L`evoluzione biologica, da problema a prospettiva

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L`evoluzione biologica, da problema a prospettiva
Lodovico Galleni
L’evoluzione biologica,
da problema a prospettiva
in
TEOLOGIA E SCIENZA IN DIALOGO
a cura di M. Gronchi, Ed ETS, Pisa 2007, pp.117-134.
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L’evoluzione biologica,
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Lodovico Galleni
Introduzione: la sfida di Teilhard de Chardin
Questo intervento sviluppa aspetti che derivano dalla lezione di Pierre Teilhard de Chardin.
Quest’autore, di cui abbiamo appena ricordato il cinquantesimo anniversario della morte, è stato una delle figure fondamentali della cultura del ventesimo secolo. Paleontologo,
è universalmente considerato il fondatore della moderna paleontologia e geologia del sub continente cinese e, come abbiamo mostrato, ha anche portato contributi importanti alla
biologia evolutiva, ponendo per primo la biologia come
scienza che studia l’infinitamente complesso e d’altra parte
proponendo lo studio della Biosfera come strumento per indagare le leggi generali dell’evoluzione.
Ma Teilhard de Chardin fu anche un uomo di fede, che
visse la sua vocazione nella compagnia di Gesù. Il suo tentativo di proporre una sintesi tra evoluzionismo e teologia cristiana ben presto fece passare in secondo piano i suoi meriti
di scienziato. Ma oggi è la sua sintesi che ci interessa1.
Come punto di partenza vogliamo fare riferimento a due
aspetti fondamentali dell’opera teilhardiana. Il primo parte
da una frase del diario scritta durante la prima guerra mondiale e in cui egli paragona la sua vocazione a quella del
cardinale Newman, cioè portare alla chiesa ciò che c’è di
positivo nel mondo moderno ed il secondo quello che si leg* Dipartimento di chimica e biotecnologie agrarie - Università di Pisa.
L. Galleni, Teilhard de Chardin’s multicentric model in science and
theology: a proposal for the third millennium, in press.
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ge nell’introduzione del suo testo più importante dal punto
di vista teologico, cioè “L’ambiente divino” a cui vale la pena di riandare direttamente:
“Il Cristo evangelico, immaginato ed amato nelle dimensioni d’un Mondo mediterraneo, è ancora in grado di essere
esteso e di far centro al nostro Universo prodigiosamente ampliato? Il Mondo non è forse sul punto di rivelarsi più vasto,
più profondo, più splendente di Jahve? Non farà per caso
esplodere la nostra religione? Non eclisserà il nostro Dio?”2
Questa sfida è quella che Teilhard de Chardin accetta, in
particolare per quel che riguarda l’evoluzione e che cercheremo dunque di ricordare, tenendo sempre come traccia necessaria la sua opera, quale strumento per proporre alla teologia temi di indagine, di ricerca, di riflessione.
E allora cerchiamo di vedere meglio che cosa è esattamente l’evoluzione.
L’evoluzione:
la grande novità nella visione della creazione
Il termine sta ad indicare che i viventi che oggi popolano
la Terra sono il risultato di un continuo processo di cambiamento irreversibile nel tempo e sono collegati tra loro da
eventi di discendenza divergente. Questo vuol dire che andando indietro nel tempo i viventi mostrano antenati comuni
fino a ricondurre la vita, probabilmente, ad un unico ceppo
originario. La grande scala degli esseri descritta da Aristotele e che è stata alla base di tanti secoli di ricerca biologica,
diviene un albero genealogico che collega i viventi con veri
e proprio rapporti di filiazione3.
Parte di questo albero sono anche i rami che portano
2 P. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino, trad. It. Queriniana, Brescia, 1994, pp. : 21-22.
3 Cfr. G. Barsanti, La Scala, la Mappa e l’Albero, Sansoni, Firenze, 1992.
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all’Uomo e la sua comparsa è quindi il risultato dei meccanismi evolutivi. L’Uomo, nella prospettiva teilhardiana, è
dunque il risultato dell’evoluzione della Biosfera. Ma vi è
un’altra caratteristica importante sottolineata da Teilhard de
Chardin: l’evoluzione non è semplicemente una dispersione
casuale di tipi e forme che si allontanano da un antenato comune. Infatti, studiata su tempi lunghi e ampi spazi, mostra
una caratteristica importante. L’evoluzione è infatti caratterizzata dal muoversi verso: della materia verso la complessità
e della vita verso la complessità e negli animali verso la coscienza. Ed è bene ricordare che le tracce di questo muoversi verso sono ritrovate da Teilhard indagando i parallelismi e
le canalizzazioni presenti nella ricostruzione degli alberi filetici di numerosi gruppi animali, e fondamentalmente nei
Mammiferi. Il muoversi verso è dunque la parte fondamentale del programma di ricerca teilhardiano e viene dimostrato,
come abbiamo appena detto, attraverso l’analisi di numerosi
esempi tratta dall’evoluzione dei Mammiferi.
È questo aspetto, su cui, occorre ricordare, non tutti i biologi che si occupano di evoluzione sono d’accordo, ruota tutta l’impostazione teilhardiana. Il muoversi verso ha indubbiamente una valenza metafisica, o meglio, metascientifica importante per la teologia perché secondo Teilhard de Chardin
permette il superamento di un modello puramente casuale.
Infatti implica una qualche necessità nell’emergenza dell’uomo o comunque della creatura pensante, nell’economia
della natura, una necessità che però va indagata con gli
strumenti della scienza.4
Il muoversi verso implica dunque che, qualunque siano i
meccanismi evolutivi, c’è pur sempre una qualche necessità
per l’emergenza dell’Uomo indagabile con gli strumenti della scienza e importante per qualunque riflessione filosofica o
4 Cfr. L. Galleni, Scienza e teologia nella prospettiva del terzo millennio,
Revista Portuguesa de Filosofia, 61 (1), 159-184, 2005.
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teologica sul posto dell’Uomo nella Natura5.
Vi è dunque una trasformazione continua ed irreversibile
nel tempo che è la caratteristica fondamentale, ontologica
osiamo dire, della struttura profonda dell’Universo in cui viviamo e che cerchiamo di comprendere. Questa caratteristica è l’evoluzione. E l’evoluzione interpella con forza la teologia. Non si tratta quindi di negare o prendere le distanze
dall’ evoluzione, ma di comprenderne il significato ed i meccanismi che la scienza nella sua autonomia descrive, perché
diventino strumento importante per la riflessione teologica.
Ma di questi aspetti riparleremo tra alcuni paragrafi.
Scienza-e-Teologia e le capacità conoscitive
della scienza
Come si vede ci muoviamo all’interno delle varie piste
suggerite da Scienza-e-Teologia6 in quella che viene chiamata la teologia della natura. In questa prospettiva infatti la
scelta di fede in un Dio Creatore precede l’indagine sulla
natura, ma una volta fatta la scelta, i risultati che la scienza
ottiene sulla struttura della Creazione divengono un elemento fondamentale per qualsiasi riflessione su Dio come Creatore e sul suo piano sulla Creazione stessa7.
D’altra parte occorre anche cercare di chiarire quali sono
le capacità conoscitive della scienza, tali da essere almeno
in parte impegnative anche per la teologia.
5 P. Teilhard de Chardin, Il posto dell’Uomo nella natura, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1970.
6 L’uso del termine Scienza-e-Teologia o anche Scienza&Teologia, vuol
indicare che ci troviamo di fronte ad una nuova disciplina che affronta antichi
problemi con nuovi metodi e tecniche e con autonomia di ricerca. Cfr. A.
Jackelen, Introduzione, in: L. Galleni ed., Scienza e Teologia, un nuovo campo
di ricerca insegnamento per antichi problemi, Quaderni Stenoniani, 9, 2001,
pp. 3-9.
7 Cfr. J. G. Barbour, Religion in an Age of Science, SCM Press, London,
1990.
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Infatti di fronte a certe accentuazione del valore solo ipotetico dei risultati scientifici, viene spontanea la domanda sul
perché la teologia dovrebbe confrontarsi con risultati di indagini che per essere scientifiche debbono essere falsificabili e
quindi che hanno già in sé la possibilità di essere superate.
Da questo punto di vista anche il termine che abbiamo usato
di “ontologico” per riflettere sull’importanza della visione
evolutiva, può sembrare quanto meno eccessivo.
Ma allora è forse possibile che l’epistemologia contemporanea dia ragione a Roberto Bellarmino, nella sua disputa riguardo al valore puramente strumentale delle teorie scientifiche rispetto all’essenzialismo galileiano? Le teorie scientifiche sarebbero solo strumenti che servono qui ed ora ma come tutti gli strumenti possono poi essere sostituiti con altri e
quindi non ci danno mai la certezza assoluta di poter giungere alla essenza ultima della realtà sensibile?
Qui ci viene in aiuto proprio il filosofo del falsificazionismo: Karl Popper che, nel suo saggio sui tre punti di vista
sulla conoscenza umana, riconosce che la scienza lavora per
teoria necessariamente falsificabili e quindi integrabili e superabili, ma in questo suo lavoro incessante nei confronti di
una realtà sensibile che comunque esiste ed è conoscibile,
accerta anche fatti e sono questi ultimi accertati in maniera
definitiva che fanno crescere il bagaglio della conoscenza
umana8 e, talvolta, aggiungiamo noi, hanno anche valore ontologico e interpellano la teologia9.
D’altra parte occorre ricordare anche che un altro epistemologo contemporaneo, Imre Lakatos, ha ricostruito la struttura delle teorie scientifiche (da lui chiamati più corretta8 Cfr. K. Popper, Tre punti di vista a proposito della conoscenza umana,
in: Scienza e Filosofia, trad. it. Einaudi, Torino, pp. 9-47.
9 Cfr. L. Galleni, La realtà ontologica dell’Evoluzione: dall’Universo ordinato alla Terra da costruire, in: M. Malaguti,edt, Prismi di verità, la sapienza
cristiana di fronte alla sfida della complessità, Città Nuova, Roma, 1997, pp.
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mente programmi di ricerca scientifici) mostrandone una
struttura complessa divisa in un nucleo centrale che organizza tutta quella parte della teoria che falsificata, fa crollare la teoria stessa e attorno ad esso una cintura protettiva
che indaga le piste da seguire per “proteggere” il nucleo
centrale e di fatto rappresenta la parte euristica del programma di ricerca10.
Ma ciò che è affascinante è il fatto che a formare il nucleo
centrale concorre anche una parte “metafisica”, qui intesa nel
senso letterale che sta al di là della fisica cioè non basata su
osservazioni ed esperimenti ma sulle idee, le intuizioni, le
sensazioni della scienziato. Qui si apre un altro interessante
campo di interazione in Scienza-e-Teologia, perché se lo
scienziato ha una buona preparazione teologica, come è stato
il caso decisamente paradigmatico di Teilhard de Chardin,
nella costruzione del programma di ricerca si possono tenere
presenti anche le necessità della teologia o almeno quelle che
sono ritenute tali dall’autore che prendiamo in considerazione.
Nel caso particolare di Teilhard, l’evoluzione come un
muoversi verso che reintroduce un fattore di necessità all’interno dei meccanismi casuali così spesso sottolineati dal
fronte darwiniano11.
Però, perché il dialogo con la scienza possa funzionare
occorre che esiste una asimmetria: la teologia può suggerire
pista d’indagine necessarie a costruire i programmi di ricerca, ma alla fine i programmi debbono essere testati con gli
strumenti della scienza.
Un ultimo aspetto da sottolineare: l’evoluzione, abbiamo
detto, ha un significato ontologico che interpella la teologia
e di questo parleremo nel proseguire questo intervento. Ma
qual è la valenza epistemologica dell’evoluzione: solo teoria
10
Ibidem.
I. Lakatos, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, in:
Scritti filosofici, I, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1985.
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o anche fatto? E se è anche fatto, con quali metodi lo si è accertato?
Occorre sempre ricordare che l’evoluzione ha innanzitutto
un aspetto storico: si tratta infatti di descrivere un evento avvenuto nel passato e ricostruirne i meccanismi. Quindi l’evoluzione, come fatto che già di per sé ci interpella, è il risultato di una ricerca di tipo storico altrettanto provata quanto è
provata l’esistenza dell’impero romano12. Questo naturalmente può voler dire che vi è una probabilità anche se decisamente piccola, che la ricostruzione sia sbagliata, ma questa
probabilità è la stessa che c’è perché si possa pensare che
ciò che noi chiamiamo impero romano sia una ricostruzione
errata degli storici. Come si vede bene la probabilità è talmente piccola che la si può considerare praticamente nulla.
E allora cerchiamo di riflettere sui problemi, se ce ne sono.
I meccanismi evolutivi tra caso e necessità
Il primo problema a mio parere di secondaria importanza,
ma che oggi appare fondamentale perché è uno degli strumenti dell’apologetica atea è quello che riguarda la presenza
di eventi casuali all’interno dei meccanismi evolutivi.
E qui ancora occorre fare una precisazione. Infatti come
abbiamo detto il fatto storico “evoluzione” è ormai provato al
di là di ogni ragionevole dubbio. Discussione ampia c’e’ invece sui meccanismi che vengono proposti per spiegarlo.
Oggi in particolare siamo di fronte ad una pluralità di teorie,
12 In fondo Teilhard de Chardin aveva ben chiari i meccanismi darwiniani che almeno in parte concorrevano e concorrono a formare il pacchetto di
strumenti necessari a spiegare i fenomeni evolutivi. Egli infatti ha più volte
scritto che l’evoluzione procedeva a tentoni tra il gioco dei grandi numeri e la
casualità. Ma all’interno di questi meccanismi anche casuali egli pensava di
trovare le tracce di un fattore preferenziale: il muoversi verso la complessità e
la coscienza (Cfr. L. Galleni, Ripensare l’evoluzione con Teilhard de Chardin,
introduzione alla edizione italiana di: P. Teilhard de Chardin. Il Fenomeno
Umano, Queriniana Brescia, 1955, pp.: 7-23.
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anche se uno spazio importante è attribuito dalla maggior
parte dei ricercatori da quell’insieme di meccanismi che
possiamo riferire alla teoria della selezione naturale proposta intorno alla metà del diciannovesimo secolo da Charles
Robert Darwin e da Alfred Russell Wallace13.
Questa teoria, come vedremo è forse quella più problematica e con cui è necessario confrontarci.
La teoria, almeno secondo la schematizzazione che ne ha
fatto alla fine della prima metà del ventesimo secolo Julian
Huxley è riassumibile in tre fatti e due deduzioni14. Il primo
fatto è che in ogni specie, in linea di massima, i figli sono più
numerosi dei genitori. Il potenziale riproduttivo è quindi alto.
Ma il secondo fatto è che però di generazione in generazione
il numero degli individui di una specie rimane costante. Questo vuol dire che solo una parte degli individui di una generazione sopravvivono fino ad arrivare a riprodursi. Vi è dunque
una lotta per la sopravvivenza e questa è la prima deduzione
ed anche la parte della teoria che è derivata dall’opera di
Thomas R. Malthus. Ma Malthus si riferiva alle popolazioni
umane; la domanda a cui rispondono in maniera indipendente sia Darwin che Wallace è: come applicare questo meccanismo più in generale ai viventi in condizioni naturali?
La terza osservazione e quindi il terzo fatto era ben visibile: all’interno di una specie gli individui variavano anche
apprezzabilmente tra di loro e la variabilità era ereditaria.
L’ambiente sceglieva di generazione in generazione gli individui che portavano quelle caratteristiche che permettevano
di sopravvivere meglio e quindi di giungere a riprodursi. La
competizione e la sopravvivenza differenziale erano i punti
13 Cfr. L. Galleni, Evoluzione, in: G. Tanzella Nitti e A. Strumia edtrs, Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, Urbaniana University Press e Città
Nuova, Roma, 2002, pp. 575-590.
14 L. Galleni, Aspetti teorici della biologia evoluzionistica. In: P. Freguglia
ed., Modelli matematici nelle scienze biologiche, QuattroVenti, Urbino, 1998,
pp. 11-66.
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chiave della teoria. E la scelta veniva fatta dall’ambiente anche se inteso nel senso più ampio e vasto. La seconda deduzione era dunque la scelta (selezione) compiuta dall’ambiente (naturale). Qui era chiara l’influenza del confronto con il
lavoro svolto dagli allevatori che sceglievano per indirizzare
artificialmente verso le loro necessità le caratteristiche delle
specie animali e vegetali ( selezione artificiale)15.
Ma il punto chiave è che l’origine della variabilità e la
sua ereditarietà erano sconosciute a Darwin e Wallace. Anche se ben presto un geniale monaco boemo Gregor Mendel
descriverà i meccanismi dell’ereditarietà i suoi lavori resteranno pressoché sconosciuti nel dibattito sull’evoluzione fino agli inizi del ventesimo secolo, né era minimamente chiaro il meccanismo di origine della variabilità. Ma era chiaro e
ben presente agli autori della teoria che vi doveva essere
una sconnessioni tra l’origine della variabilità e i meccanismi che la selezionavano. Rispetto ai meccanismi lamarckiani che invece individuavano un rapporto diretto tra
la variazione dell’ambiente e l’insorgenza della variabilità,
in questo caso vi era una vera e propria sconnessione. La variabilità nasceva per propri meccanismi non collegati all’
ambiente che su di essi doveva agire. Per usare una terminologia moderna le mutazioni avvengono per propri meccanismi ma senza nessuna connessione di causa ed effetto con
i meccanismi esterni che le devono selezionare. Non sono
dunque indirizzate per permettere al vivente di risolvere direttamente i problemi posto dalla variabilità dell’ambiente.
Il fatto che non si potesse proporre una ipotesi precisa sulla
nascita e la ereditarietà della variazione indeboliva indubbiamente la teoria e Darwin giunse anche a spiegazioni di tipo lamarckiano, contraddicendosi almeno in parte. Ma non è
questo il problema. Il problema è chiarire bene qual è
15
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J. Huxley, Evolution, The Modern Synthesis, Allen & Unwin, London,
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l’aspetto casuale che poi creerà così tante difficoltà e più
che altro qual è la sua valenza filosofica. In fondo se, come
nella prospettiva lamarckiana, l’ambiente interagiva con il
vivente facendolo mutare in maniera direzionale vi era pur
sempre una continua catena di cause collegate tra di loro. E
questa catena di cause poteva se percorsa al contrario portare ad una causa prima che, probabilmente, nelle intenzioni
di Lamarck, era il dio della ragione illuminista.
Al contrario qui vi era un incontro casuale tra due catene
di cause sconnesse tra di loro. Darwin chiarisce molto bene
questa parte della teoria con la metafora dell’architetto. La
selezione naturale agisce come un architetto che deve costruire una casa ai piedi di una frana, ma utilizzando le pietre della frana senza poterle lavorare. Possiamo affermare
che la forma delle pietre è dovuta al caso? Certamente no!
Ogni pietra ha la forma che le deriva dalla composizione
chimica della roccia da cui proviene, dalle forze di erosione
che hanno agito su di essa, dagli urti che la pietra ha subito
cadendo. D’altra parte possiamo dire che l’architetto usa le
pietre a caso? Non è corretta nemmeno questa affermazione.
L’architetto sceglierà le pietre più adatte alle sue necessità e
le porrà nei muri o sugli architravi a seconda delle loro dimensioni e forma16. L’architetto darwiniano , e qui facciamo
giustizia di una certa facile apologetica antidarwiniana che
parla di scimmie e di macchine da scrivere e di Divine
Commedie, l’architetto dicevamo sceglie le pietre e le usa
con ragionevolezza: non le butta a casaccio finché non si forma un muro17. Ma non può cambiare la loro forma, deve da
un certo punto di vista, arrangiarsi; come ha suggerito Francois Jacob, la selezione naturale agisce come un bricouler
che deve arrangiarsi con quello che c’è18. E in fondo, e que16
Cfr. L.Galleni, Biologia, la Scuola, Brescia, 2000, pp. 114-136.
G. Darwin, Variazione degli animali e delle piante allo stato domestico,
trad. it. UTET, Torino, 1878, pp. 590-591
18 Cfr. L.Galleni, Biologia, op. cit., pp. 28-37.
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sto è l’altro aspetto importante, le mutazioni favorevoli sono
rare e la maggior parte sono neutre o molto spesso dannose.
La selezione è dunque un meccanismo che agisce su una
ampia variabilità in cui in qualche modo introduce ordine,
un ordine che però non è prevedibile perché non è legato ad
una precisa connessione di cause. Il caso darwiniano in effetti sembra mettere in difficoltà il Dio ordinatore della ragione illuminista e dei deisti meccanici. In fondo il modello
aveva funzionato bene con la fisica, ma qui mostrava le sue
profonde difficoltà.
Un aspetto importante dunque fu compreso all’inizio del
dibattito, ma come pista di indagine fu ahimé abbandonata,
come reazione, di fatto non sufficientemente meditata, quando
la selezione naturale e la sua interpretazione casuale, fu usata
come strumento di apologetica atea. Questo aspetto era la
consapevolezza presente allora nei primi tentativi di sintesi,
da parte della teologia cristiana in generale e di quella cattolica in particolare, che la crisi del Dio dei deisti non intaccava
la fede nel Dio di Abramo, anzi permetteva di comprenderne
meglio alcuni aspetti del progetto salvifico. Non era tanto il
Dio della rivelazione biblica che poteva essere messo in discussione, quanto semmai il dio dei deisti meccanici. Giustamente un autore a cui ritorneremo tra poco, Gorge Mivart, fece notare che Darwin si creava una propria idea di Dio e poi
la confutava, ma non è automaticamente detto che l’idea di
Dio di Darwin fosse quella della teologia cristiana.
Meccanismi evolutivi, indeterminismi e libertà
L’evoluzione mostrava come anche la vita avesse una storia e questa storia si legava molto bene con la storia dell’Uomo, storia di alleanza di redenzione e salvezza. L’evoluzione
diventata dunque lo strumento per collegare insieme la storia dell’Universo e della vita con quella dell’Umanità. Ma
per giungere a questa sintesi, dopo le prime prospettive
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aperte da vari autori tra cui l’italiano Filippo De Filippi e St.
George J. Mivart, e travolte innanzitutto dalla forte apologetica atea di alcuni dei seguaci di Darwin e poi dalla incapacità della chiesa di aprirsi alle prospettive aperte dal dialogo
col mondo moderno, occorre attendere la lezione fondamentale di Teilhard de Chardin.
In effetti anche il caso non avrebbe dovuto spaventare19
se non per un aspetto particolare di cui parleremo presto. In
fondo lentamente emergeva un nuovo modello di creazione.
La scienza fissista in cui ogni specie aveva il suo compito
preciso ed era perfettamente adattata a questo compito mostrava un universo che usciva compiuto e perfetto dalle mani
del Creatore e che l’Uomo aveva profondamente alterato con
il suo peccato. D’altra parte anche un universo che si fosse
evoluto ma in maniera rigidamente deterministica seguendo
una rigida catena di cause e che in fondo in qualche modo
poteva essere ricondotto ai meccanismi lamarckiani, poneva
anch’esso problemi simili20: poteva la creatura libera agire
liberamente in un mondo per il resto rigidamente determinato, vuoi perché organizzato fin dal suo inizio, vuoi perché
sottoposto a meccanismi evolutivi anche questi rigidamente
determinati? In fondo l’uso della libertà non poteva che alterare l’ordine. In questo senso vi era il rischio non banale di
ritenere necessario l’intervento umano per rompere l’ordine:
la libertà umana richiedeva il peccato per affermarsi. Il peccato era dunque necessario per provare l’esistenza della
creatura libera. A pensarci bene è uno degli aspetti che la
lettura tradizionale del peccato originale sembra suggerire.
In un giardino dell’Eden perfettamente organizzato, l’uso
della libertà sembra automaticamente portare al disordine.
Il modello derivato dai meccanismi darwiniani ci mostra
19
Francois Jacob, Il gioco dei possibili, trad. it. Mondadori, Milano, 1983
L. Galleni, Scienza e teologia, proposte per una sintesi feconda, Queriniana, Brescia, 1992, pp. 103-105.
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un universo che si evolve come scriveva Teilhard de Chardin
sottoposto alla legge dei grandi numeri e alla casualità. È un
universo non strettamente deterministico e che quindi ha una
caratteristica fondamentale di probabilità e di caso che tradotte in termini filosofici e teologici stanno ad indicare che è
un universo la cui caratteristica fondamentale è la libertà21.
E un universo dunque pronto ad accogliere la creatura libera
che usa la sua libertà non drammaticamente alterando l’ordine di Dio, ma anzi per costruire la terra in positivo grazie
all’alleanza col creatore liberamente accettata. Ma questo richiede che l’ordine sia nel futuro e sia dunque da costruire
nella alleanza liberamente accettata e in un ambiente pronto
ad accogliere l’atto libero della creatura pensante. La riflessione sul Dio di Abramo, il Dio dell’ alleanza non solo non
viene sminuito, ma viene arricchita non solo dalla prospettiva
evolutiva ma addirittura dai meccanismi darwiniani.
Come si vede, usando le relazioni tra scienza e teologia o
meglio lavorando nella disciplina ci Scienza-e-Teologia, in
maniera corretta, vi è un arricchimento reciproco. In fondo,
per tornare al tema, scienza e teologia non sono magisteri che
non si sovrappongono. Essi usano, come ha recentemente e
correttamente scritto Hans Kung, linguaggi diversi (ma questo accade per tutte le discipline, basti pensare ai difficili
rapporti tra biologia e fisica e ai rispettivi linguaggi formali)
che spesso danno significati diversi alle stesse parole. Hans
Kung, come esempio, si riferiva alla parola “cieli” che ha un
significato in astronomia completamente diverso da quello
che ha in teologia. Ma vi sono punti di contatto e proprio per
questo occorrono strumenti concettuali per affrontare i punti
di contatto per non creare confusioni e fraintendimenti22.
Ed è per questo che è nata scienza-e-teologia, una nuova
21 L. Galleni, Scienza e teologia, proposte per una sintesi feconda, op. cit.,
pp. 186-188.
22 Cfr. L. Galleni, La realtà ontologica dell’Evoluzione: dall’Universo ordinato alla Terra da costruire, op. cit.
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scienza per antichi problemi che aiuta proprio ad affrontare
in maniera corretta i punti di sovrapposizione.
Abbiamo dunque posto sul tappeto i principali problemi
collegati alle interazioni, liberando (o cercando di liberare) il
dialogo da problemi secondari che, ahimé, anche se secondari, dal punto di vista storico, sono stati fonte di tensione.
Dio: il grande allevatore?
Non è problema l’evoluzione che anzi collega la storia
dell’universo e della vita alla storia dell’uomo, una volta accettata la prospettiva del muoversi verso. Non sono problema
i meccanismi anche in parte non deterministici, perché in
fondo sono necessari perché vi sia lo spazio per la libertà
dell’agire umano.
Non è problema nemmeno la cosiddetta teoria del disegno
intelligente: il piano di Dio sull’Uomo e sulla Creazione non
ha bisogno di trovare appoggi e dimostrazioni di tipo scientifico anzi usare l’azione divina per risolvere problemi chiaramente scientifici come la complessità della cellula o la rapidità con cui si è formata la prima grande radiazione adattativa degli animali nel Cambriano è non solo pessima scienza,
ma anche pessima teologia perché recupera una visione di
un dio tappabuchi che sminuisce la figura del Dio creatore
della bibbia ponendolo come soluzione di un problema
scientifico.
D’altra parte lo stesso Darwin, come abbiamo visto, (e qui
ritorniamo, ancora per fare chiarezza, sulla polemica a nostro parere inutile del disegno intelligente) per esemplificare
l’azione della selezione naturale la paragonava a quella di
un architetto quindi ad una mente intelligente.
Il coscopritore della teoria, quell’ Alfred Russell Wallace
a cui abbiamo rapidamente accennato, e che, pur a modo
suo, era credente, vedeva nell’azione della selezione naturale addirittura uno dei modi con cui un Dio creatore introdu-
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ceva l’ordine e la bellezza nella natura. In Darwin la selezione naturale era paragonabile al disegno intelligente di un architetto, in Wallace era il modo con cui Demiurgo introduceva l’ordine nella natura:, tutto dunque era tranne che il caso
cieco!!!
Ma allora dove è il problema? Il problema fu ben individuato dalla terza grande figura della biologia evolutiva inglese del diciannovesimo secolo, St. George Jackson Mivart.
È dunque a questa figura che bisogna tornare.
Zoologo, si formò a Oxford e fece parte di quel gruppo di
intellettuali anglicani che, assieme a John Henry Newman,
passò alla chiesa cattolica. In un volume dedicato all’origine
delle specie23, mise in evidenza importanza, ma anche limiti
della selezione naturale a suo parere incapace di spiegare i
grandi passaggi evolutivi, ma nel capitolo finale aprì anche
la discussione sui rapporti tra la visione darwiniana e la teologia. È lui che discute la metafora dell’architetto sottolineando quindi che il problema non è tanto la sconnessione
di cause, quanto semmai una profonda drammaticità
nell’azione della selezione naturale: la miserabilità che
Malthus riservava alla condizione umana e che bene o male
poteva pur sempre essere attribuita al peccato originale, con
Darwin si estende a tutta la natura e diventa addirittura il
motore dell’evoluzione.
Il problema dunque è che i meccanismi evolutivi non fanno tanto pensare ad un architetto, o dunque, sviluppando la
metafora darwiniana, ad un disegnatore che colleghi le due
catene di cause apparentemente sconnesse, con la prospettiva di un fine, quello della sopravvivenza, ma semmai ad un
grande allevatore che fa sopravvivere e quindi incrociare le
varianti migliori e non si interessa del triste destino di chi
non è in grado di competere nella lotta per la sopravvivenza.
Questo sottolinea Mivart è l’unico serio problema che la se23
H. Kung, L’inizio di tutte le cose, trad. it., Rizzoli, Milano, 2006.
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lezione naturale pone alla teologia24. In fondo abbiamo più
volte scritto, Darwin compie la stessa operazione di Galileo:
Galileo aveva infatti unificato la spazio, mostrando come le
leggi del mondo sublunare caratterizzato dalla corruzione,
fossero le stesse dei cieli incorrotti.
Darwin unifica il tempo mostrando come non esista una
natura incorrotta prima del peccato, alterata dalla libertà
umana, ma come le leggi anche drammatiche dell’evoluzione
caratterizzino tutta la storia della vita fin dal suo inizio. Come ancora scriverà poi Teilhard la vita nasce fin dal suo inizio con il suo carico di sofferenza, di passione e di morte.
Questo è l’unico grande problema che il darwinismo pone
alla teologia: una sofferenza che fa parte, ancora per usare
Teilhard, della stoffa stessa dell’Universo. Mivart trova una
via d’uscita forse in qualche modo riconducibile ad una prospettiva leibnitziana del migliore dei mondi possibili: chi riflette su questi temi vede solo una piccola parte del piano di
Dio, legato come è alla limitatezza della conoscenza umana.
Se potessimo vedere tutto il piano di Dio allora potremmo
capire il significato di questa drammaticità.
La prospettiva: il futuro da costruire
nell’alleanza liberamente accettata
Da questo punto di vista Teilhard de Chardin porta due
contributi fondamentali. Il primo è quello di un ordine che
va costruito nel futuro. Se l’ordine è nel futuro ed è da costruire, chiaramente occorre partire da una situazione di disordine iniziale che progressivamente si organizza. La prospettiva diventa cosmica e quindi la Cristologia deve superare la necessità dell’incarnazione legata ad un incidente accaduto su un piccolo pianeta alla fine del terziario per coinvolgere un progetto cosmico. È una prospettiva senz’altro di24
St. George Mivart, On the genesis of species, Murray, London, 1871.
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scutibile, ma interessante per superare una visione, come
abbiamo visto, ancora legata ad un universo piccolo e chiuso. L’esplosione del cosmo legata alle conquiste della scienza moderna richiede una visione diversa della Cristologia e
oggi la prospettiva teilhardiana è stata riaperta e rivista da
Gustav Martelet25.
L’altra connessione è quella della libertà: se l’ordine va
costruito nel futuro, indubbiamente occorre uno spazio di libertà in cui la creatura libera può decisamente muoversi. È
quindi la libertà, come in fondo abbiamo più volte detto e
scritto, l’ultimo valore ontologico che emerge dall’indagine
che la scienza compie sulla struttura dell’universo.
Gli indeterminismi, la casualità, la probabilità, eventi
chiaramente descrivibili dall’analisi scientifica dei meccanismi evolutivi nelle loro varie interpretazioni, hanno come
definizione filosofica e teologica il termine libertà: è un universo costruito per accogliere la creatura libera. Libera di
accettare o rifiutare l’alleanza col Creatore per costruire la
Terra e il cosmo nel segno dell’alleanza. E qui emerge una
nuova lettura possibile del peccato originale26. Abbiamo già
visto in fondo come fosse difficile ammettere l’azione della
creatura libera in un universo già costruito perfetto o comunque retto da leggi strettamente deterministiche. D ’altra
parte il fatto che la sofferenza faccia parte della stoffa stessa
dell’universo, in fondo ci libera da quella pesante e angosciosa visione di un Dio che da una parte fa entrare la soffe25
St. George J. Mivart, On the genesis of species, op. cit., pp. 243-288.
G. Martelet, Teilhard de Chardin, prophéte d’un Christ toujours plus
grand, Lessius, Bruxelles, 2005.
La cristologia teilhardiana è una pista ancora tutta da esplorare. Ma è interessante notare come anche Giuseppe Tanzella Nitti, alla voce Gesù Cristo: Rivelazione e Incarnazione del Logos, dedichi uno spazio non piccolo alla presentazione e alla discussione delle prospettive teilhardiane. Si veda infatti: G.
Tanzella Nitti, Gesù Cristo: Rivelazione e Incarnazione del Logos, in: G. Tanzella Nitti e A. Strumia edtrs, Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, Urbaniana University Press e Città Nuova, Roma, 2002, pp. 703-704.
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renza e il dolore e la morte come conseguenza del peccato e
che dall’altra deve essere chiamato Padre e che ci ama come
un Padre. Il cambiamento di alcune prospettive teologiche
che spostano il problema fondamentale della Creazione non
tanto nel problema della creatio ex nihilo, quanto semmai
nella creatio ex plenitudine amoris, riceve nuova luce dal
punto di vista evolutivo.
Dio crea la Creazione e non le creature, ed è una Creazione in cui l’ordine si costruisce nel futuro nell’alleanza liberamente accettata. L’azione del gesto creatore si continua
partecipando la creatura libera, all’opera di costruzione della Terra, una Terra di cui Dio, come ha splendidamente ricordato Moltmann, gode nel riposo del settimo giorno27. In
questo senso l’Uomo è Imago Dei.
Ma c’è una prospettiva importante che sembra ancora
emergere dalla scienza contemporanea: cioè la relativa giovinezza di Abramo. Abramo ci ricorda Silvano Arieti, forse il
più importante scienziato pisano dopo Galileo, è il primo uomo moderno, colui che rompe gli idoli e riconosce l’esistenza di un Dio personale esterno alla natura e con il quale si
può stringere l‘alleanza28. Ma la scienza delle origini dell’Uomo ci mostra come Abramo sia figura recente anche rispetto al lungo cammino dell’Homo sapiens. Prima che venga un uomo capace di accettare liberamente l’alleanza proposta da Dio, l’Umanità compie un lungo cammino senza
che vi sia chi la riconosca e la accetti: ancora una volta la
proposta di Dio si ferma di fronte alla volontà libera dell’uomo. È questo lungo cammino, compiuto lontano dall’ alleanza, più che un singolo atto, che forse è riconducibile alla
prospettiva teologica del peccato originale: non tanto rottura
27 Anche in questo caso chi ha aperto una strada per riprendere la prospettiva teilhardiana, ma andando oltre Teilhard è Gustav Martelet: cfr. G.
Martelet, Libera risposta ad uno scandalo, la colpa originale, la sofferenza, la
morte. trad. it. Queriniana, Brescia, 1987.
28 J. Moltmann, Dio nella creazione, trad. it. Queriniana, Brescia, 1986.
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di un ordine, quanto semmai mancanza di una alleanza per
costruire la Terra. È il lungo cammino compiuto dall’essere
pensante lontano dall’alleanza che introduce quella terribile
fonte di disordine che è la capacità dell’uomo di indurre sofferenza nell’altro uomo, questa sì incomprensibile e inaccettabile e questa risolvibile solo con l’accettazione di un Dio
che si fa carico della drammaticità umana attraverso l’incarnazione e la Croce29. In fondo è la Croce il segno fondamentale della accettazione di Dio della libertà della Creatura
una libertà talmente totale da permettere addirittura alla
creatura di uccidere il Creatore. Ma solo con la croce si riapre la prospettiva di costruire la Terra e il cosmo in Christo
Jesu e l’alleanza diviene via di Redenzione e di salvezza.
Può sembrare paradossale, ma la riflessioni sui meccanismi
drammatici e casuali che il darwinismo sembra proporre come visione della natura, trovano la loro ricomposizione al
piedi della Croce.
29 S. Arieti, Abraham and the contemporary mind, Basic books, New
York, 1981.
30 L. Galleni, Biologia evolutiva e teologia, quali problemi per una sintesi,
in: L. Galleni e F. Reati edtrs., Teoria dell’evoluzione: lo sguardo della scienza e
della fede cristiana, Centro per il dialogo italo russo, Gargnano (BS), pp. 34-57.