ultima stazione” dopo che quattro vecchietti avevano organizzato la sfida fra i due cani per poter scommettere clandestinamente sul vincitore e rompere la monotonia della casa di riposo. Parve subito evidente che Maurizio aveva fatto un po’ di confusione ed aveva invertito le destinazioni del nonno e del cane. Ma questo non era un grosso problema dato che 16 fortunatamente il risultato più importante, liberarsi dei due, si era comunque ottenuto; anzi in questo modo non sarebbe stato più necessario pagare la retta dell’ospizio. Qualche preoccupazione nacque quando telefonò Don Pedro Filini dicendo che al centro estivo non era stato lasciato il bambino Cesare ma il gatto Fufi. E considerando quale fosse stato il destino riservato al povero felino, un’eventuale ennesima inversione dei ruoli non si presentava affatto di buon auspicio. Teresa telefonò immediatamente alla vicina pregandola di precipitarsi a casa e di controllare che Cesare non fosse accidentalmente entrato nella teca del pitone Manson. Passano 45 minuti di angosciante attesa fino a quando squillò il telefono: - Pronto! - disse con voce rotta dall’emozione Teresa - Signora sono la vicina. Stia tranquilla è tutto a posto. Cesare sta benissimo, anzi ha organizzato una festicciola ed invitato a cena alcuni amichetti ai quali ha pure cucinato una grossa anguilla. Manson non è più nella sua teca, ma non si preoccupi, ora lo cerco….- 17 Dentro le mura: quello che le donne non dicono di Daniela Imolesi Casadei Sono le 20.30 di un normale martedì. Sto disperatamente cercando di togliere il filtro della lavatrice per pulirlo: perché non riesco mai a ricordarmene PRIMA che il programma si blocchi? Perché mi ritrovo a raccomandarmi a tutti gli angeli del Paradiso affinché mi diano una mano nell’impresa, pensando con orrore al salasso di un intervento dell’assistenza? (o, peggio! alla faccia dell’idraulico, che l’ultima volta mi ha guardato con compatimento soppesando qualche etto di calcare fibre tessili peli capelli ecc. che avevano ostruito il sacro filtro?). Boh! Dalla sala da pranzo mi giungono suoni familiari: Giulio e Anna, i miei figli di 12 e 9 anni, si stanno raccontando le rispettive giornate ed io, come sempre, mi stupisco di quanto siano bravi e “compatibili” fra loro. Sono lontani anni luce dai racconti che sento da altre colleghe madri a proposito di liti interminabili fra fratelli che volentieri si menano pur di conquistare il posto davanti alla Play. Ringrazio per questo la mia buona sorte: non potrei desiderarli diversi da come sono, i due pupini e, come sempre, mi pento immediatamente per gli urlacci che ho fatto loro prima di cena. Cosa sono, in fondo, le mani ancora sporche dopo i ripetuti inviti a lavarsele o i 10 metri-cubi di cose (leggi libri, giochi, ciabatte e altro) che mia figlia è stata in grado di “seminare” in 45 secondi netti? Ah, ecco il tintinnare consueto e metodico delle stoviglie sporche che il mio metodico e consueto marito sta impilando 18 ordinatamente nel carrello: prima i piatti piani, poi i fondi, poi le posate. I bicchieri, certo, ci mancherebbe e.... - Acc! E questa padella dove la metto? - Mi sembra di sentirla la domanda che si agita nella sua luminosa mente. Già, la padella, perché non sia mai detto che mio marito faccia due giri (intendo sala-cucina- sala-cucina) per liberare il tavolo dai resti della cena: è una questione di principio. Mette a frutto, anche in questo caso, la sua intelligenza e, consapevole, ottimizza al massimo i tempi. Sono sicura che abbia, anche a questo proposito, una teoria basata sull’evoluzione della specie che dimostra come noi due siamo diversi e complementari. In effetti, per quanti sforzi abbia fatto, non sono mai riuscita a sgomberare il tavolo in un’unica volta. Mi consola il fatto che il movimento fa un gran bene alle gambe. Sono le 21 e approdo in cucina: quanti anni sono che noi due viviamo insieme? Faccio due conti: avevo 30 anni (non di primo pelo, vabbè), ne ho 46, quindi sono 16 anni. Sedici anni di vita insieme. E, in tutto questo tempo, quante volte, oltre ad impilarli in modo ordinato, mio marito è anche riuscito a mettere i piatti in lavastoviglie? Non so, non vorrei esagerare ma credo che le dita della mia mano sinistra (che è completa) siano sufficienti per contarle. Mi sembra già di sentirlo: - Ma, scusa, è la divisione dei ruoli; e poi lo sai, puoi lasciarli lì, che magari domattina... Non viene la Rita? ecco, può farlo lei! - Certo, caro, e io qui (e mi tocco ripetutamente la fronte) ci ho scritto “Gio-Condor”! La Rita ci costa in un’ora quasi quanto guadagno io. Francamente trovo sia uno spreco farle fare i piatti: preferisco che pulisca un vetro! - 19 Poi, fra l’altro, domani è mercoledì e la Rita viene solo il lunedì e il giovedì.... Vabbè, che importa alla fine? Ora che sto qui a dire, ho già pulito la cucina e poi... c’è la radio a farmi compagnia. Speriamo riesca a distrarmi da questo stupido pensiero fisso: perché mio marito mi ha detto stamattina: - Non aspettarmi a pranzo, che vado con Lele al corso di aggiornamento e faremo tardi - ? Peccato: Lele l’ho incontrato alla Coop e il corso di aggiornamento, beh!... Quella è un’altra storia. 20 Un giorno qualsiasi di Eleonora Benetti Il giorno inizia con le urla della mamma. Alle sette in punto la mamma si alza e incomincia a urlare perchè noi dobbiamo andare a scuola. Apre subito la finestra e mi ritrovo davanti agli occhi una luce fortissima. Aspetto un po’ per alzarmi e guardo la sveglia; sono le sette e quaranta e invece la mamma dice che sono le otto: forse non sa leggere l’orologio….. Arrivo in cucina per fare la colazione: sulla porta della cucina si incontra tutta la famiglia. L’unica cosa che sa dire la mamma è” forza-dai”. Continua a ripetere “dai! dai!...dai!....!” Mentre bevo il latte lei mi pettina: le acconciature che mi fa le ha studiate il giorno prima. Vado a scuola e poi torno a casa e la mamma mi dice di cominciare subito il compito. Io ne faccio un po’ e poi mi stendo sul divano in attesa del pranzo. Dopo aver pranzato il babbo telefona per sapere se va tutto bene. La mamma al pomeriggio fa “Battista l’autista” perchè deve accompagnare me e mio fratello da tutte le parti: danza, pianoforte, clarinetto, inglese, solfeggio….abbiamo mille interessi e lei ci segue e ci aspetta pazientemente. La sera ci divertiamo a fare i concertini io e mio fratello Riccardo: io suono il pianoforte e lui il clarinetto e gli spettatori sono il babbo e la mamma. Infatti, quando ritorna il babbo dal lavoro, non fa neanche in tempo ad entrare in cucina perchè noi due lo tiriamo per venire a sentire gli ultimi brani studiati. Alla fine del concertino andiamo a letto. Sulla porta della cucina si reincontra la famiglia per darsi la buonanotte. Il mattino seguente sulla stessa porta si ricomincia da capo. 21 Via si parte Di Laura Beoni Suona imperterrita la “sveglia birichina” “Buongiorno!!!” anche se fuori è ancora buio… sono le 7.00 della mattina. Il profumo che fuoriesce dalla moka risveglia i sensi assonnati... Mentre il TG ci aggiorna sui tristi “fati”. “Buongiorno Tesoro... Buongiorno Bambine... Qui, sono già calde le briochine... Latte yogurt cereali Per dare l’energia alla giornata sono ideali... Ciao maritino, guida pianino, ti ho preparato un sano panino. Non ti scordare la lista della spesa e di passare in lavanderia! Queste commissioni sono sulla tua Via. Su, Bambine la campanella della scuola non aspetta... Mettetevi la sciarpa in tutta fretta”. Via si parte nel traffico di città... Prima o poi si arriverà. Detto fatto il ciel è sereno anche al lavoro arrivi in un baleno. Una pausa per un caffè... Poi uno snak veloce che poco tempo c’è. Ma la corsa non si arresta, vai a prendere le bimbe per portarle, poi, in palestra. Finalmente è giunta sera... 22 Tutti a casa per la cena. Ad ognuno il suo daffare. “Presto Bimbe c’è da apparecchiare”. “E tu caro Maritino accendi il fornino,che la fame si fa sentire e le verdure sono ancora da pulire!” Finalmente seduti a tavola ci ritroviamo e con un fiume di parole ci inondiamo... I racconti della nostra rispettiva giornata sono il momento più piacevole della serata. E poi……. mentre lui si appresta a sparecchiare e la lavastoviglie ad avviare, tu, le bimbe metti a letto con un bacio e una carezza “buonanotte mie stelline fate sogni da regine”. Arriva anche il nostro momento... Sfiniti senza più fiato ci scambiamo un tenero bacio sul divano accoccolati ci addormentiamo come due pesci innamorati. E’ così che oggi funziona... Siamo una famiglia, non una singola persona. Quindi aiutarsi vicendevolmente è molto importante, e collaborando l’amore si mantiene costante. Non ci si annoia mai un momento, e si può superare ogni turbamento. L’equilibrio fondamentale per una serena vita familiare è ripartirsi ogni faccenda che si presenta da fare. Poi ovviamente se è la Mamma a coordinare… Non ci si può sbagliare! !! !!! 23 Fortuna o rispetto? di Sabrina Catani Devo ammettere di essere una donna fortunata, mio marito non è mai stato il tipico maschio romagnolo (forse anche perché è di origini venete) che vuole la donna brava in cucina e dedita a casa e famiglia prima di ogni altra cosa. Fin dai primi giorni del nostro matrimonio, mi ha aiutato in quasi tutte le faccende di casa, stirare e lavatrice no però, e non sono tuttora riuscita a convincerlo a provare, purtroppo. Nonostante quattordici anni di convivenza, non sta mostrando segni di cedimento e continua a passare l’aspirapolvere, rifare i letti, lavare i piatti a mano o in lavastoviglie, pulire il bagno, stendere i panni. Il suo punto forte però è la cucina, oltre a fare la spesa e decidere abitualmente il menù familiare, prepara lui le pietanze più appetitose. In campo culinario io sono relegata alla cottura di: uova (in ben tre varietà, sode, fritte o in camicia), pasta (al massimo al pomodoro), bistecchine veloci in padella o alla piastra, verdure lessate; quando sono in vena, preparo anche una discreta polenta. Riesco anche a cimentarmi nell’inserimento del pancarrè nel tostapane e nella farcitura di piadine (comperate nella “santa” baracchina, non preparate da me) con affettati e formaggi. A dire il vero, sarei anche in grado di preparare verdure fritte e cotolette, ma lo faccio in rarissime occasioni perché il fritto fa male alla salute. Quando invitiamo amici a cena, non si aspettano mai che sia io a preparare il cibo, tanto é normale per loro vedere cucinare mio marito. Ho addirittura il sospetto che temano un mio impegno nell’arte culinaria e, le poche volte in cui ho preparato pietanze per loro, si sono stupiti nel trovare alimenti commestibili. In realtà io nascondo doti inimmaginabili, mia mamma sognava di fare di me una discreta 24 casalinga e così mi ha insegnato a preparare la pasta fatta in casa. Sulla carta, sarei in grado di fare la sfoglia, tirandola più o meno a regola d’arte, per ricavarne succose tagliatelle, deliziosi tortelli, invitanti cappelletti (rigorosamente alla romagnola con ricotta e noce moscata). Purtroppo la dieta impone di non eccedere con cibi ad elevata portata calorica e, visto che già si esagera andando a mangiare fuori o dai rispettivi genitori, evito di cimentarmi in tali pietanze. Con un marito casalingo bravo quanto e più di me vi chiederete cosa mi resta da fare. Beh, che io non sia una gran cuoca credo lo abbiate capito, cucino per sopravvivere non per la gioia di farlo, ma ho anche i miei lati casalinghi, stiro, spolvero, riordino casa, pulisco il bagno, mi occupo delle migliaia di lavatrici annue e mi interscambio con mio marito negli altri vari compiti domestici. Le mie vere specialità sono le pulizie di primavera (che quasi mai riesco a finire nella “stagione dei fiori” e spesso, fra un impegno e l’altro, trascino fino all’estate) e il cambio degli armadi, qui il mio dominio è incontrastato. Mio marito non nutre alcun interesse in materia, tanto che non sa né dove sono collocati i propri abiti né quanti siano. Per evitare che indossi sempre le stesse cose, ogni tanto ruoto le varie camicie, maglioni, pantaloni che possiede ponendo in evidenza sempre cose diverse. A me è tuttora affidata anche la gestione economica della famiglia, nonostante qualche investimento “a rischio” che ha eroso le nostre risicate finanze di lavoratori dipendenti. Insomma, i nostri impegni casalinghi sono più che condivisi e credo non sia possibile fare diversamente quando si lavora in due e si ha anche una casa da mandare avanti. La collaborazione fra di noi è agevolata dal fatto che mio marito è un turnista e quindi si trova ad avere diverse mattine e pomeriggi liberi (poi magari lavora il sabato e la domenica). Ciò gli permette di godere della casa vuota per molto tempo 25 durante la giornata, quale migliore occasione dunque per pulire, fare la spesa e cucinare? Io, invece, lavoro dal lunedì al venerdì con un orario fisso e frequentemente devo prolungare la mia presenza in ufficio. Di solito esco da casa la mattina presto e spesso rientro a sera inoltrata. Con tali ritmi, il tempo a disposizione per le faccende è veramente risicato. Vi pare giusto poi che una donna dedichi tutto il suo tempo extralavorativo alle faccende di casa? Io sono convinta che una persona, uomo o donna che sia, debba anche godere di qualche momento da dedicare a se stessa. La suddivisione di ruoli mi ha permesso e mi permette, di ritagliarmi spazi per fare un po’ di sport, per uscire, per curare interessi che vanno oltre le quattro mura domestiche. Oltre a questo mi ha consentito di conquistare traguardi che avrei fallito se tutto il carico familiare fosse stato sulle mie spalle. Non parlo solo del fatto di essermi laureata dopo il matrimonio e mentre già lavoravo, ma anche della possibilità di potere dedicare tempo alla mia crescita professionale. Ovviamente, mio marito ha pari diritti e pratica sport, esce con gli amici, segue i suoi interessi. La nostra vita di coppia non è fatta solo di funzioni casalinghe o di hobby ma, come tutti, abbiamo altri familiari cui dedicare le nostre attenzioni, in primo luogo genitori e figli. Mio marito, anche in tema di assistenza ai congiunti, non ha mai mancato di prodigarsi, è sempre stato presente sia in caso di bisogno dei miei genitori, entrambi oramai anziani, sia dei suoi. La nascita di un figlio non ha cambiato lo spirito del nostro rapporto di coppia. Entrambi abbiamo imparato a cambiare i pannolini, a pulire il bambino, a preparargli la pappa, a curarlo in caso di malattia. Credetemi, è importantissimo per una neomamma avere un compagno in grado di accudire il bebè, specie se la gravidanza è stata molto debilitante per lei. Nostro figlio è nato a fine 1999 e mio marito ha subito usufruito della Legge 53 dell’8 marzo 2000, prendendo oltre tre 26 mesi di permessi per stare con lui. Io sono rientrata a lavorare con tranquillità, perché sapevo di lasciare il bimbo con una persona capace di fare il genitore e in grado di gestire eventuali difficoltà. La cosa più assurda è che, di fronte ad un interscambio di ruoli come il nostro, la gente reagisce con stupore, spesso criticando, piuttosto che apprezzando, il nostro modo di condividere le vicissitudini familiari. Alcuni degli stessi nostri amici, o presunti tali, non mancano di lanciare frecciatine nei confronti del “mammo” o di rimarcare che “il bambino deve stare con la madre”. C’è anche chi riscontra come il bimbo possa crescere “disorientato”, non avendo l’esempio di un ruolo materno e paterno ben distinto. Assurdamente, le più critiche sono le donne, forse perché non riescono a distaccarsi dal loro ruolo di mamme-tutto, madrimogli onnipotenti e onnipossenti, forse perché sono invidiose di una situazione familiare in cui nessuno prevarica l’altro o forse semplicemente perché nella loro vita non sono capaci di fare altro. Dalla mia esperienza, posso affermare che nostro figlio sta crescendo bene. E’ socievole, tranquillo, non “va in sclerosi” se la mamma non c’è (e succede spesso a causa del mio lavoro) e, pur essendo piccino, cerca di aiutarmi nelle piccole faccende domestiche (spero continui anche in futuro). Condividere il ruolo di genitori ci ha poi consentito di affrontare problemi di salute, anche gravi, che hanno colpito più di un membro della nostra famiglia. Se avessi dovuto sopportare da sola un carico di responsabilità e di assistenza ai malati come quello che abbiamo avuto, ne avrei senza dubbio risentito pesantemente, sia sul piano fisico, sia su quello emotivo. Essere in due non risolve i problemi, ma sapere di avere qualcuno con cui condividerli aiuta molto. Vorrei concludere affermando che non sarei in grado di pensare ad un rapporto di coppia diverso da questo. La natura stessa 27 della nostra vita lo richiede, lavorando in due, e perciò venendo meno il ruolo della donna-casalinga, occorre condividere tutto, nel bene e nel male. Se poi a volte succede che mio marito fa indossare a rovescio la maglietta o le mutande o i pantaloni al bambino o se, quando pulisce il bagno, non lo fa luccicare come nella pubblicità, che problema c’è? Come non credo debba essere una tragedia se io non eccello in cucina, non penso una donna debba essere giudicata solo da questo. Ovviamente anche per noi non è tutto felice e perfetto, i problemi esistono, ogni tanto si litiga e proprio perché decidiamo assieme, può succedere di non essere d’accordo su una determinata scelta. Non è però un dramma, alla fine si arriva ad un compromesso che mira sempre al bene comune. Comunque, grazie al nostro modo di vivere, non sono sola a dover affrontare la gestione familiare e, ancor più importante, mi sento rispettata, giudicata e accettata per quello che sono e non per quello che dovrei essere. 28 Pensieri a gradini di Daniela Coralini Salgo le due rampe di scale che mi separano dalla porta del mio appartamento, sbuffando ad ogni gradino conquistato, ansimando per la fatica di portare quattro sacchetti (due per mano) stracolmi di prodotti commestibili e non. La mia veloce incursione al supermercato mi ha fruttato acquisti di ogni genere. Di solito gli acquisti dovrebbero essere una sorta di terapia fai da te contro le piccole e grandi frustrazioni alle quali siamo sottoposte o ci sottoponiamo quasi giornalmente. Ma in realtà spendere e spandere al super oggi ha aumentato il mio senso di frustrazione portandolo alle stelle. Puff…puff…2° piano … casa mia, cara piccola mia… mollo le buste poco elegantemente sullo zerbino coloratissimo (intenzionalmente ricco di colori per dare un tocco gioviale ed energetico all’uscio). Mi sento scarmigliata, sottosopra. La lunga sciarpa di lana penzola a terra spazzando il pianerottolo, la frangia dei capelli ormai troppo lunga crea l’effetto tendina facendomi sentire un pincher a pelo lungo, mentre cerco il mazzo di chiavi rovistando dentro la borsa dove tutto c’è tranne ciò che si cerca in quel momento. Incomincio ad innervosirmi. Uff…ma dove sono? Mi accerto di non avere un buco nella borsa. No tutto regolare…borsa integra… anche perché è un acquisto di una settimana fa…se così fosse stato la cosa mi avrebbe irritata non poco. Mi attacco speranzosa al campanello… driiiinnnnn…. Tutto tace…. busso… ribusso…. risuono….odo un ciabattare lontano e un – ARRIVO! – netto e squillante, mentre le ciabatte si avvicinano alla porta e il mio salvatore (nel senso che mi ha 29 salvata non il nome di battesimo) spalanca l’uscio e assume lo sguardo di chi ha visto un venditore di aspirapolvere. Lo guardo. Mi guarda con un mezzo sorriso che è tutto un programma. La frangia dei capelli mi copre completamente il viso, contorco le labbra e soffio verso l’alto nel goffo e vano tentativo di ricacciare i ribelli almeno alla sommità della fronte…tentativo fallito. Lui sorride apertamente, anzi ride senza ritegno ed esordisce: - Mi sembri… Non lo lascio terminare. – Bau… arf… arf…- Mi è sempre riuscito bene il verso del cane. Afferro le sporte e con passo incerto ed ostacolato non solo dal fardello ingombrante, ma anche dalla sua persona che non accenna a spostarsi (troppo divertito dalla scena comica che si è trovato di fronte), conquisto l’ingresso del focolare. -Help! Aiuto! – bofonchio trascinando la spesa. Il lui, che all’anagrafe fa Andrea, è il mio lui e meno male che si riprende appena in tempo per alleggerirmi dal carico prendendo i quattro sacchetti come fossero vuoti e li distribuisce uno per sedia nella nostra mini cucina. E adesso che ho un bisogno impellente di sedermi e le uniche quattro sedie sono occupate dai sacchetti? Potrei optare per il pavimento. Potrei stramazzare al suolo, così Andrea, preso da un impeto di sindrome del crocerossino, potrebbe prendermi in braccio e adagiarmi dolcemente sul divano. Con dolcezza sfilarmi gli stivali, togliermi questa sciarpa che mi avvolge come una boa e, magari, di sua iniziativa massaggiarmi i piedi affaticati da una giornata tutta di corsa, visto che sono sempre io che massaggio i piedi a lui. Dolci sogni. Torno alla realtà. Quindi opto per qualcosa di realizzabile. Mi avvicino a lui dopo essermi tolta il cappotto appoggiandolo sul tavolo (ok la cucina per oggi è al gran completo), mi inclino adagiando dolcemente la testa contro il suo sterno. Questo è il mio messaggio di richiesta coccole. Le 30 sue antenne non si sono ancora arrugginite e coglie la richiesta al volo. Mi prende il viso fra le mani e mi riempie fronte, guance, palpebre, labbra e mento di tanti piccoli baci. Quando fa il coccolone potrei perdonagli qualsiasi cosa…..beh, ho esagerato, non proprio tutto! Abbasso lo sguardo e lo piloto verso destra in direzione del divano e… argh! Cosa spunta là sotto? Inclino il collo di qualche grado impercettibile perché Andrea non si accorga delle mie perlustrazioni visive e vedo bene: tre calzettoni di colore grigio (il quarto si sarà dato alla macchia definitivamente? Oppure con un’accurata caccia al calzerotto spaiato avrò speranze di ritrovarlo nelle pieghe dei cuscini o nelle oscurità del sotto divano?), i suoi mocassini neri occhieggiano poco distanti dai calzettoni. Mi lascio andare a peso morto contro il suo corpo. Andrea indietreggia fino a toccare il bracciolo del sopraccitato divano e crolliamo sullo stesso. Ridiamo come bambini. Alla montagna di indumenti mal celati sotto di noi ci penserò dopo. Adesso voglio godermi questo istante di vero paradiso casalingo che ancora sappiamo regalarci. - Amore – mi sussurra all’orecchio sinistro – questa sera siamo invitati a cena da Roberto e Carlotta. Mugugno sommessamente. E’ il quarto sabato sera consecutivo che usciamo a mangiare: una volta al ristorante e tre volte con questa a casa di amici. Io sono per la convivialità, l’amicizia, sono la prima a fare la cosiddetta “baracca”, ma questa sera avrei preferito un pasto caldo e frugale nel nostro minuscolo cucinino e…. Non mi lascia terminare i miei pensieri aggiungendo sornione: - Ah! Dimenticavo. Domani a pranzo ci ha invitato mia mamma. Balzo in piedi più veloce di un velociraptor. Andrea prosegue per evitare un mio commento: - Preparerà le lasagne…lo sai che le adoro. Poi l’arrosto con la salsa di funghi come solo lei 31 sa fare e per chiudere in dolcezza… dadadada… il mascarpone con scaglie di cioccolato extra fondente. Golosastro di prima categoria. Poi non lamentarti quando fai fatica ad abbottonarti i jeans. Pensavo di averti portato sulla retta via di un’alimentazione sana, equilibrata e invece basta il richiamo della mamma per far crollare la nostra piramide alimentare. Mentre questi pensieri si snodano nella mia mente sfodero un sorriso di circostanza (scommetto che se mi guardassi in questo preciso momento allo specchio il sorriso si rivelerebbe una smorfia sorridente). - Pastrocchio mio! – Andrea si alza dal divano trascinandosi dietro due cuscini di cachemire color oro, (dono onorevole della mia suocera nonché sua madre: cuoca sublime, sarta di professione, magliaia per hobby, gazzettino del quartiere per nascita e diletto). – Muci muci. Lo sai perfettamente che mia mamma ti adora. Si allontana in direzione del cucinotto, apre lo sportello superiore del frigorifero ed estrae una lattina di aranciata già aperta e ne finisce il contenuto in pochi sorsi. Appoggia la lattina orfana del liquido arancione dall’anima frizzantina e amarognola sul tavolo accanto al mio cappotto dimenticato in un luogo a lui non idoneo e guadagna ciabattando lo studio dove al buio vedo il riverbero azzurrognolo del computer acceso. Appena Andrea scompare dietro la porta semisocchiusa dello studio, come un felino balzo verso il tavolo di cucina e contemporaneamente afferro il cappotto issandolo sulla mia spalla sinistra e con l’altra mano impugno la lattina, mentre con il piede destro apro, con l’abilità di un veterano del palleggio lo sportello sotto il lavello, con la precisione di un playmaker insacco il barattolo nel sacco nero della spazzatura. Appendo il cappotto all’appendiabiti del disimpegno notte già stracolmo di giubbotti, cappotti, giacche, berretti di…. Andrea. 32 Mi chino sotto il divano oltre ai tre calzettoni e alle scarpe nere trovo un sacchetto di cioccolatini vuoto (e questi da dove arrivano? Di solito sotto il divano trovo gomitoli di polvere. Almeno il sacchetto fosse stato abitato da qualche cioccolatino) e il leoncino di peluche di Giulia. La nostra piccola Giulia. GIULIA!!! Che ore sono? Le 17.20. Avevo detto a mia madre che sarei andata a riprendere mia figlia alle 17.30, perché mamma ha la lezione di yoga. Dieci minuti per attraversare la città. - Andrea! – Apro la porta dello studio e lo trovo ipnotizzato dallo schermo del suo portatile immerso nei suoi progetti. Andrea è ingegnere meccanico presso un’azienda nota a livello nazionale. Lavora spesso e volentieri anche a casa. – Corro da mia madre a prendere Giulia. Ci vediamo tra poco. - Sì amore – Gira il viso verso di me. Gli occhi sono un po’ arrossati, ma il sorriso è caldo e amorevole – Vi aspetto qui. Devo terminare questo lavoro per lunedì. Mi infilo il cappotto al volo e mi avvolgo la lunga sciarpa, regalo di compleanno della suocera, attorno al collo. Afferro la borsa e con le chiavi dell’auto in una mano e il leoncino nell’altra. Esco sbattendo la porta… non l’ho fatto con intenzione … mi è sfuggita dalle mani…sono sempre di corsa e sottosopra. Io sono Martina, ho 32 anni, sono madre di Giulia, moglie di Andrea, figlia di mia madre e di mio padre, nuora della mamma e del babbo di Andrea… direi un “albero genealogico” alquanto originale. Ah, dimenticavo. Sono anche maestra di violino al Liceo Musicale ed ex concertista. Ex perché da quando è nata Giulia, tre anni e sette mesi fa, non c’è musica più bella di lei. Atterro davanti casa dei miei genitori. Confermo il verbo atterrare perché per impiegare solo otto minuti per attraversare la città ho veramente volato. 33 Sull’uscio verde scuro, in tinta perfetta con il bianco dell’intonaco esterno, mi aspetta mia madre nella sua eleganza sobria ma femminilmente graziosa. - Mamma… - la bacio sulle guance respirando a più riprese il suo profumo di vaniglia e arancio – ma non devi andare a yoga? - Martina , piccola mia – per i genitori noi figli non cresciamo proprio mai, nonostante ormai siamo madri, mogli, li abbiamo superati in altezza da decine di anni, abbiamo viaggiato il mondo. Siamo sempre i loro piccoli. Confesso che la cosa non mi dispiace, anzi mi procura una profonda e piacevole sensazione di amore e di calore che mi pervade il corpo fino alle viscere e mi colma di amore filiale – Oggi è sabato e la lezione di yoga non c’è. Porto una mano alla fronte. Che sbadata! Dimenticavo che oggi è sabato. SABATO!!! Entro nell’ingresso e guardo l’orologio a pendolo di gusto raffinato e vedo un orario che rovina tutta la raffinatezza dell’oggetto in questione: ore 17.40. La mia mente elabora come un calcolatore elettronico snocciolando orari: ore 18 rientro a casa approssimativo; ore 18.20 fine bagnetto di Giulia; ore 18.40 lavatrice, stendere panni; ore 19.20 doccia e preparazione per la cena di Roberto e Carlotta. Alle 20 rigorosamente a casa loro pronti per sedersi a tavola: sono rigorosissimi in questo. Ops…. Urge anche l’acquisto di un pensierino per la padrona di casa. Il piano orario è tutto da rifare. - Mamminaaaa! – All’udire di questa vocina melodiosa che proferisce tale parola, alla vista del frugoletto che mi corre incontro saltellante nella sua gonnellina jeans, con il maglioncino rosa confetto e le calze mille colori, la mia mente si svuota. Nulla è più importante. Il tutto è qui davanti a me ed è l’amore: Giulia, figlia mia e di Andrea. 34 Mi piego sulle ginocchia e lei mi vola tra le braccia cingendomi il collo con le sue braccia burrose e mi perdo nel suo profumo di infinito. Quindici minuti per attraversare la città. Me la prendo comoda, perché a bordo c’è Giulia e voglio assaporare il piacere del racconto della sua giornata trascorsa dai nonni. Roberto e Carlotta aspetteranno. Nella vita ci sono cose più importanti del mettersi a tavola alle 20 spaccate. Inoltre, adesso che ci penso, ho anche una montagna di indumenti da stirare, i maglioni di lana da lavare a mano, i cesti che traboccano. E la lezione di lunedì quando la preparo? Domani a casa dei suoceri? Giammai. Forse domani notte? Giulia si attacca al campanello di casa a più riprese. La porta si apre e compare Andrea con un grembiule da cucina indossato maldestramente, le maniche della camicia arrotolate, i capelli arruffati e un po’ infarinati. Giulia spicca il volo tra le sue braccia incurante, nella sua istintiva purezza, del grembiule macchiato di salsa di pomodoro fresco. - Babbo, babbino mio! Andrea piegandosi l’acchiappa al volo. Babbo e figlia si fondono in un abbraccio che mi scioglie all’istante. Che importa se nella pila dei panni da lavare si aggiungeranno fra poco maglioncino rosa, mini di jeans e calze multicolore. - Andrea e la cena da… - non riesco a terminare la frase che mio marito con il suo morbido carico si avvicina a me in modo finto furtivo e con lo sguardo del bambino che ha combinato una marachella sussurra: - Ho telefonato a Roberto e scusandomi gli ho detto che questa sera non contassero sulla nostra presenza, perché il progetto al quale sto lavorando deve essere terminato entro lunedì e quindi mi attende un weekend di super lavoro…. Piccola bugia a fin di bene. 35 Caro Andrea anche questo adoro di te: riesci sempre (quasi sempre. La perfezione non è di questa casa) a prevedere i miei pensieri. Butto un occhio curioso nel cucinotto e…AIUTO… scorgo il tavolo ricoperto da posate di vario genere, scatolette, buste di mozzarella semiaperte, schizzi di salsa di pomodoro che punteggiano la base bianca, cumuletti di farina in quantità variabile. L’occhio vira di 40° e si arresta spalancandosi sul doppio lavabo di alluminio decor (rigorosamente antigraffio vista la presenza di un marito che ogni tanto si improvvisa cuoco) … ARIAIUTO! Padelle, padelline, tegami, coperchi, mestoli, ciotole accatastati in bilico spaventosamente precario. Mi rifiuto di continuare la ricognizione. L’occhio si ritrae in quanto la padrona (cioè la sottoscritta) batte in ritirata verso il salotto. -OOOOH…. – l’esclamazione di stupore esce dalla mia bocca seguito dall’eco sottile della vocina di Giulia che mi segue saltellando. Il tavolo quadrato è apparecchiato a festa: tovaglia rosso carminio, posate del servizio buono, bicchieri a calice, tovaglioli verde smeraldo, candelabro con candele color oro e i piatti per la pizza. - Evviva … Evviva …- Giulia sembra un cangurotto mentre gira attorno al tavolo battendo le mani e lanciando gridolini che paiono trilli di campanellini. Andrea ha appena infornato la pizza, la sua specialità. Dal mio posto di osservazione lo guardo affaccendarsi e mi ritrovo a pensare a Linda che si lamenta di Riccardo, marito fuggiasco, sempre assente, svogliato con lei e con i figli. Così Linda tira la carretta da sola a soli 37 anni è ingrigita e gli angoli della bocca assunto da tempo la cosiddetta piega dell’infelicità. Cambio scena e vedo Francesca che, a sua volta, si lamenta di Carlo che non vuole crescere, non vuole fare progetti, ma vivere alla giornata e trascorrere le serate tra discoteche e pub. 36 Dopo dieci anni di convivenza lei medita di fare le valigie e di andarsene. Giorgia, onde evitare quanto accade alle nostre due amiche di cui sopra, si ritiene orgogliosamente una single di scelta in quanto gli uomini che hanno costellato la sua vita non hanno mai superato la prova del casalingo (Giorgia fin dai tempi della scuola media è andata alla ricerca di un rappresentante di genere maschile che abbia l’innata dote di accollarsi i lavori di casa, che lei rifiuta, perché troppo assorbita dal suo istinto carrieristico). E io? Sono qui immersa in una serata a sorpresa organizzata da mio marito, delizioso casinista di nascita con le sue scarpe abbandonate in ogni dove, le sue camicie, i suoi calzettoni sparpagliati sul letto, sul divano, in mezzo agli asciugamani, o in altri luoghi meno sospetti. Per non dire delle serate, nonché nottate trascorse nello studio immerso nel mondo dei suoi progetti, mentre Giulia ed io ci trastullavamo con una favola o qualche piacevole manualità creativa. Oppure quando si alza presto al mattino, mette tutto sottosopra e scappa al lavoro per rincasare solo per cena affamato come un branco di lupi. Aggiungo anche il rifiuto genetico per ogni tipo di lavoretto domestico: l’ultima volta che ha tentato di lavare i piatti il servizio di porcellana è stato decimato nel giro di pochi minuti. - Ecco qua. Pizza party per le mie donne preferite! – arriva in sala con la teglia fumante di pizza appena sfornata. Giulia applaude e si tuffa sul trancio che le spetta con gli occhi sfavillanti di felicità e prima di addentare ci guarda entrambi, poi affonda i dentini nella morbida pasta lievitata e riccamente farcita. Andrea alza il bicchiere colmo di birra: - Alla nostra serata. A Giulia, a Martina e... alla pizza preparata da me medesimo. Brindo con l’acquolina alla bocca e mentre gusto il primo boccone fragrante di deliziose promesse mi trovo ad ammettere che al mattino ti alzi quatto quatto ed eviti ogni più piccolo 37 rumore per non disturbare il nostro sonno, apparecchi per la prima colazione e a volte ci lasci anche un biglietto con la dedica del giorno. Ci sono sere nelle quali riemergi dalle tue full immersion lavorative e ci raggiungi sul tappeto per improvvisare giochi e scherzi. Inoltre quando i lavori di casa mi costringono ad ore di forzata clausura tu parti in bicicletta con Giulia e rientrate con tante novità ed esperienze. Sai essere speciale come questa sera. Sono uscita di casa con l’idea che mi attendesse una serata noiosa con il desiderio di fare altro. Ti ho lasciato davanti al computer e ti ho ritrovato “perfetto organizzatore di serata familiare”. Basta lamentarmi. Cosa sono le stoviglie da lavare, le lavatrici da caricare, i panni da stirare, le stanze da riordinare, le trasferte al supermercato da incastrare tra una lezione di musica e il pediatra di Giulia? Di fronte all’amore che si respira nella nostra casa e rende tutti e tre gioiosi. E’ vero che spesso faccio una fatica ercolina per riuscire a ritagliarmi un paio di ore per una seduta dalla parrucchiera. E’ vero che a volte arrivata a sera, dopo aver corso per l’intera giornata, mi accompagna la sensazione di aver combinato poco. Ma è soprattutto vero che sono fortunata di averti accanto e di non annoiarmi mai con te... Sono così felice questa sera che ti confesso che domani, per la prima volta, verrò ben volentieri a pranzo dai tuoi genitori. E sento che tua mamma comincia a starmi simpatica. Amore, finito di mangiare però pulisci tu la cucina. Stasera mi metto in ferie e mi godo il maritino versione casalingo doc. 38 Anni raffermi di Serena Focaccia Forse adesso Questo pane che non lievita e tu che non arrivi a dirmi storie nuove il tempo che si sbriciola guardandosi oltre un tavolo senza parole giuste quelle che non hai stirato e ordinato nei cassetti. Sapere che non basta quando manca l’ora acerba del mattino perché troppo presto o forse adesso confonderai le chiavi sulla porta. Allora se puoi non domandarmi dei tuoi anni ormai raffermi anche io sto cercando il mio sapore sullo scaffale dei bicchieri scompagnati. 39 L’attaccapanni Ti ho scelto come attaccapanni a cui appendere cappelli e delusioni gialle. Ti riusciva bene con quelle braccia larghe e la smorfia disarmante sulle labbra. Eri anche utile per parlare di letteratura e attualità e qualche libro interessante me lo hai consigliato. Ricordi che ti parlavo dei tuoi occhi colore della Nutella? Ma non ho capito se ti facesse piacere... certo è che non hai mai avuto buona memoria. 40 Addormentata su un divano rosso Mi ritroverai nel seme di mela smarrito nel piatto e nella mollica di pane fra le dita mentre nubi incuranti sbirceranno dai vetri in una stanza riempita di gesti ormai stanchi. E forse vorrai essere la brezza che mi avvolge le spalle e il raggio di sole impigliato fra i capelli. Arrotolata sui miei pensieri come un gatto aspetto che il tuo respiro mi accarezzi le palpebre ancora chiuse. 41 Pensieri a quattro mani di Ermes Fuzzi e Astrid Valeck OGGETTI, AMORI E PICCOLE NEVROSI DI CUCINA Faccio molta fatica a svegliarmi, al mattino. Scendo i due piani di scale che mi separano dalla cucina con gli occhi semichiusi e il passo strascicato. Con un gesto ormai automatico accendo la macchina per il caffè espresso, apro le persiane e cerco, con il mio sguardo ancora perso nei sogni, l’alba del giorno che tarda a farsi strada, offuscata dalle luci tremolanti dei lampioni. Mi occorre una buona mezz’ora, seduta sullo sgabello, abbracciata alla mia tazza di caffè fumante prima di ingranare e capire che sono proprio io, che sono sveglia, che mi stanno chiamando e domandando cose precise, per le quali ci si aspetta una risposta.. insomma vogliono proprio me! Ci sono giornate che nascono stanche più di altre, dove una tazza di caffè non basta a farmi partire, e così ne provo una seconda, ma anche questa non sortisce alcun effetto e, mentre me ne sto imbambolata, incapace di scattare nella frenetica giornata che mi sta chiamando a gran voce, ecco che, invece, per il mio amato sposo è tempo di grandi imprese, grandi pulizie, grandi cambiamenti. Insomma, io sono qui seduta incapace non solo di sollevarmi dallo sgabello - caldo, invitante come il trespolo di un pappagallo - che cerco di convincermi ad alzarmi, ad andare in bagno, a prepararmi, capace solo di emettere grugniti e non ancora parole, e lui è già sul piede di guerra, che sbraita per il 42 disordine (il mio) che si annida all’interno dei mobili della cucina (la nostra). Che poi, voglio dire, disordine è una parola un po’ vaga. L’importante è che io trovi ciò che mi serve.... Non ho mai capito questa sua necessità di mettere ordine tra le cose che mi riguardano o che mi appartengono: le carte del lavoro, la scatola del cucito, i nastri, i gomitoli di lana, tutto ciò che mi appassiona per le attività manuali, i libri e la cucina. È vero, ho un rapporto passionale con questo piccolo luogo della nostra casa. In cucina mi piace leggere con la schiena appoggiata al termosifone, mi piace disegnare, scrivere e paciugare, non solo cucinare e pranzare. La sento mia. Ognuno in casa ha il suo luogo speciale: chi la propria camera, chi il garage. La cucina mi appartiene e mi indispongo non poco per le intrusioni tra gli oggetti e l’andirivieni di più persone attorno ai fornelli. Mi urta la sensazione di sovraffollamento che percepisco. Questa mattina il mio sposo ha deciso di fare ordine, o meglio di farmi fare ordine, e di rendere più funzionale l’organizzazione degli spazi. Vorrei strangolarlo: lui e la sua Gestalt! Un po’ perché non sono ancora sveglia, un po’ perché la cucina è per me il luogo della memoria. Ha vinto lui. Mi siedo per terra, apro uno sportello. Improvvisamente sono andata in moto. Chi ha detto che tutti i contenitori tondi devono contenere altrettanti contenitori tondi in ordine di grandezza e così quelli quadrati e quelli rettangolari? Ah, già, questione di organizzazione funzionale. Tutto preciso secondo criteri di economia, efficienza ed efficacia. Ma qui sono nella MIA cucina e lo spazio - il mio spazio - lo voglio occupare come più mi pare e piace. Forme e grandezze 43 si mescolano su un unico piano, rifiutando di impilarsi, e creando curiosi giochi di costruzioni e incastri. All’occhio esperto (il suo) sembrano molto caotiche. All’occhio non esperto (il mio) molto divertenti. Spesso mi sono chiesto dove nascano la maggior parte dei conflitti all’interno di una coppia. Dai figli? No! Perché crescono in modo incomprensibile e sanno come raggiungere l’autonomia e la maturità eludendo ogni sistema di sorveglianza o amorosa comprensione (paterna o materna). In poche parole, conoscono a fondo chi li ha generati e sanno sempre come fotterti. Il lavoro? No! Perché chi vive insieme e riesce a lasciarlo fuori dalla porta di casa, comprende meglio il piacere del proprio clan o totem. Le ferie? No! Perché quando si è giunti al punto in cui ognuno sa riposarsi e gustare del proprio tempo libero, comprende anche che ciascuno ha il suo modo preciso di intendere le vacanze, il riposo o i divertimenti. Quanti esempi potrei ancora elencare senza trovarne uno che motivi i dissidi, le incomprensioni e le profonde ferite che si generano e causano conflitti titanici, quanto quelli che nascono in ... cucina. Da lì, dal luogo del gusto, dell’anima, dell’eros, del gruppo, dello scambio, del sorriso e del mal di testa, prendono forma e si manifestano i mostri come l’HIDRA. Come posso rapportarmi alla mia compagna io che amo la GESTALT e l’ordine seriale? Gli oggetti li vedo l’uno vicino all’altro indipendentemente dal colore e dalla funzione. Ma li vedo avvicinati o incastrati a seconda delle dimensioni. 44 È il momento dei barattoli di vetro. Sono tanti, accatastati tra un panierino in vimini, le patate, le cipolle, i sacchetti della farina, i tegami per il forno; c’è anche un pandoro, frutto di recenti acquisti. La lamentela per la loro ingombrante presenza è veramente antica, ci accompagna sin dalle origini del nostro stare insieme. Sempre tenuti da conto, sempre buttati o regalati a mamme e suocere (tanto brave a far conserve e a sottolineare l’inutile presenza di questa donna – io - all’interno della cucina, vista la mia palese incapacità a ricoprire il ruolo della perfetta azdora) e poi, sempre cercati quando si tratta di preparare quantità industriali di ragù per far fronte alle esigenze di figli famelici da un lato e alle nostre continue assenze, dall’altro. E per inciso, i barattoli, quando servono, non ci sono mai. Non devo, però, scordarmi l’obiettivo di questa faticata: rendere più funzionale la cucina. Apro un altro sportello. Vi trovo due pimer ad immersione non funzionanti, una grattugia elettrica a cui mancano alcuni pezzi fondamentali e un tagliere in marmo per il formaggio privo di lama. Quanti ricordi. Forse è per questo che non riesco a fare pulizia e a buttare via tutto. Sono pezzi “antichi”, appartenuti a mia mamma, a mia nonna, o a mia suocera, e mi accompagnano ormai da diciassette anni; tanto è il tempo che è passato da che ci siamo sposati. E vero, sono rotti e non funzionano più, ma sono testimoni di tanti successi e di altrettanti guai culinari, e prenderli in mano o semplicemente trovarmeli davanti ogni volta che apro lo sportello è un po’ come guardare una foto e ripensare a persone ed avvenimenti. E poi, forse, potrebbero essere riparati. Perché cedere costantemente al consumismo? La nostra tavola è sempre apparecchiata, dalle 6.30 alle 21. 45 E lei l’unica testimone della nostra presenza all’interno di queste mura domestiche. Chi entra e chi esce, chi mangia e chi si alza. Dall’alba a tarda notte. E lei sempre lì, con i piatti, i tovaglioli, le posate e poi di volta in volta il bricco per il thè, o la zuppiera. Sempre apparecchiata per un desco che ha più del self service che del piacere rituale di ritrovarsi insieme per condividere, non solo il cibo ma anche un po’ della nostra vita. Quando ero ancora una ragazzina e abitavo con i miei genitori e i miei fratelli, si mangiava tutti insieme e sempre alla stessa ora. E anche vero che mia madre non lavorava fuori casa, era sempre lì in casa, a scandire i tempi dei riti. Il pimer ad immersione troneggiava vicino ai fornelli, con la presa costantemente inserita. Veniva utilizzato per moltissime preparazioni: dai passati alle salse, dal sugo alla panna montata. Sempre esposto all’esterno, raccoglieva l’unto e la polvere ed era difficile tenerne puliti il pulsante e il cavo elettrico. Per questo il mio l’ho sempre tenuto riposto nella sua custodia di cartone, riparato all’interno di un pensile. Prima si è crepata la base poi ha smesso di funzionare completamente. Mi dispiaceva buttarlo via dopo tanti anni di onorato servizio, così quando me ne hanno regalato uno nuovo li ho tenuti entrambi. Il secondo ha avuto vita ben più breve. Attaccata per la prima volta la spina alla presa di corrente, si è completamente smontata: c’è chi ha attribuito tale catastrofe alle mancate qualità casalinghe della sottoscritta, ma questo era da mettere in conto! Non sono feticista! Non riesco a creare quell’aura romanzata che la mia compagna sa ricamare con abile destrezza intorno agli oggetti della cucina. 46 Perché?! Quando si rompe la macchinetta del caffè espresso, lei per poco assume il broncio e se non ha ancora bevuto la calda bevanda può perfino arrivare ad inumidire gli occhi! Perché?! Con quella macchinetta abbiamo condiviso tante tazzine bollenti, di primo mattino. La sera o le rare volte che ci troviamo insieme a fine pranzo. - L’hai già preso? - ...No, ...ti ho aspettato!...- Lei vede quella macchinetta come una cosa viva, con una storia onorevole, con la dolcezza che non è propria del caffè, ma che comunque va pensata in coppia. Perché si sa, il cibo e l’amore... lo dicono anche gli psicologi. La macchinetta non funziona, un cuore spezzato, un’attesa tradita, una magia interrotta. E io, brutto buzzurro, antiromantico, la razionalità fatta carne, plebeo mentecatto che dico? Impreco. Si impreco, dando il via ad una serie di considerazioni (per usare un eufemismo) sulla tecnologia moderna e sul consumismo. Abbozzo, perfino, una apologia della moka e della caffettiera napoletana. Ah, la nostalgia per la vecchia moka che non tradisce mai! Intanto seguito ad individuare argomenti salutisti: i pionieri del West con il loro tegame annerito sul fuoco e un cucchiaio di polvere buttato nell’acqua; qualche vecchia tazza tenuta da mani macchiate da ore di duro lavoro nei campi.... “L’aggiusti vero? Mi piace tanto quella cremina! Ti prego... fallo per me”. Quest’ultima parte della frase è pronunciata con le sopracciglia aggrottate, la bocca socchiusa e gli occhi imploranti. Per un attimo penso ad un incendio di dimensioni bibliche che arde le piantagioni di caffè (per quanto io nutra grande rispetto per l’America Latina) e tutti gli impianti di torrefazione e le fabbriche della Girmi, Termozeta, Gaggia, Saeco. 47 È un attimo, solo un attimo di lucida follia. Il preventivo richiesto al laboratorio di riparazione per piccoli elettrodomestici sfiora il costo della macchinetta nuova. Mi ritrovo con il cacciavite e le pinzette in mano. Inizia la battaglia. Smonto la macchinetta, cercando di raggruppare le viti, le guarnizioni, i bulloni secondo i criteri che sono propri di un essere razionale. Le incrostazioni di calcare all’interno della camera di ebollizione raccontano le centinaia di migliaia di caffè preparati in questi anni. Sarà inefficace ogni intervento fino a quando non proverà con l’olio di gomito e un piccolissimo cacciavite. In ferramenta trovo una sola delle due guarnizioni che servono. La signora che mi porge la merce è molto anziana. Lavora in quel piccolo negozio, insieme al marito, da chissà quanti anni. Quando specifico l’uso che dovrò fare del materiale acquistato si guardano per un attimo brevissimo, quasi impercettibile e mentre lei mi consegna lo scontrino entrambi mi osservano con aria dolce e comprensiva. D’improvviso un moto di solidarietà prende luce sul volto del commerciante. - Quella puoi trovarla solo dove vendono i ricambi per le macchine agricole. Uno, potrebbe credere ad una presa in giro, eppure in quell’indicazione laconica ci sono indizi che fanno pensare a lunghi anni di esperienza. Anche lei sorride, e quello è il segnale. E’ tutto vero. Vado compro e torno a casa. Ce la faccio! Ce l’ho fatta! Naturalmente riesco anche a modificare la posizione di un ammortizzatore in gomma che riduce il rumore della pompa. Naturalmente prendo la scossa durante le prove di montaggio. Naturalmente l’apparente complessità di quella scatola si è rivelata di una semplicità 48 estrema se messa in rapporto agli stati d’animo espressi dalla mia compagna nel corso dei lavori. Il tavolo della cucina è il campo di battaglia. Non so se provo maggiore soddisfazione per il fatto di essere riuscito oramai a risolvere il problema o per aver occupato uno spazio così importante senza che lei abbia rotto le scatole per un solo attimo. Mentre mi improvviso tecnico di piccoli elettrodomestici cade sulla mia testa la solita dolce mazzata, detta con un sorriso particolarmente melenso :“So che ce la farai!” È una battuta che devo ricordarmi per la prossima volta in cui le suggerirò di far ordine tra gli oggetti della cucina...la sua. La battaglia iniziata verso le 15 ha termine alle 21. Ho vinto, su tutto, su tutti. Questa sera prendiamo un caffè cheek to cheek sui tappeti del salotto, la TV spenta, la cucina riordinata, i figli a letto. Accendo anche una candela profumata. 49 Buonanotte di Gianluca Gatta Nella stanzetta. Al buio. Mano nella mano. Buonanotte. ‘notte. Mi raccomando, questa sera ti addormenti senza fare storie. Sì. Ti addormenti subito. Sì. Siamo d’accordo, ora mettiti comoda e dormiamo. Le gambe tra le lenzuola. Si accomodano. Poi silenzio. Qualche secondo. Si mette la mano nei capelli. Abbassa la testa. Chiudo gli occhi. Un buon modo per meditare. Pensare. Organizzare la giornata di domani. Con la sua mano sotto la mia. Al buio. Babbo? Alzo la testa. Che c’è? Acqua. Apro gli occhi. Ma non potevi chiederla prima? Voglio l’acqua, babbo. Piagnucola. Va bene, te la vado a prendere. Si alza. Apre la porta. Il corridoio. A piedi scalzi. Solo calzini. In cucina: certificazione di qualità. E’ ancora sveglia? Che cosa ha fatto? Cosa vuole? Prendi il biberon, non il bicchiere. Mi raccomando la coperta. D’accordo. Ritorna nella cameretta. Ecco l’acqua. Si è seduta, intanto. Nel letto. Afferra il biberon. E beve. Lui la guarda. Mentre beve. Non pensa. La guarda. Assonnato. Fatto. Dice. Mi tende il biberon. Bene, adesso dormiamo. Lo prendo. Chiudo la porta. Il biberon per terra. Al buio. Mano nella mano. Buonanotte. ‘notte. Mi raccomando, non cominciare a muovere le gambe sennò non ti addormenti. Sì. Silenzio. Tutti immobili. Silenzio. Babbo!? Non è possibile. Ce c’è? Sento puzza. La puzza. Ma puzza di che? Avrai fatto una scoreggia. No, sento puzza di piedi. Dai, avanti: dormi. Sento puzza: è la puzza dei tuoi calzini - Dieci minuti prima: quei calzini fanno una puzza terribile; li ho tenuti tutto il giorno, è normale che puzzano; cavateli, va là; che palle; dai, cavateli che dopo non riesce ad addormentarsi; ma figurati! li tengo, mi scoccia - Cosa devo fare? Me li devo togliere? Si. Non ha dubbi. Come al solito. Mi alzo. Apro la porta. In bagno. 50 Accende la luce. Si toglie i calzini. Nel cestone della biancheria sporca. Al bidè. Seduto sul water. Si lava i piedi. Il sapone. Fra le dita. L’acqua. Li asciugo. Ritorno nella cameretta. Sulla porta. Adesso non ci sono più scuse: dormiamo. Si. D’accordo. Chiude la porta. Al buio. Mano nella mano. Buonanotte. ‘notte. Silenzio. Chiudo gli occhi. Vorrei pensare. Ma non ci riesco. Penso che penso. Non penso a niente. Il buio. E la sua mano. Il suo respiro. Veloce. Le sue dita si muovono. Tengo le mie immobili. Sposto un po’ la mano. L’allontano. Mi segue. E’ sveglia. Prendo la sua mano. La immobilizzo sotto la mia. Sta ferma. Adesso. Un po’. Dopo si anima. Si divincola. Mi pizzica un polpastrello. Di continuo. Una tortura. Quasi. Resisto. Fra un po’ smette. Le riafferra la mano. La blocca. Ma il respiro. E’ fondamentale. Quando non si sente, dorme. Adesso si sente. Conto fino a sessanta. Non mi muovo. E conto. Che buio che c’è. Non si vede niente. Sigillata. Forse dorme. Fa scivolare indietro la mano. La sua mano resta immobile. Il respiro. Rallentato. Buon segno. Impercettibile, quasi. Mi alzo. In silenzio. Primo passo. La pianta del piede si spiccica dal pavimento. Sudato. Cazzo. Mi fermo. Origlio. Tutto OK. Un altro passo. Poi sul tappeto. Strofina i piedi. Apre la porta. Un fascio di luce debole. Proprio sul suo letto. Porca miseria. Speriamo che non. Babbo? Dove vai? 51 Poesie di casa di Giorgio Gavelli Stanchezza (2) Anche se mi sento molto stanco, in questa sera d’agosto, mentre lentamente cammino verso casa, il mio animo è lieto così pieno di voi, della vostra immagine, delle vostre voci. Un saluto, la cena, qualche risata e un po’ di tv distesi sul tappeto, si riunisce così ogni sera la nostra “tribù”. E quando vado lontano le ore insieme sono ancora qui, dentro di me, mi afferrano forte, mi danno ebbrezza e scalciano via ogni stanchezza. 52 Letti disfatti Alzarsi di fretta al mattino e lasciarsi alle spalle il letto disfatto è un po’ come portarsi la notte per strada come un’ impronta, un viatico che segna la tua giornata. sogni sereni, incubi, solitudine, abbracci amorosi, amplessi appaganti, litigi furiosi o semplicemente apatia, indifferenza, stanchezza, sono dentro di te. Siamo noi la nostra casa e il nostro letto un’ altra vita, quella della malattia o del riposo, dell’amore o del silenzio e dei sogni ad occhi aperti. 53 Tanto dolore Tanto dolore è sceso tirato dentro a piene mani solo da noi. Che gusto c’è a farsi male così ogni giorno un po’ di più, in queste stanze che diventano bunker da guerra. Questa casa, un tempo accogliente, è ora un antro infernale che invoglia alla fuga. Non abbiamo saputo gestirci e duellando fra di noi abbiamo smarrito la via. Ci siamo impantanati qui infliggendoci ferite ogni giorno più gravi e dissanguandoci a poco a poco abbiamo perso le forze che, solo unite, ci avrebbero tratto da qui. Chi fu che tirò il primo affondo? La verità si è persa nel tempo, ciascuno ha torti, ragioni e rimpianti, ma così moriamo lentamente senza andare in nessun luogo diverso da questo. Che fare ora chissà? Dammi la mano e aiutiamoci un poco, tiriamoci fuori di qui, poi ciascuno sceglierà la strada che vuole. 54 Patatine fritte Rientro sempre più tardi, ma riconosco l’odore delle patatine che stanno friggendo, quelle che un tempo cucinavi solo per me, per allietarmi, per sederti sulle mie ginocchia e assaggiarne qualcuna, in intimità: un goccio di vino e poche fettine saziavano la gola, l’anima e il cuore. Ancora s’insinua fuori dalla cucina quell’odore, ma è divenuto pesante, nauseabondo, chiude lo stomaco, come tutte quelle liti senza fine fra noi. C’è dentro ormai, tutta la distanza che ci separa e ci allontana sempre più: l’olio bollente, il sale bruciano ora sulle nostre ferite aperte. 55 Il sogno e …la realtà di Maria Luisa Memma C’è tanta gente che soffre di solitudine. Ma io no, proprio no… Stamattina mi sono svegliato e d’istinto mi sono allungato per afferrare la penna e frugare in cerca di questo vecchio taccuino vuoto e sto ancora qui a scrivere di me stesso dopo aver messo la data in alto… Da “il lamento di Epicuro” Di Kate Christensen IL SOGNO Finalmente sono arrivata in Abruzzo, un viaggio allucinante in mezzo a una bufera di neve, e ora sono qui , appoggiata allo stipite della porta che dà nella grande cucina della vecchia casa di nonna e ti guardo indaffarato. Sento un profumino, scommetto che stai cucinando il tuo famoso pollo all’aglio: si, si, lo so, lo so, l’aglio abbassa la pressione e… appesantisce l’alito. Ci salutiamo commossi: è da tempo che non ci vediamo; desideravo passare qualche giorno con te e proprio nella casa di nonna, la casa delle estati giovanili e spensierate. Quanto vissuto racconta questa immensa cucina, punto centrale di tutta la casa: il grande camino lo si vede entrando, accostata c’è la furnacella a fianco la profonda vasca di marmo rettangolare, una madia, a seguire un incasso nel muro con le conche per la raccolta dell’acqua, vicino un’altro incasso per la credenza chiusa a chiave, solo nonna ne era la padrona, ci custodiva il suo tesoro: vasellame vario da usare nei giorni 56 importanti,e in fine, al centro, la tavola che poteva ospitare più di dieci persone; ah, già, dimenticavo la botola per scendere in cantina: suscitava la mia curiosità di bambina, ma era più forte la paura che mi incuteva. Chiudo gli occhi e rivedo nonna che, accanto al camino, con una padella nera fa saltare le revotiche: stendeva in padella un semplice impasto semi liquido fatto di farina e acqua, e dopo averlo abbrustolito da una parte, con un gesto sicuro della mano dava un colpo e ... oplà, cuoceva l’altra. Lei sembrava giocare e noi golosi non ne eravamo mai sazi. Anche se stanca del viaggio ho voglia di chiacchierare con te papà e con te tornare nel passato. Ti ricordi di quella domenica d’agosto quando eravamo tutti a tavola in attesa di gustare la pasta alla chitarra che nonna aveva preparato cucinando per l’intera mattina? Eccola la tijella: la pasta ben accomodata dentro quella particolare zuppiera, fumante e profumata di ragù speciale, nonna la tiene con entrambe le mani, si gira per metterla in tavola e urta te, che, a capo tavola, parlando gesticolavi e... SPLASH, la tijella si capovolge e finisce sul pavimento: tutti gli occhi sono lì, sul pavimento. Si era fatto silenzio, poi si incrociarono le accuse, ma tu, con una fragorosa risata, frantumasti il momento di rabbia generale. Non ti rimaneva che portarci tutti a mangiare gli arrosticini su al convento, ti conveniva! Ora mi stai ricordando di quel malrovescio che mi hai dato quel giorno a tavola; del tutto meritato, tu dici? Ma papà, avevamo gli zoccoli nuovi, regalo di nonna; facevamo rumore, si, ma sapessi che divertimento zoccolare su e giù per il vicolo acciottolato! A noi non sembrava di fare tanto fracasso, certo è che la signora Italia ci rimproverò in modo esagerato. Ecco perché entrando in cucina, e dopo essermi seduta a tavola per il pranzo, alla tua richiesta di voler sapere cosa era successo, mi alzai per imitare in modo farsesco la signora Italia, e mimai 57 tutta la scena, non mi ero ancora riseduta, quando la tua mano colpì il mio viso. E’ stato il primo e ultimo schiaffo che io ricordi: non potevi sopportare che io, bambina, prendessi in giro un adulto. Da quel giorno scambiai, con mia sorella , il posto a tavola: non più alla tua destra, ma dall’altra parte del tavolo, vicino a nonna che era intervenuta, non con parole, guai! ma con un cenno degli occhi. Severo, eri severo; tu mi dici giusto, si, ma molto severo. Parlare ora con te, da adulta, mi riesce meglio, è più bello; allora niente discussioni, le regole erano regole! E quella volta del castigo: una settimana intera chiuse in casa; io, mia sorella e nostra cugina; quante me ne hanno dette, loro non ne avevano colpa, e nel periodo delle vacanze estive, per giunta! Hai ragione, l’avevo combinata grossa; ma, non la sai tutta , ti avevo raccontato una mezza verità. Ci avevi fatto sedere tutte e tre sulle sedie di cucina, di fila contro il muro, e volevi sapere da me cosa avevo fatto. Con la mia amica del cuore, Mariannina, e con suo fratello più grande, siamo “scesi” a Pescara, volevamo vedere il sorgere del sole stesi sulla spiaggia, in riva al mare, semplicemente fantastico, a sedici anni poi.... Tornati al paese , contavo sul fatto che la porta di casa non veniva mai chiusa a chiave e invece... così andai a casa di Mariannina. Quel che successe poi fu il finimondo; ma avere sedici anni vuoi dire avere desideri inconfessabili, ci si sente grandi, affamati di novità. Si , si, non capisco, già, io non ho figli, come posso capire la responsabilità di un padre si, va bene, hai ragione tu, come sempre. E quell’altra volta, quando… 58 E.... LA REALTÀ Si il viaggio allucinante l’ho fatto, di notte, con la neve che batteva contro il vetro della macchina, sono arrivata il più presto possibile, per constatare, al mio arrivo, quel che era successo: che avevi trattenuto le tue ultime forze per percorrere il vecchio vicolo, per tornare nella tua vecchia casa, per cadere pesantemente nella tua vecchia poltrona e liberare così lo spirito in un ultimo respiro. Da sempre hai sperato che accadesse così, ma non così presto! Tristezza e disincanto nel ritrovarti in quel modo. Sono appoggiata allo stipite della porta che dà nella grande cucina dove ti hanno composto, al centro, e ti guardo e la cucina diventa piccola, piccola. Poi quel bacio gelido... doveroso, perché tutti se lo aspettano, io no. Ciao, caro “PAMADO”, nomignolo di tua creazione,di suprema ironia, dove “PA” sta per padre, “MA” sta per madre, e “DO” sta per domestico. E come ti gigioneggiavi a definirti pamado, caricando enfaticamente l’interpretazione del tuo personaggio per soddisfare la tua vanità, ricercando le nostre attenzioni e suscitando la nostra comprensiva e divertita ammirazione. E poi i cerimoniali che non sopporto, ma ai quali non posso sottrarmi. A piedi attraversiamo lentamente il paese, in mezzo ad un brusio di preghiere e invocazioni, e, lungo la discesa di quel bel viale fiancheggiato da alberi, percorso innumerevoli volte da adolescente, mi accorgo che semplicemente mi viene da cantare, si canto: “Il carrozzone va a vanti da sè con le regine, i suoi fanfi i suoi re ridi buffone per scaramanzia così la morte va via ... 59 e continuo, sicura di essere ascoltata da te: “bella la vita che se ne va un fiore, un cielo, la tua ricca povertà il pane caldo, la tua poesia tu che stringevi la tua mano nella mia.” sento che ti piace perché sento che ridi e allora continuo: “bella la vita dicevi tu…. e si però, però, però… proprio sul meglio… ha detto no. bella la vita che se ne va i nostri sogni, la fantasia ridevi forte e la paura era allegria. e avrei voglia di cantarla a squarciagola, con tutta la forza della rabbia e nostalgia che ho in corpo, ma, non posso, apparirei chiaramente… stonata, molto stonata. 60 La differenza/ La ziron della nouvelle cuisine di Mariangela Paganelli La differenza In casa ero la padrona, qualsiasi cosa io facessi a mio marito andava sempre bene. Anche per il mangiare egli non era noioso, un piatto di minestra ed una fetta di carne, con contorno di insalata, per lui era sufficiente. Dimenticavo: la domenica e, perché no, anche infra settimana, una ciotola di crema, fatta alla maniera casalinga, era per lui una prelibatezza. Appena entrato in casa si fermava sulla porta della cucina chiedendo: “crema?” e, alla mia risposta affermativa, la ricompensa era un abbraccio affettuoso e baci schioccanti sulle guance. Miro non aveva più i genitori ed io solo la mamma che spesso si fermava da me per aiutarmi. Le bambine erano ancora piccole ma da mio marito non avevo nessun aiuto materiale, lui lavorava sodo, facendo anche gli straordinari, la busta paga me la consegnava intatta ma tutto era sulle mie spalle. Con le bimbe piccole ho affrontato le malattie infettive, i problemi della scuola e delle amicizie nonché i pianti per i primi amori. Sono passati tanti anni, le ragazze si sono sposate ma ci sentiamo amiche e quando ci troviamo insieme, nella mia cucina, il pensiero corre sovente ad un episodio di paura, fortunatamente finito bene grazie anche alla prontezza del loro babbo. Avendo avuto nel pomeriggio una riunione condominiale, terminata tardi, ero preoccupata per la cena. La più grande delle figlie era già sposata e la piccola, si fa per dire, ancora in casa con noi, era come suo padre, non si interessava di niente, 61 in casa non sapeva fare nulla, neanche cuocere un uovo e fu proprio l’uovo la causa dello spavento. Dunque, rincasata tardi non sapevo che Nadia dovesse uscire e lei, non sapendo cosa mangiare, si stava cuocendo un uovo al tegamino mentre suo padre, tranquillo, guardava la televisione. Entrata in cucina, mi fermai inorridita: sul fornello in un padellino l’olio galleggiava e la fiamma era alta. In quel preciso momento Nadia buttò l’uovo nel tegame e l’olio bollente schizzò fuori, provocando un’alta fiammata. Urlammo tutte e due ed io, pronta, la spinsi lontano mentre Miro, corso prontamente, riuscì a spegnere il fuoco e la fiamma. Non vi dico la paura e le parolacce che le dissi. Ancora adesso, pur ridendo, Nadia me le rinfaccia ma io ribatto: - Perché, insegnando a tutte e due le stesse cose, la grande le sa fare bene e la piccola no?! La risposta è: - La grande rassomiglia a te e la piccola…. tutta suo padre! - 62 La ziron della nouvelle cuisine Tre madame indaffarate in cucina se ne stan, spignattando tra i fornelli un pranzo preparar. Mentre il lor signore in panciolle se ne sta pregustando e annusando un profumo: di risotto, scampi seppioline e zafferano. Insalata ricciolina, acciughine al vinagril con contorno di patatin. Delicata e affascinante una pirofila di salmone. Fagottini avvoltolati in pancetta, erba cipollina nel sughin di besciamella e panna. Vin ghiacciato, al punto giunto accompagnato dal gelato delizia del palato! Oh, mio signore! Dicono in coro le madame: s’accomodi, al nostro desinare. Il signore, gongolante, accarezzando or l’una or l’altra, l’acquolina sente già e, con grazia “felina” 63 s’avvicina al desinar. Ma…. ahimè, cosa succede !!!.... Un inconveniente strano, sua eccellenza disorientato si ritrova tutto appiccicato, con in testa rovesciato il risotto la pirofila, il gelato innaffiato dal vin Santo! Signore! osa dire: - questo, che vuol dire ? – Soavemente le signore sorridenti ma, con sguardo inviperito…. lo accusano: - maschilista! Mentre noi lavoravamo in panciolle te ne stavi. Ora gusta il nostro pranzo noi, al ristorante andiamo!!! 64 AAA. Dove vuoi [email protected] di Danila Rosetti Se non sai che fare dove vuoi andare? Al pascolo urbano è una fattoria per vecchi e bambini che c’è da vedere? La cigna che cova cova a lungo le uova e le guarda stupita della lunga attesa. Così la fanciulla – anche lei in attesa – si incoraggia e aumenta la pazienza di mamma ormai sfiorita come la margherita che abbassa la testa non sa più che dire – è sempre sospesa – anche lei in attesa chi la scaccia col piede chi la guarda ammirato chi la sfoglia e la bagna la bagna d’amore e lei si accontenta di una mano benigna che le guardi e sospiri sospiri d’amore 65 Se non sai che fare dove vuoi andare? Al pascolo urbano è un grande circo un circo all’aperto che c’é da vedere? Chi fa il giocoliere chi suona e chi lagna chi corre e chi striscia chi si appoggia a un bastone chi si stupisce. A sentire i grilli i grilli di sera e vedere la luna la luna la luna. E parlare e parlare e sognare un bambino da amare e amare e anche adorare. Poi nasceva il bambino che dormiva di giorno e di notte piangeva e la nonna diceva che era tutto normale e ti dava una mano e sussurrava piano e portava pazienza e diceva la scienza e ci vuole pazienza il bambino piccino diventerà adulto adulto - bambino 66 e ci vuole pazienza e ci vuole esperienza e ci vuole una mano BABBO BABBO BABBINO ADESSO SONO GRANDE MI SO ALLACCIARE LE SCARPE DA SOL 67 La luna nera di Antonietta Valentini Giro la chiave nella serratura e apro la porta di casa. L’ingresso è buio ma dalla cucina arriva un fascio di luce: mia moglie è già tornata. Appoggio a terra la borsa e lascio il cappotto e le chiavi sul tavolino dell’ingresso, poi mi fermo un attimo nella penombra del corridoio e mi accorgo della musica. È un cd di musica classica e viene dalla cucina: di solito non è un buon segno. Mi concentro meglio sugli altri rumori: l’acqua che esce dal rubinetto del lavello, poi un oggetto metallico sbattuto con forza, un tegame o una posata. Uno sportello della cucina viene aperto e poi subito richiuso con rabbia. Rumori nervosi, scoordinati, e sotto una musica di arpe e violini. C’è qualcosa che non torna. Entro in cucina e lei non si gira neppure. Sta armeggiando con le mani nel lavello, mentre una pentola d’acqua bolle sul fuoco, riempiendo la stanza di vapore. - Diavolo, accendi quella cappa, non vedi che i vetri sono tutti appannati! - vorrei dirle, ma sto zitto. Lei mi ha sentito entrare ma non dice nulla. - Ehi, sono tornato! - Ciao. - risponde. Poi si volta un istante verso di me e accenna un sorriso striminzito. E’ convinta che io non mi sia accorto di nulla ma in realtà so già tutto quello che c’è da sapere: è una giornata storta. Il motivo adesso non importa: forse è successo qualcosa in ufficio, forse ha litigato con sua madre o forse, e questo è il caso peggiore, non è successo assolutamente nulla. Nulla di brutto e nulla di bello. Io lo capisco subito appena entro in casa, a volte anche prima che mi rivolga la parola, semplicemente osservandola. Come stasera. 68 Luna nera, dunque, così almeno la chiamo io, e adesso tocca a me decidere che strada seguire. Vorrei chiederle semplicemente - cosa c’è che non va? - ma so per esperienza che non funziona. Prima regola: evitare il campo minato delle domande dirette. All’inizio lo facevo qualche volta, ma lei si rivoltava come un serpente e mi rispondeva gelida assolutamente nulla, perché me le chiedi? - Era l’inizio di una battaglia dove ogni cosa che dicevo o facevo riusciva solo a peggiorare la situazione. Lei sapeva di essere stata scoperta, quasi denudata, e tornare indietro diventava molto complicato, sia per lei che per me. Col tempo ho imparato che devo fare finta di nulla, perché così lei si sente più forte, credendo di tenermi nascosto il suo segreto. La seconda alternativa è quella che di solito adotto: la fuga. La lascio bollire a fuoco lento nel suo brodo di pensieri e mi stendo sul divano in attesa che mi chiami per la cena. Le racconto qualcosa dell’ufficio, poi le dico che sono distrutto e aspetto davanti alla televisione del salotto, mentre l’eco del suo ribollire arriva in ogni angolo della casa. Di solito quando la cena è pronta la situazione è già più tranquilla e bastano un paio di frasi intelligenti e un apprezzamento su quello che mi ha preparato per iniziare il lento ritorno alla normalità. Ma stasera mi sento temerario, voglio rischiare: resto con lei in cucina. Prima di tutto spengo il lettore di cd poi mi siedo, appoggio il giornale sul tavolo e inizio a sfogliarlo. Lei non sopporta quando spengo la musica così di colpo, ma apparentemente non reagisce e continua a pulire nervosamente l’insalata nel lavello. - Lo sapevi che i campi magnetici dei corpi celesti sono in grado di spiegare tutte le azioni degli esseri umani? Senti qui: secondo uno studio recentemente pubblicato negli Stati Uniti, tutte le scelte dell’uomo possono essere spiegate con una complessa serie di funzioni matematiche che tengono conto dei 69 campi magnetici gravitazionali dei corpi celesti, e principalmente della luna. Non è incredibile? Ho inventato tutto, l’articolo non esiste, ma lei ci casca. - Ma siamo pazzi? - replica senza voltarsi, ma con voce irritata - Chi ha scritto queste sciocchezze? Sarebbe come dire che la libertà di azione non esiste! - Hai ragione, ma qui c’è scritto proprio così. - Fingo d leggere. - Gli studiosi avrebbero dimostrato che alcune grandi decisioni che hanno cambiato il corso della storia umana sono spiegabili con un complesso insieme di formule matematiche e analogamente gli astri celesti inciderebbero non solo sul nostro umore, ma anche sulle decisioni piccole e grandi che tutti noi prendiamo nel corso della giornata. Le implicazioni di questa scoperta...Questa volta si gira di scatto. - E’ vero, la luna e i pianeti spostano tutti i giorni le maree e quindi sicuramente avranno degli effetti anche sull’uomo. Ma da questo a dire che le nostre scelte sono determinate! - Mentre si asciuga le mani nel grembiule continua quasi con rabbia: - Alla fine siamo comunque noi i responsabili delle nostre azioni, siamo noi che decidiamo come agire o reagire alle cose che ci succedono e ti dirò di più, credo anche che siamo noi che decidiamo e costruiamo ogni giorno la nostra felicità o la nostra infelicità... - Sì, credo proprio che questa ricerca sia una grande stronzata...- le rispondo continuando a sfogliare distrattamente il giornale. Nel frattempo intuisco che le parole che ha appena pronunciato le stanno risuonando dentro e cominciano a produrre l’effetto giusto. Poi inizio a leggerle un articolo di cronaca, un articolo vero. Mi ascolta, interviene, ormai è tutta discesa. A questo punto mi alzo, chiudo il giornale e inizio ad apparecchiare la tavola. A modo mio, naturalmente. 70 Mentre arriva con la pasta squadra la tovaglia un po’ storta e le posate spaiate, ma non dice nulla. Accendo la televisione e iniziamo a mangiare: lentamente cominciamo a rilassarci e parliamo un po’ della giornata. Ormai è fatta, la luna nera è passata. Finita la cena mi alzo io per fare il caffè e lei mi guarda riconoscente. Mentre le giro le spalle sento che prende in mano il giornale e inizia a sfogliare. So già cosa cerca e aspetto la domanda. - Non trovo quell’articolo sull’influenza dei campi magnetici che mi leggevi prima. Ti ricordi dov’è? - Non c’è. - Le rispondo con calma. Poi mi giro e versando il caffè nelle tazzine continuo: - L’ho inventato io. Alzo lentamente gli occhi e la vedo mentre mi fissa con la bocca semiaperta per la sorpresa. La fisso anch’io e in pochi secondi di silenzio ci diciamo tutto il male e tutto il bene che pensiamo l’uno dell’altro. Poi, di colpo, scoppiamo a ridere. 71 Cronaca da una cucina di Maria Filippa Zaiti ore 8 cerco tracce una briciola una goccia di caffè il vasetto aperto della marmellata la tua presente assenza oggi è solo un veloce post - it sul frigo ore 14.30 il piatto profuma delle tue spezie preferite dal telefono arriva un insapore faròtardi anche oggi il microonde è lo strumento dell’attesa ore 21 sei passato a cambiarti - una stupida cena di lavoro – hai detto senza guardarmi sto contando sulla tovaglia i nostri giorni insieme poche righe nella trama fitta di solitudine bianca no domani per te sarò solo una lettera sul televisore 72 Rocchina di Antonia Rocchina Zampolla Nelle meravigliose colline della valle del Bidente c’è un piccolo paese chiamato “Galeata”. E’ lì che Rocchina, 12 anni nel 1964, abitava in un appartamento all’ultimo piano di un condominio chiamato il “Casinone”. Una modesta famiglia di sette persone la sua, con mamma, papà e ben due sorelle e due fratelli, poche risorse economiche e ogni cosa bisognava guadagnarsela con tanto sacrificio e rinuncia. Anche raggiungere l’appartamento all’ultimo piano diventava una faticaccia con le borse della spesa o i fratellini in braccio. La vita quotidiana di Rocchina non era molto facile. Era la più grande dei fratelli e tutte le incombenze della casa toccavano a lei. Doveva barcamenarsi con la scuola, i fratelli da accudire, dare una mano nelle faccende domestiche, confrontarsi con le altre ragazzine della sua età, doveva rinunciare continuamente ai suoi desideri, ai suoi sogni, alla sua spensieratezza. Era chiamata costantemente a responsabilità più grandi di lei. I genitori provenivano dal meridione ed avevano una mentalità abbastanza rigida rispetto ai ruoli femminili e maschili. D’altra parte, anche l’epoca in cui avveniva la sua formazione non era molto diversa dal pensiero dei suoi genitori. Infatti, quando aveva un po’ di tempo per incontrarsi con le sue compagne, poteva appurare dai loro racconti, lo spirito di sacrificio e generosità, caratteristiche tipiche delle donne, che veniva loro inculcato sin dalla più tenera età. 73 Inoltre, nel piccolo paese si era continuamente sottoposte all’osservazione attenta da parte dei suoi abitanti, non priva di giudizi. Rocchina era una ragazzina molto timida, chiusa, con un’aria trasognata, alcune volte sembrava fosse fra le nuvole, sembrava che sognasse ad occhi aperti e in realtà molto spesso si isolava nei propri pensieri per spirito di sopravvivenza. Immaginava di incontrare un principe azzurro che con una carrozza trainata da quattro bellissimi cavalli: “due neri e due bianchi” arrivava e con energia, con foga, con sveltezza, la prendeva, la sollevava, la metteva sulla carrozza e con un gesto svelto, tirava le redini e.... via come il vento, la portava lontano, lontano, in un mondo molto diverso da quello in cui era vissuta. Gli anni passavano e Rocchina terminata la scuola dell’obbligo dovette partire per andare a fare la stagione (la cameriera) al mare, per tutto il periodo estivo. Partì sapendo che al ritorno avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, perché la famiglia aveva bisogno di risorse economiche e non avrebbe potuto così, continuare gli studi. Mentre prestava servizio in una pensione di Cesenatico però, il destino volle che un bel giorno ricevette una telefonata da parte di sua madre che le comunicava di aver vinto la borsa di studio per la quale aveva concorso alla fine dell’anno scolastico tramite lo svolgimento di un tema. La madre aveva così deciso che la ragazzina avrebbe potuto continuare gli studi con quel contributo e l’aveva iscritta alla scuola professionale per l’infanzia. Rocchina apprese la notizia con felicità, ma non poté nè scegliere, nè opporsi alle decisioni della famiglia. Nella zona balneare dove prestava servizio, fece esperienze del tutto nuove, trovandosi per la prima volta in un contesto diverso da quello sino ad allora conosciuto. 74 Ebbe modo di incontrare ragazze della sua età, abituate però, a ben altro vissuto. Infatti, mentre lei doveva lavorare, loro erano in vacanza, potevano divertirsi, flirtare con i ragazzi e spassarsela. Provava nei loro confronti sentimenti contrastanti di invidia e compiacimento, giudicando il tutto secondo la propria etica (educazione). Nonostante ciò fu un’esperienza piena di emozioni e non mancò anche di sperimentare qualche piccola trasgressione, vissuta comunque, con conflittualità. Nei tre mesi estivi ebbe il suo primo incontro sentimentale con un cameriere che prestava servizio nella stessa pensione. Quell’incontro fu una tempesta di pensieri ed emozioni che terminò alla fine della stagione, riportandola come un ciclone nella situazione precedente con tristezza, demotivazione e poca voglia di continuare a vivere. Con il mese di settembre arrivò l’inizio della scuola. Rocchina cominciò a frequentare le superiori, prendeva la corriera che passava dal suo paese e si recava tutte le mattine a Forlì. Aveva poco tempo per studiare, perché appena tornata a casa c’era tanto da fare, ma era talmente forte in lei l’orgoglio, la voglia di farcela e di dimostrare, che si alzava la mattina all’alba per esercitarsi. Alle superiori conobbe nuove ragazze cittadine, con abitudini diverse dalle sue, più emancipate e più scaltre, ma, figlie tutte, della stessa epoca sociale, dedite ai doveri famigliari, al sacrificio, ai compiti ben definiti e stabiliti per le donne. Conobbe in quel periodo anche un ragazzo che abitava in un altro paese della valle del Bidente: “Meldola”. Il ragazzo viveva con gli zii perché la madre se ne era andata quando lui era piccolo. Era un ragazzo problematico, con un immenso bisogno d’affetto, fragile, gentile, educato. Furono proprio queste qualità, che colpirono il cuore della ragazzina, dedita a occuparsi sempre del prossimo prima che di sè stessa. 75 Dopo un breve tempo di conoscenza reciproca, il ragazzo cominciò a frequentare la casa e la famiglia di Rocchina e si fidanzarono ufficialmente. Terminate le superiori, Rocchina venne assunta in un asilo a Bologna. Doveva partire di nuovo e allontanarsi dal suo piccolo paesello per affrontare una grande città, così grande che a lei sembrava di dover andare in America. Il giorno che dovette presentarsi all’amministrazione comunale di Bologna, partì con una paura terribile. Aveva paura di perdersi, paura di non farcela, paura di non essere accettata. Ma come succede spesso nella vita, riuscì a farcela, si integrò bene nella nuova situazione, fece la pendolare per un po’ di mesi e poi si trovò una sistemazione presso una famiglia. Solo alla fine della settimana tornava a casa dai suoi al paesino. Il fidanzato intanto partì per il servizio militare. Rocchina prestò servizio presso il capoluogo dell’Emilia Romagna per ben quattordici anni. Fece tantissime esperienze; alcune molto belle, altre un po’ meno. A quei tempi andavano di moda gli “hippy” e così conobbe ragazzi con i capelli lunghi e ragazze che facevano parte di movimenti femminili. Il mondo stava cambiando, le donne si stavano ribellando, facevano capannello, rivendicavano i loro diritti, si facevano chiamare: “Le Femministe”. La povera ragazza era confusa, ma stava assaporando cose elettrizzanti; da un lato si sentiva sollevata da mansioni e doveri da compiere e dall’altro era attratta da quei meravigliosi ragazzi e ragazze che avevano il coraggio di protestare, cantare, suonare le chitarre in Piazza Maggiore, passare una notte in prigione, sventolare bandiere, urlare slogan. Furono esperienze davvero forti per lei. Cominciò a vedere le cose da altri punti di vista; il suo carattere, pur mantenendo la traccia iniziale, cambiò e divenne 76 meno timida, più espansiva, più moderna, più emancipata, più coraggiosa, più ribelle. Si innamorò di un uomo più grande di lei, era un dirigente del partito comunista, ma dovette rinunciare perché nessuno avrebbe mai accettato questo suo nuovo stato. Avrebbe dovuto affrontare cose molto pesanti, come tagliare i rapporti con la famiglia d’origine, sottoporsi ai giudizi della gente e sentirsi emarginata da tutti. Avrebbe dovuto iniziare una nuova vita rinunciando agli affetti e a tutto ciò che la legava al suo passato. Sposò così, il ragazzo che aveva come fidanzato e nacque un figlio, ma lei continuò a lavorare nella grande città ancora per diversi anni, tornando a fare la pendolare. Nella sua nuova situazione fu molto più dura conciliare i tempi del lavoro, della famiglia, del figlio, ecc...ecc…. Furono anni difficilissimi. Rocchina ora, ha cinquantadue anni. Il marito, quel ragazzo che partì per il militare quando lei per la prima volta conosceva il sapore dell’indipendenza, è rimasto con le sue idee da vecchio maschilista. Ma Rocchina, per sopravvivenza, sogna ancora il suo principe azzurro che con una carrozza trainata da quattro bellissimi cavalli: “due neri e due bianchi” la porta in un mondo migliore dove vivono insieme una vita da sogno, nel rispetto e nella condivisione di piaceri e doveri e dove, le opportunità sono alla pari per entrambi. Girano il mondo in carrozza per portare ad altri sogni di giustizia e tanto.... tanto amore, dove ogni padre, fratello, marito e figlio ti rispettano e ti amano per ciò che sei e non solo per ciò che ti hanno insegnato ad essere. 77 INCONTRI Lettura interpretata a più voci tratta dal laboratorio di scrittura creativa e lettura espressiva FORLI’ 27 giugno 2005 PRESENTAZIONE INCONTRI è l’esito finale del laboratorio che Il Gruppo di Lettura San Vitale ha organizzato per il Progetto “W.E.I.R.D.Women and enterprises involved in a real development – La Ricerca Azione 2005”: un canovaccio, anzi, potremmo chiamarlo un vero e proprio copione. Perché la sua produzione proviene non solo da un perpercorso di “scrittura creativa” a cui hanno partecipato alcune donne della città di Forlì, ma anche dai percorsi “tecniche espressive di base” e “lettura espressiva” con i quali, quelle stesse donne, hanno dato vita, ognuna con i propri mezzi espressivi, a momenti molto emozionanti. Esprimersi ha voluto dire, in un piccolo gruppo come il nostro, aver voglia di raccontarsi e di ascoltare gli altri, comunicare. Si è cercato di stimolare abilità espressive semplici che tutti noi possediamo ma che spesso ci dimentichiamo di avere e di utilizzare e che, nel campo teatrale, diventano fondamentali per la buona interpretazione di un brano da leggere o da mettere in scena. INCONTRI, una lettura interpretata a più voci tratta dai testi scritti dalle donne che hanno partecipato al percorso di Scrittura Creativa condotto da Lucia Zucchi, docente presso il dipartimento di italianistica dell’ Università di Bologna, è stato interpretato dalle sei partecipanti più temerarie: Eleonora Benetti, Lorenza Cappucci, Barbara Gaudenti, Cesarina Lucca, Maria Luisa Memma e Katia Zattoni. Esse hanno presentato l’evento al pubblico il 27 giugno 2005 alla Circoscrizione n°3 del Comune di Forlì, accompagnate dal vivo dalla suadente musica di una fisarmonica. Gli stili: prosa, poesia, acrostico. I temi: “se fossi”, “mi piace, non mi piace” ed altri ancora. La messa in scena si è svolta nell’entusiasmo e nella voglia di mettersi in gioco di queste sei donne che con pochi 1 suggerimenti dati in prova dalle due conduttrici, Mariarosa Damiani, Presidente del Gruppo di Lettura S.Vitale e Valeria Nasci, attrice del Gruppo, sono riuscite a mettere in scena una situazione divertente ed emozionante. Hanno saputo leggere e recitare i loro scritti trasmettendo al pubblico molta allegria, coraggio e bravura. Alcune di loro hanno dimostrato di essere molto portate per la scena ed è comunque stato importante per tutte, anche per quelle loro compagne di percorso che hanno preferito restare in platea, diventare, almeno, spettatrici più consapevoli. il Gruppo di Lettura San Vitale 2 INCONTRI Alcune donne aspettano il loro turno nella sala d’attesa dell’ambulatorio di un medico. Le sedie sono a semicerchio. Le nostre protagoniste sono molto originali. Sono: Barbara e sua figlia Eleonora, Cesarina, Lorenza e Marialuisa. Pensano a voce alta, noi le sentiamo, loro non si sentono tra loro: MUSICA Cesarina: Mamma mia quanta gente che si deve far visitare dal medico! Non importa. Aspetterò come tutte le altre. Marialuisa: (guardando altezzosa tutte le altre) allora.. prima di me c’è quella con gli occhiali, poi la signora con il doppio mento, quella con la maglia rosa che la ingrassa un casino…certo che io qua sono la più decente eh! Eleonora: (pettinando una bambola) ma perché la mamma deve sempre portarmi con lei quando va dal dottore? Non può chiedermi di accompagnarla quando va dal parrucchiere? Che mi piace tanto quando si fa i ricci… Barbara: (canticchia sfogliando una rivista) un estate al mare e…e… voglia di remare e.. .e… un ‘estate al mare… Lorenza: (che già da prima cercava nella borsa) ma si può essere più sbadate? Dove le ho messe le chiavi?! Nell’ingresso!!! Vabbè… una scusa per cenar fuori…alla faccia di mio marito! 3 Katia: (entrando in scena) Potessi essere a casa in questo momento! E pensare che stamattina… Le tazze della colazione sono lavate. Il letto lo farò stasera... Con le lenzuola giù prenderà aria. Stasera, al rientro, troverò uno stuolo di riccioli di polvere: mi saluteranno e mi seguiranno dovunque. Li odio! Ci vorrebbe proprio un po’ di abbronzatura. Sì.... magari come l’anno scorso… che il mare non l'ho visto neanche in cartolina! Devo assolutamente comprare un rossetto nuovo. Quello che ho non mi piace più. Ci vuole un colore più adatto all'estate. E quel romanzo di Camilleri che ho visto ieri… E una risma di carta... Ma quando troverò il tempo? Oggi no! Domani, forse nel pomeriggio... Avrò messo in borsa tutti documenti per le pratiche di oggi? Mai che riesca a fare con un po' di calma! Devo telefonare per la festa di quartiere... Guarda te se anche lì mi dovevano incastrare…!» Cesarina: Di corsa dal lavoro a casa, di corsa le scale, di corsa butto il mio quotidiano abbraccio di libri, libretti, quaderni, fogli multicolori sul divano. Si sparpagliano e lo occupano. -Se invece del divano avessi comprato una libreria sarebbe stato meglio. Intanto non ci si può sedere mai.Ho trasportato alla rinfusa nell’acquaio le tazze, i piatti, i coltelli della colazione. Ho acceso il fuoco sotto la pentola, così il prossimo che arriva vi butta gli spaghetti. Ho riordinato il pavimento cacciando a calci ciabatte e scarpe sotto il letto. La trapunta per coprire i guanciali… mi vedo ancorà lì a chiudere la finestra aperta per pudore e sorridere raccontandomi una storiella sull’uso delle corna. 4 Raccatto alcuni esiti di analisi, afferro un foulard che mi segue svolazzando leggero, sollevo dal divano la borsa alzando una nuvola di fogli rosa, azzurri, gialli e corro perché il medico ha quasi finito il suo tempo. Invece c’è ancora gente. Sono seduta. Non prendo una rivista, non voglio vedere, non voglio leggere, non voglio sapere. Chiudo gli occhi. Aspetto. Marialuisa: Mi chiedo perché alle sette e si devono fare tante cose Ma quali cose, quali? La spesa al supermercato e mai che sia solo uno: a volte le offerte speciali sono anche in quell’ altro o in quell’altro ancora e mi dico sempre ma queste cose non si potrebbero fare anche più tardi non so alle dieci? Non mi corre dietro nessuno! Ah già la visita obbligatoria a sua madre dove non so mai cosa dire… anche se ne avrei di cose da dire... e io che avrei voglia di andare al mare! Ah questo poi no! Le code, troppa gente, troppo caldo, no ti fai un bel bagno e ti rinfreschi le idee! Ah le scelte sono solo sue! Le più intelligenti, le più ispirate e io come una trottola via! a corrergli dietro! Se potessi fare e disfare a modo mio… Meno male che arriva il lunedì lui prende il treno e va a lavorare… bello il lunedì: finalmente sola… che meraviglia! tutta questa meraviglia poi...devo rassettare pulire lavare stirare… però mi organizzo come voglio io, come pare a me e bevo il mio caffè con calma in terrazza. Oh quasi dimenticavo che deve venire l'operaio per la caldaia, poi devo andare in banca per lui e domani dovrò anche fare la fila in posta .... Sinceramente non dovrei lamentarmi cinque giorni su sette sono solo miei posso fare tutto quello che desidero è per questo che gli dico sempre speriamo che ti mandino in pensione il più tardi possibile ! Barbara: (da seduta) 5 Tutto l'anno passa correndo fra mille incombenze, impegni, responsabilità. A volte mi sembra di avere il mondo intero sulle spalle, a volte avrei tanto bisogno d'aiuto, di una parola che centra il problema, di uno sguardo stupito e non abituato alla mia presenza. Dimentico di essere persona, mi proietto al di fuori di me, dandomi interamente ad ogni persona che mi vive accanto e, talvolta, scordo perfino di avere desideri. Anche la vita cittadina mi opprime: detesto il traffico, la confusione e l'aria malsana. Amo í grandi spazi e gli orizzonti infiniti. Per questo tutti gli anni attendo con ansia quasi patetica la vacanza in montagna nella mia amata Austria, il mio luogo dell'anima. Per questo una mattina all'alba, una di quelle albe solitarie che rubo al catalogo dell'universo, mi sono ritrovata a piangere sul terrazzo dell'agriturismo nel Gastein, felice, felice di essermi finalmente affacciata sul terrazzo della mia anima e di avervi scoperto ancora così tanta luce e così tanta freschezza. Lorenza: (parla a Katia che fa controscena di quella che non le interessa molto il discorso della sconosciuta). Sette anni! Sette anni di spostamenti con la mia auto e poi con il mezzo dell'azienda, per correre in ufficio e poi correre nelle varie sedi, e correre ancora in comune, al Servizio sociale, al Servizio Sanitario e correre, correre ancora spostandomi da una città all'altra, anche più volte nello stesso giorno e poi ancora in ufficio. Sette anni di corse contro il tempo, dove la mente ancora prima correva avanti anticipando i miei pass,i e il mio respiro si appesantiva, strozzando in gola la voce che poi usciva incerta e rotta, quando invece il mia ruolo mi imponeva di rappresentare sicurezza. 6 Sette anni di panni da stirare sempre accumulati, di sensi di colpa quando mi veniva richiesta quella particolare maglietta, proprio quella, che invece giaceva magari fra la biancheria ancora da lavare. Sette anni di progetti non più nemmeno pensati, di sogni non più sognati, di immagini e pensieri mai più trascritti e forse allora persi per sempre. Poi quel letto di ospedale quasi desiderato, quella malattia amica che invece era venuta a salvarmi dalla morte vera, quella dell'anima. E dunque... basta!!! Voglio riappropriarmi del mio tempo, della mia casa, degli affetti. Voglio muovermi lungo le strade, guardando i campi coltivati a grano, o i filari che si piegano sotto il peso dell'uva. Voglio vedere e non più solo guardare, voglio vivere e non più solo sopravvivere e poi voglio riuscire a scrivere, raccontando di una vita vissuta. Eleonora: (alla mamma) Tutti i giorni dell'anno verso le sei del pomeriggio mi chiedo come riesco a fare tutto quello che faccio e mi stendo su! letto cercando di riposare. Ma subito mi viene in mente quella noiosissima idea: quella dei compiti. Mi alzo velocissimamente afferro la cartella tiro fuori i quaderni e guardo... che cosa? Ho da fare 3 esercizi più 2 schede. Le faccio il più velocemente possibile cercando di cavarmeli dal mezzo ma sono molto lunghi gli esercizi e anche molto difficili… Poi (naturalmente dopo avere finito i compiti) mi fermo une ottimo mi calmo e dico fra me: 7 "Basta stress mettiamoci a suonare qualche pezzettino al pianoforte." Dopo vado in camera mia mi butto sul letto a scrivere una pagina di diario o una poesia. Finalmente una di loro prende coraggio e dopo questo susseguirsi di pensieri intimi e privati le nostre donne parlano tra loro. Katia: signora…ma il dottore quanto ci mette ad arrivare? Lorenza: io credevo fosse già dentro a visitare qualcuno… Marialuisa: Ah, sei tu la prima? Ecco perché mi chiedevo proprio a chi toccava prima di me! Cesarina: E tu bella bimba cosa ci fai dal medico? Eleonora: accompagno la mamma Barbara: sì, dobbiamo farci fare una ricetta. Tutte: è vero… Eleonora: lo conoscete il gioco del se fossi…? 8 Lorenza: Oh! Finalmente sono il vento, posso volare tra gli alberi e dare ad essi la voce, posso far volare il ramo inerte e regalargli ancora un brivido di vita, poi librarmi nell’aria e dare sfogo a tutta la mia potenza, per godermi il risucchio del vortice che genero, mi pare d’essere un demone anche i miei ululati sono agghiaccianti. Poi mi quieto e divento brezza, accarezzo i fili d’erba, increspo l’acqua, sollevo i colori delle corolle, poi torno birbante e ricreo scompiglio… Katia: Se fossi acqua, vorrei essere l'acqua di un fiume. Sai, uno di quelli di montagna. Non come il Po o l'Adige che attraversano città e città. Ma un fiume che nasce e muore in montagna. Con l'acqua fredda e trasparente come il ghiaccio. Dove dentro ci tuffi le mani e le vedi così come sono. Ma solo per un attimo, però, perché poi sei costretto a levarle. Se fossi l'acqua di un fiume così, vorrei che il sole mi venisse a trovare, ogni giorno. Ma, poiché ho fretta e devo andare, non potrebbe scaldarmi e intorpidirmi. Se fossi l'acqua di un fiume così, chiederei alla notte di farmi compagnia, di nascondermi tra le sue coperte e di venire con me per qualche minuto... Cesarina: Se fossi….Se fossi una nebbia leggera coprirei la città e le darei pace. Attutirei i suoni, allontanerei gli incontri che rischiano di diventare scontri, renderei armoniosi i colori. Sarei umida, ma non fredda: darei sollievo alle piante senza intirizzirle. Se fossi una nebbia leggera sarei amica degli incontri clandestini, di coloro che hanno qualcosa da nascondere, ma non palazzi dalle mura spesse. 9 Se fossi una nebbia leggera sarei un fenomeno di qui, del mio paese e qui potrei restare anche dopo impalpabile, ma presente. Eleonora: (a filastrocca) E sapete il gioco del mi piace non mi piace? A me piace il gelato, il succo, il pianoforte, il salame, la danza, i balletti, i cavalli, i concerti di Ciaikovskj, il clarinetto e la banda. Cesarina: e cosa non ti piace? Eleonora: il giorno piovoso, le giornate troppo calde, il trombone, la tuba, il corno, la televisione e le sere scure! Eleonora: mamma ma a te quando eri bambina come me cosa piaceva? Cosa facevi? Barbara: Quando la bambina Barbara era bambina parlava e dormiva coi gatti ed ancora lo fa. Quando la bambina Barbara era bambina sognava di diventare cantante come diceva la sua nonna ed ora, invece, ogni tanto rimane senza voce, divorava dolci e cioccolata ed ora deve stare attenta per non ingrassare. Quando la bambina Barbara era bambina aveva paura del mare ed ancora, negli incubi notturni,sogna il mare che la vuole inghiottire. Si divertiva a passare il tempo col suo babbo ed oralo ritrova nei sogni, come un messaggero dell'altrove. Amava cucinare ed ora lo fa. Quando la bambina Barbara era bambina aveva paura del buio ed ogni tanto cadeva dal letto e tuttora odia la notte e tutto il suo scuro. 10 Katia: Che simpatica compagnia che siamo… Cesarina: viene voglia di raccontarsi, avendo il tempo… Marialuisa: il tempo c’è, il dottore non arriva! Lorenza: ma che non arrivi! in fondo siamo più libere qui dentro che a casa nostra Katia: con tutte le cose che dovremmo fare… Barbara: è vero! Eleonora: Mamma cosa vuol dire? Che adesso veniamo sempre dal dottore? tutte ridono Cesarina: non ti preoccupare la mamma ti porta anche ai giardini vedrai… Elena: dove ci sono le belle farfalle… 11 Cesarina: sì le farfalle... farfalle come noi… Eleonora: Ho visto, ricordo, farfalla tra l erba di un prato. Elena: Hanno parlato. Cesarina: Siamo farfalle dolci colori della natura. Katia: Vorremmo volare in alto fino a sfiorarti il viso Marialuisa: con le ali perfette che si aprono a mostrare l’arcobaleno Cesarina: ma le nostre ali leggere di farfalla non si muovono. Barbara/Eleonora: Sognaci libere. Barbara: Pensaci di un pensiero sincero, totale ed illimitato. 12 Katia: e diventeremo immensità. Lorenza: L’immensità, sai, vola Vola con un soffio Cesarina: Vola con un solo respiro. Lorenza: Ho rivisto, ricordo Farfalle tra le nuvole del cielo Lorenza/Katia: Preziosi regali della premura. Fine con il giro tondo. 13 A cura di: ECIPAR Emilia Romagna S.C.a r.l. Largo Molina, 9 – 40138 Bologna Grafica di: Achtoons s.r.l. Via S.Caterina di Quarto, 50 - 40127 Bologna Finito di stampare nel mese di ottobre 2005 da: BIME Tipo-litografia snc – Via S.Zavaglia, 20/24 – 40062 Molinella (BO) 14