Antologia testi - FOR.PSI.COM. Uniba

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Antologia testi - FOR.PSI.COM. Uniba
GABRIELE D’ANNUNZIO
Poema paradisiaco
In vano
Arte, o tremenda!, ancóra
tu non ti sei svelata.
Noi t’adorammo in vano.
Gloria, tu passi; e ad altre
fronti concedi il bacio.
Noi ti seguimmo in vano.
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Amante ignota, ahi troppo
giovine tu sei morta.
Noi t’aspettammo in vano.
E dove siete, o fiori strani,
o profumi nuovi?
Noi vi cercammo in vano.
Nessun dolente al mondo
da noi fu consolato.
Con lui piangemmo in vano.
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Nessun oppresso al mondo
da noi fu vendicato.
Ci sollevammo in vano.
Non fu il dolor sì forte
da vincere il Mistero.
Lo sofferimmo in vano.
Dietro di noi un solco
sterile obliquo lieve
resta. Vivemmo in vano.
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D’innanzi a noi, nel buio,
la Morte è senza face.
- Gloria! - Morremo in vano.
H ortus conclusus
Giardini chiusi, appena intraveduti,
o contemplati a lungo pe’ cancelli
che mai nessuna mano al viandante
smarrito aprì come in un sogno! Muti
giardini, cimiteri senza avelli,
ove erra forse qualche spirto amante
dietro l’ombre de’ suoi beni perduti!
Splendon ne la memoria i paradisi
inaccessi a cui l’anima inquieta
aspirò con un’ansia che fu viva
oltre l’ora, oltre l’ora fuggitiva,
oltre la luce de la sera estiva
dove i fiori effondean qualche segreta
virtù da’ lor feminei sorrisi,
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e i bei penduli pomi tra la fronda
puri come la carne verginale
parean serbare ne la polpa bionda
sapori non terrestri a non mortale
bocca, e più bianche nel silenzio intente
le statue guardavan la profonda
pace e sognavano indicibilmente.
Qual mistero dal gesto d’una grande
statua solitaria in un giardino
silenzioso al vespero si spande!
Su i culmini dei rigidi cipressi,
a cui le rose cingono ghirlande,
inargentasi il cielo vespertino;
i fonti occulti parlano sommessi;
biancheggiano ne l’ombra i curvi cori
di marmo, ora deserti, ove s’aduna
il concilio degli ultimi poeti;
tenue su la messe alta dei fiori
passa la falce de la nova luna;
ne l’ombra i fonti parlano segreti;
rare sgorgan le stelle, ad una ad una;
un cigno con remeggio lento fende
il lago pura imagine del cielo
(desìo d’amori umani ancor l’accende?
memoria è in lui del nuzial suo lito?)
e fluttua nel lene solco il velo
de l’antica Tindaride, risplende
su l’acque il lume de l’antico mito.
Di sovrumani amori visioni
sorgono su da’ vasti orti recinti
che mai una divina a lo straniero
aprirà coronata di giacinti
per lui condurre in alti labirinti
di fiori verso il triplice mistero
cantando inaudite sue canzoni.
Ma quegli, folle del profumo effuso
dal cor degli invisibili rosai,
chino a la soglia come quando adora,
pieni d’un sogno non sognato mai
gli occhi mortali, giù per l’ombre esplora
nel profondo crepuscolo in confuso
il dominio silente ch’egli ignora.
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Così la prima volta io vi guardai
con questi occhi mortali. Voi, signora,
siete per me come un giardino chiuso.
Il giogo
Quella sua chioma, volgente
su da la fronte regale
cui cingeva l’immortale
Tristezza divinamente,
mi ricordava il tesoro
de le foreste profonde
ove l’Autunno profonde
tra porpore cupe l’oro.
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E gli occhi, remoti in cavi
cerchi d’ombra e di mistero,
cui tanto il sogno e il pensiero
facean le palpebre gravi,
non aveano un’infinita
calma di tarde acque stigie?
Entro io vi scorgea l’effigie
de la morte, ne la vita.
E le labbra mai concesse
(la vita dà tali frutti!)
ov’erano insieme tutti
i rifiuti e le promesse,
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da l’invincibile orgoglio
con suggel rigido chiuse
tacevano, ma ben use
a l’alta parola VOGLIO.
Ampia era la stanza. Aveva
qualche alito veemente
la sera; che di repente
i cortinaggi scoteva
con uno strano susurro.
Si sfogliavan su ’l balcone
le rose, ma le corone
de gli astri ardean ne l’azzurro
con un fulgore che parve
insolito a gli occhi miei.
Tutto, allora, a gli occhi miei
insolito e grande parve;
e le voci de la sera
vennero tutte a la mia
anima. Io dissi: - Maria! Dissi. E quel nome non era
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che un soffio, ma in sé portava
una immensità di cose
sovrane. E mentre le rose
morivano e palpitava
il cielo ed ella era muta,
io sentii pormi il suo giogo.
Ogni scienza del luogo
e del tempo fu perduta.
E nulla più, veramente,
a me parve ch’esistesse.
E quelle voci sommesse
tacquero. Ne la mia mente
non balenò che un pensiero
su l’anima sbigottita.
Da quell’attimo la vita
non ebbe che un sol mistero.
Ella così pose il giogo
a l’artefice superbo.
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Ed ella non disse verbo.
Splendeva come in un rogo.
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Novelle della Pescara
L’eroe
Già i grandi stendardi di San Gonselvo erano usciti su la piazza ed oscillavano nell’aria
pesantemente. Li reggevano in pugno uomini di statura erculea, rossi in volto e con il collo
gonfio di forza, che facevano giuochi.
Dopo la vittoria su i Radusani, la gente di Mascàlico celebrava la festa di settembre
con magnificenza nuova. Un meraviglioso ardore di religione teneva gli animi. Tutto il
paese sacrificava la recente ricchezza del fromento a gloria del Patrono. Su le vie, da una
finestra all’altra, le donne avevano tese le coperte nuziali. Gli uomini avevano
inghirlandato di verzura le porte e infiorato le soglie. Come soffiava il vento, per le vie
era un ondeggiamento immenso e abbarbagliante di cui la turba si inebriava.
Dalla chiesa la processione seguitava a svolgersi e ad allungarsi su la piazza. Dinanzi
all’altare, dove San Pantaleone era caduto, otto uomini, i privilegiati, aspettavano il momento
di sollevare la statua di San Gonselvo; e si chiamavano: Giovanni Curo, l’Ummàlido,
Mattalà, Vincenzio Guanno, Rocco di Céuzo, Benedetto Galante, Biagio di Clisci, Giovanni
Senzapaura. Essi stavano in silenzio, compresi della dignità del loro ufficio, con la testa un po’
confusa. Parevano assai forti; avevano l’occhio ardente dei fanatici; portavano agli orecchi,
come le femmine, due cerchi d’oro. Di tanto in tanto si toccavano i bicipiti e i polsi, come per
misurarne la vigoria; o tra loro si sorridevano fuggevolmente. La statua del Patrono era
enorme, di bronzo vuoto, nerastra, con la testa e con le mani di argento, pesantissima.
Disse Mattalà:
– Avande!
In tomo, il popolo tumultuava per vedere. Le vetrate della chiesa romoreggiavano ad
ogni colpo di vento. La navata fumigava di incenso e di belzuino. I suoni degli stromenti
giungevano ora sì ora no. Una specie di febbre religiosa prendeva gli otto uomini, in mezzo a
quella turbolenza. Essi tesero le braccia, pronti.
Disse Mattalà:
– Una!... Dua!... Trea!...
Concordemente, gli uomini fecero lo sforzo per sollevare la statua di su l’altare. Ma il peso
era soverchiante: la statua barcollò a sinistra. Gli uomini non avevano potuto ancóra bene
accomodare le mani intorno alla base per prendere. Si curvavano tentando di resistere. Biagio
di Clisci e Giovanni Curo, meno abili, lasciarono andare. La statua piegò tutta da una
parte, con violenza. L’Ummàlido gittò un grido.
– Abbada! Abbada! – vociferavano intorno, vedendo pericolare il Patrono. Dalla piazza
veniva un frastuono grandissimo che copriva le voci.
L’Ummàlido era caduto in ginocchio; e la sua mano destra era rimasta sotto il bronzo. Così,
in ginocchio, egli teneva gli occhi fissi alla mano che non poteva liberare, due occhi larghi,
pieni di terrore e di dolore; ma la sua bocca torta non gridava più. Alcune gocce di sangue
rigavano l’altare.
I compagni, tutt’insieme, fecero forza un’altra volta per sollevare il peso. L’operazione era
difficile. L’Ummàlido, nello spasimo, torteva la bocca. Le femmine spettatrici rabbrividivano.
Finalmente la statua fu sollevata; e l’Ummàlido ritrasse la mano schiacciata e sanguinolenta
che non aveva più forma.
– Va a la casa, mo! Va a la casa! – gli gridava la gente, sospingendolo verso la porta della
chiesa.
Una femmina si tolse il grembiule e gliel’offerse per fasciatura. L’Ummàlido rifiutò. Egli
non parlava; guardava un gruppo d’uomini che gesticolavano in torno alla statua e
contendevano.
– Tocca a me!
– No, no! Tocca a me!
– No! A me!
Cicco Ponno, Mattia Scafarola e Tommaso di Clisci gareggiavano per sostituire nell’ottavo
posto di portatore l’Ummàlido.
Costui si avvicinò ai contendenti. Teneva la mano rotta lungo il fianco, e con l’altra mano
si apriva il passo.
Disse semplicemente:
– Lu poste è lu mi’.
E porse la spalla sinistra a sorreggere il Patrono. Egli soffocava il dolore stringendo i denti,
con una volontà feroce.
Mattalà gli chiese:
– Tu che vuo’ fa’?
Egli rispose:
– Quelle che vo’ Sante Gunzelve.
E, insieme con gli altri, si mise a camminare.
La gente lo guardava passare, stupefatta. Di tanto in tanto, qualcuno, vedendo la ferita che
dava sangue e diventava nericcia, gli chiedeva al passaggio:
– L’Ummà, che tieni?
Egli non rispondeva. Andava innanzi gravemente, misurando il passo al ritmo delle
musiche, con la mente un po’ alterata, sotto le vaste coperte che sbattevano al
vento, tra la calca che cresceva.
All’angolo d’una via cadde, tutt’a un tratto. Il Santo si fermò un istante e barcollò, in mezzo
a uno scompiglio momentaneo: poi si rimise in cammino. Mattia Scafarola subentrò nel posto
vuoto. Due parenti raccolsero il tramortito e lo portarono nella casa più vicina.
Anna di Céuzo, ch’era una vecchia femmina esperta nel medicare le ferite, guardò il
membro informe e sanguinante; e poi scosse la testa.
– Che ce pozze fa’?
Ella non poteva far niente con l’arte sua.
L’Ummàlido, che aveva ripreso gli spiriti, non aprì bocca. Seduto, contemplava la sua ferita,
tranquillamente. La mano pendeva, con le ossa stritolate, oramai perduta.
Due o tre vecchi agricoltori vennero a vederla. Ciascuno, con un gesto o con una parola,
espresse lo stesso pensiero.
L’Ummàlido chiese:
– Chi ha purtate lu Sante?
Gli risposero:
– Mattia Scafarola.
Di nuovo, chiese:
– Mo che si fa?
Risposero:
– Lu vespre ’n mùseche.
Gli agricoltori salutarono. Andarono al vespro. Un grande scampanìo veniva dalla chiesa
madre.
Uno dei parenti mise accanto al ferito un secchio d’acqua fredda, dicendo:
– Ogne tante mitte la mana a qua. – Nu mo veniamo. Jame a sentì lu vespre.
L’Ummàlido rimase solo. Lo scampanìo cresceva, mutando metro. La luce del giorno
cominciava a diminuire. Un ulivo, investito dal vento, batteva i rami contro la finestra bassa.
L’Ummàlido, seduto, si mise a bagnare la mano, a poco a poco. Come il sangue e i grumi
cadevano, il guasto appariva maggiore.
L’Ummàlido pensò:
– È tutt’inutile. È pirduta. Sante Gunzelve, a te le offre.
Prese un coltello, e uscì. Le vie erano deserte. Tutti i devoti erano nella chiesa. Sopra le
case correvano le nuvole violacee del tramonto di settembre, come mandre
fuggiasche.
Nella chiesa la moltitudine agglomerata cantava quasi in coro, al suono degli stromenti, per
intervalli misurati. Un calore intenso emanava dai corpi umani e dai ceri accesi. La
testa argentea di San Gonselvo scintillava dall’alto come un faro.
L’Ummàlido entrò. Fra la stupefazione di tutti, camminò sino all’altare.
Egli disse, con voce chiara, tenendo nella sinistra il coltello:
– Sante Ganzelve, a te le offre.
E si mise a tagliare in tomo al polso destro, pianamente, in cospetto del popolo che
inorridiva. La mano, informe, si distaccava a poco a poco, tra il sangue. Penzolò un istante
trattenuta dagli ultimi filamenti. Poi cadde nel bacino di rame che raccoglieva le
elargizioni di pecunia, ai piedi del Patrono.
L’Ummàlido allora sollevò il moncherino sanguinoso; e ripeté con voce chiara:
– Sante Gunzelve, a te le offre.
EDUARDO DE FILIPPO
Fi lu m erna M arturano
Personaggi
Filumena Marturano
Domenico Soriano
Alfredo Amoroso
Rosalia Solimene
Diana
Luda, cameriera
Umberto
Riccardo
Michele
L’avvocato Nocella
Teresina, sarta
Primo Facchino
Secondo Facchino
ATTO PRIMO
In casa Soriano.
Spaziosa stanza da pranzo in un deciso «stile 900 » sfarzosamente arredata, con gusto, però,
alquanto medio. Qualche quadro e qualche ninnolo, che ricordano teneramente l’epoca
umbertina e che, evidentemente, un tempo, completarono l’arredamento della casa paterna di
Domenico Soriano, disposti con cura alle pareti e sui mobili, stridono violentemente con tutto
il resto. La porta, in prima quinta a sinistra, è quella che introduce nella camera da letto. In
seconda quinta, sempre a sinistra, taglia l’angolo della stanza un grande telaio a vetri che lascia
vedere un ampio terrazzo fiorito, protetto da una tenda di tela a strisce colorate. In fondo a
destra, la porta di ingresso. A destra, la stanza si spazia inoltrandosi profondamente in quinta e
lasciando scorgere, attraverso un grande vano e l’apertura a metà di una tenda serica, lo
«studio » del padrone di casa. Anche per l’arredamento del suo «studio » Domenico Soriano ha
preferito lo «stile 900 ». È di questo stile anche il mobile vetrinato che protegge e mette in
mostra una grande quantità di coppe di vario metallo e di differenti dimensioni e forme: «Primi
premi » guadagnati dai suoi cavalli da corsa. Due «bandiere » incrociate sulla parete di fronte,
dietro uno scrittoio, testimoniano le vittorie conseguite alla festa di Montevergine. Non un
libro, non un giornale, non una carta. Quell’angolo, che soltanto Domenico Soriano osa
chiamare «lo studio », è ordinato e lindo; ma senza vita. Il tavolo centrale, nella stanza da
pranzo, è apparecchiato per due coperti, con un certo gusto ed anche ricercatezza: non vi
manca un « centro » di rose rosse freschissime. Primavera inoltrata: quasi estate. È l’imbrunire.
Le ultime luci del giorno dileguano per il terrazzo.
In piedi, quasi sulla soglia della camera da letto, le braccia conserte, in atto di sfida, sta
Filumena Marturano. Indossa una candida e lunga camicia da notte. Capelli in disordine e
ravviati in fretta. Piedi nudi nelle pantofole scendiletto. I tratti del volto di questa donna sono
tormentati: segno di un passato di lotte e di tristezze. Non ha un aspetto grossolano, Filumena,
ma non può nascondere la sua origine plebea: non lo vorrebbe nemmeno. I suoi gesti sono
larghi e aperti; il tono della sua voce è sempre franco e deciso, da donna cosciente, ricca
d’intelligenza istintiva e di forza morale, da donna che conosce le leggi della vita a modo suo, e
a modo suo le affronta. Non ha che quarantotto anni, denunziati da qualche filo d’argento alle
tempie, non già dagli occhi che hanno conservato la vivezza giovanile del « nero » napoletano.
Ella è pallida, cadaverica, un po’ per la finzione di cui si è fatta protagonista, quella cioè di
lasciarsi ritenere prossima alla fine, un po’ per la bufera che, ormai, inevitabilmente dovrà
affrontare. Ma ella non ha paura: è in atteggiamento, anzi, da belva ferita, pronta a spiccare il
salto sull’avversario.
Nell’angolo opposto, precisamente in prima quinta a destra, Domenico Soriano affronta la
donna con la decisa volontà di colui il quale non vede limiti né ostacoli, pur di far trionfare la
sua sacrosanta ragione, pur di spezzare l’infamia e mettere a nudo, di fronte al mondo, la
bassezza con cui fu possibile ingannarlo. Si sente offeso, oltraggiato, colpito in qualche cosa,
secondo lui, di sacro, che non può né intende confessare. Il fatto, poi, che egli possa apparire
un vinto al cospetto della gente, gli sconvolge addirittura il cervello, gli fa perdere i lumi della
ragione. È un uomo robusto, sano, sui cinquant’anni. Cinquant’anni ben vissuti. Gli agi e la
cospicua posizione finanziaria lo hanno conservato di spirito acceso e di aspetto giovanile. La
«buonanima » di suo padre, Raimondo Soriano, uno tra i piú ricchi e furbi dolcieri di Napoli,
che aveva fabbriche ai Vergini ed a Forcella, nonché negozi accorsatissimi a Toledo e a Foria,
non aveva occhi che per lui. I capricci di don Domenico (da giovanotto era conosciuto come:
«’O Signurino don Mimi »), non avevano limiti, né per la loro stravaganza, né per la loro
originalità. Fecero epoca; si raccontano ancora a Napoli. Appassionato amatore di cavalli, è
capace di trascorrere mezze giornate a rievocare con gli amici le prodezze agonistiche, le
« gesta » dei piú importanti esemplari equini che passarono per le sue nutrite scuderie. Ora è li,
in pantalone e giacca da pigiama, sommariamente abbottonati, pallido e convulso di fronte a
Filumena, a quella donna « da niente » che, per tanti anni, è stata trattata da lui come una
schiava e che ora lo tiene in pugno, per schiacciarlo come un pulcino.
A sinistra della stanza, nell’angolo, quasi presso il terrazzo, si scorge, in piedi, la mite ed
umile figura di donna Rosalia Solimene. Ha settantacinque anni. Il colore dei suoi capelli è
incerto: piú deciso per il bianco che per il grigio. Indossa un vestito scuro, «tinta morta ». Un
po’ curva, ma ancora piena di vitalità. Abitava in un «basso », al vico San Liborio, di fronte a
quello abitato dalla famiglia Marturano, di cui conosce « vita, morte e miracoli ». Conobbe, fin
dalla piú tenera età, Filumena; le fu vicina nei momenti piú tristi della sua esistenza, senza mai
lesinarle quelle parole di conforto, di comprensione, di tenerezza che soltanto le nostre donne
del popolo sanno prodigare e che sono un vero balsamo al cuore di chi soffre. Ella segue,
ansiosa, i movimenti di Domenico, senza perderlo d’occhio un istante. Conosce, per dura
esperienza, gli effetti dell’irascibilità di quell’uomo, per cui, pervasa dal terrore, non batte
ciglio, come impietrita.
Nel quarto angolo della stanza si scorge un altro personaggio: Alfredo Amoroso. È un
simpatico uomo sui sessant’anni, di struttura solida, nerboruto, vigoroso. Dai compagni gli fu
appioppato il nomignolo di «’O cucchieriello ». Era bravo, infatti, come guidatore di cavalli,
per cui fu assunto da Domenico, ed al suo fianco rimase in seguito, ricoprendo il ruolo di
uomo di fatica, capro espiatorio, ruffiano, amico. Egli riassume tutto il passato del suo padrone.
Basta osservare il modo con cui guarda Domenico, per comprendere fino a qual punto gli sia
rimasto fedele e devoto, con la massima abnegazione. Indossa una giacca grigia un po’
« risicata » ma di taglio perfetto, pantalone di altro colore e berretto a « scorz’ ’e nucella » messo
sul capo un po’ a sghembo. Ostenta, al centro del panciotto, una catena d’oro. È in
atteggiamento di attesa. È, forse, il piú sereno di tutti. Conosce il suo padrone. Quante volte le
ha buscate per lui ! Quando va su il sipario, così troviamo i quattro personaggi, in questa
posizione da « quattro cantoni ». Sembra che stiano li, per divertirsi come dei bimbi; ed è la
vita invece che li ha scaraventati cosi, l’uno contro l’altro.
Pausa lunga.
DOMENICO – (schiaffeggiandosi ripetutamente con veemenza ed esasperazione) Pazzo, pazzo,
pazzo ! Ciento vote, mille vote !
ALFREDO – (con un timido gesto interviene) Ma che ffacite ?
Rosalia si avvicina a Filumena e le pone sulle spalle uno scialle che avrà preso da una sedia
sul fondo.
DOMENICO – Io songo n’ommo ’e niente ! Io m’aggia mettere nnanz’ ’o specchio e nun
m’aggi’ ’a stancà maie ’e me sputà nfaccia. (Con un lampo di odio negli occhi a Filumena)
Vicino a tte aggio iettata ’a vita mia: vinticin’ c’anne ’e salute, ’e forza, ’e cervella, ’e
giuventú ! E che ato vuo’ ? C’ato t’ha da da’ Domenico Soriano ? Pure ’o riesto ’e sta pelle,
che nn’avite fatto chello ch’avite voluto vuie ? (Inveendo contro tutti, come fuori di sé) Tutti
hanno fatto chello che hanno vuluto ! (Contro se stesso con disprezzo) Mentre tu te credive
Giesú Cristo sciso nterra, tutte quante facevano chello ca vulevano d’ ’a pelle toia !
(Mostrando un po’ tutti, con atto d’accusa) Tu, tu, tu… lo vico, ’o quartiere, Napule, ’o
munno… Tutte quante m’hanno pigliato pè fesso, sempe ! (il pensiero del tiro giuocatogli da
Filumena gli torna alla mente d’improvviso e gli fa ribollire il sangue) Io nun ce pozzo penzà ! Già,
me l’avev’ ’a aspettà ! Sulamente na femmena comm’ a tte, puteva arrivà addo si’ arrivata
tu ! Nun te putive smentì ! Vinticinc’anne nun te putevano cagnà ! Ma nun te credere ch’
he vinciuto ’o punto: ’o punto nun ll’he vinciuto ! Io t’accido e te pavo tre sorde. Na femmena comm’ a tte tanto se pava: tre sorde ! E a tutte chille ca t’hanno tenuto mano: ’o miédeco, ’o prèvete… (mostrando Rosalia che trasale e Alfredo che, invece, è tranquillo, con aria
minacciosa) … sti duie schifuse, ca ll’aggio dato a magnà pè tant’anne… v’accido a tutte
quante !… (Risoluto) ’O rivòlvere… Dàteme ’o rivòlvere !
ALFREDO – (calmo) ’E ppurtaie tutt’e dduie addu l’armiere p’ ’e ffa’ pulezzà. Comme dicisteve
vuie.
DOMENICO – Quanta cose aggio ditto io… e quante me n’hanno fatto dicere afforza ! Ma mo
è fernuta, ’o vvi’ ! Me so’ scetato, aggio capito !… (A Filumena) Tu te ne vaie… e si nun te
ne vaie tu cu ’e piede tuoie, overamente morta iesce ’a ccà ddinto. Nun ce sta legge, nun
ce sta Padreterno ca pò piegà a Domenico Soriano. Attacco ’e falzo a tutte quante ! Ve
faccio ji’ ngalera ! ’E denare ’e ttengo e abballammo, Filume’ ! Te faccio abballà comme
dich’io. Quann’ aggio fatto sapé chi si’ stata tu, e ’a copp’ a qua’ casa te venette a piglià,
m’hann’ ’a da’ ragione afforza ! E te distruggo, Filume’, te distruggo ! (Pausa).
FILUMENA – (niente affatto impressionata, sicura del fatto suo) He fernuto ? He ’a dicere
niente cchiú ?
DOMENICO – (di scatto) Statte zitta, nun parlà, nun me fido ’e te sèntere ! (Basta la voce di quella
donna per sconvolgerlo).
FILUMENA – Io quanno t’aggio ditto tutto chello che tengo ccà ncoppo, ’o vvi’ ? (mostra lo
stomaco) nun te guardo cchiú nfaccia, e ’a voce mia nun ’a siente cchiú !
DOMENICO – (con disprezzo) Malafemmena ! Malafemmena sì stata, e tale sì rimasta !
FILUMENA – E c’è bisogno d’ ’o dicere accussì, comm’ ’o ddice tu ? Ched’è, na
nuvità ? Nun ’o ssanno tutte quante, io chi so’ stata, e addò stevo ? Però, addò
stev’io, ce venive tu… Tu nzieme all’ate ! E comm’all’ate t’aggio trattato.
Pecché t’avev’ ’a trattà ’e n’ata manera, a te ? Nun songo tutte eguale
ll’uommene ? Quello che ho fatto, me lo piango io e la mia coscienza. Mo te so’
mugliera. E ’a ccà nun me mòveno manco ’e carabiniere !
DOMENICO – Mugliera ? Ma mugliera a chi ? Filume’, tu me stisse danno ’e númmere, stasera ? A chi te si’ spusata ?
FILUMENA – (fredda) A te !
DOMENICO – Ma tu si’ pazza ! L’inganno è palese. Tengo ’e testimone. (Mostra Alfredo e
Rosalia).
ROSALIA – (pronta) Io nun saccio niente… (Non vuole essere tirata in ballo in una questione tanto
grave) Io saccio sulamente ca donna Filumena s’è coricata, s’è aggravata e si è messa in
agonia. Niente m’ha ditto e niente aggiu capito.
DOMENICO – (ad Alfredo) Tu nemmeno saie niente ? Tu nemmeno sapevi che l’agonia era una
finzione ?
ALFREDO – Don Dummi’, p’ammor’ ’a Madonna ! Chella, donna Filumena me tene ncopp’ ’o
stommaco, faceva ’a cunfidenza a me ?
ROSALIA – (a Domenico) E ’o prèvete ?… Il prete, chi m’ha ditto d’ ’o ji’ a chiammà ? Nun me
l’avite ditto vuie ?
DOMENICO – Pecché essa … (mostra Filumena) ’o cercava. E io p’ ’a fa’ cuntenta …
FILUMENA – Pecché nun te pareva overo ca io me ne ievo all’atu munno. Nun ce stive dint’ ’e
panne, penzanno ca finalmente me te levave ’a tuorno !
DOMENICO – (dispettoso) Brava ! Ll’he capito ! E quanno ’o prèvete, doppo che aveva parlato
cu te, me dicette: «Sposatela in extremis, povera donna, è l’unico suo desiderio; perfezionate
questo vincolo con la benedizione del Signore »… io dicette…
FILUMENA – … « Tanto che ce perdo ? Chella sta murenno. È questione ’e n’atu paro d’ore e
m’ ’a levo ’a tuorno. (Beffarda) È rimasto male, don Domenico, quanno, appena se n’è
ghiuto ’o prèvete, me so’ mmenata ’a dint’ ’o lietto e ll’aggio ditto: «Don Dummi’ tanti auguri: simmo marito e mugliera ! »
ROSALIA – Io aggio fatto chillu zumpo ! E m’è venuta chella resata ! (Ne ride ancora) Giesú, ma
comme l’ha fatta naturale tutta ’a malatia.
ALFREDO – E pure l’agonia !
DOMENICO – Vuie stateve zitte, si no ve metto in agonia a tutt’ e duie ! (Escludendo qualsiasi
probabilità di debolezza da parte sua) Nun pò essere, nun pò essere ! (D’un tratto,
ricordando un altro personaggio che, secondo lui, potrebbe essere il solo responsabile) E ’o
miédeco ? Ma comme, tu si’ miédeco … ! ’A scienza addò è ghiuta a fernì ? Tu si’ miédeco
e nun te n’adduone ca chella sta bona, ca te sta facenno scemo ?
ALFREDO – Forse, secondo me, si è sbagliato.
DOMENICO – (con disprezzo) Statte zitto, Alfre’. (Deciso) E ’o miédeco pava ! Isso pava pè
quant’è certo Dio ! Pecché isso è stato d’accordo, nun pò essere in buona fede. (A Filumena,
con malizia) Ha mangiato, è ove’ ?… Ll’he dato denare…
FILUMENA – (nauseata) E chesto capisce tu: ’e denare ! E cu ’e denare t’he accattato
tutto chello ca be voluto ! Pure a me t’accattaste cu ’e denare ! Pecché tu ire don Mimì
Soriano: ’e meglie sarte, ’e meglie cammesare… ’e cavalle tuoie currevano: tu ’e ffacive
correre… Ma Filumena Marturano ha fatto correre essa a te ! E currive senza ca
te n’addunave… E ancora he ’a correre, ancora be ’a iettà ’o sango a capì
comme se campa e se prucede ’a galantomo ! ’O miédeco nun sapeva niente. Ce ha
creduto pur’isso, e ce avev’ ’a credere ! Qualunque femmena, doppo vinticinc’anne che ha
passato vicino a te, se mette in agonia. T’aggio fatto ’a serva ! (A Rosalia e Alfredo) ’A serva
ll’aggio fatta pè vinticinc’anne, e vuie ’o ssapite. Quanno isso parteva pè se spassà: Londra,
Parigge, ’e ccorse, io facevo ’a carabbiniera: d’ ’a fabbrica a Furcella, a chella d’ ’e Virgene e
dint’ ’e magazzine a Tuledo e a Furia, pecché si no ’e dipendente suoie ll’avarrieno
spugliato vivo ! (Imitando un tono ipocrita di Domenico) «Si nun tenesse a te… » « Filume’, si’
na femmena ! » Ll’aggio purtata ’a casa nnanze, meglio ’e na mugliera ! Ll’aggio lavate ’e
piede ! E no mo ca so’ vecchia, ma quann’ero figliola. E maie ca me fosse sentuta vicin’ a
isso apprezzata, ricunusciuta, maie ! Sempe comm’a na cammarera c’ ’a nu mumento all’ato
se pò mettere for’ ’a porta !
DOMENICO – E maie ca t’avesse visto sottomessa, che ssaccio ? comprensiva, in fondo, della
situazione reale che esisteva tra me e te. Sempe cu na faccia storta, strafuttente… ca tu dice:
«Ma avesse tuorto io ?… Ll’avesse fatto quacche cosa ? » Avesse visto maie na lagrima dint’a
chill’uocchie ! Maie ! Quant’anne simmo state nzieme, nun ll’aggio vista maie ’e
chiagnere !
FILUMENA – E avev’ ’a chiagnere pè te ? Era troppo bello ’o mobile.
DOMENICO – Lassa sta ’o mobile. Un’anima in pena, senza pace, maie. Una donna che non
piange, non mangia, non dorme. T’avesse visto maie ’e durmì. N’ànema dannata, chesto si’.
FILUMENA – E quanno me vulive vedé ’e durmì, tu ? ’A strada d’ ’a casa t’ ’a scurdave.
’E mmeglie feste, ’e meglie Natale me ll’aggio passate sola comm’ a na cana. Saie quanno se
chiagne ? Quanno se cunosce ’o bbene e nun se pò avé ! Ma Filumena Marturano bene
nun ne cunosce… e quanno se cunosce sulo ’o mmale nun se chiagne. ’A suddisfazione ’e
chiagnere, Filumena Marturano, nun l’ha pututa maie avé ! Comm’ a ll’ultima femmena m’
ha trattato, sempe ! (A Rosalia e Alfredo, unici testimoni delle sacrosante verità che dice) E nun
parlammo ’e quann’ isso era giovane, che uno puteva dicere: «Tene ’e sorde, ’a
presenza … » Ma mo, all’úrdemo all’úrdemo, a cinquantaduie anne, se retira cu ’e
fazzulette spuorche ’e russetto, ca me fanno schifo… (A Rosalia) Addò stanno ?
ROSALIA – Stanno cunservate.
FILUMENA – Senza nu poco e’ prudenza, senza penzà: «mmeglio ca ’e llevo ’a miezo… si
chella ’e ttrova ? » Ma già, si chella ’e ttrova, e che ffa ? Chi è essa ? Che diritto tene ? E se
nzallanisce appriesso a chella…
DOMENICO – (Come colto in fallo reagisce, furente) A chella chi ?… A chella chi ?
FILUMENA – (niente affatto intimidita, con maggiore violenza di Domenico) Appriesso a
chella schifosa ! Che te cride ca nun l’avevo capito ? Tu buscie nun ne saie
dicere, e chisto è ’o difetto tuio. Cinquantaduie anne, e se permette ’e se
mettere cu na figliola ’e vintiduie ! Nun se ne mette scuorno ! E mm’ ’a mette
dint’ ’a casa, dicenno ca era l’infermiera … Pecché isso se credeva overo ca io stevo
murenno … (Come raccontando una cosa incredibile) E nun cchiú tarde ’e n’ora fa, prima ca
veneva ’o prèvete pè ce spusà, se credevano ca io stevo pè da’ ll’anema a Dio e nun ’e
vvedevo, vicin’ ’o lietto mio s’abbracciavano e se vasavano ! (Con irrefrenabile senso di nausea)
Madonna… quanto me faie schifo ! E se io stevo murenno overamente, tu chesto avisse
fatto ? Già, io murevo, e ’a tavola apparicchiata (la indica) pè isso e chella morta
allerta…
DOMENICO – Ma pecché, tu murive e io nun avev’ ’a magnà cchiú ? Nun m’avev’ ’a sustené ?
FILUMENA – Ch’e rrose mmiez’ ’a tavula ?
DOMENICO – Ch’e rrose mmiez’ ’a tavula !
Filumena Rosse ?
DOMENICO – (esasperato) Rosse, verde, paunazze. Ma pecché, nun ero padrone d’ ’e
mmettere ? Nun ero padrone ’e me fa piacere ca tu murive ?
FILUMENA – Ma io nun so’ morta ! (Dispettosa) E nun moro pè mo, Dummi’.
DOMENICO – E questo è il piccolo contrattempo. (Pausa). Ma io nun me faccio
capace. Si tu m’he trattato sempre comm’ a tutte quante ll’ate, pecché, secondo
te, ll’uommene so’ tutte eguale, che te mpurtava ’e te spusà a mme ? E se io me
so’ nnammurato ’e n’ata femmena e mm’ ’a vulevo spusà… e mm’ ’a sposo,
pecché io a Diana m’ ’a sposo, che te ne mporta si tene o nun tene vintiduie
anne ?
FILUMENA – (ironica) Quanto me faie ridere ! E quanto e faie pena ! Ma che me ne mporta ’e
te, d’ ’a figliola che t’ha fatto perdere ’a capa, ’e tutto chello ca me dice ? Ma tu te cride
overo ca io ll’aggio fatto pè te ? Ma io nun te curo, nun t’aggio maie curato. Na femmena
comm’ a mme, ll’he ditto tu e mm’ ’o stai dicenno ’a vinticinc’anne, se fa ’e cunte. Me
sierve… Tu, me sierve ! Tu te credive ca doppo vinticinc’anne c’aggiu fatto ’a
vaiassa vicino a tte, me ne ievo accussì, cu na mano nnanze e n’ata areto ?
DOMENICO – (con aria trionfante, credendo di aver compresa la ragione recondita della beffa di
Filumena) ’E denare ! E nun te l’avarria date ? Secondo te, Domenico Soriano, figlio a
Raimondo Soriano (borioso) uno dei piú importanti e seri dolcieri di Napoli, nun avarria
penzato a te mettere na casa, e a nun te fa’ avé cchiú bisogno ’e nisciuno ?
FILUMENA – (avvilita per l’incomprensione, con disprezzo) Ma statte zitto ! Ma è possibile ca vuiate
uommene nun capite maie niente ?… Qua’ denare, Dummi’ ? Astipatille cu bbona salute ’e
denare. È n’ata cosa che voglio ’a te… e m’ ’a daie ! Tengo tre figlie, Dummi’.
Domenico e Alfredo rimangono sbalorditi. Rosalia rimane, invece, impassibile.
DOMENICO – Tre figlie ? ! Filume’, ma che staie dicenno ?
FILUMENA – (macchinalmente, ripete) Tengo tre figlie, Dummi’ !
DOMENICO – (smarrito) E… a chi so’ figlie ?
FILUMENA – (a cui non è fuggito il timore di Domenico, fredda) A ll’uommene comm’ a tte !
DOMENICO – Filume’… Filume’, tu staie pazzianno c’ ’o ffuoco ! Che vo’ dicere: «A
ll’uommene comm’ a tte » ?
FILUMENA – Pecché site tutte eguale.
DOMENICO – (a Rosalia) Vuie ’o ssapiveve ?
ROSALIA – Gnorsì, chesto ’o ssapevo.
DOMENICO – (ad Alfredo) E tu ?
ALFREDO – (pronto per scagionarsi) No. Donna Filumena mi odia, ve l’ho detto.
DOMENICO – (non ancora convinto della realtà dei fatti, come a se stesso) Tre figlie ! (A
Filumena) E quante anne tèneno ?
FILUMENA – ’O cchiú gruosso tene vintisei anne.
DOMENICO – Vintisei anne ?
FILUMENA – E nun fa sta faccia ! Nun te mettere paura: nun so’ figlie a te.
DOMENICO – (alquanto rinfrancato) E te cunòsceno ? e parlate, sanno che tu si’ ’a mamma ?
FILUMENA – No. Ma ’e vveco sempe e ce parlo.
DOMENICO – Addò stanno ? Che ffanno ? Comme campano ?
FILUMENA – Cu ’e denare tuoie !
DOMENICO – (sorpreso) Ch’ ’e denare mieie ?
FILUMENA – Eh, cu ’e denare tuoie. T’aggio arrubbato ! T’arrubbavo ’e denare ’a dint’ ’o
portafoglio ! T’arrubbavo dint’ all’uocchie.
DOMENICO – (con disprezzo) Mariola !
FILUMENA – (imperterrita) T’aggio arrubbato ! Te vennevo ’e vestite, ’e scarpe ! E
nun te ne si’ maie accorto ! Chill’aniello c’ ’o brillante, t’ ’o ricuorde ? Te
dicette ca ll’avevo perduto: m’ ’o vennette. Cu ’e denare tuoie, aggio crisciuto
’e figlie mieie.
DOMENICO – (disgustato) Io tenevo ’a mariola dint’ ’a casa ! Ma che femmena si’ tu ?
FILUMENA – (come se non lo avesse ascoltato, continua) Uno tene ’a puteca ’o vicolo appriesso: fa
’o stagnaro.
ROSALIA – (alla quale non sembra vero di parlarne, corregge) L’idrauliche…
DOMENICO – (che non ha capito) Comme ?
ROSALIA – (cercando di pronunziare meglio la parola) L’idraulico. Comme se dice:
acconcia ’e rubinette, spila ’e ffuntane… (Poi alludendo al secondo figlio) L’altro…
comme se chiamma ? (Ricordando a volo il nome) Riccardo. Quant’è bello ! Nu piezz’ ’e
guaglione ! Sta a Chiaia, tene ’o magazzino dint’ ’o purtone ’a nummero 74, fa ’o
cammesaro… le camicie. E tene na bella clientela. Umberto poi…
FILUMENA – … ha studiato, ha vuluto studià. Fa ’o ragiuniere e scrive pure ncopp’ ’e
ggiurnale.
DOMENICO – (ironico) Ci abbiamo pure lo scrittore in famiglia !
ROSALIA – (esaltando i sentimenti materni di Filumena) E che mamma ch’è stata ! Nun ll’ha
fatto mancà maie niente ! E io mo nce vo’, so’ vecchia e, al piú presto possibile, mi devo
trovare davanti alla presenza dell’Ente Supremo, che tutto vede, considera e perdona, e ca
chiacchiere nun se ne mmocca… Da quando erano piccoli, in fasce, nun ll’ha fatto
mancare il latte delle formicole…
DOMENICO – … cu ’e denare ’e don Dummineco !
ROSALIA – (spontanea, con istintivo senso di giustizia) Vuie ’e ghittàveve ’e denare !
DOMENICO – E avev’ ’a da’ cunto a quaccheduno ?
ROSALIA – Gnernò, cu’ ssalute ! Ma manco ve ne site accorto…
FILUMENA – (sprezzante) Ma nun ’o date retta ! Vuie ’o rispunnite pure ?
DOMENICO – (dominando i suoi nervi) Filume’, tu afforza me vuo’ pógnere ? Avimm’ ascì
all’impossibile ? Ma tu ’o ccapisce chello c’he fatto ? Tu m’ he miso in condizioni ’e me fa’
trattà comm’ a n’ ommo ’e paglia ! Insomma sti tre signure, ca nun ’e ccunosco manco pè
prossimo, ca nun saccio ’a do’ so’ asciute, a nu certo punto me ponno ridere pure nfaccia !
Pecché penzano: «Va buo’, ce stanno ’e denare ’e don Dummineco » !
ROSALIA – (escludendo questa ipotesi) Gnernò, chesto no ! E che ne sanno lloro ?… Donna
Filumena ha fatto sempe ’e ccose comme ll’avev’ ’a fa’: cu prudenza e cu ’a capa ncapo. ’O
nutaro cunsignaie ’e sorde all’idraulico, quann’ arapette ’a puteca ’o viculo appriesso,
condicendo che una signora ca non si voleva fare accanóscere… E accussì facette pure c’ ’o
cammesaro. E ’o nutaro tiene l’incombenza di passare il mensile a Umberto p’ ’o fa studià.
No, no… voi non c’entrate proprio.
DOMENICO – (amaro) Io aggio pavato sulamente !
FILUMENA – (con uno scatto improvviso) E ll’avev’ ’a accidere ?… Chesto avev’ ’a fa’, neh,
Dummi’ ? Ll’avev’ ’a accidere comme fanno tant’ati ffemmene ? Allora sì, è ove’, allora
Filumena sarrìa stata bbona ? (Incalzando) Rispunne !… E chesto me cunzigliavano tutt’ ’e
ccumpagne meie ’e llà ncoppo… (Allude al lupanare) «A chi aspetti ? Ti togli il
pensiero ! » (Cosciente) M’ ’avarrìa miso ’o penziero ! E chi avesse pututo campà
cu nu rimorso ’e chillo ? E po’, io parlaie c’ ’a Madonna. (A Rosalia) ’A Madunnella d’ ’e rrose, v’ ’a ricurdate ?
ROSALIA – Comme, ’a Madonna d’ ’e rrose ! Chella fa na grazia ’o giorno !
FILUMENA – (rievocando il suo incontro mistico) Erano ’e tre doppo mezanotte. P’ ’a strada
cammenavo io sola. D’ ’a casa mia già me n’ero iuta ’a sei mise. (Alludendo alla sua prima
sensazione di maternità) Era ’a primma vota ! E che ffaccio ? A chi ’o ddico ? Sentevo ncapo a
me ’e vvoce d’ ’e ccumpagne meie: « A chi aspetti ! Ti togli il pensiero ! Io cunosco a uno
molto bravo … » Senza vulé, cammenanno cammenanno, me truvaie dint’ ’o vico mio,
nnanz’ all’altarino d’ ’a Madonna d’ ’e rrose. L’affruntaie accussì (Punta i pugni sui fianchi e
solleva lo sguardo verso una immaginaria effige, come per parlare alla Vergine da donna a donna):
«C’aggi’ ’a fa’ ? Tu saie tutto… Saie pure pecché me trovo int’ ’o peccato.
C’aggi’ ’a fa’ ? » Ma essa zitto, nun rispunneva. (Eccitata) «E accussì ffaie, è
ove’ ? Cchiú nun parle e cchiú ’a gente te crede ?… Sto parlanno cu te ! (Con arroganza
vibrante) Rispunne ! »(Rifacendo macchinalmente il tono di voce di qualcuno a lei sconosciuto che, in
quel momento, parlò da ignota provenienza) « ’E figlie so’ ffiglie ! » Me gelaie. Rummanette
accussì, ferma. (S’irrigidisce fissando l’effige immaginaria) Forse si m’avutavo avarria visto o capito ’a do’ veneva ’a voce: ’a dint’ a na casa c’ ’o balcone apierto, d’ ’o vico appriesso, ’a
copp’ a na fenesta… Ma penzaie: « E pecché proprio a chistu mumento ? Che ne sape ’a
ggente d’ ’e fatte mieie ? È stata Essa, allora… È stata ’a Madonna ! S’è vista affruntata a tu
per tu, e ha vuluto parlà… Ma, allora, ’a Madonna pè parlà se serve ’e nuie… E quanno
m’hanno ditto: “Ti togli il pensiero !”, è stata pur’essa ca m’ ’ha ditto, pè me mettere ’a
prova !… » E nun saccio si fuie io o ’a Madonna d’ ’e rrose ca facette c’ ’a capa accussì ! (Fa
un cenno col capo come dire: «Sì, hai compreso ») «’E figlie so’ ffiglie ! » E giuraie. Ca
perciò so’ rimasta tant’anne vicino a te… Pè lloro aggio suppurtato tutto chello ca m’ he
fatto e comme m’he trattato ! E quanno chillu giovane se nnammuraie ’e me, ca me vuleva
spusà, te ricuorde ? Stevemo già nzieme ’a cinc’anne: tu, ammogliato, ’a casa toia,
e io a San Putito, dint’ ’a chelli tre cammere e cucina… ’a primma casarella ca
me mettiste quanno, dopo quatt’anne ca ce cunuscévamo, finalmente, me
levaste ’a llà ncoppo ! (Allude al lupanare) E mme vuleva spusà, ’o povero giovane… Ma
tu faciste ’o geluso. Te tengo dint’ ’e rrecchie: «Io so’ ammogliato, nun te pozzo spusà. Si
chisto te sposa … » E te mettiste a chiagnere. Pecché saie chiagnere, tu … Tutt’ ’o
cuntrario ’e me: tu, saie chiagnere ! E io dicette: « Va buo’, chisto è ’o destino mio !
Dummineco me vo’ bbene, cu tutt’ ’a bbona voluntà nun me pò spusà; è ammogliato… E
ghiammo nnanze a San Putito dint’ ’e tre cammere ! » Ma, po’, doppo duie anne, tua
moglie murette. ’O tiempo passava… e io sempre a San Putito. E penzavo: « È giovane,
nun se vo’ attaccà pè tutt’ ’a vita cu n’ata femmena. Venarrà ’o mumento ca se calma, e
cunsidera ’e sacrificie c’aggiu fatto ! » E aspettavo. E quann’io, ’e vvote, dicevo: «Dummi’,
saie chi s’è spusato ?… Chella figliola ca steva ’e rimpetto a me dint’ ’e fenestelle … », tu
redive, te mettive a ridere, tale e quale comm’ a quanno saglive, cull’amice tuoie, ncopp’
addò stevo io, primma ’e San Putito. Chella resata ca nun è overa. Chella resata c’accumencia ’a miez’ ’e scale… Chella resata ca è sempe ’a stessa, chiunque ’a fa ! T’avarrìa
acciso, quanno redive accussì ! (Paziente) E aspettammo. E aggio aspettato
vinticinc’anne ! E aspettammo ’e grazie ’e don Dummineco ! Oramaie tene
cinquantaduie anne: è viecchio ! Addò ? Ca pozza iettà ’o sango, chillo se crede
sempe nu giuvinuttiello ! Corre appriesso ’e nennelle, se nfessisce, porta ’e
fazzulette spuorche ’e russetto, m’ ’a mette dint’ ’a casa ! (Minacciosa) Miettammélla
mo dint’ ’a casa, mo ca te so’ mugliera. Te ne caccio a te e a essa. Ce simmo spusate. ’O
prèvete ce ha spusate. Chesta è casa mia !
Campanello interno. Alfredo esce per il fondo a destra.
DOMENICO – Casa toia ? (Ride forzatamente ironico) Mo me staie facenno ridere tu a me !
FILUMENA – (invogliandolo, con perfidia) E ride… Ride ! Ca, oramaie, me fa piacere ’e te sentere
’e ridere… Pecché, comm’ a tanno, nun saie ridere cchiú.
Alfredo torna, guarda un po’ tutti, preoccupato per quanto dovrà dire.
DOMENICO – (scorgendolo, sgarbatamente lo apostrofa) Tu che vuo’ ?
ALFREDO – Eh… che voglio ?… Hanno purtat’ ’a cena !
DOMENICO – Ma pecché nun avev’ ’a mangià, secondo voi ?
ALFREDO – (come per dire: «io non c’entro ») Eh… don Dummi’ ! (Parlando verso il fondo a
destra) Trase !
Entrano due facchini, garzoni di un ristorante, che recano un portavivande e un
cesto con la cena.
PRIMO FACCHINO –(servizievole, strisciante) Qua sta ’a cena. (All’altro) Miette ccà. (Poggiano a
terra il cesto nel punto indicato dal facchino). Signo’, il pollastro è uno solo perché è grande e
può saziare pure a quattro persone. Tutto quello che avete ordinato è di prima qualità. (Si
accinge ad aprire la vivandiera).
DOMENICO – (fermando il garzone con un gesto irritato) Oini’, mo sa’ c’he ’a fa ? Te n’he ’a ji’.
PRIMO FACCHINO – Gnorsì, signo’. (Prende dal cesto un dolce e poggiandolo sul tavolo)
Questo è il dolce che piace alla signorina… (E posando una bottiglia) E chesto è lo vino.
(Le parole del facchino cadono nel piú profondo silenzio. Ma l’uomo non si dà per vinto:
parla ancora. Questa volta per chiedere qualcosa, con tono mellifluo) E… ve site scurdato ?
Domenico ’E che ?
PRIMO FACCHINO – Comme ? Quanno site venuto ogge p’urdinà ’a cena, ve ricurdate ? Io
v’aggio cercato si teniveve nu cazone viecchio. E vuie avite ditto: « Viene stasera, e si cchiú
tarde succede na cosa che dich’i’, si aggio avuta na bella nutizia, tengo nu vestito nuovo
nuovo… ’o piglio e t’ ’o regalo ». (Il silenzio degli altri è cupo. Pausa. Il facchino è ingenuamente
dispiaciuto). Nun è succiesa ’a cosa ca diciveve vuie ? (Attende risposta. Domenico tace). Nun
l’avite avuta ’a bbona nutizia ?
DOMENICO – (aggressivo) T’aggiu ditto vatténne !
PRIMO FACCHINO – (meravigliato pel tono di Domenico) Ce ne stiamo andando… (Guarda ancora
Domenico, poi con tristezza) Iammuncenne, Carlu’, nun l’ha avuta ’a bbona nutizia… ’A
furtuna mia ! (Sospira) Bbona serata. (Esce per il fondo a destra seguito dal compagno).
FILUMENA – (dopo pausa, sarcastica a Domenico) Mangia. Ched’è, nun mange ? T’è passat’
’appetito ?
DOMENICO – (impacciato, rabbioso) Mangio ! Cchiú tarde bevo e mangio !
FILUMENA – (alludendo alla giovane donna nominata poco prima) Già: quanno vene ’a morta
allerta.
DIANA –(entra dalla comune. È una bella giovane di ventidue anni, o meglio, si sforza di
dimostrarne ventidue, ma ne ha ventisette. È di una eleganza affettata, un po’ snobistica.
Guarda tutti dall’alto in basso. Nell’incedere parla un po’ con tutti senza rivolgersi, direttamente, ad alcuno dei presenti che mostra di disprezzare in blocco. Non s’accorge, quindi,
della presenza di Filumena. Reca dei pacchetti di medicinali che poggia, macchinalmente,
sul tavolo. Prende da una sedia un càmice bianco da infermiera e lo indossa) Folla, folla in
farmacia. (Sgarbata, con fare da padrona) Rosalia, preparatemi un bagno. (Scorge le rose sul
tavolo) Oh, le rose rosse … ! Grazie, Domenico. (Annusando le vivande) Che profumino:
ho un po’ di appetito. (Prendendo dal tavolo una scatola di fialette) Ho trovato la canfora e
l’adrenalina. Ossigeno niente. (Domenico è come fulminato. Filumena non batte ciglio:
attende. Rosalia e Alfredo sono quasi divertiti. Diana siede accanto al tavolo di fronte al
pubblico e accende una sigaretta) Pensavo: se… mio Dio, non vorrei dirla la parola, ma ormai… se muore stanotte, domattina parto di buon’ora. Ho trovato un posto nella macchina
di una mia amica. Qui darei piú fastidio che altro. A Bologna, invece, ho certe cosette da
fare, tanti affarucci da mettere a posto. Tornerò fra dieci giorni. Verrò a vedervi, Domenico. (Alludendo a Filumena) E… come sta ?… Sempre in agonia ?… È venuto il prete ?
FILUMENA – (dominandosi con affettata cortesia, s’avvicina lentamente alla giovane)
Il preto è venute… (Diana sorpresa si alza e indietreggia di qualche passo) … e
confromme ha visto che stavo in agonizzazione… (Felina) Lèvate ’o càmmese !
DIANA – (che veramente non ha compreso) Come ?
FILUMENA – (c. s.) Lèvate ’o càmmese !
ROSALIA – (s’accorge che Diana neanche questa volta ha compreso e per evitare il peggio, le
consiglia prudentemente) Levatevi questo. (E su se stessa scuote, con due dita, la camiciola
del suo abito, perché, finalmente, Diana possa comprendere a volo che Filumena allude al
càmice d’infermiera).
Diana, con timore istintivo, si toglie il càmice.
FILUMENA – (che ha seguito il gesto di Diana, senza staccarle gli occhi di dosso) Pòsalo ncopp’
’a seggia… Pòsalo ncopp’ ’a seggia.
ROSALIA – (prevedendo l’incomprensione di Diana) Mettetelo sopra la sedia.
Diana esegue.
FILUMENA – (riprende il tono cortese di prima) Ha visto che agonizziavo e ha consigliato a
don Domenico Soriano di perfezionare il vincolo in estremità. (Allude al prete. Diana per
darsi un contegno, non sapendo che fare, prende dal «centro » una rosa e finge di aspirarne
il profumo. Filumena la fulmina con il tono opaco della sua voce) Pos’ ’a rosa !
ROSALIA – (pronta) Posate la rosa.
Diana, come obbedendo a un ordine teutonico, la rimette sul tavolo.
FILUMENA – (ridiventa cortese) E don Domenico l’ha trovato giusto perché ha penzato: « È
giusto, sta disgraziata sta vicino a mme ’a vinticinc’anne … » E tante altre conseguenze e
sconseguenze che non abbiamo il dovere di spiegarvi. È venuto vicino al letto (sempre alludendo al prete) e ci siamo sposati… con due testimoni e la benedizione del saciardote.
Saranno i matrimoni che fanno bene, cert’è che mi sono sentita subito meglio. Mi sono
alzata e abbiamo rimandata la morte. Naturalmente, dove non ci sono infermi malati non ci
possono essere infermieri… e le schifezze… (con l’indice della mano destra teso assesta a Diana
dei misurati colpetti sul mento, che costringono la donna a dire repentini e involontari: «No » col capo)
… le purcarie… (ripete il gesto) davanti a una che sta murenno… pecché tu sapive che io
stavo murenno… ’e vaie a ffa’ ’a casa ’e sòreta ! (Diana sorride come un’ebete, come per dire:
«Non la conosco ») Andatevene con i piedi vostri e truvàteve n’ata casa, no chesta.
DIANA – (sempre ridendo indietreggia fino al limitare della porta d’ingresso) Va bene.
FILUMENA – E se vi volete trovare veramente bene, dovete andare sopra addò stevo io…
(Allude al lupanare).
DIANA – Dove ?
FILUMENA – Ve lo fate dire da don Domenico, che quelle case le frequenteggiava e le
frequenteggia ancora. Andate.
DIANA – (dominata dallo sguardo rovente di Filumena, quasi presa da un subito orgasmo)
Grazie. (Si avvia per il fondo a destra).
FILUMENA – Non c’è di che. (E ritorna al suo posto a sinistra).
DIANA – Buonanotte. (Esce).
DOMENICO – (che fino a quel momento è rimasto penso assorto in strane elucubrazioni,
alludendo a Diana, si rivolge a Filumena) Accussì l’he trattata, è ove’ ?
FILUMENA – Comme se mmèreta. (Gli fa un gesto di dispetto).
DOMENICO – Ma ’assamme sèntere na cosa. Tu si’ na diavula… Uno cu te ha da sta cu tantu
nu paro d’uocchie apierte… ’E pparole toie s’hann’ ’a tènere a mente, s’hann’ ’a pesà. Te
cunosco, mo. Si comm’ a na tarla. Na tarla velenosa c’addò se posa, distrugge. Tu poco
primma he ditto na cosa e io mo ce stevo penzanno. He ditto: « … È n’ata cosa ca voglio ’a
te… e mm’ ’a daie ! » ’E denare no, pecché ’o ssaie ca te ll’avarrie date… (Come ossessionato)
Che ato vuò ’a me ? Che te si’ mmise ncapo ? C’he penzato, e nun m’he ditto ancora ?…
Rispunne !
FILUMENA – (con semplicità) Dummi’, ’a saie chella canzone ?… (Ne accenna l’aria con allusione)
«Me sto criscenno nu bello cardillo… quanta cose ca l’aggia mparà »…
ROSALIA – (alzando gli occhi al cielo) Ah, Madonna !
DOMENICO – (guardingo, sospettoso, pavido a Filumena) E che significa ?
FILUMENA – (precisa) ’O cardillo si’ tu !
DOMENICO – Filume’, parla chiaro… Nun pazzià cchiú cu mme… Me faie piglià ’a freva,
Filume’…
FILUMENA – (seria) ’E figlie so’ ffiglie !
DOMENICO – E che vuo’ dicere ?
FILUMENA – Hann’ ’a sapé chi è ’a mamma… Hann’ ’a sapé chello c’ha fatto pè lloro…
M’hann’ ’a vulé bene ! (Infervorata) Nun s’hann’ ’a mettere scuorno vicino all’at’uommene:
nun s’hann’ ’a sentì avvilite quanno vanno pè caccià na carta, nu documento: ’a famiglia, ’a
casa… ’a famiglia ca s’aunisce pè nu cunziglio, pè nu sfogo… S’hann’ ’a chiammà comm’ a
mme !
DOMENICO – Comm’ a me che ?
FILUMENA – Comme me chiamm’io… Simmo spusate: Soriano !
DOMENICO – (sconvolto) E io l’avevo capito ! Ma ’o vvule vo sentere ’a te… ’o vvulevo sentere
’a sta vocca sacrilega, pè me fa capace ca, pure si te ne caccio a càuce, pure si te scamazzo ’a
capa, è come si ’a scamazzasse a na serpe: na serpe velenosa ca se distrugge pè liberazione d’
’e povere cristiane ca ce ponno capità. (Alludendo al piano di Filumena) Ccà, ccà ? Dint’ ’a
casa mia ? C’ ’o nomme mio ? Chille figlie ’e…
FILUMENA – (aggressiva per impedirgli di pronunciare la parola) ’E che ?
DOMENICO – Tuoie !… Si m’addimanne: ’e che ? te pozzo risponnere: tuoie ! Si
m’addimanne: ’e chi ? nun te pozzo risponnere, perché nun ’o ssaccio ! E manco tu ’o
ssaie ! Ah !, te credive d’accuncià ’a facenna, ’e te mettere a posto cu ’a cuscienza, ’e te salvà
d’ ’o peccato, purtanno dint’ ’a casa mia tre estranei ?… S’hann’ ’a nzerrà ll’uocchie mieie !
Nun ce mettarranno pede ccà dinto ! (Solenne) Ncopp’ all’anema ’e pàtemo…
FILUMENA – (repentinamente con uno scatto sincero lo interrompe come per metterlo sull’avviso
di un castigo che gli potrebbe venire da un sacrilegio commesso per cause imponderabili) Nun
giurà ! Ca io, p’avé fatto nu giuramento, te sto cercanno ’a lemmòsena ’a
vinticinc’anne… Nun giurà pecché è nu giuramento ca nun putisse mantené… E
murrarisse dannato, si nu iuorno nun me putarrisse cercà ’a lemmòsena tu a
me…
DOMENICO – (suggestionato dalle parole di Filumena, come uscendo di senno) Che ato staie
penzanno ?… Strega che si’ ! Ma io nun te temo ! Nun me faie paura !
FILUMENA – (sfidandolo) E pecché ’o ddice !
DOMENICO – Statte zitta ! (Ad Alfredo, togliendosi il pigiama) Damme ’a giacchetta ! (Alfredo esce
per lo «studio » senza parlare). Dimane te ne vaie ! Me metto mmano all’avvocato, te
denunzio. È stato nu traniello. Tengo ’e testimone… E si ’a legge m’avess’ ’a da’ tuorto,
t’accido Filume’ ! Te levo d’ ’o munno !
FILUMENA – (ironica) E addò me miette ?
DOMENICO – Addò stive ! (È esasperato, offensivo, Alfredo ritorna recando la giacca,
Domenico gliela strappa di mano e la indossa, dicendogli) Tu, dimane, vaie a chiamma’
l’avvocato mio, ’o saie ?… (Alfredo la cenno di sì col capo). E parlammo, Filume’ !
FILUMENA – E parlammo !
DOMENICO – Te faccio cunoscere chi è Domenico Soriano e di che panne veste (Si avvia verso
il fondo).
FILUMENA – (indicando la tavola) Rosali’, asséttate… ca be ’a tènere famma pure tu ! (Siede
vicino al tavolo di fronte al pubblico).
DOMENICO – Statte bbona… Filumena ’a napulitana !…
FILUMENA – (Canticchia) « Me sto criscenno nu bello cardillo »…
DOMENICO – (sul canticchiare di Filumena, ride sghignazzando come per schernire e
oltraggiare volutamente Filumena) T’arricuorde sta resata… Filumena Marturano !… (Ed
esce seguito da Alfredo, dal fondo a destra, mentre cade la tela sul primo atto).
ATTO SECONDO
L’indomani. La medesima scena del primo atto.
Per pulire il pavimento la serva ha spostato tutte le sedie: qualcuna portandola sul terrazzo,
altre adagiandole, capovolte, sul tavolo, altre, ancora, confinandole nello « studio » di
Domenico.
Il tappeto, sul quale fa centro il tavolo da pranzo, è piegato su se stesso ai quattro lati. Luci
normali di una bella mattina di sole.
Lucia è la serva di casa: simpatica e sana ragazza sui ventitré anni. Ha completato il suo
lavoro. Strizza per l’ultima volta lo strofinaccio nel secchio dell’acqua sudicia, quindi va a
riporre tutti gli arnesi di pulizia sul terrazzo.
ALFREDO – (stanco, assonnato, entra dalla comune, mentre Lucia si accinge a rimettere a posto
il tappeto) Luci’, buongiorno.
LUCIA – (fermandolo con il tono risentito della voce e col gesto) Nun accuminciate a
cammenà cu ’e piede !
ALFREDO – E mo cammino cu ’e mmane !
LUCIA – Io, mo ho finito di buttare il sangue… (Mostra il pavimento ancora in parte bagnato) Vuie
ve presentate cu sti ppedagne !
ALFREDO – ’E ppedagne ?… Io sto acciso ! (Siede presso il tavolo) He capito che significa
acciso ? Tutt’ ’a notte appriesso a don Dummineco, senza chiudere uocchie. Assettato
ncopp’ ’o parapetto d’ ’a Caracciolo. Mo accumencia a fa’ pure frischetto… Ca il
Padreterno mi doveva far capitare proprio a me alle dipendenze di lui ! No ca mi lamento,
p’ammor’ ’a Madonna ! Io ho campato, mi ha dato a vivere, e abbiamo avuto anche
momenti di fasti, io con lui e lui con me. ’O Signore lo deve far campare mille anni, ma
cuieto, tranquillo ! Tengo sissant’anne, mica un giorno ! Chi ’e pò ffa’ cchiú ’e nnuttate
appriesso a isso… Luci’, damme na tazzulella ’e cafè.
LUCIA – (che ha rimesso a posto le sedie, senza dare ascolto allo sfogo di Alfredo, con
semplicità) Non ce n’è !
ALFREDO – (contrariato) Non ce n’è ?
LUCIA – Non ce n’è. C’era quello di ieri: una tazza me la sono presa io, un’altra donna Rosalia
non l’ha voluta e l’ha portata a donna Filumena, e un’altra l’ho conservata a don
Domenico, caso mai viene…
ALFREDO – (fissandola poco convinto) Caso mai viene ?
LUCIA – Eh, caso mai viene. Donna Rosalia ’o ccafè nun l’ha fatto.
ALFREDO – E nun ’o pputive fa’ tu ?
LUCIA – E ssaccio fa’ ’o ccafè, io ?
ALFREDO – (sprezzante) Manco ’o ccafè saie fa’. E pecché nun l’ha fatto Rosalia ?
LUCIA – È uscita presto. Dice che doveva portare tre lettere urgenti di donna Filumena.
ALFREDO – (sospettoso) … Di donna Filumena ? Tre lettere ?
LUCIA – Eh, tre: una, due e tre.
ALFREDO – (considerando il suo stato di esaurimento) Ma io nu surzo ’e cafè me ll’aggia piglià. Sa’
che vuo’ fa, Luci’ ?… ’A tazza ’e don Domenico la dividi in due e dint’ ’o ssuio ce miette
ll’acqua.
LUCIA – E si se n’addona ?
ALFREDO – Chillo è difficile ca vene. Steva nquartato ’e chella manera… E po’, si vene, aggio
cchiú abbisuogno io ca so’ viecchio, ca lui. Chi ce l’ha fatto fa’ ’e sta’ mmiez’ ’a via tutt’ ’a
nuttata ?
LUCIA – Io mo v’ ’o scarfo e v’ ’o pporto. (S’avvia per la comune a sinistra, ma vedendo
giungere Rosalia dal lato destro, si ferma e avverte Alfredo) Donna Rosalia… (Vedendo
che Alfredo la guarda senza parlare) Che ffaccio ? V’ ’o pporto ’o ccafè ?
ALFREDO – Tanto piú che sta venenno donna Rosalia ! Fa’ il caffè fresco per don Domenico.
Meza tazza ne voglio ! (Lucia esce. Rosalia entra dalla comune e s’accorge della presenza di
Alfredo. Finge però di non averlo visto e, tutta compresa in una sua missione, s’avvia alla
camera da letto di donna Filumena. Alfredo a cui non è sfuggito l’atteggiamento di Rosalia,
la fa giungere fin quasi al limitare della porta sinistra, poi, ironicamente, la richiama)
Rosali’, ched’è… he perza ’a lengua ?
ROSALIA – (indifferente) Nun t’aggio visto.
ALFREDO – Nun t’aggio visto ? E che sso’ nu pólice ncopp’ ’a sta seggia ?
ROSALIA – (ambigua) Eh, nu pólice c’ ’a tosse… (Tossicchia).
ALFREDO – (Che non ha compreso l’allusione) C’ ’a tosse ?… (Cercando di indagare) Si’
asciuta ampressa ?
ROSALIA – (enigmatica) Già.
ALFREDO – E addò si’ghiuta ?
ROSALIA – A messa.
ALFREDO – (incredulo) A messa ? ! E po’ he purtato tre lettere ’e donna Filumena…
ROSALIA – (come colta in fallo, dominandosi) E una volta che lo sapevi, perché hai domandato ?
ALFREDO – (simulando anch’egli indifferenza) Così, a titolo di esportazione. E a chi ll’he
purtate ?
ROSALIA – Te l’ho detto prima: si’ nu pólice c’ ’a tosse.
ALFREDO – (impermalito, per non aver compreso, torvo) ’A tosse ? Ma che ce trase sta tosse ?
ROSALIA – (come per dire: «Non sai mantenere un segreto ») Parle, vaie parlanno. E po’: si’ spione !
ALFREDO – Pecché, quacche vota aggio spiunato a tte ?
ROSALIA – A me ? E a me nun ce sta niente ’a spiunà. Limpida comm’ all’acqua
surgiva surgente. ’E fatte mieie so’ chiare, titò. (Come una cantilena che, ormai, per
averla ripetuta chissà quante volte, conosce a memoria) Nata il ’70. Fatt’ ’o cunto quant’anne
tengo. Da poveri ed onesti genitori. Mia madre, Sofia Trombetta, faceva ’a lavannara, e mio
padre, Procopio Solimene, ’o maniscalco. Rosalia Solimene, ca sono io, e Vincenzo
Bagliore che aggiustava mbrelle e cufenatore, contrassero regolare matrimonio
addì due novembre 1887…
ALFREDO – ’O iuorno d’ ’e muorte ?
ROSALIA – Avévem’ ’a da’ cunto a te ?
ALFREDO – (divertito) No. (Invogliandola a parlare) Iamme nnanze.
ROSALIA – Da questa riunione vennero al mondo tre figli in una sola volta. Quando
la levatrice portò la notizia a mio marito che stava al vicolo appresso, intento al
suo lavoro, ’o truvaie c’ ’a capa dint’ a na scafaréa…
ALFREDO – S’ ’a steva sciacquanno !
ROSALIA – (con tono marcato, ripete la frase, come per fargli intendere l’inopportunità dello scherzo) …
cu ’a capa dint’ a na scafaréa per sincope sopravvenuta che, immaturamente, lo rapiva.
Orfana di genitori, ambodue…
ALFREDO – E terno ’e tre…
ROSALIA – (c. s.) … ambodue e con tre figli da crescere, andai ad abitare al vicolo
San Liborio, basso numero 80, e mi misi a vendere sciosciamosche, cascettelle p’
’e muorte e cappielle ’e Piererotta’. ’E sciosciamosche li fabbricavo io stessa e
guadagnavo quel poco per portare avanti i miei figli. Al vicolo San Liborio ebbi a
conoscere donna Filumena, che, bambina, giocava ch’ ’e tre ffiglie mieie. Doppo
vintun’anno, ’e figlie mieie, nun truvanno lavoro, se n’andaiene uno in Australia e duie in
America… e nun aggio avuto cchiú nutizie. Rimanette io sola; io, ’e sciosciamosche e ’e
cappielle ’e Piererotta. E nun ne parlammo, si no me va ’o sango ncapo ! E si nun fosse
stato pè donna Filumena che mi prese con lei, in casa, quando si arriunì con
don Domenico, sarei finita a chiedere l’elemosina sopra le scale di una chiesa !
Arrivederci e grazie, è fernuta ’a pellicola.
ALFREDO – (sorridendo) Domani nuovo programma ! Ma a chi he purtato ’e tre lettere, nun s’è
pututo sapé !
ROSALIA – Questa incombenza delicata che mi è stata profferta, non la posso sprofferire per farla
diventare di dominio pubblico.
ALFREDO – (deluso, con dispetto) Quanto si’ antipatica ! ’A malignità t’ha sturzellata
tutta quanta. E quanta vote si’ brutta !
ROSALIA – (sostenuta) Non devo trovare il partito !
ALFREDO – (dimenticando lo scambio di offese, col tono abituale di confidenza) M’he ’a
còsere stu bottone vicino ’a sta giacchetta. (Mostra il punto).
ROSALIA – (avviandosi in camera da letto, con lieve senso di ritorsione) Domani, se tengo
tempo.
ALFREDO – E m’he ’a cósere pure na fettuccia mpont’ ’a mutanda !
ROSALIA – Comprate la fettuccia e ve la cóso. Permesso. (Dignitosa esce per la porta di sinistra).
Dal fondo a sinistra entra Lucia recando una tazzina riempita a metà di caffè. Si ode il
campanello. Ella, che era diretta verso Alfredo, torna indietro ed esce per la comune.
DOMENICO – (dopo una pausa, pallido, assonnato, entra dal fondo seguito da Lucia. Scorge il
caffè) È ccafè, chesto ?
LUCIA – (dando un’occbiata d’intenzione ad Alfredo che, alla venuta di don Domenico, si è
alzato) Sissignore.
DOMENICO – Damme ccà. (Lucia porge la tazza a Domenìco che ne beve il contenuto quasi
d’un fiato) ’O ddesideravo nu poco ’e cafè !
ALFREDO – (rabbuiato) Io pure.
DOMENICO – (a Lucia) Portale na tazza ’e cafè. (Siede al tavolo, il volto tra le mani, assorto in
cupi pensieri).
Lucia fa comprendere ad Alfredo, con i gesti, che l’altra metà della tazza di caffè, che dovrà
portargli, è stata già stata diluita in acqua.
ALFREDO – (spazientito, rabbioso) Portalo ’o stesso.
Lucia esce per il fondo a sinistra.
DOMENICO – Ch’è stato ?
ALFREDO – (sorridendo forzatamente) Ha ditto c’ ’o ccafè è friddo. Aggio ditto: portalo ’o stesso.
DOMENICO – Lo riscalda e lo porta. (Tornando al suo pensiero) Si’ stato dall’avvocato ?
ALFREDO – Comme no.
DOMENICO – E quanno vene ?
ALFREDO – Appena tene tiempo. Ma in giornata senz’altro.
Lucia entra dal fondo recando un’altra tazza di caffè. Si avvicina ad Alfredo e
gliela porge guardandolo ironicamente, quindi, divertita, esce per il fondo. Alfredo,
sfiduciato, si accinge a sorbire la bevanda.
DOMENICO – (completando ad alta voce il suo pensiero, con apprensione) … E si è
malamente ?
ALFREDO – (credendo cbe Domenico alluda al suo caffè, con rassegnazione) C’aggia fa’, don Dummi’,
nun m’o ppiglio. Vo’ dicere ca quanno scengo m’ ’o ppiglio ’o bar.
DOMENICO – (disorientato) Che cosa ?
ALFREDO – (convinto) ’O ccafè.
DOMENICO – Che me ne mporta d’ ’o ccafè, Alfre’. Io dico: si è malamente chello ca sto
facenno… nel senso che l’avvocato me dice ca nun se pò ffa’ niente…
ALFREDO – (dopo di aver sorbito un sorso di caffè con una smorfia di disgusto) Non è
possibile… (Va a deporre la tazza su di un mobile, in fondo).
DOMENICO – Che ne sai, tu ?
ALFREDO – (da intenditore) Comme che ne saccio ? È una schifezza !
DOMENICO – Bravo: è una schifezza. Proprio così. L’ha fatto male. Nun l’ha saputo fa’…
ALFREDO – Don Dummi’, nun l’ha saputo maie fa’ !
DOMENICO – Ma io ricorro in tribunale, in appello, ’a Corte suprema !
ALFREDO – (sbalordito) Don Dummi’, p’ammor’ ’a Madonna ! Pè nu surzo ’e cafè ?
DOMENICO – Ma tu che vvuo’ cu stu ccafè ? Io sto parlanno d’ ’o fatto mio !
ALFREDO – (non ha ancora compreso, vago) Ecco… (comprende divertito l’equivoco) Ah !…
(Ride) Eh… (Poi temendo l’ira di don Domenico, diviene d’un tratto compartecipe alla
gravità dello stato d’animo del padrone) Ah… eh… Perdio !
DOMENICO – (al quale non è sfuggita la metamorfosi spirituale del suo interlocutore,
s’intenerisce, rassegnato ad accettare l’incomprensione di Alfredo) Che parlo a ffa’ cu te ? ’E
che pozzo parlà cu te ? D’ ’o ppassato… Ma te pozzo parlà d’ ’o ppresente ?… (Lo guarda
come se allora lo avesse conosciuto. La sua voce assume un tono di sconforto) Guarda llà,
gua’… Alfredo Amoroso, come sei ridotto ! ’A faccia appesa, ’e capille ianche, ll’uocchie
appannate, miezo rimbambito…
ALFREDO – (ammettendo tutto, anche perché non oserebbe mai contraddire il padrone e
come rassegnandosi ad una fatalità) Perdio !
DOMENICO – (considerando che anch’egli, in fondo, ha subito le metamorfosi dell’età e delle vicende
umane, rievoca) Gli anni passano e passano per tutti quanti… T’ ’o ricuorde a Mimì Soriano,
don Mimì, t’ ’o ricuorde ?
ALFREDO – (Colto soprappensiero, falsamente interessato) Gnernò, don Dummi’, è muorto ?
DOMENICO – (con amarezza) È muorto, proprio accussì. Don Mimì Soriano è morto !
ALFREDO – (comprendendo a volo la gaffe) Ah… vuie diciveve… Don Mimì… (Serio) Ma…
perdio !
DOMENICO – (come rivedendo la sua immagine giovanile) ’E mustaccielle nire ! Sicco comm’ a nu
iunco ! ’A notte ’a facevo iuorno… Chi durmeva maie ?
ALFREDO – (sbadigliando) M’ ’o ddicite a me ?
DOMENICO – T’ ’a ricuorde chella figliola ncoppo Capemonte ?… Che bella
guagliona: Gesummina ! – «Fuimmencenne », – ’a tengo dint’ ’e rrecchie… E ’a
mugliera d’ ’o veterinario ?
ALFREDO – Comme… Ah, che me facite ricurdà ! Chella po’ teneva na cainata ca faceva ’a
capera. Io mi ci misi appresso ma nun se facevano ’e carattere…
DOMENICO – ’E meglio attacche, quanno scennevo abbascio ’a Villa ! Tanno ce
steva ancora ’o truttuarre.
ALFREDO – Iveve nu figurino !
DOMENICO – O «nuasetto » o grigio: chille erano ’e culure mieie. Cappello duro, ’a
cravascia mmano… ’E meglie cavalle erano ’e mieie. T’arricuorde «Uocchie
’argiento » ?
ALFREDO – Comme nun m’ ’a ricordo ?… Perdio ! « Uocchie ’argiento », ’a storna ?…
(Con nostalgia) Che grande cavalla ! Ci aveva un di dietro che era una luna piena ! Quanno
se guardava ’e faccia il di dietro, sembrava una luna piena nel momento del risorgimento ! Io
me n’annammuraie ’e chella cavalla ! E pirciò me lassaie cu ’a capera. E quanno v’ ’a
vennisteve, Alfredo Amoroso ebbe un grande dolore.
DOMENICO – (abbandonandosi al volo dei suoi ricordi) Parigi, Londra… ’e ccorse… Me
sentevo nu Padreterno ! Me sentevo ca putevo fa’ chello ca vulevo io: senza règula, senza
cuntrollo… (Infervorandosi) Ca nisciuno, maie, manco Dio, me puteva levà ’a copp’ ’o
munno ! Me sentevo padrone d’ ’e muntagne, d’ ’o mare, d’ ’a vita mia stessa… E mo ? Mo
me sento finito, senza vuluntà, senza entusiasmo ! E chello che ffaccio, ’o ffaccio pè
dimustrà a me stesso ca nun è overo, ca songo ancora forte, ca pozzo ancora vencere
l’uommene, ’e ccose, ’a morte… E ’o ffaccio accussì naturale, ca ce credo, me cunvinco,
me stono… e cumbatto ! (Risoluto) Aggia cumbattere ! Domenico Soriano non si piega.
(Ripigliando il suo tono deciso) Ch’è succiesso ccà ? He saputo niente ?
ALFREDO – (reticente) Eh… « He saputo niente ? » Qua mi tengono all’oscuro. Donna
Filumena, ’o ssapite, nun me pò vedé. Vulesse sapé che ll’aggio fatto… Rosalia, pè ditto ’e
Lucia e confermato da Rosalia medesima, dice che ha purtato tre lettere orgente pè cunto ’e
donna Filumena.
DOMENICO – (ruminando, ma sicuro delle sue supposizioni) A chi ?
Alfredo fa per rispondere qualcosa, ma si arresta vedendo entrare, da sinistra, Filumena.
FILUMENA –(in abito da casa, un po’ in disordine, seguita da Rosalia che reca delle lenzuola e
finge di non vederli. Chiama verso la comune) Luci’… (A Rosalia) Dateme ’a chiave.
ROSALIA – (porgendo le chiavi) Eccomi a voi.
FILUMENA – (intascandole, spazientita, alludendo a Lucia che ritarda) E vvi’ si vene chella…
(Chiama con un tono di voce un po’ piú forte e perentorio) Luci’ !
LUCIA – (entra dal fondo a sinistra, premurosa) Ch’è stato, signo’ ?
FILUMENA – (tagliando corto) Pigliete sti lenzole. (Rosalia consegna la biancheria). ’O saluttino,
vicino ’o studio, ce sta n’ottomana, l’accuonce a lietto.
LUCIA – (un po’ sorpresa) Va bene. (Fa per andare).
FILUMENA – (fermandola) Aspetta. ’A cammera toia me serve. (Lucia cade dalle nuvole).
Cheste so’ ’e llenzole pulite: doie mute. Tu te faie ’a branda dint’ ’a cucina.
LUCIA – (visibilmente contrariata) Va bene. E ’a rrobba mia ? Aggi’ ’a levà pure ’a rrobba mia ?
FILUMENA – T’aggio ditto ca me serve ’a cammera !
LUCIA – (alzando un po’ il tono della voce) E ’a rrobba mia addò ’a metto ?
FILUMENA – Te piglie ’o, stipo dint’ ’o curridore.
LUCIA – Va bene. (Esce per il fondo a sinistra).
FILUMENA – (fingendo di scorgere solo allora Domenico) Tu stive lloco ?
DOMENICO – Si, stevo ccà nterra… (Freddo) Se pò ssapé ched’è sta trasformazione in casa
mia ?
FILUMENA – Comme no ? E che ci sono sicreti fra marito e moglie ? Mi servono altre due
camere da letto.
DOMENICO – E pè chi servono ?
FILUMENA – (categorica) P’ ’e figlie mieie. Sarebbero state tre, ma siccome uno è ammogliato e
tene pure quatto guagliune, se sta ’a casa soia, p’ ’e fatte suoie.
DOMENICO – Ah, mbè ? i Ce stanno pure ’e niputine ?… (Provocatore) E comme se chiamma
sta tribú che tenive astipata ?
FILUMENA – (sicura del fatto suo) Pè mo portano ’o nomme mio… Piú in là purtarranno ’o
nomme tuio.
DOMENICO – Senza ’o cunsenzo mio, nun credo !
FILUMENA – Ce ’o daie, Dummi’… Ce ’o daie ! (Esce per la porta di sinistra).
ROSALIA – (a Domenico con ostentato senso di rispetto) Permesso. (Segue Filumena).
DOMENICO – (con un incontenibile scatto grida attraverso la porta a Filumena, alludendo ai
figli) N’ ’e ccaccio ! He capito ? N’ ’e ccaccio !
FILUMENA – (dall’interno, con voce ironica) Nchiudite ’a porta, Rusali’.
La porta si chiude sul muso di Domenico.
LUCIA – (entra dal fondo e si rivolge a Domenico con tono riservato) Signo’, fore ce sta ’a signurina
Diana, con un altro signore,
DOMENICO – (interessandosi) E falla trasì.
LUCIA – Nun vo’ trasi. Io ho insistito, ma ha ditto che andate voi for’ ’a sala. Se mette appaura
’e donna Filumena.
DOMENICO – (esasperato) Vuie vedite ’o Pateterno ! Aggio miso ’o cammurrista dint’ ’a casa !
(Alludendo a Diana) Dincello che tràseno perché ci sono io qua.
Lucia esce.
ALFREDO – Chella si ’a vede… (accompagnando la parola col gesto, come per dire:
«la picchia »)… ’a scutuléa…
DOMENICO – (gridando in modo da farsi ascoltare anche oltre la porta chiusa della camera da
letto, come per prevenire il caso) C’ha dda’ scutulià, Alfre’ ? ! Ma ccà, overamente
facimmo ?… Io songo ’o padrone ! (Alludendo a Filumena) Essa nun è niente ! Facimmece
capace tutte quante dint’ a sta casa !
LUCIA – (ritorna dal fondo e a Domenico) Signo’, non ha voluto entrare. Dice che lei non
risponde dei suoi nervi.
DOMENICO – Ma chi ce sta cu essa ?
LUCIA – Nu signore. Essa l’ha chiamato avvocato. (Considerando) Ma me pare ca se mette
appaura pur’isso…
DOMENICO –Ma comme ?… Siamo tre uomini !
ALFREDO – (Sincero) A me non mi contate… Pecché, comme stongo stammatina,
vaco tre sorde ! (Deciso) Anzi, vuie avit’ ’a parlà… Me vaco a ffà na sciacquata ’e faccia
dint’ ’a cucina. Se mi volete, mi chiamate… (Senza attendere risposta, esce per il fondo a sinistra).
LUCIA –Signo’, c’aggi’ ’a fa’ ?
DOMENICO – Mo ce vaco io ! (Lucia esce per il fondo a sinistra, Domenico per il fondo a
destra, introducendo subito dopo, Diana e l’avvocato Nocella) Non lo dite neanche per
ischerzo ! Questa è casa mia.
DIANA –(ferma sotto la soglia, con alle spalle l’avvocato, in preda ad evidente orgasmo) No, caro
Domenico, dopo la scenata di ieri non intendo assolutamente di ritrovarmi a faccia a faccia
con quella donna.
DOMENICO – (rassicurandola) Ma vi prego, Diana, mi mortificate. Entrate, non dovete avere
paura.
DIANA – Paura, io ? Ma neanche per sogno ! Non voglio giungere a degli eccessi.
DOMENICO – Non è il caso. Ci sono io qua.
DIANA – Ieri sera pure, c’era lei.
DOMENICO – Ma fu così all’improvviso… Ma vi assicuro che non dovete temere niente.
Entrate, avvoca’, accomodatevi.
DIANA – (avanzando di qualche passo, allude a Filumena) Dov’è ?
DOMENICO – Vi ripeto: non vi preoccupate. Accomodatevi, sedetevi. (Porge le sedie. I tre
seggono intorno al tavolo: Nocella nel mezzo, Domenico a destra, Diana a sinistra. Ella non
perde d’occhio la camera da letto). Dunque ?
NOCELLA –(è un uomo sui quarant’anni, normale, insignificante. Veste con una certa eleganza
sobria. Si trova lì a parlare del caso Soriano perché vi è stato trascinato da Diana. Si nota,
infatti, nel tono della voce, un certo disinteresse) Io abito nella pensione dove abita la
signorina. E là ci siamo conosciuti tempo fa.
DIANA – L’avvocato può dire chi sono e che vita faccio.
NOCELLA ( –che non vuole immischiarsi) Ci vediamo la sera, a tavola. Io, poi, in pensione ci sto
raramente… Tribunale, clienti; e, di solito, non m’interesso.
DIANA – (non riuscendo a trattenere la sua apprensione, dopo aver guardato ancora una volta a
sinistra la porta donde ha timore debba uscire Filumena da un momento all’altro, a
Domenico) Scusi, Domenico… Preferisco sedere al posto suo. Ha difficoltà ?…
DOMENICO – Vi pare…
I due cambiano posto.
DIANA – (ripigliando il discorso iniziato da Nocella) E proprio a tavola, ieri sera, io raccontai il caso
suo e di Filomena.
NOCELLA –Già… ci facemmo un sacco di risate…
Sguardo significativo di Domenico.
DIANA – Oh, no, no, io non ne risi per niente.
NOCELLA –la guarda con intenzione.
DOMENICO – La signorina si trovava qua, perché io la feci fingere infermiera.
DIANA – Mi fece fingere ? Ma neanche per sogno ! Sono infermiera, e come: con tanto di
diploma ! Non gliel’ho mai detto, Domenico ?
DOMENICO – (sorpreso) No, veramente.
DIANA – Bah, in fondo, perché avrei dovuto dirglielo ?… (Ripigliando il discorso) Dissi il suo
stato d’animo e la sua preoccupazione di dover rimanere legato ad una donna, senza averne
avuto mai il minimo desiderio. E l’avvocato spiegò esaurientemente…
Campanello interno.
DOMENICO – (preoccupato) Scusate, vi dispiace di passare nello studio ? Hanno suonato il
campanello.
Lucia attraversa il fondo da sinistra a destra.
DIANA – (alzandosi) Sì, forse è meglio.
NOCELLA –si alza anche lui.
DOMENICO – (mostrando loro lo «studio ») Accomodatevi.
NOCELLA –Grazie. (Esce per primo).
DOMENICO –Ci sono novità ?
DIANA – (a Domenico con intimità) Sentirai… (Domenico è impaziente). Sei palliduccio…
(Così dicendo, Diana accarezza la guancia di lui ed esce. Domenico interdetto, la segue).
LUCIA – (introducendo Umberto) Accomodatevi.
UMBERTO – (è un giovane alto, ben piantato. Veste con dignitosa modestia. Ama lo studio
con convinzione. Il suo modo di parlare, il suo sguardo acuto da osservatore, dànno un
senso di soggezione. Entrando) Grazie.
LUCIA – Se vi volete sedere… nun saccio si donna Filumena esce subito.
UMBERTO – Grazie, si, mi seggo volentieri. (Siede a sinistra al limitare del terrazzo. Si mette a
scribacchiare su di un quaderno che ha recato con sé. Lucia si avvia verso la porta di sinistra
ma sentendo trillare il campanello d’ingresso torna sui suoi passi ed esce dal fondo a destra.
Dopo una breve pausa ritorna introducendo Riccardo) Entrate.
RICCARDO – (è un giovane svelto, simpatico, vestito con vistosa eleganza. Nell’entrare guarda
l’orologio da polso) Nenne’ na, cosa ’e ggiorno… (Lucia la per raggiungere la porta di
sin’istra. Riccardo che l’ha sbirciata, la ferma con una scusa) Neh, guè, siente… (Lucia gli si
avvicina). ’A quanto tiempo staie ccà ?
LUCIA – È un anno e mezzo.
RICCARDO – (galante alla buona) ’O ssaie ca si’ na bella piccerella ?
LUCIA – (lusingata) Si nun me guasto c’ ’o tiempo…
RICCARDO – Viene ’a part’ ’o magazzino mio…
LUCIA – Tenite ’o magazzino ?
RICCARDO – Numero 74, a Chiaia, dint’ ’o purtone… Te faccio ’e ccammise.
LUCIA – Overo ? E che mme mettite ’e ccammise ’a ommo ? latevenne !
RICCARDO – Eh ! lo servo uomini e donne… All’uommene, ce metto ’e cammise, a ’e
ffemmene comm’a tte… ce le levo ! (Dicendo quest’ultima battuta la per abbracciare la ragazza).
LUCIA – (divincolandosi, offesa) Neh, neh ! (Riesce a liberarsi) Vuie fússeve pazzo ? Pè chi
m’avite pigliata ? Io ce ’o ddico ’a signora. (Alludendo ad Umberto che ha seguito la scena
senza attribuire ad essa alcun peso) Cu chillo llà…
Campanello interno. Lucia si avvia verso il fondo.
RICCARDO – (osservando Umberto, divertito) Guè, overo… Io non l’avevo visto.
LUCIA – (risentita) E vuie nun vedite manco ’e ffigliole per bene ca se fanno ’e fatte lloro… (Si
avvia).
RICCARDO – (insinuante) Ce viene ’o magazzino ?
LUCIA – (sostenuta) A nummero 74 ?… (Guardando il giovane con ammirazione, sorride).
RICCARDO – (Con un cenno che vuol significare: «ti aspetto ») A Chiaia…
LUCIA – Eh… e ce vengo ! (Ed esce per il fondo a destra lanciando a Riccardo un
ultimo sorriso d’intesa).
RICCARDO – (passeggia un po’ per la camera, guarda Umberto e vistosi fissato sente il bisogno
di giustificare il suo modo di comportarsi nei riguardi di Lucia) È carina…
UMBERTO – E a me che me n’importa ?
RICCARDO – (un po’ risentito) Ma pecché, facite ’o prevete, vuie ?
Umberto non risponde e continua a scribacchiare.
LUCIA – (dal fondo, introducendo Michele) Trase Miche’, ’a chesta parte.
MICHELE –(in tuta blu da stagnino e con la borsa dei ferri, avanza semplicemente. È un
giovane di buona salute, florido e grassoccio. Ha un carattere semplice e gioviale. Si
sberretta) Luci’, ma ch’è stato ? ’O bagno scorre n’ata vota ? Io ce facette chella saldatura…
LUCIA – No, funziona.
MICHELE – E allora che ato ve scorre ?
LUCIA – Oi ni’, a nuie nun ce scorre niente. Aspetta, mo vaco a chiaminà a donna Filumena.
(Esce a sinistra).
MICHELE – (a Riccardo, rispettoso) Servo. (Riccardo risponde al saluto con un lieve cenno del
capo). Tengo ’a puteca sola… (Trae dalla tasca una cicca) Tenete un cerino ?
RICCARDO – (superbo) Nun ’o tengo.
MICHELE – E nun fumammo. (Pausa). Voi siete parente ?
RICCARDO – E voi siete ’o giudice istruttore ?
MICHELE – Come sarebbe ?
RICCARDO – Vuie tenite genio ’e parlà, io no.
MICHELE – Ma nu poco ’e maniera ’a putarisseve pure tené. Fússeve o’ Pateterno ?
UMBERTO – (intervenendo) No, nun è ’o Pateterno… è scostumato.
RICCARDO – Come sarebbe ?
UMBERTO – E scusate, voi siete entrato e, senza badare che vi trovate in casa d’altri, ve site
menato ncuoll’ ’a cammarera… Truvate a mme, manco p’ ’a capa… Mo ve mettite a
sfottere a chillu povero Dio…
MICHELE – (risentito, a Umberto) Oh, ma pecché, secondo te, io songo ’o tipo ’e me fa’
sfottere… Tu vide ’o Pateterno… Uno iesce d’ ’a casa pè fatte suoie … (A Riccardo) Avite
ragione ca stammo ccà ncoppa.
RICCARDO – ’O ssaie ca m’he scucciato ? Mo te dongo nu bbuffo ccà ncoppo stesso…
MICHELE – (diviene pallido d’ira. Lascia cadere in terra la borsa e si avvicina lentamente,
minaccioso) Famme vedé.
RICCARDO – (gli va incontro con la stessa calma apparente) Ma pecché ?… Me mettesse appaura ’e
te ?
Umberto si è avvicinato ai due per intervenire e prevenire l’iniziativa dell’uno o dell’altro.
MICHELE – (rabbioso) Stu piezz’ ’e… (Con gesto rapido la per dare un manrovescio a
Riccardo, ma costui lo previene, anche per l’intervento di Umberto. Ad Umberto) Let’ ’a
miezo, tu…
Ha inizio la zuffa fra Michele e Riccardo, nella quale si trova coinvolto Umberto. Volano
calci e manrovesci che non raggiungono mai gli obiettivi. I tre giovani piú si accaniscono,
mormorando, fra i denti, parole d’ira e di offesa.
FILUMENA – (dalla sinistra, entrando, interviene in tono energico) Ch’è stato ?… (Rosalia che
l’ha seguita si ferma alle sue spalle. I tre giovanotti, al richiamo, si compongono assumendo
un atteggiamento d’indifferenza, si schierano al cospetto della donna). Che ve credite ? Che
state mmiez’ ’a via ?
UMBERTO – (toccandosi il naso dolorante) Io dividevo.
RICCARDO – Io pure.
MICHELE – Anch’io.
FILUMENA – E chi deva ?
I TRE –(all’unisono) Io no…
FILUMENA – (deprecando) Purcarie ! L’uno contro all’ato ! (Pausa. Filumena ripiglia il suo
atteggiamento abituate) Dunque, guagliú’… (Non trova il modo per iniziare il suo dire) Gli
affari come vanno ?
MICHELE – Ringraziammo a Dio !
FILUMENA – (a Michele) E i bambini ?
MICHELE – Bene. ’A settimana scorsa ci ebbi il mezzano con un poco di febbre. Ma mo sta
bene. Se mangiaie duie chile d’uva ’e nascosto d’ ’a mamma. Io non c’ero. Fece una panza
tosta che sembrava un tamburo. Sapete, quattro bambini… o l’uno o l’altro vi dànno
sempre da fare. Pè furtuna ca l’olio di ricino piace a tutt’e quatto. Figuràteve ca, quanno
purgo a uno, ll’ati tre arrevòtano ’a casa: pianti, strilli… E si nun purgo pure a lloro nun ’a
fernésceno. Se mettono tutt’e quatto, in fila, sopra ’e rinalielle… So’ bambini.
UMBERTO – Signora, io ho ricevuto un suo biglietto. Il suo nome, sic et simpliciter, non mi
diceva niente. Per fortuna c’era l’indirizzo e mi sono ricordato che, questa donna Filomena,
l’incontro quasi ogni sera, quando esco per andare al giornale, e che, una volta, ebbi il
piacere di accompagnarla proprio a questo indirizzo perché non ce la faceva a camminare, a
causa di un piede che le doleva. Così ho ricostruito e…
FILUMENA – Già, me faceva male ’o pede.
RICCARDO – (piú esplicito) ’E che se tratta ?
FILUMENA – (a Riccardo) ’O negozio va bene ?
RICCARDO – E pecché avess’ ’a ji’ malamente ? Certo che se avessi tutte clienti come voi,
dopo un mese, dovrei chiudere. Quando venite voi dentr’ ’o magazzino mio aggio na
mazzata ncapo. Mi fate prendere tutte le pezze di stoffa: questa no, quella no… ci debbo
pensare… E lasciate un negozio ca p’ ’o mettere a posto ce vonno ’e facchine.
FILUMENA – (materna) Vuol dire che non vi darò piú fastidio.
RICCARDO – Che c’entra, voi siete la padrona, ma io sudo na cammisa ’a vota !
FILUMENA – (quasi divertita) Dunque, io vi ho mandato a chiamare per una cosa seria. Se volete
entrare un momento qua… (indica la prima a sinistra) stiamo piú tranquilli.
DOMENICO – (dallo studio, seguito dall’avvocato Nocella, interviene. Ha ripreso il suo tono
normale di uomo sicuro del fatto suo. Si rivolge a Filumena con energia bonaria) Lascia sta’
Filume’, non è il caso d’imbrogliare maggiormente le tue cose… (All’avvocato) Io, senza
essere avvocato, lo dissi prima di voi. Era chiaro. (Filumena lo guarda dubbiosa). Dunque,
qua c’è l’avvocato Nocella che può darti tutti gli schiarimenti che vuoi. (Ai tre ragazzi) La
signora si è sbagliata. Vi ha incomodati inutilmente. Vi chiediamo scusa e… se volete
andare…
FILUMENA – (fermando i tre che si avviano) Nu mumento… Io nun me so’ sbagliata. Ll’aggio
mannate a chiammà io. Che c’entri tu ?
DOMENICO – (con intenzione) Avimni’ ’a parlà nnanz’ ’a gente ?
FILUMENA – (ha compreso che qualcosa di serio è avvenuto, per cui l’andamento delle cose è
completamente mutato. Il tono calmo della voce di Domenico le ha dato conferma di ciò.
Si rivolge ai tre giovanotti) Scusate, cinque minuti… Volete aspettare for’ ’a loggia ?
Umberto e Michele si avviano un po’ interdetti.
RICCARDO – (consultando l’orologio) Sentite ! Ma a me mi pare che si abusi della cortesia altrui !
Io ho da fare…
FILUMENA – (perdendo la calma) Gue’, ccà se tratta ’e na cosa seria, t’aggio ditto ! (Trattandolo da
moccioso, con un tono che non ammette replica) Cammina for’ ’a loggia. Comme aspettano ll’ate,
aspiette pure tu.
RICCARDO – (sconcertato dal tono deciso di Filumena) Va bene ! (Segue gli altri due, sempre,
però, a malincuore).
FILUMENA – (a Rosalia) Dalle na tazza ’e cafè.
ROSALIA – Subito. (Ai tre) Iate for’ ’a loggia. Ve mettite llà bascio… (Indica un punto) Mo ve
porto na bella tazza ’e cafè. (Esce per il fondo a sinistra mentre i tre giovanotti escono fuori
al terrazzo).
FILUMENA – (a Domenico) Dunque ?
DOMENICO –(indifferente) Qua sta l’avvocato, ’o vi’ ?… Parla cu isso.
FILUMENA – (spazientita) Io cu ’a legge ce tengo poca amicizia. Ad ogni modo, ’e che se
tratta ?
NOCELLA –Ecco qua, signora. Ripeto, io in questa faccenda non c’entro.
FILUMENA – E allora, che ce site venuto a ffa’ ?
NOCELLA –Ecco, non c’entro, nel senso che il signore qua non è mio cliente, né mi ha
mandato a chiamare.
FILUMENA – Allora ce site venuto ?
Nocella No…
FILUMENA – (ironica) Ve ce hanno mannato ?
NOCELLA –No, signo’. È difficile ch’io consenta a qualcheduno di mandarmivici.
DOMENICO –(a Filumena) ’O vuo’ fa’ parlà ?
NOCELLA –Di questo fatto me ne ha parlato la signorina… (Non vedendola dietro di sé, guarda
verso lo studio) Dove sta ?
DOMENICO – (impaziente di riportare la discussione nei suoi termini essenziali) Avvoca’, io… lei…
chi ve ne ha parlato, non ha importanza. Venite alla conclusione.
FILUMENA – (alludendo a Diana con sarcasmo feroce ma contenuto nel tono dell’interrogazione) Sta llà
dinto, è ove’ ? Nun tene ’o curaggio d’asci ccà fore. Iammo nnanze, avvoca’.
NOCELLA –Per il caso espostomi da lui… dall’altra… insomma… p’ ’o fatto ch’è succieso, c’è
l’articolo 101, che io ho trascritto qua. (Trae di tasca un foglio e lo mostra) Articolo 101:
Matrimonio in imminente pericolo di vita. «Nel caso di imminente pericolo di vita… ecc
… » spiega tutte le modalità. Ma l’imminente pericolo di vita non c’è stato, perché la
vostra, secondo la versione del signore qua, è stata una finzione.
DOMENICO – (pronto) Tengo i testimoni: Alfredo, Lucia, ’o guardaporta, Rosalia…
FILUMENA – L’infermiera …
DOMENICO – L’infermiera ! Tutte quante ! Appena ’o prèvete se n’è ghiuto, s’è alzata dal
letto… (mostra Filumena) e ha detto: « Dummi’, simmo marito e mugliera ! »
NOCELLA –(a Filumena) E allora c’è a suo vantaggio l’articolo 122: Violenza ed errore. (Legge)
« Il matrimonio può essere impugnato da quello degli sposi il cui consenso è stato estorto
con violenza o escluso per effetto di errore ». L’estorsione c’è stata: in base all’articolo 122, il
matrimonio viene impugnato.
FILUMENA – (sincera) Io nun aggio capito.
DOMENICO – (convinto di dare una interpretazione giusta all’articolo del codice, a Filumena,
volendo soverchiarla) Io ti ho sposato perché dovevi morire…
NOCELLA –No, il matrimonio non può essere sottoposto a condizioni. C’è l’articolo… mo
nun m’ ’o ricordo… In somma dice: « Se le parti aggiungono un termine o una condizione,
l’ufficiale di stato civile, o il sacerdote, non può procedere alla celebrazione del
matrimonio ».
DOMENICO – Voi avete detto che l’imminente pericolo di vita non c’è stato…
FILUMENA – (brusca) Statte zitto, ca manco tu he capito. Avvoca’, spiegateve ’a napulitana.
NOCELLA –(porgendo il foglio a Filumena) Questo è l’articolo. Leggetelo voi stessa.
FILUMENA – (strappa il foglio senza neanche guardarlo) Io nun saccio leggere e po’ carte nun
n’accetto !
NOCELLA –(un po’ offeso) Signo’, siccome nun site stata mpunt’ ’e morte, ’o matrimonio
s’annulla, nun vale.
FILUMENA – E ’o prèvete ?
NOCELLA –Ve dice ’o stesso. Anze, ve dice ch’avite oltraggiato il sacramento. Non vale !
FILUMENA – (livida) Nun vale ? Avev’ ’a murì ?
NOCELLA –(pronto) Ecco.
FILUMENA – Si murevo…
NOCELLA –Allora sarebbe stato validissimo.
FILUMENA – (mostrando Domenico che è rimasto impassibile) E lui si poteva ammogliare un’altra
volta, poteva avere dei figli…
NOCELLA –Già, ma sempre da vedovo. Quest’altra probabile donna avrebbe sposato il vedovo
della defunta signora Soriano.
DOMENICO – Lei sarebbe diventata la signora Soriano… Morta !
FILUMENA – (ironica, ma con amarezza) Bella soddisfazione ! Allora io aggio spiso na vita pè
furmà na famiglia, e ’a legge nun m’ ’o permette ? E chesta è giustizia ?
NOCELLA –Ma la legge non può sostenere un vostro principio, sia pure umano, rendendosi
complice di un espediente perpetrato ai danni di un terzo. Domenico Soriano non intende
unirsi in matrimonio con voi.
DOMENICO – E ci devi credere. Se hai qualche dubbio, chiama un avvocato di tua fiducia.
FILUMENA – No, ce credo. No pecché m’ ’o ddice tu che hai tutto l’interesse… No
pecché m’ ’o ddice l’avvocato, pecché io ll’avvucate nun ’e ccunosco… Ma guardànnote
nfaccia. Te pienze ca nun te cunosco ? He pigliato n’ata vota ’a stess’aria ’e padrone. Te si’
calmato… Na buscia me l’avarrisse ditta senza me guardà nfaccia, cu ll’uocchie
nterra… pecché tu buscie nun n’ he sapute maie dicere. È overo…
DOMENICO – Avvoca’, voi procedete.
NOCELLA –Se mi date mandato.
FILUMENA – (rimane per un attimo assorta. D’un tratto risponde all’ultima frase
che le aveva rivolto Nocella. Il suo tono è altero, ma va crescendo di fervore,
fino allo scatto) E io manco ! (A Domenico) Io nemmeno te voglio ! (A
Nocella) Avvoca’, procedete. Nun ’o voglio nemmeno io. Nun è overo ca stevo
mpunt’ ’e morte. Vulevo fa na truffa ! Me vulevo arrubbà nu cugnome ! Ma
cunuscevo sulo ’a legge mia: chella legge ca fa ridere, no chella ca fa chiagnere !
(Grida verso il terrazzo) A vvuie, venite ’a ccà !
DOMENICO – (accomodante) Ma ’a vuo’ fernì ?
FILUMENA – (Inviperita) Statte zitto ! (Dal terrazzo ricompaiono i tre giovanotti un
po’ disorientati ed avanzano di qualche passo nella camera. Dal fondo, quasi
contemporaneamente, Rosalia entra recando un vassoio con tre tazze di caffè,
comprende la delicatezza del momento e, dopo aver appoggiato il vassoio su di
un mobile, si pone in ascolto avvicinandosi quindi a Filumena, la quale, rivolta
ai figli, così apertamente parla loro) Guagliu’, vuie site uommene ! Stateme a
sentì. (Mostra Domenico e Nocella) Ccà sta ’a ggente: ’o munno. ’O munno cu
tutt’ ’e llegge e cu tutt’ ’e diritte… ’O munno ca se difende c’ ’a carta e c’ ’a
penna. Domenico Soriano e l’avvocato… (Mostrando se stessa) E ccà ce sto io:
Filumena Marturano, chella ca ’a leggia soia è ca nun sape chiàgnere. Pecché ’a
ggente, Domenico Soriano, me l’ha ditto sempe: «Avesse visto maie na lacrema
dint’ ’a chill’uocchie ! » E io senza chiagnere… ’o vvedite ? ! ll’uocchie mieie so’
asciutte comm’ all’esca… (Fissando in volto i tre giovani) Vuie me site figlie !
DOMENICO – … Filume’ !
FILUMENA – (risoluta) Ma chi si’ tu, ca me vuo’ mpedì ’e dicere, vicin’ ’e figlie
mieie, ca me so’ ffiglie ? (A Nocella) Avvoca’, chesto ’a legge d’ ’o munno m’ ’o
permette, no ?… (Piú aggressiva che commossa) Me site figlie ! E io so’ Filumena
Marturano, e nun aggio bisogno ’e parlà. Vuie site giuvinotte e avite ntiso parlà
’e me. (I tre giovani rimangono impietriti: Umberto sbiancato in volto, Riccardo gli occhi a
terra come vergognoso, Michele con la sua aria imbambolata per la meraviglia e la
commozione. Filumena incalza) ’E me nun aggi’ ’a dicere niente ! Ma ’e fino a
quanno tenevo diciassett’anne, sì. (Pausa). Avvoca’, ’e ssapite chilli vascie…
(Marca la parola) I bassi… A San Giuvanniello, a ’e Virgene, a Furcella, ’e Tribunale, ’o Pallunetto ! Nire, affummecate… addò ’a stagione nun se rispira p’ ’o
calore pecché ’a gente è assaie, e ’o vierno ’o friddo fa sbattere ’e diente. Addò
nun ce sta luce manco a mieziuorno… Io parlo napoletano, scusate… Dove non
c’è luce nemmeno a mezzogiorno … Chin’ ’e ggente ! addò è meglio ’o friddo
c’ ’o calore … Dint’ a nu vascio ’e chille, ’o vico San Liborio, ce stev’io c’ ’a
famiglia mia. Quant’èramo ? Na folla ! Io ’a famiglia mia nun saccio che fine ha
fatto. Nun ’o vvoglio sapé. Nun m’ ’o rricordo !… Sempe ch’ ’e ffaccie avutate,
sempe in urto ll’uno cu ll’ato… Ce coricàvemo senza di’: « Buonanotte ! » Ce
scetàvemo senza di’: «Bongiorno ! » Una parola bbona, me ricordo ca m’ ’a
dicette pàtemo… e quanno m’arricordo tremmo mo pè tanno. Tenevo tridece
anne. Me dicette: «Te staie facenno grossa, e ccà nun ce sta che magnà, ’o
ssa’ ? » E ’o calore !… A notte, quanno se chiudeva ’a porta, nun se puteva
rispirà. A sera ce mettévemo attuorno ’a tavula… Unu piatto gruosso e nun
saccio quanta furchette. Forse nun era overo, ma ogne vota ca mettevo ’a
furchetta dint’ ’o piatto, me sentevo ’e guardà. Pareva comme si m’ ’avesse
arrubbato, chellu magnà !… Tenevo diciassett’anne. Passàveno ’e ssignurine
vestite bbene, cu belli scarpe, e io ’e guardavo… Passàveno sott’ ’o braccio d’ ’e
fidanzate. Na sera ncuntraie na cumpagna d’ ’a mia, che manco ’a cunuscette
talmente steva vestuta bona… Forse, allora, me pareva cchiú bello tutte cose…
Me dicette (sillabando) : « Così… così… così … » Nun durmette tutt’ ’a notte… E
’o calore… ’o calore… E cunuscette a tte ! (Domenico trasale). Là, te ricuorde ?…
Chella « casa » me pareva na reggia… Turnaie na sera ’o vico San Liborio, ’o
core me sbatteva. Pensavo: «Forse nun me guardaranno nfaccia, me
mettarranno for’ ’a porta ! » Nessuno mi disse niente: chi me deva ’a seggia, chi
m’accarezzava… E me guardavano comm’ a una superiore a loro, che dà
soggezione… Sulo mammà, quanno ’a iette a salutà, teneva ll’uocchie chin’ ’e
lagreme… ’A casa mia nun ce turnaie cchiú ! (Quasi gridando) Nun ll’aggio accise
’e figlie ! ’A famiglia… ’a famiglia ! Vinticinc’anne ce aggio penzato ! (Ai giovanotti) E v’aggio crisciuto, v’aggio fatto uommene, aggio arrubbato a isso
(mostra Domenico) pè ve crescere !
MICHELE – (si avvicina alla madre commosso) E va bbuono, mo basta ! (Si commuove
sempre piú) Certo ch’avivev’ ’a fa’ cchiú ’e chello ch’avite fatto ? !
UMBERTO – (serio, si avvicina alla madre) Vorrei dirvi tante cose; ma mi riesce difficile
parlare. Vi scriverò una lettera.
FILUMENA – Nun saccio leggere.
UMBERTO – E ve la leggerò io stesso. (Pausa).
FILUMENA – (guarda Riccardo in attesa che le si avvicini. Ma egli esce per il fondo
senza dire parola) Ah, se n’è andato…
UMBERTO – (comprensivo) È carattere. Non ha capito. Domani, passo io per il suo
negozio e gli parlo.
MICHELE – (a Filumena) Voi ve ne potete venire con me. ’A casa è piccola, ma
c’entriamo. Ce sta pure ’a luggetella. (Con gioia sincera) Chille, ’e bambine,
domandavano sempe: ’A nonna… ’a nonna… e io mo dicevo na fessaria, mo ne
dicevo n’ata… Io quanno arrivo e dico: ’a nonna ! (come dire: «Eccola ! ») llà siente
Piererotta ! (Invogliando Filumena) Iammo.
FILUMENA – (decisa) Sì, vengo cu tte.
MICHELE – E ghiammo.
FILUMENA – Nu mumento. Tu aspettame sott’ ’o purtone. (A Umberto) Scendetevene insieme. Dieci minuti. Aggia dicere na cosa a don Domenico.
MICHELE – (felice) Allora, ampressa ampressa. (A Umberto) Voi scendete ?
UMBERTO – Sì, scendo, ti accompagno.
MICHELE – (sempre allegro) Signori a tutti. (Avviandosi verso il fondo) Io mi sentivo una
cosa… Perciò volevo parlare… (Esce con Umberto).
FILUMENA – Avvoca’, scusate, duie minute… (Mostra lo «studio »).
NOCELLA –No, io me ne vado.
FILUMENA – Duie minute sulamente. Me fa piacere che ci siete pure voi, dopo che
ho parlato con don Domenico. Accomodatevi. (Nocella, a malincuore, esce per
lo «studio ». Rosalia, senza lasciarselo dire, esce per prima a sinistra. Filumena,
posando le chiavi sul tavolo) Io me ne vaco, Dummi’. Di’ all’avvocato che
procedesse per vie legali. Io non nego niente e ti lascio libero.
DOMENICO – ’O ccredo ! Te pigliave na somma ’e denaro senza fa tutte sti storie…
FILUMENA – (sempre calmissima) Dimane me manno a piglià ’a rrobba mia.
DOMENICO – (un po’ turbato) Si’, na pazza, chesto sì. Hai voluto guastare la pace di
quei tre poveri giovani. Chi te l’ha fatto fa’ ? Perché glielo hai detto ?
FILUMENA – (fredda) Pecché uno ’e chilli tre è figlio a te !
DOMENICO – (rimane con lo sguardo fisso su Filumena inchiodato a quell’assurda
verità. Dopo una pausa, cercando di reagire alla piena dei suoi sentimenti) E chi
te crede ?
FILUMENA – Uno ’e chilli tre è figlio a te !
DOMENICO – (non osando gridare, con gravità) Statte zitta !
FILUMENA – Te putevo dicere ca tutt’e tre t’erano figlie, ce avarrisse creduto…
T’ ’o ffacevo credere ! Ma nun è overo. T’ ’o pputevo dicere primma ? Ma tu
ll’avarrisse disprezzate all’ati duie… E io ’e vvulevo tutte eguale, senza
particularità.
DOMENICO – Nun è overo !
FILUMENA – È overo, Dummi’, è overo ! Tu nun te ricuorde. Tu partive, ive a
Londra, Parigge, ’e ccorse, ’e ffemmene… Na sera, una ’e chelli tante, ca,
quanno te ne ive, me regalave na cart’ ’e ciento lire… na sera me diciste:
«Filume’, facimm’ avvedé ca ce vulimmo bene », e stutaste ’a luce. Io, chella
sera te vulette bene overamente. Tu, no; tu avive fatto avvedé… E quanno
appicciaste ’a luce n’ata vota, me diste ’a soleta carta ’e ciento lire. Io ce segnaie
’a data e ’o giorno: ’o ssaie ca ’e nummere ’e ssaccio fa… Tu po’ partiste e io
t’aspettaie comm’ a na santa !… Ma tu nun te ricuorde quanno fuie… E nun te
dicette niente… Te dicette c’ ’a vita mia era stata sempe ’a stessa… E, infatti,
quanno me n’addunaie ca nun avive capito niente, fuie n’ata vota ’a stessa.
DOMENICO – (Con tono perentorio che maschera il suo inconsapevole orgasmo) E
chi è ?
FILUMENA – (decisa) E… no, chesto nun t’ ’o ddico ! Hann’ ’a essere eguale tutt’ ’e
tre…
DOMENICO – (dopo un attimo di esitazione, come obbedendo ad un impulso) Nun è overo…
Nun pò essere overo ! Me l’avresti detto allora, per legarmi, pè me tené stritto
dint’ a na mano. L’unica arma sarria stata nu figlio… e tu, Filumena Marturano,
di quest’arma, te ne saresti servita subito.
FILUMENA – Me l’avarrisse fatto accidere… Comm’ ’a penzave tu, allora… E pure
mo ! Tu nun te si’ cagnato ! No una, ma ciento vote, me l’avarrisse fatto
accidere ! Me mettette appaura ’e t’ ’o ddicere ! Sulo per me, è vivo ’o figlio
tuio !
DOMENICO – E chi è ?
FILUMENA – Hann’ ’a essere eguale tutt’ ’e tre !
DOMENICO – (esasperato, cattivo) E songo eguale !… So’ ffiglie tuoie ! E nun ’e
vvoglio vedé. Nun ’e ccunosco… nun ’o cunosco… Vatténne !
FILUMENA – Te ricuorde, aiere, quanno te dicette: «Nun giurà, ca murarrisse
dannato, si nu iuorno nun me putisse cercà ’a lemmòsena tu a mme » ? Perciò t’
’o ddicette. Statte bbuono, Dummi’. E ricuórdate: si chello ca t’aggio ditto ’o
ddice a ’e figlie mieie… t’accido ! Ma no comm’ ’o ddice tu, ca me l’he ditto pè
venticinc’anne… comme t’ ’o ddice Filumena Marturano: t’accido ! He
capito !??… (Verso lo « studio » energica) Avvoca’, venite… (Alludendo a Diana) Viene
pure tu, nun te faccio niente… He vinciuto ’o punto. Me ne vaco. (Chiamando
verso sinistra) Rosali’, viene. Me ne vaco. (Abbraccia Rosalia che entra e a lei) Dimane
me manno a piglià , a rrobba mia. (Dallo «studio » compare Nocella, seguito da
Diana, mentre dal fondo, senza parlare, entra Alfredo). Statevi bene, ve saluto a tutte
quante. Pure a vvuie, avvoca’, e scusate. (Dal fondo viene anche Lucia). He capito,
Dummi’… (Con ostentata giovialità) T’ ’o ddico nnanz’ ’a ggente: nun dicere
niente ’e chello che t’aggio ditto. A nisciuno ! Tienatello pè te. (Prende dal seno un
medaglione, lo apre e ne estrae, ripiegato diverse volte, un consunto biglietto da cento. Ne
strappa un pezzetto, poi a Domenico) Ci avevo segnato sopra un conticino mio, nu
cunticiello ca me serve. Tiene. (Poggia il biglietto sul tavolo e, con tono quasi allegro,
ma profondamente sprezzante, gli dice) ’E figlie nun se pàvano ! (Esce per il fondo a
sinistra dicendo) Bona iurnata a tutte quante.
ATTO TERZO
La medesima scena degli atti precedenti.
Fiori un po’ da per tutto. Non mancano cesti ben confezionati con, appuntati in cima, i
biglietti dei donatori. I fiori saranno di colore delicato, non rossi, ma nemmeno bianchi.
Un’aria di festa traspira da ogni angolo della casa. La tenda, che divide la camera da pranzo
dallo studio, è completamente chiusa. Sono trascorsi dieci mesi dal secondo atto. È quasi sera.
Rosalia entra dal fondo a destra in abito da festa. Contemporaneamente dallo studio entra
Domenico: è completamente mutato. Non un gesto, non una intonazione che caratterizzavano
la sua natura autorevole, si scorgono in lui. È divenuto mite, quasi umile. I capelli sono un po’
piú bianchi. Vedendo Rosalia che si avvia a sinistra, la ferma.
DOMENICO – Ched’è, site asciuta, vuie ?
ROSALIA – Sono andata a fare una commissione per donna Filumena.
DOMENICO – Che commissione ?
ROSALIA – (insinuante, bonaria) Ched’è, site geluso ? Sono andata al vicolo San Liborio…
DOMENICO – A ffà che ?
ROSALIA – (scherzosa) Guè, chillo overamente è geluso !
DOMENICO – Ma che geluso. Me ne so’ addunato ampressa.
ROSALIA – Io scherzo. (Guardando con circospezione verso la stanza di Filumena) Io v’ ’o ddico…
ma nun dicite niente a donna Filumena, pecché nun ’o vo fa’ sapè.
DOMENICO – E allora nun m’ ’o ddicite.
ROSALIA – E no… Io, po’, penso che faccio bene a dirvelo, perché è una cosa che le fa onore.
M’ha fatto purtà mille lire e cinquanta candele ’a Madonna d’ ’e rrose ’o vico San Liborio.
E m’ha fatto da’ l’incarico a na vecchia d’ ’o vico, che provvede sempre p’ ’e fiore, p’ ’a
lampa, p’ ’a cerca, di accendere le candele alle sei precise. E sapite pecché ? Pecché alle sei è
fissato ’o matrimmonio. Mentre spusate ccà, s’accendono ’e candele nnanz’ ’a Madonna d’
’e rrose.
DOMENICO – Ho capito.
ROSALIA – Na santa, ve pigliate, na santa. E s’è anche ringiovanita. Pare na figliulella: quant’è
bella ! E io ce ’o dicevo: «Ve pare che don Dummineco se scorda ’e vuie ? Ha voluto
annullà ’o matrimonio pè puntiglio… Ma io ’a funzione è comme si ’a tenesse nnanz’
all’uocchie ».
DOMENICO – (un poco infastidito dalla cicalata di Rosalia) Va buo’, donna Rosali’, iate dint’addu
Filumena.
ROSALIA – Sto andando. (Ma, quasi suo malgrado, continua a parlare) E si nun era per lei… finivo
male, io. Mi prese in casa e qua so’ rimasta, e qua resto, e qua moro.
DOMENICO – Fate voi !
ROSALIA – Io tengo tutto pronto. C’aggi’ ’a fa’ ?… (Alludendo al suo ultimo abbigliamento)
’A camicia bianca lunga cu ’o pezzotto ’e merletto, ’a mutanda, ’e ccalze bianche, ’a cuffia.
Sta tutto dint’ a mi tiretto conservato. E lo sappiamo io e donna Filumena. Essa mi deve
vestire. Embè, io nun tengo a nisciuno. Si turnassero ’e figlie miei, che io ci tengo sempre
la speranza… Permettete. (Ed esce a sinistra).
DOMENICO – (rimasto solo, gira un po’ per la stanza, osserva i fiori, legge qualche biglietto,
poi, macchinalmente, completa ad alta voce il suo pensiero) E va bene !
Dal fondo a destra si udranno le voci confuse di Umberto, Riccardo e Michele.
MICHELE – (dall’interno) Alle sei. La funzione è alle sei.
RICCARDO –(c. s.) Ma quando uno dà un appuntamento…
UMBERTO – (c. s.) Ma io sono stato puntuale.
I tre giovanotti entrano sempre parlando.
MICHELE – Ma noi abbiamo detto alle cinque. Io tre quarti d’ora ho tardato.
RICCARDO – E he ditto niente !
MICHELE – E va bene, ma l’appuntamento s’intende sempre una mezz’ora dopo. Se è alle
cinque… alle cinque per le cinque e mezza, le sei meno un quarto…
RICCARDO – (ironico) … ’o giorno appresso, ’o mese che trase…
MICHELE – Oi ni’, io tengo quattro figlie e orologge nun n’accatto cchiú… Pecché chille ca
tenevo l’hanno scassato tuttu quante !
UMBERTO – (scorgendo Domenico saluta rispettosamente) Don Domenico, buonasera.
RICCARDO – (con lo stesso tono rispettoso) Don Domenico…
MICHELE – Don Domenico…
E tutti e tre si schierano di fronte a Soriano, in silenzio.
DOMENICO – Buonasera. (Lunga pausa). Mbè, e non parlate piú ? Stiveve parlanno.
UMBERTO – (un po’confuso) Già…
RICCARDO – Embè… si parlava e poi… così.
MICHELE – Na vota avévem’ ’a fernì ’e parlà.
DOMENICO – Appena m’avite visto… (A Michele) Si’ arrivato tarde all’appuntamento ?
MICHELE – Sissignore, don Dome’.
DOMENICO – (a Riccardo) E tu si’ arrivato in orario.
RICCARDO – Sissignore, don Dome’.
DOMENICO – (a Umberto) E tu ?
UMBERTO – In orario, don Dome’.
DOMENICO – (ripete come parlando a se stesso) In orario, don Dome’… (Pausa). E sedetevi. (I tre
giovanotti seggono). La funzione è alle sei. Il tempo c’è. Alle sei viene il sacerdote. E… noi
siamo fra di noi. Filomena non ha voluto nessuno. Vi volevo dire… io ve l’ho detto pure
un’altra volta… Mi sembra che questo «don Dome’ »… A me nun me piace.
UMBERTO – (timido) Già.
RICCARDO – (c. s.) Già.
MICHELE – (c. s.) Già.
UMBERTO – Ma non ci avete detto come vorreste essere chiamato.
DOMENICO – E non ve l’ho detto perché avrei voluto che l’avisseve capito vuie. Stasera sposo
vostra madre; ho già preso l’appuntamento con l’avvocato per la pratica che vi riguarda.
Domani vi chiamerete come me: Soriano…
I tre giovani si guardano interrogandosi vicendevolmente sul modo di come rispondere.
Ciascuno aspetta che l’altro si decida a parlare per primo.
UMBERTO – (facendosi coraggio) Ecco, vedete… rispondo io, perché penso che tutti e tre siamo
pervasi dallo stesso sentimento. Non siamo dei bambini, siamo degli uomini… e non
possiamo, con disinvoltura, chiamarvi come, giustamente e generosamente, ci proponete di
chiamarvi. Certe cose… bisogna sentirle dentro.
DOMENICO – (con ansia interrogativa) E tu, dentro, non senti questo… diciamo bisogno…
questa necessità di chiamare a uno… a me, per esempio, papà ?
UMBERTO – Non vi saprei mentire e non lo meritereste. Almeno per il momento: no !
DOMENICO – (un po’ deluso, rivolgendosi a Riccardo) E tu ?
RICCARDO – No, io nemmeno.
DOMENICO – (a Michele) Allora tu ?
MICHELE – Io nemmeno, don Dome’ !
DOMENICO – Già, col tempo, uno ce fa l’abitudine. Mi fa piacere, sono contento di trovarmi
con voi, sopra tutto perché siete tre bravi ragazzi. Ognuno di voi lavora, chi in un campo,
chi in un altro; ma con la stessa buona volontà, con la stessa tenacia. Bravi. (A Umberto) Tu
sei impiegato e, per quanto mi risulta, svolgi il tuo lavoro con serietà ed orgoglio. Scrivi
degli articoli.
UMBERTO –Qualche novelletta.
DOMENICO – Già… la tua ambizione sarebbe quella di diventare un grande scrittore.
UMBERTO – Non ho questa pretesa.
DOMENICO – E perché ? Sei giovane. Capisco che per riuscire in questo campo si deve avere
trasporto, ci si deve nascere…
UMBERTO – E io non credo di esserci nato. Sapeste quante volte, preso dalla sfiducia, dico fra
me e me: «Umbe’, hai sbagliato… La tua strada è un’altra ».
DOMENICO – (interessato) E quale altra potev’essere ? Voglio dire, che ata cosa te sarria piaciuto
’e fa’ nella vita ?
UMBERTO – Chi lo sa: sono tante le aspirazioni di quando si è ragazzi.
RICCARDO – Quella poi, la vita, è tutta una combinazione. Io, per esempio, comme me trovo
’o negozio a Chiaia ? Perché facevo l’amore con una camiciaia !
DOMENICO – (cogliendo a volo) He fatt’ ’ammore con molte ragazze, tu ?
RICCARDO – Così… non c’è male… (Domenico si alza interessato, scrutando ogni
atteggiamento di Riccardo per scorgere in lui un gesto, un accento, ricollegabile alla sua
giovinezza). Sapite ched’è ? Non arrivo a trovare il tipo mio. Veco a una, me piace e dico:
« Chesta è essa … » E subito penzo: «M’ ’a sposo ». Poi, veco a n’ata e me pare ca me piace
cchiú assaie. Nun me faccio capace: ce sta sempe na femmena meglio ’e chella ca uno ha
cumisciuto primma !
DOMENICO – (a Umberto) Tu, invece, sei piú calmo, piú riflessivo, in materia di donne.
UMBERTO – Fino ad un certo punto. Con le ragazze di oggi, c’è poco da essere riflessivo.
Vuie, p’ ’a strada, addò v’avutate vedete belle ragazze. La scelta è difficile. C’aggi’ ’a fa’,
tante ne cambio fino a che trovo chella che dich’i’.
DOMENICO – (rimane turbato nel constatare anche in Umberto la medesima tendenza di
Riccardo. A Michele) E tu ?… A te pure te piàceno ’e ffemmene ?
MICHELE – Io me nguaiaie ampressa ampressa. Conobbi a mia moglie e… ti saluto. Adesso
devo stare con due piedi in una scarpa, con mia moglie non si scherza… E allora, capite, mi
faccio i fatti miei. Non perché le ragazze non mi piacessero… ma perché mi metto paura !
DOMENICO – (scoraggiato) Perché pure a te te piàceno ’e ffemmene… (Pausa. Poi tentando
ancora di scrutare) Io quando ero giovane cantavo. Ci univamo sette, otto amici… Allora era
l’epoca delle serenate. For’ ’a loggia, si cenava e poi finiva sempre a canzone: mandolini,
chitarre… Chi canta ’e vuie ?
UMBERTO – Io no.
RICCARDO – Io nemmeno.
MICHELE – Io sì.
DOMENICO – (felice) Tu cante ?
MICHELE – Comme ! E si no, comme facesse a lavorà ? Dint’ ’a bottega canto sempe.
DOMENICO – (ansioso) Famme sentì quacche cosa.
MICHELE – (Schivo, pentito della sua ostentazione) Io ? E che ve faccio sentì ?
DOMENICO – Chello che vuo’ tu.
MICHELE – Sapete ched’è ?… Ca me metto scuorno.
DOMENICO – E tu dint’ ’a puteca nun cante ?
MICHELE – Ma è n’ata cosa… ’A sapite: « Munastero ’e Santa Chiara » ? Quant’è bella !
(Comincia ad accennare la canzone con voce incolore e stonata) « Munastero ’e Santa Chiara tengo ’o core scuro scuro - ma pecché pecché ogne sera - penzo a Napule comm’era … »
RICCARDO – (interrompendolo) E accussi saccio cantà pur’io… Addò ’a tiene ’a voce ?
MICHELE – (quasi offeso) Chesta nun è voce ?…
UMBERTO – Con questa voce posso cantare anch’io.
RICCARDO – E io no ?
DOMENICO – Con questa voce può cantare chiunque. (A Riccardo) Famme senti’ tu.
RICCARDO – Ma io non mi permetto. Nun tengo ’a faccia tosta ’e chisto. Appena, appena…
(Accenna il motivo) «Munastero ’e Santa Chiara - tengo ’o core scuro scuro… Ma pecché,
pecché ogne sera - penzo a Napule comm’era … » (Umberto continua la frase insieme a lui).
Penzo a Napule comm’è… (Michele canta anche lui). No… nun è overo… No nun ce crero
…
Ne nasce un coro scordato e inumano.
DOMENICO – (interrompendoli) Basta, basta … (I tre zittiscono). Stateve zitte: è
meglio… State emozionati… Non è possibile… Tre napulitane ca nun sanno
cantà !
FILUMENA – (entra da sinistra in un vistosissimo abito nuovo. Pettinatura alta «alla
napoletana », due file di perle al collo. Orecchini a «toppa ». Il suo aspetto è diventato quasi
giovanile. Parla a Teresina, la sarta, che la segue con Rosalia e Lucia) Tu qua’ impressione,
Teresi’, ’o difetto ce sta !
TERESINA – (è una di quelle sarte napoletane che non disarmano: nel senso che le offese delle
clienti deluse non la sfiorano nemmeno. La sua calma è addirittura irritante) Ma ’o verite
vuie stu difetto, donna Filumena mia. Io, mo nce vo, so’ tant’anne ca ve servo…
FILUMENA – Tu tiene ’a faccia tosta ! Si’ capace ’e negà a ffaccia a ffaccia.
TERESINA –Allora aggi’ ’a dicere ca ce sta ’o difetto ?
MICHELE – Buonasera, mammà.
RICCARDO – Buonasera e auguri.
UMBERTO – Buonasera e auguri.
FILUMENA – (lietamente sorpresa) Vuie state lloco ? Bonasera ! (A Teresina, cocciuta) E ssaie
pecché ce sta ’o difetto ? Pecché quanno haie nu taglio ’e stoffa mmano, he ’a fa’ asci ’o
vestetiello p’ ’a piccerella toia…
TERESINA –Uh, guardate !
FILUMENA – Io già ce capitaie… ’A vedette io, ’a piccerella toia, cu nu vestito fatto cu ’a stoffa
ca faciste rimmané , a nu vestito mio.
TERESINA – Si dicite accussì, me facite piglià collera. (Con altro tono) Certo quanno ’a stoffa
resta… (Filumena la guarda con rimprovero). Ma nun sacrifico maie ’a cliente. Nun sarria
cuscienza.
ROSALIA – (ammirata) Donna Filume’, vuie state na bellezza ! Site proprio ’a sposa !
TERESINA – Ma comme avev’ ’a venì stu vestito ?
FILUMENA – (livida) Nun t’aviv’ ’a arrubbà ’a rrobba; he capito ?
TERESINA – (un po’ offesa) E accussì nun avit’ ì dicere… Allora faccio ’a mariola ? Aggio avé ’a
mala nutizia si è rimasta tanto ’e rrobba… (Fa il gesto per indicare una quantità irrisoria)
DOMENICO – (che fino a quel momento ha assistito alla scena con impazienza, tutto assorto in
una sua idea fissa e corrucciante, a Filumena) Filume’, io t’aggi’ ’a parlà nu mumento.
FILUMENA – (la qualche passo verso Domenico, ma zoppica a causa delle scarpe
nuove che le fanno dolore) Madonna… sti scarpe…
DOMENICO – Te fanno male ? Levatelle e te ne miette n’atu paro.
FILUMENA – Che m’he à dicere ?
DOMENICO – Teresi’ se ve ne andate ci fate piacere.
TERESINA – Comme no ? Mo Me ne vado. (Piega un panno nero che aveva con sé e lo mette
sul braccio) Auguri e buona fortuna. (A Lucia avviandosi per il fondo) Neh, e comme avev’
’a ji’, chillu vestito ? (Esce seguita da Lucia).
DOMENICO – (ai tre giovanotti) Vuie iate dint’ ’o salotto a trattené ’o cumpare e ’a cummara. ’E
ddate a bere qualche cosa. Rusali’, accumpàgnale.
ROSALIA – (annuisce) Gnorsì. (Ai tre giovanotti) Venite. (Esce per lo studio).
MICHELE – (ai fratelli) Iammo, venite.
RICCARDO – (irridendolo) Tu he sbagliato professione. Aviv’ ’a ji’ a San Carlo.
Ridendo, i tre giovanotti escono per lo studio.
DOMENICO – (guarda Filumena, l’ammira) Comme staie bene, Filume’… Si’ turnata n’ata vota
figliola… E si stesse tranquillo, sereno, te diciarria che tu puo’ fa’ ancora perdere ’a capa a
n’ommo.
FILUMENA – (vuole evitare, a tutti i costi, l’argomento che sta a cuore a Domenico e del quale
ella ha intuito il tenore. Evade) Me pare ca nun manca niente. So’ stata accussì stunata,
ogge.
DOMENICO – Io invece nun stongo tranquillo e nun stongo sereno.
FILUMENA – (1raintendendo ad arte) E che vuo’ sta’ tranquillo ? Uno pò fa’ affidamento sulo su
Lucia. Alfredo e Rosalia so’ duie viecchie…
DOMENICO – (riprende il discorso iniziato) Nun cagnà discorso, Filume’; nun cagnà discorso
pecché tu staie penzanno chello che sto penzanno io… (Continuando) E sta tranquillità, sta
serenità, m’ ’a puo’ da’ tu sola, Filume’…
Filumena Io ?
DOMENICO – Tu he visto c’aggio fatto chello ca vulive tu. Dopo l’annullamento del
matrimonio te venette a chiammà. E no una vota ma tanta vote… pecché tu facive dicere
ca nun ce stive. So’ stato io, ca so’ venuto addu te e t’aggio ditto: «Filume’, spusàmmece ».
FILUMENA – E stasera ce spusammo.
DOMENICO – E si’ felice ?… Almeno, credo.
FILUMENA – Comme no ?
DOMENICO – E allora m’he ’a fa’ sta’ felice pure a me. Asséttate, stamme a sentì. (Filumena
siede). Si tu sapisse quanta vote, in questi ultimi mesi, ho cercato di parlarti e non ci sono
riuscito. Ho tentato con tutte le mie forze di vincere questo senso di pudore e me n’è
mancato il coraggio. Capisco, l’argomento è delicato e fa male a me stesso metterti di fronte
all’imbarazzo delle risposte; ma nuie ce avimm’ ’a spusà. Tra poco ci troveremo
inginocchiati davanti a Dio, non come due giovani che ci si trovano per aver creduto
amore un sentimento che poteva essere soddisfatto ed esaurito nel piú semplice e naturale
dei modi… Filume’, nuie ’a vita nosta ll’avimmo campata… io tengo cinquantaduie anne
passate e tu ne tiene quarantotto: due coscienze formate che hanno il dovere di
comprendere con crudezza e fino in fondo il loro gesto e di affrontarlo, assumendone in
pieno tutta la responsabilità. Tu saie pecché me spuse: ma io no. Io saccio sulamente che ti
sposo pecché m’he ditto che uno ’e chilli tre è figlio a me…
FILUMENA – Sulo pè chesto ?
DOMENICO – No… Pecché te voglio bene, simme state nzieme vinticinc’anne, e
vinticinc’anne rappresentano una vita: ricordi, nostalgie, vita in comune… l’ho capito da
me che mi troverei sbandato… e po’, pecché ce credo; sono cose che si sentono, e io lo
sento. Ti conosco bene e perciò te sto parlanno accussì. (Grave, accorato) Io ’a notte nun
dormo. So’ diece mise, ’a chella sera, te ricuorde ?… che nun aggio truvato cchiú pace.
Nun dormo, nun mangio, nun me spasso… nun campo ! Tu non saie dint’ a stu core che
tengo… Na cosa ca me ferma ’o respiro… Faccio accussì… (come per respirare una boccata
d’aria) e ’o respiro se ferma ccà (mostra la gola) e tu nun me può fa’ campà accussì. Tu tiene
core, si’ na femmena c’ha campato, che capisce e m’aviss’ ’a vulé pure nu poco ’e bbene.
Nun me puo’ fa’ campà accussì ! Te ricuorde quanno me diciste: «Nun giurà … » e io nun
giuraie. E, allora, Filume’, t’ ’a pozzo cercà l’elemosina… E t’ ’a cerco comme vuo’ tu:
inginocchiato, baciannote ’e mmane, ’a vesta… Dimmèllo, Filume’ dimme chi è figliemo,
’a carne mia… ’o sango mio… E me l’he ’a dicere, pè te stessa, pè nun da’ l’impressione
che staie facenno nu ricatto… lo te sposo ’o stesso, t’ ’o giuro !
FILUMENA – (dopo una lunga pausa, durante la quale ha lungamente guardato il suo uomo) ’O vvuo’
sapé ?… E io t’ ’o ddico. A me basta che te dico: « Tuo figlio è chillu là ». Allora tu che
faie ? Cercherai di portartelo sempre con te, penserai a dargli un avvenire migliore e,
naturalmente, studierai tutti i modi per dare piú denaro a lui che agli altri due…
Domenico Mbè ?
FILUMENA – (dolce, insinuante) E aiutalo allora: ha bisogno, tene quatto figlie.
DOMENICO – (con ansia interrogativa) L’operaio ?
FILUMENA – (assentendo) L’idraulico, comme dice Rosalia.
DOMENICO – (a se stesso, man mano esaltandosi nei suoi ragionamenti) … Un buon ragazzo… ben
piantato… di buona salute. Perché si è ammogliato così presto ? Con una piccola bottega
che pò guadagnà ?… È un’arte anche quella. Con un capitale a disposizione pò mettere una
piccola officina con operai, lui fa da padrone: un negozio di apparecchi idraulici moderni…
(D’un tratto guarda Filumena con sospetto) Guarda, guarda… proprio ’o stagnaro… l’idraulico !
E già, quello ammogliato, il piú bisognoso…
FILUMENA – (fingendo disappunto) E na mamma ch’ha da fa’ ?… Deve cercare di aiutare il piú
debole… Ma tu nun l’he creduto… Tu, si’ furbo, tu… È Riccardo, ’o commerciante.
DOMENICO – ’O camiciaio ?
FILUMENA – No, è Umberto, ’o scrittore.
DOMENICO – (esasperato, violento) Ancora … ancora me vuo’ mettere cu ’e spalle nfaccia ’o
muro ? … Fino all’ultimo !
FILUMENA – (commossa per il tono accorato e affranto con cui Domenico ha pronunciato le sue
parole, cerca di raccogliere tutti i suoi sentimenti piú intimi per trarne, in sintesi, la formula
in un discorso persuasivo, che finalmente dia all’uomo delle spiegazioni concrete e definitive)
Siénteme buono, Dummi’, e po’ nun ce turnammo cchiú ncoppa. (Con uno slancio
d’amore da lungo tempo contenuto) T’aggio vuluto bene cu tutt’ ’e fforze d’ ’a vita mia !
All’uocchie mieie tu ire nu Dio… e ancora te voglio bene, e forse meglio ’e primma…
(Considerando d’un tratto l’inavvedutezza e l’incomprensione di lui) Ah, c’he fatto,
Dummi’… ’E vuluto suffrì afforza… ’O padreterno t’aveva dato tutto p’essere felice: salute,
presenza, denaro… a me: a me, ca pè nun te da’ nu dulore, me sarria stata zitta, nun avarria
parlato manco mpunt’ ’e morte… e tu, tu sarrisse stato ll’ommo generoso c’aveva fatto bene
a tre disgraziate… (Pausa). Nun m’addimannà cchiú pecché nun t’ ’o ddico. Nun t’ ’o
pozzo dicere… E tu devi essere galantuomo a non domandarmelo mai, pecché, p’ ’o bbene
che te voglio, in un momento di debolezza, Dummi’… e sarebbe la nostra rovina. Ma nun
he visto che, non appena io ti ho detto c’ ’o figlio tuo era l’idraulico, subito he cominciato
a penzà ai denari… ’o capitale… il grande negozio… Pecché tu ti preoccupi e giustamente,
pecché tu dice: «E denare so’ ’e mieie ». E accumience a penzà: « E pecché nun ce ’o
ppozzo dicere ca songo ’o pate ? »« E ll’ati duie chi songo ? » « Che diritto tèneno ? »
L’inferno !… Tu capisci che l’interesse li metterebbe l’uno contro l’altro… Sono tre
uomini, nun so’ tre guagliune. Sarriano capace ’e s’accidere fra di loro… Nun penzà a te,
nun penzà a mme… pienz’ a loro. Dummi’, ’o bello d’ ’e figlie l’avimmo perduto !… ’E
figlie so chille che se teneno mbraccia, quanno so’ piccerille, ca te dànno preoccupazione
quanno stanno malate e nun te sanno dicere che se sènteno… Che te corrono incontro cu
’e braccelle aperte, dicenno: « Papà ! »… Chille ca ’e vvide le venì d’ ’a scola cu ’e manelle
fredde e ’o nasillo russo e te cercano ’a bella cosa… Ma quanno so’ gruosse, quanno
song’uommene, o so’ figlie tutte quante, o so’ nemice… Tu si’ ancora a tiempo. Male
nun te ne voglio… Lasciammo sta ’e ccose comme stanno, e ognuno va p’ ’a
strada soia !
Internamente si udranno i primi accordi di prova di un organo.
ROSALIA – (dallo «studio » seguita dai tre giovani) È, venuto… è venuto ’o ricco sacerdote…
MICHELE – Mammà !…
DOMENICO – (si alza dal tavolo e guarda tutti lungamente. Poi, come una decisione immediata)
Lasciammo sta’ le ccose comme stanno, e ognuno va p’ ’a strada soia… (Ai ragazzi) Io vi
devo parlare… (Tutti attendono sospesi). Sono un galantuomo e non mi sento d’ingannarvi.
Stateme a sentì…
I TRE –Sì, papà !
DOMENICO – (commosso guarda Filumena e decide) Grazie. Quanto m’avite fatto piacere…
(Riprendendosi) Allora… Quando due si sposano è sempre il padre che accompagna la sposa
all’altare. Qua genitori non ce ne sono… Ci sono i figli. Due accompagnano la sposa, e uno
accompagna lo sposo.
MICHELE – A mammà ’accumpagnammo nuie.(Si avvia verso Filumena e invita Riccardo a
fare altrettanto).
FILUMENA – (improvvisamente ricordando) Che ore songo ?
RICCARDO – Mancano cinque minuti alle sei.
FILUMENA – (si avvicina a Rosalia) Rosali’…
ROSALIA – Nun ce penzate. Alle sei precise s’appicceno ’e ccannéle pure llà.
FILUMENA – (appoggiandosi al braccio di Michele e a quello di Riccardo) Iammo… (Ed
entrano nello «studio »).
DOMENICO – (a Umberto) E a me m’accumpagne tu…
Formano il breve corteo ed entrano nello « studio ». Rosalia commossa, mite come sempre,
rimane al suo posto battendo le mani e guardando la tenda. Internamente, l’organo intona la
«Marcia Nuziale ». Ora Rosalia piange. Poco dopo la raggiunge Alfredo, ed insieme seguono la
cerimonia. Anche Lucia si unisce a loro. Le luci scendono in «resistenza » fino al buio
completo. Dal terrazzo giunge lentamente un raggio lunare, e pian piano si accende la luce del
lampadario. È passato del tempo.
FILUMENA – (seguita da Umberto, Michele e Rosalia entra dallo «studio » difilato, va verso
sinistra) Che stanchezza, Madonna !
MICHELE – E mo v’arrepusate. Ce ne iammo pure nuie. Dimane tengo ’a puteca.
ROSALIA – (con una guantiera contenente dei bicchieri’ vuoti, verso Filumena) Auguri, auguri,
auguri… Che bella funzione ! Cient’anne he ’a campà, figlia mia, ca figlia me puo’ essere !
RICCARDO – (dallo «studio ») È stata proprio na bella funzione.
FILUMENA – (a Rosalia) Rusali’, nu bicchiere d’acqua.
ROSALIA – (marcando) Subito, signora… (Esce dal fondo).
DOMENICO – (dallo «studio », recando una bottiglia di vino «speciale » con il tappo cosparso di
ceralacca) Niente invitati, niente banchetto, ma na butteglia in famiglia, ce l’avimm’ ’a
vévere… (Prende il cavatappi sul mobile di fondo) Questo ci accompagnerà a dormire.
(Stappa la bottiglia).
ROSALIA – (ritorna con un bicchiere d’acqua in un piatto all’uso napoletano) Ecco l’acqua.
DOMENICO – C’avimm’ ’a fa’ cu ll’acqua ?
ROSALIA – (come per dire: «Me l’ha chiesto donna Filumena ») ’A signora.
DOMENICO – Dincello, ’a signora, che, di questa serata, l’acqua è malaugurio. E chiamma pure
a Lucia… Mo me scurdavo… chiama pure Alfredo Amoroso: montatore e guidatore
nonché conoscitore di cavalli da corsa.
ROSALIA – (chiama verso il fondo a destra) Alfre’… Alfre’, viene, viénete a bere nu bicchiere ’e
vino cu ’o signore… Luci’, viene tu pure.
ALFREDO – (dal fondo, seguito da Lucia) Eccomi prisento.
DOMENICO – (ha riempito i bicchieri ed ora li distribuisce) Teh, Filume’, vive. (Agli altri)
Bevete.
ALFREDO – (trincando) ’A salute !
DOMENICO – (guarda il suo fedele con tenerezza e nostalgia) Te ricuorde, Alfre’, quanno ’e cavalle
nuoste currevano ?
ALFREDO – Perdìo !
DOMENICO – Se so’ fermate… Se fermaieno tantu tiempo fa. E io nun ’o vvulevo credere, e
dint’ ’a fantasia mia ’e vvedevo sempe ’e correre. Ma, mo, aggiu capito ca s’erano fermate
già ’a nu sacco ’e tiempo ! (Mostra i giovanotti) Mo hann’ ’a correre lloro ! Hann’ ’a correre
sti cavalle ccà, ca so’ ggiúvene, so’ pullidre ’e sango ! Che figura faciarriamo si vuléssemo fa’
correre ancora ’e cavalle nuoste ? Ce faciarriamo ridere nfaccia, Alfre’ !
ALFREDO – Perdìo !
DOMENICO – Bive, Alfre’… (Tutti bevono). ’E figlie so’ ffiglie ! E so’ pruvvidenza. E sempre,
sempre… quando, in una famiglia, ce ne sono tre o quattro, sempre succede che il padre ha
un occhio particolare, che so io, un riguardo speciale per uno dei quattro. O pecché è
cchiú brutto, o pecché è malato, o pecché è cchiú prepotente, cchiú capuzziello… E gli
altri figli non se l’hanno a male… lo trovano giusto. È quasi un diritto del padre. Fra noi
questo non ha potuto accadere, perché la nostra famiglia si è riunita troppo tardi. Forse è
meglio. Vuol dire che quel bene che io avrei avuto il diritto di volere ad uno dei miei
figli… lo divido fra tutti e tre. (Beve) ’A salute ! (Filumena non risponde. Ha preso, dal seno, un
mazzolino di fiori d’arancio e, di tanto in tanto, ne aspira il profumo. Domenico si volge ai tre
giovani, bonario) Guagliu’, dimane ve ne venite a mangià ccà.
I TRE – Grazie.
RICCARDO – (avvicinandosi verso la madre) Ora vi lasciamo perché è tardi e mammà se vo’
arrepusà. Stàteve bbona, mammà. (La bacia) Auguri e ce vedimmo dimane.
UMBERTO – (imitando il fratello) Stàteve bbona.
MICHELE – Buonasera ed auguri
UMBERTO – (avvicinandosi a Domenico e sorridendogli teneramente) Buonanotte, papà…
RICCARDO – e MICHELE –(salutano insieme) Papà, buonanotte.
DOMENICO – (guarda i tre giovanotti con riconoscenza. Pausa) Dateme nu bacio ! (I tre, l’uno
dopo l’altro, baciano con effusione Domenico) Ce vedimmo dimane. –
I TRE – (uscendo seguiti da Alfredo, Rosalia e Lucia) A domani.
Domenico li ha seguiti cop lo sguardo, assorto nelle sue riflessioni sentimentali. Ora si
avvicina al tavolo e si versa ancora da bere.
FILUMENA – (si è seduta sulla poltrona e si è tolta le scarpe) Madonna, ma che stanchezza ! Tutta
mo m’ ’a sento !
DOMENICO – (con affetto comprensivo) Tutta la giornata in movimento… poi l’emozione… tutti
i preparativi di questi ultimi giorni… ma mo statte tranquilla e ripòsati. (Prende il bicchiere e
avvicinandosi al terrazzo) È pure na bella serata ! (Filumena avverte qualche cosa alla gola che la fa
gemere. Emette dei suoni quasi simili a un lamento. Infatti fissa lo sguardo nel vuoto come in attesa di
un evento. Il volto le si riga di lacrime come acqua pura sulla ghiaia pulita e levigata. Domenico
preoccupato le sì avvicina) Filume’, ch’è stato ?
FILUMENA –(felice) Dummi’, sto chiagnenno… Quant’è bello a chiàgnere…
DOMENICO – (stringendola teneramente a sé) È niente… è niente, He curruto… he
curruto… te si’ mmisa appaura… si’ caduta… te si’ aizata … te si’ arranfecata…
He penzato, e ’o ppenzà stanca … Mo nun be ’a correre cchiú, non he ’a penzà
cchiú … Ripòsate ! (Ritorna al tavolo per bere, ancora, un sorso di vino) ’E figlie so’
ffiglie… E so’ tutte eguale… Hai ragione, Filume’, hai ragione tu !… (E tracanna
il suo vino, mentre cala la tela).
CESARE PAVESE
La be lva
Noi siamo convinti che gli amori di Artemide con Endimione non furono cosa carnale.
Ciò beninteso non esclude – tutt'altro – che il meno energico dei due anelasse a sparger sangue. Il
carattere non dolce della dea vergine – signora delle belve, ed emersa nel mondo da una selva
d'indescrivibili madri divine del mostruoso Mediterraneo – è noto. Altrettanto noto è che uno quando
non dorme vorrebbe dormire e passa alla storia come l'eterno sognatore.
(parlano Endimione e uno straniero)
ENDIMIONE – Ascolta, passante. Come a straniero posso dirti queste cose. Non spaventarti dei
miei occhi di folle. Gli stracci che ti avvolgono i piedi sono brutti come i miei occhi, ma tu
sembri un uomo valido che quando vorrà si fermerà nel paese che ha scelto, e qui avrà un
riparo, un lavoro, una casa. Ma sono convinto che se adesso cammini è perché non hai
nulla se non la tua sorte. E tu vai per le strade a quest’ora dell’alba – dunque ti piace essere
sveglio tra le cose quando escono appena dal buio e nessuno le ha ancora toccate. Vedi quel
monte ? È il Latmo. Io l’ho salito tante volte nella notte, quand’era più nero, e ho atteso
l’alba tra i suoi faggi. Eppure mi pare di non averlo toccato mai.
STRANIERO – Chi può dire di aver mai toccato quello accanto a cui passa ?
ENDIMIONE – Penso a volte che noi siamo come il vento che trascorre impalpabile. O come i
sogni di chi dorme. Tu ami, straniero, dormire di giorno ?
STRANIERO – Dormo comunque, quando ho sonno e casco.
ENDIMIONE – E nel sonno ti accade – tu che vai per le strade – di ascoltar lo
stormire del vento, e gli uccelli, gli stagni, il ronzìo, la voce dell’acqua ? Non ti
pare, dormendo, di non essere mai solo ?
STRANIERO – Amico, non saprei. Sono vissuto sempre solo.
ENDIMIONE – O straniero, io non trovo più pace nel sonno. Credo di aver dormito sempre,
eppure so che non è vero.
STRANIERO – Tu mi sembri uomo fatto, e robusto.
ENDIMIONE – Lo sono, straniero, lo sono. E so il sonno del vino, e quello pesante che si
dorme al fianco di una donna, ma tutto questo non mi giova. Dal mio letto oramai tendo
l’udito e sto pronto a balzare, e ho questi occhi, questi occhi, come di chi fissa nel buio. Mi
pare di esser sempre vissuto così.
STRANIERO – Ti è mancato qualcuno?
ENDIMIONE – Qualcuno ? O straniero, tu lo credi che noi siamo mortali ?
STRANIERO – Qualcuno ti è morto?
ENDIMIONE – Non qualcuno. Straniero, quando salgo sul Latmo io non sono più un mortale.
Non guardare i miei occhi, non contano. So che non sogno, da tanto non dormo. Vedi le
chiazze di quei faggi, sulla rupe? Questa notte ero là e l’ho aspettata.
STRANIERO – Chi doveva venire ?
ENDIMIONE – Non diciamo il suo nome. Non diciamolo. Non ha nome. O ne ha
molti, lo so. Compagno uomo, tu sai cos’è l’orrore del bosco quando vi si apre una radura
notturna ? O no. Quando ripensi nottetempo alla radura che hai veduto e traversato di
giorno, e là c’è un fiore, una bacca che sai, che oscilla al vento, e questa bacca, questo fiore,
è una cosa selvaggia, intoccabile, mortale, fra tutte le cose selvagge ? Capisci questo ? Un
fiore che è come una belva ? Compagno, hai mai guardato con spavento e con voglia la
natura di una lupa, di una daina, di una serpe ?
STRANIERO – Intendi, il sesso della belva viva?
ENDIMIONE – Sì ma non basta. Hai mai conosciuto persona che fosse molte cose in
una, le portasse con sé, che ogni suo gesto, ogni pensiero che tu fai di lei
racchiudesse infinite cose della tua terra e del tuo cielo, e parole, ricordi, giorni
andati che non saprai mai, giorni futuri, certezze, e un’altra terra e un altro
cielo che non ti è dato possedere ?
STRANIERO – Ho sentito parlare di questo.
ENDIMIONE – O straniero, e se questa persona è la belva, la cosa selvaggia, la natura
intoccabile, che non ha nome?
STRANIERO – Tu parli di cose terribili.
ENDIMIONE – Ma non basta. Tu mi ascolti, com’è giusto. E se vai per le strade, sai che la terra
è tutta piena di divino e di terribile. Se ti parlo è perché, come viandanti e sconosciuti,
anche noi siamo un poco divini.
STRANIERO – Certo, ho veduto molte cose. E qualcuna terribile. Ma non occorre
andar lontano. Se può giovarti, ti dirò che gli immortali sanno la strada della
cappa del camino.
ENDIMIONE – Dunque, lo sai, e mi puoi credere. Io dormivo una sera sul Latmo –
era notte – mi ero attardato nel vagabondare, e seduto dormivo, contro un
tronco. Mi risvegliai sotto la luna – nel sogno ebbi un brivido al pensiero ch’ero
là, nella radura – e la vidi. La vidi che mi guardava, con quegli occhi un poco
obliqui, occhi fermi, trasparenti, grandi dentro. Io non lo seppi allora, non lo
sapevo l’indomani, ma ero già cosa sua, preso nel cerchio dei suoi occhi, dello
spazio che occupava, della radura, del monte. Mi salutò con un sorriso chiuso;
io le dissi: « Signora »; e aggrottava le ciglia, come ragazza un po’ selvatica,
come avesse capito che mi stupivo, e quasi dentro sbigottivo, a chiamarla
signora. Sempre rimase poi fra noi quello sgomento.
O straniero, lei mi disse il mio nome e mi venne vicino – la tunica non le
dava al ginocchio – e stendendo la mano mi toccò sui capelli. Mi toccò quasi
esitando, e le venne un sorriso, un sorriso incredibile, mortale. Io fui per cadere
prosternato – pensai tutti i suoi nomi – ma lei mi trattenne come si trattiene un
bimbo, la mano sotto il mento. Sono grande e robusto, mi vedi, lei era fiera e
non aveva che quegli occhi – una magra ragazza selvatica – ma fui come un
bimbo. «Tu non dovrai svegliarti mai », mi disse. « Non dovrai fare un gesto.
Verrò ancora a trovarti. » E se ne andò per la radura.
Percorsi il Latmo quella notte, fino all’alba. Seguii la luna in tutte le forre,
nelle macchie, sulle vette. Tesi l’orecchio che ancora avevo pieno, come d’acqua
marina, di quella voce un poco rauca, fredda, materna. Ogni brusìo e ogni ombra
mi arrestava. Delle creature selvagge intravvidi soltanto le fughe. Quando venne la luce –
una luce un po’ livida, coperta – guardai dall’alto la pianura, questa strada che facciamo,
straniero, e capii che mai più sarei vissuto tra gli uomini. Non ero più uno di loro.
Attendevo la notte.
STRANIERO – Cose incredibili racconti, Endimione. Ma incredibili in questo che, poiché
senza dubbio sei tornato sul monte, tu viva e cammini tuttora, e la selvaggia, la signora dai
nomi, non ti abbia ancora fatto suo.
ENDIMIONE – Io sono suo, straniero.
STRANIERO – Voglio dire... Non conosci la storia del pastore lacerato dai cani,
l’indiscreto, l’uomo-cervo... ?
ENDIMIONE – O straniero, io so tutto di lei. Perché abbiamo parlato, parlato, e io
fingevo di dormire, sempre, tutte le notti, e non toccavo la sua mano, come
non si tocca la leonessa o l’acqua verde dello stagno, o la cosa che è più nostra e
portiamo nel cuore. Ascolta. Mi sta innanzi – una magra ragazza, non sorride,
mi guarda. E gli occhi grandi, trasparenti, hanno visto altre cose. Le vedono
ancora. Sono loro queste cose. In questi occhi c’è la bacca e la belva, c’è l’urlo,
la morte, l’impetramento crudele. So il sangue sparso, la carne dilaniata, la terra
vorace, la solitudine. Per lei, la selvaggia, è solitudine. Per lei la belva è
solitudine. La sua carezza è la carezza che si fa al cane o al tronco d’albero. Ma,
straniero, lei mi guarda, mi guarda, e nella tunica breve è una magra ragazza,
come tu forse ne hai vedute al tuo paese.
STRANIERO – Della tua vita d’uomo, Endimione, non avete parlato?
ENDIMIONE – Straniero, tu sai cose terribili, e non sai che il selvaggio e il divino
cancellano l’uomo ?
STRANIERO – Quando sali sul Latmo non sei più mortale, lo so. Ma gli immortali
sanno stare soli. E tu non vuoi la solitudine. Tu cerchi il sesso delle bestie. Tu
con lei fingi il sonno. Che cos’è dunque che le hai chiesto ?
ENDIMIONE – Che sorridesse un’altra volta. E questa volta esserle sangue sparso
innanzi, essere carne nella bocca del suo cane.
STRANIERO – E che ti ha detto?
ENDIMIONE – Nulla dice. Mi guarda. Mi lascia solo, sotto l’alba. E la cerco tra i
faggi. La luce del giorno mi ferisce gli occhi. « Tu non dovrai svegliarti mai »,
mi ha detto.
STRANIERO – O mortale, quel giorno che sarai sveglio veramente, saprai perché ti
ha risparmiato il suo sorriso.
ENDIMIONE – Lo so fin d’ora, o straniero, o tu che parli come un dio.
STRANIERO – Il divino e il terribile corron la terra, e noi andiamo sulle strade. L’hai detto tu
stesso.
ENDIMIONE – O dio viandante, la sua dolcezza è come l’alba, è terra e cielo rivelati. Ed è
divina. Ma per altri, per le cose e le belve, lei la selvaggia ha un riso breve, un comando che
annienta. E nessuno le ha mai toccato il ginocchio.
STRANIERO – Endimione, rasségnati nel tuo cuore mortale. Né dio né uomo l’ha toccata. La
sua voce ch’è rauca e materna è tutto quanto la selvaggia ti può dare.
ENDIMIONE – Eppure.
STRANIERO – Eppure?
ENDIMIONE – Fin che quel monte esisterà non avrò più pace nel sonno.
STRANIERO – Ciascuno ha il sonno che gli tocca, Endimione. E il tuo sonno è infinito di voci
e di grida, e di terra, di cielo, di giorni. Dormilo con coraggio, non avete altro bene. La
solitudine selvaggia è tua. Amala come lei l’ama. E adesso, Endimione, io ti lascio. La vedrai
questa notte.
ENDIMIONE – O dio viandante, ti ringrazio.
STRANIERO – Addio. Ma non dovrai svegliarti più, ricorda.
La strada
Tutti sanno che Edipo, vinta la Sfinge e sposata Iocasta, scoperse chi era interrogando il pastore
che l’aveva salvato sul Citerone. E allora l’oracolo che avrebbe ucciso il padre e sposata la madre fu vero,
e Edipo si accecò dall’orrore e uscì di Tebe e morì vagabondo.
(parlano Edipo e un mendicante)
EDIPO – Non sono un uomo come gli altri, amico. Io sono stato condannato dalla sorte. Ero
nato per regnare tra voi. Sono cresciuto sulle montagne. Vedere una montagna o una torre
mi rimescolava – o una città in distanza, camminando nella polvere. E non sapevo di
cercare la mia sorte. Adesso non vedo più nulla e le montagne son soltanto fatica. Ogni cosa
che faccio è destino. Capisci ?
MEDICANTE – Io sono vecchio, Edipo, e non ho visto che destini. Ma credi che gli
altri – anche i servi, anche i gobbi o gli storpi – non amerebbero esser stati, re di
Tebe come te ?
EDIPO – Capiscimi, amico. Il mio destino non è stato di aver perso qualcosa. Né gli anni né gli
acciacchi mi spaventano. Vorrei cadere anche più in basso, vorrei perdere tutto – è la sorte
comune. Ma non essere Edipo, non essere l’uomo che senza saperlo doveva regnare.
MEDICANTE – Non capisco. Ringrazia che sei stato signore e hai mangiato, hai bevuto, hai
dormito dentro un letto. Chi è morto sta peggio.
EDIPO – Non è questo, ti dico. Mi duole di prima, di quando non ero ancora nulla e avrei
potuto essere un uomo come gli altri. E invece no, c’era il destino. Dovevo andare a
capitare proprio a Tebe. Dovevo uccidere quel vecchio. Generare quei figli. Val la pena di
fare una cosa ch’era già come fatta quando ancora non c’eri ?
MEDICANTE – Vale la pena, Edipo. A noi tocca e ci basta. Lascia il resto agli dèi.
EDIPO – Non ci son dèi nella mia vita. Quel che mi tocca è più crudele degli dèi.
Cercavo, ignaro come tutti, di far bene, di trovare nei giorni un bene ignoto che
mi desse la sera un sollievo, la speranza che domani avrei fatto di più.
Nemmeno all’empio manca questa contentezza. M’accompagnavano sospetti,
voci vaghe, minacce. Da principio era solo un oracolo, una triste parola, e
sperai di scampare. Vissi tutti quegli anni come il fuggiasco si guarda alle spalle.
Osai credere soltanto ai miei pensieri, agli istanti di tregua, ai risvegli
improvvisi. Stetti sempre all’agguato. E non scampai. Proprio in quegli attimi il
destino si compiva.
MEDICANTE – Ma, Edipo, per tutti è così. Vuol dir questo, un destino. Certo i tuoi
casi sono stati atroci.
EDIPO – No, non capisci, non capisci, non è questo. Vorrei che fossero più atroci
ancora. Vorrei essere l’uomo più sozzo e più vile purché quello che ho fatto
l’avessi voluto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro. Che cosa è
ancora Edipo, che cosa siamo tutti quanti, se fin la voglia più segreta del tuo
sangue è già
esistita prima ancora che nascessi e tutto quanto era già
detto ?
MEDICANTE – Forse, Edipo, qualche giorno di contento c’è stato anche per te. E non dico
quando hai vinto la Sfinge e tutta Tebe ti acclamava, o ti è nato il tuo primo figliolo, e
sedevi in palazzo ascoltando il consiglio. A queste cose non puoi più pensare, va bene. Ma
hai pure vissuto la vita di tutti; sei stato giovane e hai veduto il mondo, hai riso e giocato e
parlato, non senza saggezza; hai goduto delle cose, il risveglio e il riposo, e battuto le strade.
Ora sei cieco, va bene. Ma hai veduto altri giorni.
EDIPO – Sarei folle, a negarlo. E la mia vita è stata lunga. Ma di nuovo ti dico: ero
nato per regnare tra voi. A chi ha la febbre le frutta più buone dànno soltanto
smanie e nausea. E la mia febbre è il mio destino – il timore, l’orrore perenne di
compiere proprio la cosa saputa. Io sapevo – ho saputo sempre – di agire come
lo scoiattolo che crede d’inerpicarsi e fa soltanto ruotare la gabbia. E mi
domando: chi fu Edipo ?
MEDICANTE – Un grande, un vero signore, puoi dirlo. Io sentivo parlare di te, sulle strade e
alle porte di Tebe. Ci fu qualcuno che lasciò la casa e girò la Beozia e vide il mare, e per
avere la tua sorte andò a Delfi a tentare l’oracolo. Vedi che il tuo destino fu tanto insolito
da mutare l’altrui. Che dovrà dire invece un uomo sempre vissuto in un villaggio, in un
mestiere, che fa ogni giorno un solo gesto, e ha i soliti figli, le solite feste, e muore all’età di
suo padre del solito male ?
EDIPO – Non sono un uomo come gli altri, lo so. Ma so che anche il servo o l’idiota se
conoscesse i suoi giorni, schiferebbe anche quel povero piacere che ci trova. I disgraziati
che han cercato il mio destino, sono forse scampati al proprio ?
MEDICANTE – La vita è grande, Edipo. Io, che ti parlo, sono stato di costoro. Ho
lasciato la casa e percorso la Grecia. Ho visto Delfi e sono giunto al mare.
Speravo l’incontro, la fortuna, la Sfinge. Ti sapevo felice nella reggia di Tebe.
Ero un uomo robusto, allora. E se anche non ho trovato la Sfinge, e nessun
oracolo ha parlato per me, mi è piaciuta la vita che ho fatto. Tu sei stato il mio
oracolo. Tu hai rovesciato il mio destino. Mendicare o regnare, che importa ?
Abbiamo entrambi vissuto. Lascia il resto agli dèi.
EDIPO – Non saprai mai se ciò che hai fatto l’hai voluto... Ma certo la libera strada
ha qualcosa di umano, di unicamente umano. Nella sua solitudine tortuosa è
come l’immagine di quel dolore che ci scava. Un dolore che è come un sollievo,
come una pioggia dopo l’afa – silenzioso e tranquillo, pare che sgorghi dalle
cose, dal fondo del cuore. Questa stanchezza e questa pace, dopo i clamori del
destino, son forse l’unica cosa che è nostra davvero.
MEDICANTE – Un giorno non c’eravamo, Edipo. Dunque anche le voglie del cuore,
anche il sangue, anche i risvegli sono usciti dal nulla. Sto per dire che anche il
tuo desiderio di scampare al destino, è destino esso stesso. Non siamo noi che
abbiamo fatto il nostro sangue. Tant’è saperlo e viver franchi, secondo l’oracolo.
EDIPO – Fin che si cerca, amico, allora sì. Tu hai avuto fortuna a non giungere mai. Ma viene
il giorno che ritorni al Citerone e tu più non ci pensi, la montagna è per te un’altra
infanzia, la vedi ogni giorno e magari ci sali. Poi qualcuno ti dice che sei nato lassù. E tutto
crolla.
MEDICANTE – Ti capisco, Edipo. Ma abbiamo tutti una montagna dell’infanzia. E per lontano
che si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero. Là fummo fatti quel che siamo.
EDIPO – Altro è parlare, altro soffrire, amico. Ma certo parlando, qualcosa si placa
nel cuore. Parlare è un poco come andare per le strade giorno e notte a modo
nostro senza mèta, non come i giovani che cercano fortuna. E tu hai molto
parlato, e visto molto. Davvero volevi regnare ?
MEDICANTE – Chi lo sa ? Quel che è certo, dovevo cambiare. Si cerca una cosa e si trova
tutt’altro. Anche questo è destino. Ma parlare ci aiuta a ritrovare noi stessi.
EDIPO – E hai famiglia ? hai qualcuno ? Non credo.
MEDICANTE – Non sarei quel che sono.
EDIPO – Strana cosa che per capire il prossimo ci tocchi fuggirlo. E i discorsi più veri sono
quelli che facciamo per caso, tra sconosciuti. Oh così dovevo vivere, io Edipo, lungo le
strade della Fòcide e dell’Istmo, quando avevo i miei occhi. E non salire le montagne, non
dar retta agli oracoli…
MEDICANTE – Tu dimentichi almeno un discorso di quelli che hai fatto.
EDIPO – Quale, amico ?
MEDICANTE – Quello al crocicchio della Sfinge.
CARLO EMILIO GADDA
L’Adalgisa
Qu a ttr o f ig lie e b b e e c ia scuna regina
Il Nobilis Homo Cipriano de’ Marpioni, col crescere della prole, aveva dovuto
allargarsi. (1) Così nel 1920, non ostante la tristezza delle annate, s’era traslocato in via Spiga al
21: e il nuovo appartamento, infatti, aveva quattro camere di più. Le stanze del servizio, il
bagno, i corridoi, l’anticamera, e l’uno de’ due gabinetti, eran pavimentati con piastrelle rosse
di piccolo formato: esagonali: e qualcuna anche in più pezzi; mentre qualche altra, poggiata
sulla marognetta (2) con la levità d’una moneta falsa, si intuiva appena entrati come, timida
e casalinga, la si addava a bilanciare con sommesso riguardo il peso de’ più temuti ospiti:
conferendo ai loro tacchi superbiosi e alla maestà del loro quintalato una sorta di claudicante
imperizia, e quasi un reverenziale timore del mal passo. Com’era l’uso in Milano fra il 1890 e il
1910, l’apotéma di quelle mattonelle misurava centimetri 5,196: mentreché il raggio del circolo
circoscritto raggiungeva i 60 millimetri: le due misure sono interdipendenti, per il che
non occorre aver noi alcuna notizia di trigonometria, ma ci pensa il cervello stesso
dell’esagono.
In quegli anni la casa di via Spiga era andata ammodernata il possibile, tra i vecchi muri
storti e i nuovi soldarelli dell’acquirente, un po’ obliqui loro pure; ch’era poi nient’altro, del
resto, che il Grand’Ufficiale Dottor Ingegner Odoardo Forlina. Ammodernata: e anzi in alcuni
dettagli rifatta e riempita di «parét » e di «tramézz », oltreché d’una nuvolaglia di calcinacci e
farinone da non averne un’idea; col ricavarvi perfino dei bagni, e poi qualche minuscolo
stanzino, ripostiglio, e latrinuccia di rincalzo. Questi bugigàttoli non si poteva di certo
aspettarsi che avessero a ricevere una pianta rettangolare o anche solo regolare come che fosse:
neppure a mano d’un ingegnere del Politecnico, e del calibro dell’ingegner Forlina: rinomati
anzi come sono, nella nostra indaffarata Milano, per il culto totémico del trapezio,
ossia losanga, che più gli riesce fuora bistorto, e più loro si sentono bene. E
nemmeno il Nobilis Homo se lo aspettava, poveraccio, data la nobiltà e « vetustà » della
fabbrica: che, per quanto al di fuori abbia tutta l’aria d’una catapecchia, tutti mi assicurano
invece che era proprio il palazzo Brügna,(3) passato poi col tempo, per via di donne e di doti,
ai Condulmari di Asnàgo: e ciò da « oltre un secolo ». Dacché i miei concittadini, quando si
tratti dei Condulmari di Asnàgo, dicono davvero « oltre » (un secolo) invece del solito
« püsée »: (de cent’ann).
I lavori di adattamento e rimessa a nuovo, nella terminologia ufficiale, cioè in bocca del
Grand’Ufficial Forlina, e del capomastro Ballabio che li aveva eseguiti, si denominarono « la
migliorìa ». Siccome però anche precedentemente c’era stata occasione di ricambiare al Brügna
un qualche tegolo, o di rappezzarvi il lucernario delle scale, o aggiustargli vetri o porte o canne
dell’acqua, o altri visceri anche più inverecondi, e questi aggiustamenti e rattoppi, bene o male,
costituivan pure delle migliorìe, così la migliorìa principe di cui stiamo occupandoci veniva
designata al titolo di « migliorìa Ballabio », o, più artigianamente, « migliorìa del Brüsüi »: ché
per tale lo conoscevano, da Brusuglio,(4) sua patria; mentre nei verbali e nei computi di
liquidazione e negli atti e schédule in genere tra Ufficio Tecnico e ufficio Imposte e Catasto
era nota e stimata oggimai come « la migliorìa definitiva del mila noeuf cent desdòtt ».
[[Vedi Antologia]]
L’animo squisitamente sensitivo di donna Giulia non poteva non avvertire tutto ciò. Ella si
rifiutò poi per più anni – in modo assoluto, comunque, tra il 47º e il 50º di sua età – rifiutò
d’ammettere che quell’intoppo improvviso si opponeva con estrema perfidia e frequenza anche
alle due impareggiabili cavalle sue figlie, cioè la Lola e la Maria Filiberta, nonché alla piccola,
ogniqualvolta fossero necessitate di trasferire « la loro giovinezza esuberante » da una provincia
all’altra dell’esagitato reame: allorché, per esempio, giulive, festosamente garrule, irrompevano
come ciclone in sala da pranzo, o anche solo nella tromba di Eustachio, a scopo di repentino
festeggiamento del loro caro paparino, il Nobilis Homo in persona, col rischio di acciaccargli
un piede, lui che calzava solo scarpe di capretto, morbidissime: diceva anzi « chevreau », come
pure il suo calzolaio. Di capretto: « perché ha dei piedi delicatissimi », commentava orgogliosa
donna Giulia, « d’una sensibilità straordinaria ». Di pasta di marrons glacés, potremmo credere,
dal momento che siamo in sul francese. «Filiberta, Filiberta ! Mapeppa ! venite ! correte, che
c’è il paparino ! Come stai paparino ? bravo paparino che sei tornato presto ! Un bacio anche a
me, paparino ! Viva il paparino ! Paparino, paparino ! » E issofatto gli combinavano
tutt’all’ingiro un girotondo infernale, gridavano e saltabeccavano in cerchio,
sparando su dalle mattonelle come altrettanti razzi, ricadendo poi con le gambe
nude e mutandine rosa alle viste sui sandali acciabattati, a sfragellarsi le trombe di
Fallopio, (dotti ovàrici); mentre la gonnellina pareva fungere da paracadute, elata
ad umbrello.
Erano quelli i momenti che gli inquilini di sotto, al piano nobile, si sentivano piovere in
testa una farinetta leggera leggera, come se il soffitto del piano nobile fosse tutto un barattolo di
borotalco; per quanto né il boro né il talco venissero ancora usati, a Milano, in quell’epoca, per
infarinarsi la testa. Gli « inquilini di sotto » (guai a dire, in presenza di donna Giulia, i signori
del piano nobile) erano un discreto paio di marito e moglie, e di ottima estrazione sociale, che
avevano smarrito in una gran pena lo scontrino felice del multiplicàmini. « Eh ! comincen,
comincen ! ho bel e capìi, mi, che hin drée a comincià… quii demòni de quii
tosànn ki de sora… », principiava a sospirare il marito, levando gli occhi al disopra degli
occhiali come a scrutar le idee della moglie, ch’era già pallida, d’un pallore pieno di bellezza e
di còllera: e già sul procinto di inviperire. Gli occhiali, poveraccio, e una cadaverosa poltrona
(sacro ricordo del su’ nonno) gli permettevano di assaporare in tutta quiete le ricorrenti giostre
e finezze dell’impareggiabile foglio umorifero ch’era, in quegli anni, il « Guerino
Meschino »: e di gustarne appieno e di appropriarsi, col massimo rendimento, il più recondito
e solferinesco lepore.(13) A un unico mal passo egli ricusava nobilmente di volersi
concedere, cioè a quello scivolo piuttosto lubrico, se pure soltanto ebdomadario,
della Nice e del marito fellòn: una anacreontica, e alquanto sciocca per giunta,
oh !, una strofetta di nulla: « ona cilapada che var nanca la pèna de légela ».
Giudichi infatti il lettore, e, prima ancora di lui, la stupenda lettrice.
Non c’è radio senza antenna
anacreontica(14)
A Nice
Quest’antenna è pur, mia Nice,
Vanto e merto al caro armadio
Donde abbiam sì dolce il suon ».
Mi sogguarda irata e dice
«Sarà l’arme della radio
Non la tua, però, fellon ».
Ed ora le diavolesse ! e le cugine delle diavolesse !
La moglie, che sedeva in lavori d’uncino e sosteneva d’essere cardiopatica (ma era una idea),
si lasciava cogliere, ogni volta, da un nuovo esemplare di insulto cardiaco. «Mi faranno morire !
morire, mi faranno ! » Tolto su il gomitolone, d’una lana color lucertola, e tutti gli uncinetti
d’osso che l’avevano aiutata, durante alcune ore, a percepire l’esistenza del proprio cervello, via
come la coda della folgore ! Dispariva a testa alta, gli occhi sfavillanti di collera, col
fare di una Noailles o di una Montmorency a cui l’ottantanove avesse mancato di
riguardo. L’uscio dietro lei, sbatteva indignato.
Le tre ragazze, di sopra, cioè sopra alle travi tarlate, al piancito, alla marognetta, e alle
bilicanti piastrelle della miglioria, seguitavano per dei quarti d’ora interi a ballare, a saltare e a
giostrare come demoniesse intorno al loro caro paparino, o ad altro eventuale pupazzo che ne
facesse momentaneamente le veci.(15) Il papà: preda automatica e totale dell’entusiasmo che
ogni padre sa ingenerare nelle proprie figlie ! Specie in via Spiga: e tanto più quanto è più
paonazzo in faccia, corto a quattrini, nobile d’animo e di legnaggio: e di piedi dolci.
L’erede maschio, del resto, dopo il trasloco(16) allargatore del 1920, poi !, era sempre il
buon chiodo del N. H. Cipriano: e anche di donna Giulia, d’altronde; che in tema di prole da
destinare alla patria si uniformava abbastanza docilmente alle vedute e alle direttive del marito.
Era questa, anzi, la sua unica docilità.
Donna Giulia de’ Margioni nata Pertegati, e cugina dei Borella di Villapizzone, se ben
ricordo, che devono essere parenti dei Cavallazzi, e dei Ghezzi di Barlassina, quelli che stanno
«lì »(17) in via Cusani, al nümer vott, e anche dei Novati, che sono anche miei lontani parenti,
dopo tutto, dato che « la » mia bisnonna era una Novati, mentre per parte di madre
era legata ai Cavallazzi… ma tutto questo non c’entra… bé, la contessa Giulia, dicevo, era
donna di elevato sentire, stando alla enunciazione più frequente, e talora, invece, eletta
gentildonna lombarda di squisito sentire: mentreché vi farò grazia delle
n(n 1)(n 2)( n 3)(n 4)
2
5!
varianti che il calcolo combinatorio ci attesta realizzabili dopo le suddette, dalla permuta di n
parole senza senso prese a cinque a cinque.
L’elevato sentire, beninteso, non le impediva di ridurre mensilmente alla disperazione i
commessi delle Seterie e Passamanerie Milanesi Carugati & Bondanza S. A., il primo negozio
del genere in tutta Milano, dicono, quando gli capitava in negozio dieci minuti prima della
chiusura di mezzogiorno; con un campioncino, un filuzzo, d’una matassina di seta color
pisello, secondo lei: o un ritaglio color beige: (nel pronunziare la qual parola il suo volto si
accendeva di bagliori tintoretteschi). Una volta lì, col pretesto del pisello e del beige, e
sul fondamento della sua propria sincrética certezza, «ne sono sicura, assolutamente
sicura ! », data anche la spettacolosa circonferenza e l’enormità della massa, era vana cosa, mi
assicuravano quei giovanotti, sperare di potersela levar dai minchioni un minuto prima
del tocco. Perché il nuovo pisello esibìtole era sì un pisello, ma non il pisello della sua ex–
matassina, di cui quel superstite filuzzo testimoniava anche troppo validamente la oggimai
consumata rarità: e il beige… sì, era un beige, ma non il beige che cercava lei… come quello
che le avevano venduto tre anni prima… proprio la vigilia di San Bàbila… « San Bàbila ? » Ma
sì ! quando c’era ancora il cavalier Bernasconi… « Il cavalier Bernasconi ? »
« Ma sì !… cioè no… volevo dire el cavalier… me se ciama… speta… el cavalier
Bartesaghi ! » Quell’ideogramma valeva da repentino sperone, la vis emulativa si
sprigionava a un tratto dai bulbi: tale Carlo III a sentir nominare Carlo II. Lo stimolo
emulativo agiva come toccare l’elettrico.
In un battibaleno, non ostante l’impendere del mezzogiorno, tutta la sciagurata
novecenteria dell’architetto Basletta – cristalli, e cassetti di ràdica, e maniglie e pomi
anticorodàl(18) – andava per la centesima volta a soqquadro. Altro che vigilia di San Bàbila !
Una babilonia di scatole, di matasse, di matassine, di trecce, un’insalata di pezze sciorinate sui
bancali in tutte le sfumature dell’iride; quali solo si possono concepire a carico di oneste e
servizievoli Seterie e Passamanerie Milanesi Carugati & Bondanza S. A. aventi a controparte
una gentildonna di elevato sentire, milanese o no, dopo uno stormo di altre clienti altrettanto
volitive, con disoccupata mattina a disposizione. Pezze su pezze, scatole su scatole, si
montonavano (19) sul banco: o ne tomborlavano (20) fuora, e giù dal banco e dalle scatole,
rocchetti, gomitoletti, gomitoloni di più tinte, tubetti e telaietti in cartoncino, a cariche
multicolori, come piccoli aspi, gli aspi infiniti della servizievole possibilità. Compatte o
scarmigliate matassine, in tutta la gamma del campionario, campioni d’ogni tipo e d’ogni risma,
venivano pasticciosamente dislocati, a quell’ora, da una scatola nell’altra, in un’angoscia e in un
arruffìo da non dire: poi ricercate nervosamente, poi ritrovate, poi riperdute. Dal
registratore della cassa, con un tintinno come di campanello a ogni battuta, dal militante e
trionfante ingranaggio, si sgranava ancora in un galoppo filato la balda meccanica deglutitrice
dell’incasso, coi soli arresti e coi tristi e disperati imbarazzi pel resto e le code di frazione, « per
caso non ha moneta, signora ? », tra il frustume delle lire marce e la nichelaglia o
ramaglia o acmonitaglia dei soldarelli, nichelini, decini gobbi e sbilenchi soldini, e
qualcuno anche del Papa e della Repubblica di San Marino, volto e rivolto e scrutato e
analizzato per ogni verso nei diffidenti riscontri, con l’occhio velenoso del dispetto,
nell’adunco livore della taccagneria.
E guardate lunghe, soavi guardate da una rosea facciona di tettameo, del direttore
di vendita, ai banchi e alle uscite: e rapidi e nervosi strali de’ commessi alle mani annoiate delle
belle, sul banco: mani che paiono assaporare al tatto quei lussi e le sciorinate dovizie, assaporare
e ripudiare, desiderare e respingere, volere e nolere. Ma le manine, le manone, le borsette, le
borsone, i precedenti pacchi e pacchetti, nel pandemonio meridiano del bazar ! All’uso volgare
si dice, con tutto questo, si dice tener d’occhio. Tra belle mani, le mani del biondo angelo
sgraffignone, e il suo scaltro marsupio, sono sempre potenzialmente presenti.
E adesso nella urgenza dell’ora, col rotolare dei tram, fuori, che si rincorrevano rotolando
stipati verso il risotto: sotto lo sguardo imperativo della gentildonna committente: a cui una
bava sàdica, nel frattempo, doveva di certo fluitarle giù per il gargarozzo fin giù nelle trombe e
nei fondali dell’anima. La cera dei disgraziati giovanotti, dei descuidados che avevano
avuto l’imprudenza di salutarla e ossequiarla al primo entrare, ilari e pieni di omaggi, col
bocchino intirizzito a cul di pollo, magari, e una rispettosa e volonterosa fregatina di mani:
« Signora, buongiorno. Buongiorno, signora. La signora desidera ? », adesso, poverini, se ne
accorgevano ! la cera gli si allungava a vista d’occhio, la deperiva di minuto in minuto,
emaciando e scolorando in una specie di tubercolosi al galoppo. Grosse gocciole di sudore gli
imperlavano la fronte, belli miei; brillantina liquefatta, dai capelli unti, gli si sdilinquiva giù per
il collo; dietro gli orecchi, in una scolatura oleosa. Il panciutello direttore di vendita, non più
Bartesaghi oggimai, Carlo II cioè, sibbene Consonni cavalier Amilcare, ossia Carlo III, aveva un
bel dondolare la gamba, nervoso lui ! col suo cravattino di direttore di vendita, nervosetto ! sì,
stai fino ! un bel fulminare occhiate da primo console a quei poveri polli di commessi: all’atto
pratico neanche lui non osava rifiatare. Lustrati da vincolo di parentela coi Bondanza, con gli
azionisti e padroni, accesi in un fiammeggiante corruccio, i due occhi di donna Giulia si
puntavano sull’Amilcare come di vipera sul terrorizzato passerotto: ne recidevano i deferenti e
gli impulsi ribelli, lo inchiodavano al silenzio. Lo paralizzavano in un repentino sorriso
d’automa, che poi gli si ghiacciava sulla faccia come il rictus cadaverico sulla faccia
di chi ha ultimato di fungere.
La sirena del mezzogiorno, ecco, impazzava e sgrondava giù dalle torri, e dalle grondaie dei
tetti: un serpente con lo stomaco vuoto: e lei alta ed enorme davanti il banco senza darsene
menomamente per inteso, dura, volitiva, impettita, sfido io !, risentita, nasuta, padrona di sé.
Con due anche rotonde e barocche degne di figurare il mappamondo della Giustizia polposa
sulla tomba di Carlo IV. « Ma no, diamine !… ma non è questo che volevo !… Ma come
potete sostenere che i due colori sono eguali ?… Ah, secondo lei queste due tinte sarebbero la
stessa cosa ?… Ma non ha gli occhi, lei, scusi tanto ?… »
E quelli, o quello, pareva supplicare la feroce màntide che gli lasciasse almeno un po’ di vita
da arrivare a goder dello strazio, con poveri occhi dal sotto in su velati del velo di tristezza,
nell’onta e nella scarogna delle sue 433 lire mensili (al lordo di ricchezza mobile e
trattenute di legge), con lo sguardo accorato e umiliato, col fare servizievole, dimesso, e un po’
curvo in avanti, proprio di chi non ha mai assaggiato una bistecca del Troja in sua vita. In tutta
la macilenta persona, specie però nel luccicore implorativo degli occhi sopra l’incavo delle
gote, un senso di stomaco vuoto, un’idea di spaghetti mancati all’appuntamento della sirena
ogni giorno: tutti i giorni: per anni e anni; durante tutto il pallore d’una adolescenza. E la
sirena che scodinzola come un furetto a tirar finalmente a casa le signore, i signori. Aragoste e
tartufi avevano preso una direzione da romanzo: e anche loro gli aspàragi, i bei
spargioni verdi, ammollati, annegati nel butirro… Loro sognavano invece un bel
piatto di spaghetti, gli sciagurati del Bondanza, di pastasütta, come la chiamano:
anche non venisse fuora dai magazzini di Gragnano e di San Giovanni a Teduccio,
dalle miracolose filiere di zite alla marina di Torre Annunziata, la più esauriente fra
tutte le zitelle…
Be’, la penna mi ha voluto prender la mano. L’eva, dopo tutt, una donna degna del
massimo rispetto: svelta, non ostante la ciccia, risoluta, «energica », ben piantata in terra e
ammanigliata anche, per la maniglia delle cresime e dei sacramenti, ad alte protezioni celesti.
Una massaia d’oro, poi: conteggiatrice avveduta: oh ! quanto a questo… « A mi me la fan
no ! » Di proporzioni enormi, purtroppo: ma questo non ne aveva colpa lei, poverina. Sposa e
madre esemplare. Ed espertissima allevatrice di pollame: (« indispensabile a una famiglia del
nostro rango », diceva). Che anche quello, però, finiva senza avvedersene per ridurlo
al coma e alla disperazione, una vera e propria psicastenia, complicata di manìa
suicida, da tanto che gli misurava il pastocco: « Bisogna tenerli un po’ indrée in del
mangià », era solita emanare, « se si vuole che siano proprio saporiti, e purgàa
come se déef ». I polli, in capponiera a Baggio, non anelavano ad altro se non a troncare una
vita divenuta oramai insopportabile.(21) Percepivano appena il suo avvicinarsi, ombra immane
d’un semovente Ruwenzori, ed ecco resuscitavano dal coma: e letta bentosto sul di lei volto
la premeditazione ferale, ecco principiavano a beccarsi l’un l’altro come sparnazzanti rapaci su
di una carogna, o più che galli in duello: disputandosi con quelle beccate d’avoltoio l’agognata
precedenza: (a farsi tirare il collo). Un lampo sadico accendeva in quei momenti le pupille
demoniache di donna Giulia che, ipnotizzando gli stolti, già trangugiava in anticipo la
vitalizzante (per lei) saliva dello strangolamento. Ella chiamava per nome le sue vittime, uno a
uno, i suoi tesori: coi nomi più dolci li chiamava, poveri scheletri ! coi più blandamente
suasivi: «Federico, Popò, sì, sì, ven kì, poer el me stràsc ! toeh, ven kì, Bergeggi,
Don Néspola, sì sì, anka tì, Paparino. Sì, ho capì, Nannuccio, ho capì che me vorì
ben, che ghe vorì ben a la vostra sciora, bravi, bravi,… dèss basta ! … sì, sì, ven kì
anka tì in la toa sciora, el me Corocòcco, poer el me nano ! cara la mia sciavata
früsta ! ecc. ecc. ». Le povere bestie, all’udir quella voce ammaliatrice, dopo l’inferno del loro
battibecco intestino finivano per entrare in una specie di aura perduta, nel clima petroniano
d’una pollarola eutanasìa, presi via nello spiro d’una loro voluttà masochistica: agognando
ciascheduno in cuor suo di venir finalmente prescelto al magistrale colpo di cassetto con cui la
gentildonna lombarda di squisito sentire poneva fine al lungo digiuno del sacrificando. Tragico
e oramai bimensile digiuno. Chiudendogli cioè la testa dentro il cassetto del tavolo di cucina,
tatatràk ! di colpo: lì a Baggio stesso, dopo d’aver seminato il fondo di quella trappola d’alcuni
irresistibili chicchi di granturco. Si trattava di gareggiare in velocità coi riflessi muscolo-motori
del collo del pollo, e di approfittare senza esitazione della beccata del secondo chicco. Era tale
la pratica, acquisita in un biennio di perfezionamento dopo i pieni voti del diploma, che il
cassetto glie lo sparava dietro, al Paparino o al Bergeggi, con una sicurezza assoluta, da far
trasecolare gli incompetenti, come la zampata fulminatrice della pantera. Che poi, lì stesso, li
dava spennare alla Teresa: cavàtogli il sangue seduta stante a mezzo d’un suo temperino (di
madreperla), e lasciandone al piatto una specie di migliaccio (22) di pan grattato: che in quei
tempi era una cosa di nulla, ma davvero.
Erano omai dei càthari, dei mistici, povere bestie ! come i monaci della Tebaide
spiritualizzati dal digiuno. E anche sotto Natale.
Quel ch’è certo, è che l’allevatrice non assomigliava ai pupilli. I di lei fianchi, per
testimonianza unanime delle sue migliori amiche, le quali lo avevan tenuto dalla discrezione
della sua sarta, davan luogo a un circuito di 188 centimetri, cioè quanto i due toraci di due
artiglieri da montagna conglobati insieme a costituire un sol globo. I polpacci glieli si potevano
ammirare in tram, sia sul 27 che sul 33, data la moda e la mancanza di una automobile propria:
ed erano un qualchecosa di certamente autorevole, e cionondimeno ragionevole. Finivano anzi
in due caviglie piuttosto graziose, per quanto «energiche », e abbastanza sottili da poterle
consentire sui marciapiedi del Mon Napoleone, con l’aiuto dei tacchi, quell’incesso
imperatorio e tutto tacco che è una delle preminenti caratteristiche urbane per le nature
elevate. Quando, beninteso, le varie «commissioni » del «centro » non gli abbiano ancora
indolenzito i piedi in misura irreparabile. Ed erano appunto queste caviglie, e questi tacchi,
unitamente al « velle », che la introducevano come il gastigo di Dio che s’è visto nella
depressione ciclonica submeridiana delle Seterie Passamanerie Carugati & Bondanza S. A. Con
qual beneficio per l’industria e per il commercio serico lombardi, s’è pure constatato in
dettaglio.
Qualche volta la seta, e altre fibre tessili del resto, – lana, lino, cotone, e magari
le autarchiche, – ebbero motivo di solerte raduno a un suo cenno materno: ogniqualvolta si
trattò, cioè, di predisporre un opportuno campo di atterraggio al volo della materna
speranza. Pannolini, camicine, braghettine, porta-creaturine, con trine, e golfini, e cappuccini
di lana; e nastri rosa e azzurri, in attesa che il dilemma della probabilità manifestasse – alla
dogliosa e grande uscita – il corno o lo spacco unisenso della realtà. Ma il nastro rosa
aveva avuto partita vinta: con la Lola ! e ancora una volta ! con la Maria Filiberta. Dopo due
cavallerizze di quel calibro, dopo anni di un prudente distacco, (quasi a sfatare o a lasciar
evaporare la monomania cromatica del destino, che s’era fissato sul rosa),… be’, pazienza… ma
ora ! ora sarebbe proprio la volta del bersagliere, un bel bersaglierone di quattro chili e mezzo,
Dio mio ! Sì, sì, lo sentiva, «Vi ringrazio, mio Dio !… Ve ringrazzi propri de coeur ! » Lo
intuiva: lo presagiva nella fidente certezza dei visceri: l’istinto materno è come la voce dei
profeti e delle sibille !… Sì, sì, ne era proprio sicura…
I due coniugi sognavano già di deambulare nelle corsìe d’un gran negozio di
giocattoli, ma de quii chic, ai dì del Natale, per l’acquisto d’una trombetta, dello schioppo,
del cappello piumato. «Dì on pòo, Cipriano, stanòtt me sont insognada ch’el me fioeu
el voreva ona tromba… e che l’aveva pientàa vün de quii caprizzi… ma de quii
caprizzi !… poer strafüi !… e che l’eva gemò bon de cor… e di mettersi dietro a
cantare el so inno… te set… el so de lor… che le cantàven in del quarantòtt: (23)
Bersa-glièr di gàm-ba buona
Marce-rèm fin a Ve-rona
A tro-vàr l’impè-rator… »
E il N. H. Cipriano la guardava commosso, le carezzava (con una carezza non impegnata
fino al tatto) i capelli ancor folti, e così giovanili: (per non scompigliarne l’edificio).
Due grosse lacrime le scendevano giù per le gote, scarnite e come arrossate dalla gravidanza,
al risognare quella chinemàtica annunciazione, un presagio di giovinezza e di corsa, squillo
come d’una immortale fanfara. La vita del figlio si sarebbe dunque tramutata in una corsa ? Una
corsa verso dove ?… In direzione di Verona ?… Sì, sì… verso Verona !… verso Venezia, verso
il Lido… Fino alla pensione Mafalda.(24) « Cont el so giardinett ». Sì, sì ! « Gran bei posti ! »
concludeva levandosi a pena, in un languore, dallo schienale e dai cuscini: e soffiandosi
dolcemente il naso. « Sì, sì, l’erede, Dio mio ! »: il pollo ! « el me püresìn dora !… »
L’erede, Dio mio… Non vorrei andar nel difficile: ma con l’andar degli anni e il
sopravvenire delle Marie, tanto il N. H. Cipriano che donna Giulia s’eran dovuti ricredere
circa l’infallibilità dell’istinto, dei profeti, e delle sibille. Essi anzi, quand’io ebbi l’onore di
conoscerli, nel 1927, e subito dopo di imparare a stimarli, avevano più di una buona ragione
per supporre che la macchina del destino – influenzata da una qualche stella nemica dei blasoni,
o almeno dei de’ Marpioni – tendesse proprio a fargli trovare in via Spiga una micamal nidiata
di sorelle, all’erede, prima di decidersi a scodellarlo lui. Oh, sì, sì: una più paparino dell’altra.
Circolavano già per tutta Milano, in quegli anni, notizie di Pertegati impavidi, di stoici
Cazzaniga e Cavallazzi, di eroici Vigoni, che avevano dato opera indefessa alla perpetuazione
del rispettivo casato anche dopo otto, dopo dieci, dopo dodici culle filate col nastro rosa ! E
magari per vedersi andar prete il celeste, e buon tredicesimo ! Oh ! quanto al prete, il N. H.
Cipriano confidava nel tatto di donna Giulia, nella sua chiaroveggenza, nella sua « energia »,
nel suo « spirito », nell’« alto sentire della donna e della madre ». Ma, ma, ma… quel corridoio
benedetto tutto anse e risvolte… quelle piastrelle esagonali che gli parevano l’aja d’ogni
generativa frumentazione… quelle piastrelle rosse, lustre… una dura, una frolla, una sana, una
rotta… no, no, no, pazienza, pazienza… oramai non riusciva più davvero, per quanto si
sforzasse… per quanto sperasse… no, non riusciva a immaginarle irrorate da un piccolo
bersagliere furibondo… che andava all’assalto… sì all’assalto del proprio naso ! contro il
trincerone del basello.(25) « Savoia ! », e patapùnfete !
Con puro cuore, e col sommesso abbandono delle anime timorate, egli pensò di affidarsi
alla Provvidenza, i cui decreti imperscrutabili sono legge eterna all’evento. E aveva accolto
nella gratitudine del cristiano e nella tenerezza del padre la « piccola » Maria Giuseppa, nel ’20,
e la « piccola »(26) Maria Ludovica, nel ’25. E al Fonte, tutt’e due le volte, sembrò che don
Rodolfo gli levasse un gran peso di sullo stomaco: quando principiò a lavorar coi diti e a
scagliare verso terra delle specie di castagnòle(27) simboliche, e intanto seguitava a guardar per
terra e andava dietro a mugugnare e a ruggire, ma sottovoce però: « Maledicte, diàbole,
maledicte ! », quasi a volerlo stanare davvero, il Maligno, di sotto al bacile del Fonte: ch’era il
sol posto dove un simile serpente poteva essersi andato ad arrotolare.
Fu nel 1928, a primavera inoltrata, che gli nacque il « piccolo » Gilberto Gaudenzio. I due
nomi dei due nonni. Era un frugolo, ma un diavolo ! da far concorrenza alle sorelle, per
battezzate e cresimate che fossero. Non poterono battezzarlo subito perché ammalò. E l’ombra
d’un’angoscia senza nome tenne per due settimane filate il cuore dei genitori. Ma il dottor Piva
lo salvò. Aveva già tre mesi e mezzo: e un paio di brente(28) di latte gli avevano attraversato le
budella, quando lo portarono a battezzare a San Bàbila. Sul portainfante, in braccio alla balia, in
un tiro a due che gli corsero dietro fino in chiesa tutti quei pochi ragazzi(29) della Spiga e del
Baguttino, figli delle portinaie per lo più: e le madri, a quello scàlpito, si fecero in sulla porta a
guardare. Dentro un subisso di trine e di veli che pareva una zanzariera di maremma,
potenziata dal blasone. Con due nastri celesti insino a terra, con la cifra dei de’ Marpioni, il
portainfante, sormontata dalla coroncina. La ziffra, un meraviglioso lavoro che ci aveva perduto
gli occhi la zia Peppa, ma proprio stupendo ! l’aveva ricamata in ginocchio, un punto e un’Ave
Maria, con tutti gli svolazzi, i cirri, e i viticchi, che il gran caso richiedeva.
Appena dentro, in San Bàbila – e quando lo tolsero fuora dal portainfante, poi, non
parliamone – si diede a strillare, a strillare ! ma da credere che lo spennassero. E del resto non si
contentò di esclusiva emissione della voce.
Agitava le gambucce ridivenute grasse, tutte pieghe, manovellando i ginocchi e scagliando
via i piedini, strillava e gocciolava a un tal segno, da lasciar dubitare che il Maligno,
terrorizzato, si stesse già capofittando in Gehenna per conto proprio, senza aspettar gli effetti
della immersione lustrale. Tanto che il « maledicte, diàbole, maledicte ! » parve, a un tratto,
una maccheronizzazione estemporanea del nostro «maladètt demòni ! » e che don Rodolfo glie
lo sparasse a lui, questa volta, lui Gilberto Gaudenzio – per quanto sottovoce, ma coi denti
strizzati dalla rabbia – anziché a quell’altro fetente, (sbattezzato e cornuto), che sta di casa
sottoterra.
Per tutta la cerimonia del Battesimo si vide emergere dal collarino e dai pizzi – dai pizzi del
gran camice, bianchissimo, dall’oro vecchio della dalmatica – una faccia di don Rodolfo
congestionato, con grosse gocciole di sudore alle tempie, giù per il collo; e nemmeno la
manovra dell’asperges ebbe virtù di spianare quei sopraccigli, di ridar pace agli occhi: i quali
di minuto in minuto volevano spremersi fuora dalle orbite, quasi e’ fussero due palle per conto
loro, spiritati come da un centrifugante rivolgimento della personalità e della psiche, o forse
anche solo da una turba, da un momentaneo scompiglio del sistema endocrino: avvenimenti
che camminano invece di pari passo (e fanno un bel pezzetto di strada assieme) nella
disfunzione di Basedow.
I sopraccigli, ora, a don Rodolfo, gli incespugliavano la fronte da parer le setole d’un istrice:
gli occhi orbitavano verso l’ex–neonato in un turgore sulfureo, lungo il sacro borbottamento
della liturgia. « Domine, absolve: ab originali peccato libera, Domine ».
Fulvi come la voglia di strozzare un qualcheduno, gli uni e gli altri non seppero più mollare
un solo istante « il piccolo » Gilbertum Gaudentium,(30) « maledicte, diàbole, maledicte »:
Gilbertum Gaudentium: quello spaventoso fischio di locomotiva ch’era in procinto di venir
tramutato in un cristiano.
Note
In questo disegno milanese «su cartone vecchio », alla tentata rappresentazione di un «interno » si sono voluti
adibire, a tratti, i modi mentali e i modi idiomatici propri de’ personaggi che in quell’interno esagitavano il loro
spirto vitale. L’orditura sintattica, le clausole prosodiche, l’impasto lessicale della discorsa, in più che un passaggio,
devono perciò ritenersi funzioni mimetiche del clima dell’aura di via Pasquirolo o del Pontaccio: che dico,
dell’impetus e dello zefiro parlativo i quali dall’ambiente promanano, o prorompono E ciò non soltanto nel
dialogato, ma nella didascalia e nel contesto in genere, quasicché a propria volta l’autore si tuffi nella bagnarola e
nell’acqua medesime ove poco prima erano a diguazzare i suoi colombi. Quanto all’impeto, è un impeto ricco,
nativo, a cui non si sogliono imporre freni accademici o mediazioni teologiche: e vien celebrato nelle cronache
quale «bella spontaneità » o «bella immediatezza del dire ». E del ragionare e dell’essere, dunque. Ecco poi, a titolo di
giunta, le indispensabili glosse:
1
«Allargarsi »: trasferirsi in una abitazione risultante d’un maggior numero di «locali ».
2
«Marognetta », da marogna: scoria. Mistura di scorie infrante e calcinaccio, da sopporre alle mattonelle.
3
«Palazzo Brügna »: Brügna, nel gergo, è l’obitorio: nel dialetto è prugna.
4
«Brusuglio »: (alt. 145): oggi frazione del comune di Cormano: 10 chilometri circa a settentrione della
metropoli. A Brusuglio, una villa già appartenuta ad A. Manzoni: vi fu composto di getto il Cinque Maggio, con la
diletta Enrichetta al pianoforte. Son terre di bravi muratori e capimastri (magutt e capmàster), che ogni mattina
s’inurbano in bicicletta o «con la Nord »: (Ferrovie Nord Milano).
5
«Livelletta » è tronco di strada o di via ferrata avente una unica pendenza: il percorso risulta di una successione
di livellette.
6
«Steeple-chase »: corsa al campanile, traverso alla campagna come ell’è: e dicesi per corsa al galoppo con
ostacoli.
7
Maloja è, delle dimolte nevi di Lombardia, tra le più skiabili e skiate. Reduce alcuno, talotta, con tibia, o
anche perone, privi d’unità.
8
Gio Ponti è firma dell’architetto che non firma Giovanni. Piero Portaluppi, architetto, e Marco Semenza,
ingegnere, redassero un elaborato piano regolatore di Milano: (Milano com’era e come sarà: Bestetti & Tumminelli,
Milano, Roma 1927): che valse al primo dei due il soprannome di Barbarossa. Ponti e Portaluppi, ciascuno a suo
modo, sono artefici di studiate o ragionate, o comunque agiate strutture edilizie: case, ville, palagi. E Ponti scrive
dell’arte sua, e ne propaga la dottrina, oltreché i paradigmi.
9
Cassina Borlanda, cascina B. Borlanda è il pastore de’ bovini, ma anche l’antologia vittuaglia del porcello: e in
traslato una qualunque mestura di porcate assortite. «In fondo all’odierno vintòtt ». «In fond al vintòtt », modo
rituale, – al capolinea esterno, cioè suburbano, della linea tranviaria.
10
Cachessia ovvero stato cachettico è la specie esteriore d’una estrema inabilità funzionale dell’organismo.
11
«L’imperativo agnatizio della parsimonia, ecc. Le lampadine a filo di carbone consumano al di là di un watt
per candela: ma per 8 candele sarebbono circa 2 centesimi all’ora, alla tariffa media di oggi.
12
Il senator Colombo: cioè Giuseppe Colombo ingegnere, Senatore del Regno, Gran Cordone di non
rammento quale Ordine, docente di tecnologie meccaniche e direttore del Politecnico. Fu uomo d’alta statura e
d’alto intelletto, di signorili portamenti. Il suo nome è immortalato dal Manuale Colombo: (Ulrico Hoepli, Milano,
345ª edizione).
13
«Solferinesco lepore ». La redazione e la stamperia del citato ebdomadario avevano stanza in Via Solferino.
14
Anacreontica, a Nice. Questa che si esibisce nel testo è d’invenzione dello scrivente, ma di stretta osservanza
gueriniana. Il «però » all’ultimo verso, (nell’accezione odierna e volgare di ’ma’), e la chiusura in fellòn erano
obbligativi.
15
«Ne facesse…. le veci ». « I genitori o chi ne fa le veci » è frase di rito (burocratico) a proposito della tutela o
curatela di minori.
16
«Trasloco », voce volgare: per «trasferimento del proprio mobilio e delle masserizie domestiche in altro
alloggio ».
17
«Star lì » - abitare, star di casa. «Esser lì » - esser presente.
18
Anticorodàl è una lega leggiera (base alluminio) adibita pure al manigliame, in sede autarchica e novecentesca.
«Montonavano » (da monte) è lomb. per ammucchiavano.
20
«Tomborlavano » è lomb. e onomatopeico per tombolavano: e dicesi altresì delle cose, e non soltanto delle
persone.
21
«Troncare una vita divenuta oramai insopportabile ». Locuzione standard della cronaca giornalistica, fino al
1922, per i casi di suicidio.
22
Migliaccio (Firenze, Pistoia) è forma tonda e piana di sangue di porco rappreso: e, per analogia, frittella tonda
e piatta di farina di castagne.
23
«In del quarantòtt ». La canzone è del ’66, ma…. vedi nota. Il signor Quarantotto, in sede massinelliana, funge
da antonomastico, e direi eponimo, per tutta la longanimità del Risorgimento.
24
«Pensione Mafalda, giardinett ». Vedi nota iniziale.
25
«Basello » da base. Lomb. per gradino o scalino.
26
La «piccola » Maria Giuseppa, ecc. Tra le virgole, inquantoché trasferito di peso dai viglietti di partecipazione
delle nascite. Quasi «il piccolo o Ambrogio, o Carlo, o Emanuele Filiberto, potesse venù fuora, invece, nelle
dimensioni di leva. Povera la su’ mamma ! in tal caso.
27
Castagnole e’ son di piccoli involti di cartone impeciato, riscontro in Fanfani, carichi a polvere, da spararli per
allegrezza nelle feste di campagna Leggi la Festa dell’Uva, di penna dello scrivente. E, del resto, vada per gli
involtini: e per le feste di campagna.
28
« Un paio di brente di latte, ecc. ». Brenta o brentina è, in Lombardia, misura di capacità: litri 50. Ell’è il
recipiente di legno da 50 litri, fatto con doghe e bandali, a forma di gerla, assai piatta contro al dorso del portatore.
E la si adibisce, in campagna, ne’ travasi e trasporti brevi del mosto, del vino, del latte; e talotta a evacuare i pozzi
neri, spargendone il tifo sulla cavolaglia.
29
« Quei pochi ragazzi, ecc. ». Il quartiere di Via Spiga, Bagutta, Borgospesso, è de’ tranquilli del «centro »
milanese: e sopravvive al tempo consunto in una sua mitezza modesta e giallina, in un tono provinciale, con le
fabbriche vecchie: di cui si edilizzò e urbanizzò via via l’antico «guasto torriano ».
30
« Gilbertum Gaudentium ». Il sacerdote battezzatore, riprendendo il nome in latino, sembra quasi proferire
che la persona e l’anima individua è accolta nella città totale e latina, nel regno latino delle anime.
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EUGENIO MONTALE
Occasioni
(Torino, Einaudi, 1939)
M o ttetti. I I
La speranza di pure rivederti
m’abbandonava;
e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:
(a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).
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La bufera e altro
(Venezia, N. Pozza, 1956)
La bufera
Les princes n’ont point d’yeux pour voir ces grand’s merveilles. Leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter…
Agrippa D’Aubigné, A Dieu
La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
il lampo che candisce
alberi e muri e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –
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e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
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mi salutasti – per entrar nel buio.
P iccol o testamento
Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti
chierico rósso, o nero.
Solo quest’iride posso
lasciarti a testimonianza
d’una fede che fu combattuta,
d’una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, del Hudson, della Senna
scuotendo l’ali di bitume semi–
mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.
Non è un’eredità, un portafortuna
che può reggere all’urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
non era fuga, l’umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.
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UMBERTO SABA
L’insonnia in una notte d’estate
Mi sono messo a giacere
sotto le stelle,
una di quelle
notti che fanno dell’insonnia tetra
un religioso piacere.
Il mio guanciale è una pietra.
Siede, a due passi, un cane.
Siede immobile e guarda
sempre un punto, lontano.
Sembra quasi che pensi,
che sia degno di un rito,
che nel suo corpo passino i silenzi
dell’infinito.
Di sotto un cielo così turchino,
in una notte così stellata,
Giacobbe sognò la scalata
d’angeli di tra il cielo e il suo guanciale,
ch’era una pietra
In stelle innumerevoli il fanciullo
contava la progenie sua a venire;
in quel paese ove fuggiva l’ire
del piú forte Esaú,
un impero incrollabile nel fiore
della ricchezza per i figli suoi;
e l’incubo del sogno era il Signore
che lottava con lui.
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A m ia figl ia
Mio tenero germoglio,
che non amo perché sulla mia pianta
sei rifiorita, ma perché sei tanto
debole e amore ti ha concesso a me;
o mia figliola, tu non sei dei sogni
miei la speranza; e non piú che per ogni
altro germoglio è il mio amore per te.
La mia vita, mia cara
bambina,
è l’erta solitaria, l’erta chiusa
dal muricciolo,
dove al tramonto solo
siedo, a celati miei pensieri in vista.
Se tu non vivi a quei pensieri in cima,
pur nel tuo mondo li fai divagare;
e mi piace da presso riguardare
la tua conquista.
Ti conquisti la casa a poco a poco,
e il cuore della tua selvaggia mamma.
Come la vedi, di gioia s’infiamma
la tua guancia, ed a lei corri dal gioco.
Ti accoglie in grembo una sì bella e pia
mamma, e ti gode. E il vecchio amore oblia.
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GIORGIO CAPRONI
Il seme de l p iangere - Ver si liv ornes i
(Milano, Garzanti, 1959)
A mia madre Anna Picchi
N é ombra né s ospetto
E allora chi avrebbe detto
ch’era già minacciata ?
Stringendosi nello scialletto
scarlatto, ventilata
passava odorando di mare
nel fresco suo sgonnellare.
Livorno le si apriva
tutta, vezzeggiativa:
Livorno, tutta invenzione
nel sussurrare il suo nome.
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Prendeva a passo svelto,
dritta, per la Via Palestro,
e chi di lei più viva,
allora, in tant’aria nativa ?
Livorno popolare
correva con lei a lavorare.
Né ombra né sospetto
era allora nel petto.
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Bat t endo a macchina
Ma mano, fatti piuma:
fatti vela; e leggera
muovendoti sulla tastiera,
sii cauta. E bada, prima
di fermare la rima,
che stai scrivendo d’una
che fu viva e fu vera.
Tu sai che la mia preghiera
è schietta, e che l’errore
è pronto a stornare il cuore.
Sii arguta e attenta: pia.
Sii magra e sii poesia
se vuoi essere vita.
E se non vuoi tradita
la sua semplice gloria,
sii fine e popolare
come fu lei – sii ardita
e trepida, tutta storia
gentile, senza ambizione.
Allora sul Voltone,
ventilata in un maggio
di barche, se paziente
chissà che, con la gente,
non prenda aire e coraggio
anche tu, al suo passaggio.
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Quando passava
Livorno, quando lei passava,
d’aria e di barche odorava.
Che voglia di lavorare
nasceva, al suo ancheggiare !
Sull’uscio dello Sbolci,
un giovane dagli occhi rossi
restava col bicchiere
in mano, smesso di bere.
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La gente se l’ additava
Non c’era in tutta Livorno
un’altra di lei più brava
in bianco, o in orlo a giorno.
La gente se l’additava
vedendola, e se si voltava
anche lei a salutare,
il petto le si gonfiava
timido, e le si riabbassava,
quieto nel suo tumultuare
come il sospiro del mare.
Era una personcina schietta
e un poco fiera (un poco
magra), ma dolce e viva
nei suoi slanci; e priva
com’era di vanagloria
ma non di puntiglio, andava
per la maggiore a Livorno
come vorrei che intorno
andassi tu, canzonetta:
che sembri scritta per gioco,
e lo sei piangendo: e con fuoco.
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La ricamatrice
Com’era acuto l’ago
e agile e fine l’estro !
Raccolta entro quel vago
bianco odore di fresco
lino, oh il ricamare
abile come la spuma
trasparente del mare.
Nel sole era il cantare,
candido, d’un canarino.
Vedevi il capo chino
(e acre) strappare
coi denti la gugliata
nuova, per ricominciare.
Livorno tutta intorno
com’era ventilata !
Come sapeva di mare
sapendo il suo lavorare !
Barbaglio
La notte, lungo i Fossi,
quanti cocomeri rossi.
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Nel fresco fuoco vivo
di voci, a rime baciate
suonano le risate
di tre ragazze, sbracciate.
Annina Elettra e Ada
profumano la strada.
Le guardano, in mezze maniche,
i giovani, e tra carrette cariche
d’acetilene e frescura,
ahi quanto a lungo dura
(mentre alla prima svolta
Annina, ma prima si volta,
scompare) la figura
acuta nel loro petto
che grida, per dispetto.
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Per lei
Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.
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Urlo
Il giorno del fidanzamento
empiva Livorno il vento.
Che urlo, tutte insieme,
dal porto, le sirene!
Tinnivano, leggeri,
i brindisi, cristallini.
Cantavano, serafini,
gli angeli, nei bicchieri.
Annina, bianca e nera,
bastava a far primavera.
Com’era capinera,
col cuore che le batteva !
Fuggì nel vento, stretta
al petto la sciarpetta.
In cielo, in mare, in terra
che urlo, scoppiata la guerra...
Ep pure...
Eppure, quanta mattina
il giorno ch’era partita Annina !
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Ancora tutta da vivere,
e nel suo pieno ridere,
certo non era andata a nozze
in Duomo, con venti carrozze.
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Ma chi le levava l’idea
che bello era anche il suo Sant’Andrea ?
Branchi di ragazzetti scalzi
e magri, col loro urlio
(Annina tirava confetti
a manciate) lo scampanio
coprivano alzandole il cuore
(e un polverone) nel sole.
In abito nero il suo Attilio
andava, anche lui, in visibilio.
Com’era bello aizzare,
nel giorno !, quel raccattare.
C’erano Genì e Guglielmina,
Maria la Coscera, Chitì;
Ada con lo zio Arduino
e, con lo zio Alceste, il Ciucci;
c’era Decio, il Guarducci,
Mentana con l’Angiolino
(quello della Fiaschetteria
Toscana, al Cavalcavia),
e c’erano Pilade e Italia,
Fedora con la Zicarola:
tutti per lei dal Pallone
(da Sant’Iacopo, dal Casone,
dal Gigante e – anche ! –
da Torre del Boccale)
venuti a Sant’Andrea a portare,
coi fiori, quell’animazione.
Per fare, a partire, più presto,
nemmeno c’era stato il rinfresco.
Che schiocchi di frusta, per via,
di corsa verso la Ferrovia !
Filava ora sul binario
il treno in perfetto orario.
Entrava nello scompartimento,
a folate, il vento,
e vivo dal finestrino
muoveva, col velo turchino,
il volto che leggero
prendeva di sentiero
campestre, e di biancospino.
Annina tutta odorosa
di camicetta e di rosa
(Annina appena sposa
da un’ora) con fantasia
sporgeva di ciclamino
il braccio, cui via via
dondolando commosso
al saluto, rosso
tinniva il cornettino
di corallo, al polso.
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Felice in pieno giorno
diceva addio a Livorno.
Addio al Magazzino Cigni,
ai Trotta, ai Pancaldi;
addio alla Tazza d’Oro e ai caldi
specchi, e addio ancora
(Annina era rapita,
correndo la sua intera vita)
ai fitti applausi sgorgati
dal cuore, all’Avvalorati.
Addio ai valzer d’erba,
notturni, e al Calambrone;
addio dal Voltone
alle barcate matte
di ragazze, al tocco
vocianti verso il Marzocco
senza pagare lo scotto.
Credeva che la primavera
fosse la prima stazione.
Credeva che all’estate piena,
senz’altre fermate,
seguisse poi l’autunno
più tenero, e che un dolce inverno
di pelliccia e d’amore
(di chitarra e di cuore)
di nuovo alla primavera
portasse, in un giro eterno
cui fosse, quella stagione,
prima e ultima destinazione.
E invece com’era ferita
l’epoca in cui era partita !
Com’era già in lei, e in terra,
il seme della guerra !
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Coda
Fu l’unica volta che Annina
viaggiò col biglietto di Prima.
Epilogo
Annina è nella tomba.
Annina, ormai, è un’ombra.
E chi potrà più appoggiare
l’orecchio al suo petto, e ascoltare
come una volta il cuore,
timido, tumultuare ?
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I l carro d i vetro
Il sole della mattina,
in me, che acuta spina.
Al carro tutto di vetro
perchè anch’io andavo dietro ?
Portavano via Annina
(nel sole) quella mattina.
Erano quattro i cavalli
(neri) senza sonagli.
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Annina con me a Palermo
di notte era morta, e d’inverno.
Fuori c’era il temporale.
Poi cominciò ad albeggiare.
Dalla caserma vicina
allora, anche quella mattina,
perché si mise a suonare
la sveglia militare ?
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Era la prima mattina
del suo non potersi destare.
Iscriz ione
Freschi come i bicchieri
furono i suoi pensieri.
Per lei torni in onore
la rima in cuore e amore.
DINO BUZZATI
L ’ u c c i s i o n e d e l d r a g o Nel maggio 1902 un contadino del conte Gerol, tale Giosuè
Longo, che andava spesso a caccia per le montagne, raccontò di aver visto in valle Secca una
grossa bestiaccia che sembrava un drago. A Palissano, l’ultimo paese della valle, era da secoli
leggenda che fra certe aride gole vivesse ancora uno di quei mostri.
Ma nessuno l’aveva mai preso sul serio. Questa volta invece l’assennatezza del Longo, la
precisione del suo racconto, i particolari dell’avventura più volte ripetuti senza la minima
variazione, persuasero che ci dovesse essere qualche cosa di vero e il conte Martino Gerol
decise di andare a vedere. Certo egli non pensava a un drago; poteva darsi tuttavia che qualche
grosso serpente di specie rara vivesse fra quelle gole disabitate.
Gli furono compagni nella spedizione il governatore della provincia Quinto Andronico con
la bella e intrepida moglie Maria, il naturalista professore Inghirami e il suo collega Fusti,
versato specialmente nell’arte dell’imbalsamazione. Il fiacco e scettico governatore da
tempo si era accorto che la moglie aveva per il Gerol grande simpatia, ma non se ne dava
pensiero. Acconsentì anzi volentieri quando Maria gli propose di andare col conte alla caccia
del drago. Egli non aveva per il Martino la minima gelosia; né lo invidiava, pure essendo il
Gerol molto più giovane, bello, forte, audace e ricco di lui.
Due carrozze partirono poco dopo la mezzanotte dalla città con la scorta di otto cacciatori a
cavallo e giunsero verso le sei del mattino al paese di Palissano. Il Gerol, la bella Maria e i due
naturalisti dormivano; solo l’Andronico era sveglio e fece fermare la carrozza dinanzi alla casa
di un’antica conoscenza: il medico Taddei. Poco dopo, avvertito da un cocchiere, il dottore,
tutto assonnato, il berretto da notte in testa, comparve a una finestra del primo piano.
Andronico, fattosi sotto, lo salutò giovialmente, spiegandogli lo scopo della spedizione; e si
aspettò che l’altro ridesse sentendo parlare di draghi. Al contrario il Taddei scosse il capo a
indicare disapprovazione.
« Io non ci andrei se fossi in voi » disse recisamente.
« Perché ? Credete che non ci sia niente ? Che siano tutte fandonie ? »
« Non lo so questo » rispose il dottore. « Personalmente anzi credo che il drago ci sia,
benché non l’abbia mai visto. Ma non mi ci metterei in questo pasticcio. È una cosa di
malaugurio. »
« Di malaugurio ? Vorreste sostenere, Taddei, che voi ci credete realmente ? »
« Sono vecchio, caro governatore » fece l’altro « e ne ho viste. Può darsi che sia tutta una
storia, ma potrebbe anche essere vero; se fossi in voi, non mi ci metterei. Poi, state a sentire: la
strada è difficile a trovare, sono tutte montagne marce piene di frane, basta un soffio di vento
per far nascere un finimondo e non c’è un filo d’acqua. Lasciate stare, governatore, andate
piuttosto lassù, alla Crocetta » (e indicava una tonda montagna erbosa sopra il paese), « là ci
sono lepri fin che volete. » Tacque un istante e aggiunse:
« Io non ci andrei davvero. Una volta poi ho sentito dire, ma è inutile, voi vi metterete a
ridere… ».
« Perché dovrei ridere » esclamò l’Andronico. «Ditemi, dite, dite pure. »
« Bene, certi dicono che il drago manda fuori del fumo, che questo fumo è velenoso, basta
poco per far morire. »
Contrariamente alla promessa, l’Andronico diede in una bella risata:
« Vi ho sempre saputo reazionario » egli concluse « strambo e reazionario. Ma questa volta
passate i limiti. Medioevale siete, il mio caro Taddei. Arrivederci a stasera, e con la testa del
drago ! »
Fece un cenno di saluto, risalì nella carrozza, diede ordine di ripartire. Giosuè Longo, che
faceva parte dei cacciatori e conosceva la strada, si mise in testa al convoglio.
« Che cosa aveva quel vecchio da scuotere la testa ? » domandò la bella Maria che nel
frattempo si era svegliata.
« Niente » rispose l’Andronico « era il buon Taddei, che fa a tempo perso anche il
veterinario. Si parlava dell’afta epizootìca. »
« E del drago ? » disse il conte Gerol che sedeva di fronte. « Gli hai chiesto se sa niente del
drago ? »
« No, a dir la verità » fece il governatore. « Non volevo farmi ridere dietro. Gli ho detto
che si è venuti quassù per un po’ di caccia, non gli ho detto altro, io. »
Alzandosi il sole, la sonnolenza dei viaggiatori scomparve, i cavalli accelerarono il passo e i
cocchieri si misero a canticchiare.
« Era medico della nostra famiglia il Taddei. Una volta » raccontava il governatore « aveva
una magnifica clientela. Un bel giorno non so più per che delusione d’amore si è ritirato in
campagna. Poi deve essergli capitata un’altra disgrazia ed è venuto a rintanarsi quassù. Ancora
un’altra disgrazia e chissà dove andrà a finire; diventerà anche lui una specie di drago ! »
« Che stupidaggini ! » disse Maria un po’ seccata. «Sempre la storia del drago, comincia a
diventare noiosa questa solfa, non avete parlato d’altro da che siamo partiti. »
« Ma sei stata tu a voler venire ! » ribatté con ironica dolcezza il marito. « E poi come
potevi sentire i nostri discorsi se hai continuato a dormire ? Facevi finta forse ? »
Maria non rispose e guardava inquieta, fuori dal finestrino. Osservava le montagne che si
facevano sempre più alte, dirupate e aride. In fondo alla valle si intravedeva una successione
caotica di cime, per lo più di forma conica, nude di boschi o prato, dal colore giallastro, di una
desolazione senza pari. Battute dal sole, esse risplendevano di una luce ferma e fortissima.
Erano circa le nove quando le vetture si fermarono perché la strada finiva. I cacciatori, scesi
dalla carrozza, si accorsero di trovarsi ormai nel cuore di quelle montagne sinistre. Viste da
presso, apparivano fatte di rocce fradice e crollanti, quasi di terra, tutta una frana dalla cima in
fondo.
« Ecco, qui comincia il sentiero » disse il Longo, indicando una traccia di passi umani che
saliva all’imboccatura di una valletta. Procedendo di là, in tre quarti d’ora si arrivava al Burel,
dove il drago era stato visto.
« È stata presa l’acqua ? » domandò Andronico ai cacciatori.
« Ce ne sono quattro fiaschi; e poi due altri di vino, eccellenza » rispose uno dei cacciatori.
« Ce n’è abbastanza, credo… »
Strano. Adesso che erano lontani dalla città, chiusi dentro alle montagne, l’idea del drago
cominciava a sembrare meno assurda. I viaggiatori si guardavano attorno, senza scoprire cose
tranquillizzanti. Creste giallastre dove non era mai stata anima viva, vallette che si inoltravano
ai lati nascondendo alla vista i loro meandri: un grandissimo abbandono.
S’incamminarono senza dire parola. Precedevano i cacciatori coi fucili, le colubrine e gli
altri arnesi da caccia, poi veniva Maria, ultimi i due naturalisti. Per fortuna il sentiero era
ancora in ombra; fra le terre gialle il sole sarebbe stato una pena.
Anche la valletta che menava al Burel era stretta e tortuosa, non c’era torrente sul fondo,
non c’erano piante né erba ai lati, solamente sassi e sfasciumi. Non canto di uccelli o di
acque, ma isolati sussurri di ghiaia.
Mentre il gruppo così procedeva, sopraggiunse dal basso, camminando più presto di loro,
un giovanotto con una capra morta sulle spalle « Va dal drago, quello » fece il Longo; e lo disse
con la massima naturalezza, senza alcuna intenzione di celia. La gente di Palissano, spiegò, era
superstiziosissima, e ogni giorno mandava una capra al Burel, per rabbonire gli umori del
mostro. L’offerta era portata a turno dai giovani del paese. Guai se il mostro faceva sentire la
sua voce. Succedeva disgrazia.
« E ogni giorno il drago si mangia la capra ? » domandò scherzoso il conte Gerol.
« Il mattino dopo non trovano più niente, questo è positivo. »
« Nemmeno le ossa ? »
« Eh no, nemmeno le ossa. La va a mangiare dentro la caverna. »
« E non potrebbe darsi che fosse qualcuno del paese a mangiarsela ? » fece il governatore.
« La strada la sanno tutti. L’hanno veramente mai visto il drago acchiapparsi la capra ? »
« Non so questo, eccellenza » rispose il cacciatore.
Il giovane con la capra li aveva intanto raggiunti.
« Di’, giovanotto ! » disse il conte Gerol con il suo tono autoritario « quanto vuoi per quella
capra ? »
« Non posso venderla, signore » rispose quello.
« Nemmeno per dieci scudi ? »
« Ah, per dieci scudi… » accondiscese il giovanotto « vuol dire che ne andrò a prendere
un’altra. » E depose la bestia per terra.
Andronico chiese al conte Gerol:
« E a che cosa ti serve quella capra ? Non vorrai mica mangiarla, spero. »
« Vedrai, vedrai a che cosa mi serve » fece l’altro elusivamente.
La capra venne presa sulle spalle da un cacciatore, il giovinotto di Palissano ridiscese di corsa
verso il paese (evidentemente andava a procurarsi un’altra bestia per il drago) e la comitiva si
rimise in cammino.
Dopo meno di un’ora finalmente arrivarono. La valle si apriva improvvisamente in un
ampio circo selvaggio, il Burel, una specie di anfiteatro circondato da muraglie di terra e rocce
crollanti, di colore giallo-rossiccio. Proprio nel mezzo, al culmine di un cono di sfasciumi, un
nero pertugio: la grotta del drago.
« È là » disse il Longo. Si fermarono a poca distanza, sopra una terrazza ghiaiosa che offriva
un ottimo punto di osservazione, una decina di metri sopra il livello della caverna e quasi di
fronte a questa. La terrazza aveva anche il vantaggio di non essere accessibile dal basso perché
difesa da una paretina a strapiombo. Maria ci poteva stare con la massima sicurezza.
Tacquero, tendendo le orecchie. Non si udiva che lo smisurato silenzio delle montagne,
toccato da qualche sussurro di ghiaia. Ora a destra ora a sinistra una cornice di terra si rompeva
improvvisamente e sottili rivoli di sassolini cominciavano a colare, estinguendosi con fatica.
Ciò dava al paesaggio un aspetto di perenne rovina; montagne abbandonate da Dio, parevano,
che si disfacessero a poco a poco.
« E se oggi il drago non esce ? » domandò Quinto Andronico.
« Ho la capra » replicò il Gerol. « Ti dimentichi che ho la capra ! »
Si comprese quello che voleva dire. La bestia sarebbe servita da esca per far uscire il mostro
dalla caverna.
Si cominciarono i preparativi: due cacciatori si inerpicarono con fatica una ventina di metri
sopra l’ingresso della caverna per scaraventare giù sassi se mai ce ne fosse stato bisogno. Un
altro andò a depositare la capra sul ghiaione, non lontano dalla grotta. Altri si appostarono ai
lati, ben difesi dietro grossi macigni, con le colubrine e i fucili. L’Andronico non si mosse, con
l’intenzione di stare a vedere.
La bella Maria taceva. Ogni intraprendenza era in lei svanita. Con quanta gioia sarebbe
tornata subito indietro. Ma non osava dirlo a nessuno. I suoi sguardi percorrevano le pareti
attorno, le antiche e le nuove frane, i pilastri di terra rossa che sembrava dovessero ad ogni
momento cadere. Il marito, il conte Gerol, i due naturalisti, i cacciatori gli parevano pochi,
pochissimi, contro tanta solitudine.
Deposta che fu la capra morta dinanzi alla grotta cominciarono ad aspettare. Le 10 erano
passate da un pezzo e il sole aveva invaso completamente il Burel, portandolo a un intenso
calore. Ondate ardenti si riverberavano dall’una all’altra parte. Per riparare dai raggi il
governatore e sua moglie, i cacciatori alzarono alla bell’e meglio una specie di baldacchino, con
le coperte della carrozza; e Maria mai si stancava di bere. « Attenti ! » gridò a un tratto il conte
Gerol, in piedi sopra un macigno, giù sul ghiaione, con in mano una carabina, appeso al fianco
un mazzapicchio metallico.
Tutti ebbero un tremito e trattennero il fiato scorgendo dalla bocca della caverna uscire
cosa viva. Il drago ! Il drago ! gridarono due o tre cacciatori, non si capiva se con letizia o
sgomento.
L’essere emerse alla luce con dondolio tremulo come di biscia. Eccolo, il mostro delle
leggende la cui sola voce faceva tremare un intero paese !
« Oh, che brutto ! » esclamò Maria con evidente sollievo perché si era aspettata ben di
peggio.
« Forza, forza ! » gridò un cacciatore scherzando. E tutti ripresero sicurezza in se stessi.
« Sembra un piccolo ceratosaurus ! » disse il prof. Inghirami a cui era tornata sufficiente
tranquillità d’animo per i problemi della scienza.
Non appariva infatti tremendo, il mostro, lungo poco più di due metri, con una testa simile
ai coccodrilli sebbene più corta, un esagerato collo da lucertola, il torace quasi gonfio, la coda
breve, una specie di cresta molliccia lungo la schiena. Più che la modestia delle dimensioni
erano però i suoi movimenti stentati, il colore terroso di pergamena (con qualche striatura
verdastra), l’apparenza complessivamente floscia del corpo a spegnere le paure. L’insieme
esprimeva una vecchiezza immensa. Se era un drago, era un drago decrepito, quasi al
termine della vita.
« Prendi » gridò sbeffeggiando uno dei cacciatori saliti sopra l’imbocco della caverna, e
lanciò una pietra in direzione della bestiaccia.
Il sasso scese a piombo e raggiunse esattamente il cranio del drago. Si udì nettissimo un ’toc’
sordo come di zucca. Maria ebbe un sussulto di repulsione.
La botta fu energica ma insufficiente. Rimasto qualche istante immobile, come intontito, il
rettile cominciò ad agitare il collo e la testa lateralmente, in atto di dolore. Le mascelle si
aprivano e chiudevano alternativamente, lasciando intravedere un pettine di acuti denti, ma
non ne usciva alcuna voce. Poi il drago mosse giù per la ghiaia in direzione della capra.
« Ti hanno fatto la testa storna eh ? » ridacchiò il conte Gerol che aveva
improvvisamente smesso la sua alterigia. Sembrava invaso da una gioiosa eccitazione,
pregustando il massacro.
Un colpo di colubrina, sparato da una trentina di metri, sbagliò il bersaglio. La detonazione
lacerò l’aria stagnante, destò tristi boati fra le muraglie da cui presero a scivolare giù
innumerevoli piccole frane.
Quasi immediatamente sparò la seconda colubrina. Il proiettile raggiunse il mostro a una
zampa posteriore, da cui sgorgò subito un rivolo di sangue.
« Guarda come balla ! » esclamò la bella Maria, presa anche lei dal crudele spettacolo. Allo
spasimo della ferita la bestiaccia si era messa infatti a girare su se stessa, sussultando, con
miserevole affanno. La zampa fracassata le ciondolava dietro, lasciando sulla ghiaia una striscia
di liquido nero.
Finalmente il rettile riuscì a raggiungere la capra e ad afferrarla coi denti. Stava per ritirarsi
quando il conte Gerol, per ostentare il proprio coraggio, gli si fece vicino, quasi a due metri,
scaricandogli la carabina nella testa.
Una specie di fischio usci dalle fauci del mostro. E parve che cercasse di dominarsi,
reprimesse il furore, non emettesse tutta la voce che aveva in corpo, che un motivo ignoto agli
uomini lo inducesse ad avere pazienza. Il proiettile della carabina gli era entrato nell’occhio.
Gerol, fatto il colpo, si ritrasse di corsa e si aspettava che il drago cadesse stecchito. Ma la bestia
non cadde stecchita, la sua vita pareva inestinguibile come fuoco di pece. Con la pallottola di
piombo nell’occhio, il mostro trangugiò tranquillamente la capra e si vide il collo dilatarsi
come gomma man mano che vi passava il gigantesco boccone. Poi si ritrasse indietro
alla base delle rocce, prese a inerpicarsi per la parete, di fianco alla caverna. Saliva
affannosamente, spesso franandogli la terra sotto le zampe, ansioso di scampo. Sopra s’incurvava
un cielo limpido e scialbo, il sole asciugava rapidamente le tracce di sangue.
« Sembra uno scarafaggio in un catino » disse a bassa voce il governatore Andronico,
parlando a se stesso.
« Come dici ? » gli chiese la moglie.
« Niente, niente » fece lui.
« Chissà perché non entra nella caverna ! » osservò il prof. Inghirami, apprezzando
lucidamente ogni aspetto scientifico della scena.
« Ha paura di restare imprigionato » suggerì il Fusti. « Deve essere, piuttosto,
completamente intontito. E poi come vuoi che faccia un simile ragionamento ? Un
ceratosaurus… Non è un ceratosaurus » fece il Fusti. « Ne ho ricostruiti parecchi per i musei,
ma sono diversi. Dove sono gli aculei della coda ? »
« Li tiene nascosti » replicò l’Inghirami. « Guarda che addome gonfio. La coda si accartoccia
di sotto e non si può vedere. »
Stavano così parlando quando uno dei cacciatori, quello che aveva sparato il secondo colpo
di colubrina, si avviò di corsa verso la terrazza dove stava l’Andronico, con l’evidente
intenzione di andarsene.
« Dove vai ? Dove vai ? » gli gridò il Gerol. « Sta’ al tuo posto fin che non abbiamo finito. »
« Me ne vado » rispose con voce ferma il cacciatore. « Questa storia non mi piace. Non
è caccia per me, questa. »
« Che cosa vuoi dire ? Hai paura. È questo che vuoi dire ? »
« No, signore, io non ho paura. »
« Hai paura sì, ti dico, se no rimarresti al tuo posto. »
« Non ho paura, vi ripeto. Vergognatevi piuttosto voi, signor conte. »
« Ah, vergognatevi ? » imprecò Martino Gerol. «Porco furfante che non sei altro ! Sei uno
di Palissano, scommetto, un vigliaccone sei. Vattene prima che ti dia una lezione. »
« E tu, Beppi, dove vai tu adesso ? » gridò ancora il conte poiché anche un altro cacciatore
si ritirava.
« Me ne vado anch’io, signor conte. Non voglio averci mano in questa brutta faccenda. »
« Ah, vigliacchi ! » urlava il Gerol. « Vigliacchi, ve la farei pagare, se potessi muovermi ! »
«Non è paura, signor conte » ribatté il secondo cacciatore. « Non è paura, signor conte. Ma
vedrete che finirà male ! »
« Vi faccio vedere io adesso ! » E, raccattata una pietra, il conte la lanciò di tutta forza
contro il cacciatore. Ma il tiro andò a vuoto.
Vi fu qualche minuto di pausa mentre il drago arrancava sulla parete senza riuscire a
innalzarsi. La terra e i sassi cadevano, lo trascinavano sempre più in giù, là donde era partito.
Salvo quel rumore di pietre smosse, c’era silenzio.
Poi si udì la voce di Andronico. « Ne abbiamo ancora per un pezzo ? » gridò al Gerol. « C’è
un caldo d’inferno. FalIa fuori una buona volta, quella bestiaccia. Che gusto tormentarla così
anche se è un drago ? »
« Che colpa ce n’ho io ? » rispose il Gerol irritato. « Non vedi che non vuol morire ? Con
una palla nel cranio è più vivo di prima… »
S’interruppe scorgendo il giovanotto di prima comparire sul ciglio del ghiaione con un’altra
capra in spalla. Stupito dalla presenza di quegli uomini, di quelle armi, di quelle tracce di
sangue e soprattutto dall’affannarsi del drago su per le rocce, lui che non l’aveva mai visto
uscire dalla caverna si era fermato, fissando la strana scena.
« Ohi ! Giovanotto ! » gridò a Gerol. « Quanto vuoi per quella capra ? »
« Niente, non posso » rispose il giovane. « Non ve la do neanche a peso d’oro. Ma che cosa
gli avete fatto ? » aggiunse, sbarrando gli occhi verso il mostro sanguinolento.
« Siamo qui per regolare i conti. Dovreste essere contenti. Basta capre da domani. »
« Perché basta capre ? »
« Domani il drago non ci sarà più » fece il conte sorridendo.
« Ma non potete, non potete farlo, io dico » esclamò il giovane spaventato.
« Anche tu adesso cominci ! » gridò Martino Gerol. « Dammi subito qua la capra. »
« No, vi dico » replicò duro l’altro ritirandosi.
« Ah, perdio ! » e il conte fu addosso al giovane, gli vibrò un pugno in pieno viso, gli
strappò la capra di dosso, lo scaraventò a terra.
« Ve ne pentirete, vi dico, ve ne pentirete, vedrete se non ve ne pentirete ! » imprecò a
bassa voce il giovane rialzandosi, perché non osava reagire.
Ma Gerol gli aveva già voltato le spalle.
Il sole adesso incendiava la conca, a stento si riusciva a tenere gli occhi aperti tanto
abbacinava il riflesso delle ghiaie gialle, delle rocce, delle ghiaie ancora e dei sassi; niente
assolutamente, che potesse riposare gli sguardi.
Maria aveva sempre più sete, e bere non serviva a niente. « Dio, che caldo ! » si lamentava.
Anche la vista del conte Gerol cominciava a darle fastidio.
Nel frattempo, come sbucati dalla terra, decine di uomini erano apparsi. Venuti
probabilmente da Palissano alla voce che gli stranieri erano saliti al Burel, essi se ne stavano
immobili sul ciglio di vari crestoni di terra gialla e osservavano senza far motto.
« Hai un bel pubblico adesso ! » tentò di celiare l’Andronico, rivolto al Gerol che stava
trafficando intorno alla capra con due cacciatori.
Il giovane alzò gli sguardi fin che scorse gli sconosciuti che lo stavano fissando. Fece una
smorfia di disprezzo e riprese il lavoro.
Il drago, estenuato, era scivolato per la parete fino al ghiaione e giaceva immobile,
palpitando solo il ventre rigonfio.
« Pronti ! » fece un cacciatore sollevando col Gerol la capra da terra. Avevano aperto il
ventre alla bestia e introdotto una carica esplosiva collegata a una miccia.
Si vide allora il conte avanzare impavido per il ghiaione, farsi vicino al drago non più di una
decina di metri, con tutta calma deporre per terra la capra, quindi ritirarsi svolgendo la
miccia.
Si dovette aspettare mezz’ora prima che la bestia si muovesse. Gli sconosciuti in piedi sul
ciglio dei crestoni sembravano statue: non parlavano neppure fra loro, il loro volto esprimeva
riprovazione. Insensibili al sole che aveva assunto una estrema potenza, non distoglievano gli
sguardi dal rettile, quasi implorando che non si muovesse.
Invece il drago, colpito alla schiena da un colpo di carabina, si voltò improvvisamente, vide
la capra, vi si trascinò lentamente. Stava per allungare la testa e afferrare la preda quando il
conte accese la miccia. La fiammella corse via rapidamente lungo il cordone, ben presto
raggiunse la capra, provocò l’esplosione.
Lo scoppio non fu rumoroso, molto meno forte dei colpi di colubrina, un suono secco ma
opaco, come di asse che si spezzi. Ma il corpo del drago fu ributtato indietro di schianto, si
vide quindi che il ventre era stato squarciato. La testa riprese ad agitarsi penosamente a destra e
a sinistra, pareva che dicesse di no, che non era giusto, che erano stati troppo crudeli, e che
non c’era più’nulla da fare.
Rise di compiacenza il conte, ma questa volta lui solo.
« Oh che orrore ! Basta ! » esclamò la bella Maria coprendosi la faccia con le mani.
« Sì » disse lentamente il marito « anch’io credo che finirà male. »
Il mostro giaceva, in apparenza sfinito, sopra una pozza di sangue nero. Ed ecco dai suoi
fianchi uscire due fili di fumo scuro, uno a destra e uno a sinistra, due fumacchi grevi che
stentavano ad alzarsi.
« Hai visto ? » fece l’Inghirami al collega.
« Sì, ho visto » confermò l’altro.
« Due sfiatatoi a mantice, come nel ceratosaurus, i cosidetti operculi hammeriani. »
« No » disse il Fusti. « Non è un ceratosaurus. »
A questo punto il conte Gerol, di dietro al pietrone dove si era riparato, si avanzò per finire
il mostro. Era proprio in mezzo al cono di ghiaia e stava impugnando la mazza metallica
quando tutti i presenti mandarono un urlo.
Per un istante Gerol credette fosse un grido di trionfo per l’uccisione del drago. Poi avvertì
che una cosa stava muovendosi alle sue spalle. Si voltò di un balzo e vide, oh ridicola cosa, vide
due bestiole pietose uscire incespicando dalla caverna, e avanzarsi abbastanza celermente verso
di lui. Due piccoli rettili informi, lunghi non più di mezzo metro, che ripetevano in miniatura
l’immagine del drago morente. Due piccoli draghi, i figli, probabilmente usciti dalla caverna
per fame.
Fu questione di pochi istanti. Il conte dava bellissima prova di agilità. « Tieni ! Tieni ! »
gridava gioiosamente roteando la clava di ferro. E due soli colpi bastarono. Vibrato con
estrema energia e decisione, a mazzapicchio percosse successivamente i mostriciattoli, spezzò
le teste come bocce di vetro. Entrambi si afflosciarono, morti, da lontano sembravano due
cornamuse.
Allora gli uomini sconosciuti, senza dare la minima voce, si allontanarono correndo giù per
i canali di ghiaia. Si sarebbe detto che fuggissero una improvvisa minaccia. Essi non
provocarono rumore, non smossero frane, non volsero il capo neppure per un istante alla
caverna del drago, scomparvero così come erano apparsi, misteriosamente.
Il drago adesso si moveva, sembrava che mai e poi mai sarebbe riuscito a morire.
Trascinandosi come lumaca, si avvicinava alle bestiole morte, sempre emettendo due fili di
fumo. Raggiunti che ebbe i figli, si accasciò sul ghiaione, allungò con infinito stento la testa,
prese a leccare dolcemente i due mostriciattoli morti, forse allo scopo di richiamarli in vita.
Infine il drago parve raccogliere tutte le superstiti forze, levò il collo verticalmente al cielo,
come non aveva ancora fatto e dalla gola uscì, prima lentissimo, quindi con progressiva potenza
un urlo indicibile, voce mai udita nel mondo, né animalesca né umana, così carica d’odio che
persino il conte Gerol ristette, paralizzato dall’orrore.
Ora si capiva perché prima non aveva voluto rientrare nella tana, dove pure avrebbe trovato
scampo, perché non aveva emesso alcun grido o ruggito, limitandosi a qualche sibilo. Il drago
pensava ai due figli e per risparmiarli aveva rifiutato la propria salvezza; se si fosse infatti
nascosto nella caverna, gli uomini lo avrebbero inseguito là dentro, scoprendo i suoi nati; e se
avesse levato la voce, le bestiole sarebbero corse fuori a vedere. Solo adesso, che li aveva visti
morire, il mostro mandava il suo urlo d’inferno.
Invocava un aiuto il drago, e chiedeva vendetta per i suoi figli. Ma a chi ? alle montagne
forse, aride e disabitate ? al cielo senza uccelli né nuvole, agli uomini che lo stavano
suppliziando, al demonio forse ?
L’urlo trapanava le muraglie di roccia e la cupola del cielo, riempiva l’intero mondo.
Sembrava impossibile (anche se non c’era alcun ragionevole motivo) sembrava impossibile che
nessuno gli rispondesse.
« Chi chiamerà ? » domandò l’Andronico tentando inutilmente di fare scherzosa la propria
voce. « Chi chiama ? Non c’è nessuno che venga, mi pare ? »
« Oh, che muoia presto ! » disse la donna.
Ma il drago non si decideva a morire, sebbene il conte Gerol, accecato dalla smania di
finirla, gli sparasse contro con la carabina. Tan ! Tan ! Era inutile. Il drago accarezzava con
la lingua le bestiole morte; pur con moto sempre più lento, un sugo biancastro gli sgorgava
dall’occhio illeso.
« Il sauro ! » esclamò il prof. Fusti. « Guarda che piange ! »
Il governatore disse: «È tardi. Basta, Martino, è tardi, è ora di andare ».
Sette volte si levò al cielo la voce del mostro, e ne rintronarono le rupi e il cielo. Alla
settima volta parve non finire mai, poi improvvisamente si estinse, piombò a picco, sprofondò
nel silenzio.
Nella mortale quiete che seguì si udirono alcuni colpi di tosse. Tutto coperto di polvere, il
volto trasfigurato dalla fatica, dall’emozione e dal sudore, il conte Martino, gettata tra i sassi la
carabina, attraversava il cono di sfasciumi tossendo, e si premeva una mano sul petto.
« Che cosa c’è adesso ? » domandò l’Andronico con volto serio per presentimento di male.
« Che cosa ti sei fatto ? »
« Niente » fece il Gerol sforzando a giocondità il tono della voce. « Mi è andato dentro un
po’ di quel fumo. »
« Di che fumo ? »
Gerol non rispose ma fece segno con la mano al drago. Il mostro giaceva immobile, anche
la testa si era abbandonata fra i sassi; si sarebbe detto ben morto, senza quei due sottili
pennacchi di fumo.
«Mi pare che sia finita » disse l’Andronico.
Così infatti sembrava. L’ostinatissima vita stava uscendo dalla bocca del drago.
Nessuno aveva risposto al suo grido, in tutto il mondo non si era mosso nessuno. Le
montagne se ne stavano immobili, anche le piccole frane si erano come riassorbite, il cielo era
limpido, neppure una minuscola nuvoletta, e il sole andava calando. Nessuno, né bestia né
spirito, era accorso a vendicare la strage. – Era stato l’uomo a cancellare quella residua macchia
del mondo, l’uomo astuto e potente che dovunque stabilisce sapienti leggi per l’ordine,
l’uomo incensurabile che si affatica per il progresso e non può ammettere in alcun
modo la sopravvivenza dei draghi, sia pure nelle sperdute montagne. Era stato
l’uomo ad uccidere e sarebbe stato stolto recriminare.
Ciò che l’uomo aveva fatto era giusto, esattamente conforme alle leggi. Eppure sembrava
impossibile che nessuno avesse risposto alla voce estrema del drago. Andronico, così come sua
moglie e i cacciatori, non desiderava altro che fuggire; persino i naturalisti rinunciarono alle
pratiche dell’imbalsamazione, pur di andarsene presto lontani.
Gli uomini del paese erano spariti, come presentissero maledizione. Le ombre salivano su
per le pareti crollanti. Dal corpo del drago, carcame incartapecorito, si levavano ininterrottì i
due fili di fumo e nell’aria stagnante si attorcigliavano lentamente. Tutto sembrava finito, una
triste cosa da dimenticare e nient’altro. Ma il conte Gerol continuava a tossire, a tossire.
Sfinito, sedeva sopra un pietrone, accanto agli amici che non osavano parlargli. Anche la
intrepida Maria guardava da un’altra parte. Si udivano solo quei brevi colpi di tosse.
Inutilmente Martino Gerol cercava di dominarli; una specie di fuoco colava all’interno del suo
petto sempre più in fondo.
« Me la sentivo » sussurrò il governatore Andronico alla moglie che tremava un poco. « Me la
sentivo che doveva finire malamente. »
ITALO CALVINO
Funghi in c i t t à
Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s’accorgono solo
poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d’altre
terre.
Un giorno, sulla striscia d’aiola d’un corso cittadino, capitò chissà donde una
ventata di spore e ci germinarono dei funghi. Nessuno se ne accorse tranne il
manovale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.
Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli,
semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire
l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del
deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse
ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di
tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e
non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo
animo, e le miserie della sua esistenza.
Così un mattino, aspettando il tram che lo portava alla ditta Sbav dov’era uomo di fatica,
notò qualcosa d’insolito presso la fermata, nella striscia di terra sterile e incrostata che segue
l’alberatura del viale: in certi punti, al ceppo degli alberi, sembrava si gonfiassero bernoccoli
che qua e là s’aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei.
Si chinò a legarsi le scarpe e guardò meglio: erano funghi, veri funghi, che
stavano spuntando proprio nel cuore della città ! A Marcovaldo parve che il mondo
grigio e misero che lo circondava diventasse tutt’a un tratto generoso di ricchezze
nascoste, e che dalla vita ci si potesse ancora aspettare qualcosa, oltre la paga oraria
del salario contrattuale, la contingenza, gli assegni familiari e il caropane.
Al lavoro fu distratto più del solito; pensava che mentre lui era lì a scaricare pacchi e casse,
nel buio della terra i funghi silenziosi, lenti, conosciuti solo da lui, maturavano la polpa porosa,
assimilavano succhi sotterranei, rompevano la crosta delle zolle. «Basterebbe una notte di
pioggia, – si disse, – e già sarebbero da cogliere ». E non vedeva l’ora di mettere a parte della
scoperta sua moglie e i sei figlioli.
– Ecco quel che vi dico ! – annunciò durante il magro desinare. – Entro la settimana
mangeremo funghi ! Una bella frittura ! V’assicuro !
E ai bambini più piccoli, che non sapevano cosa i funghi fossero, spiegò con trasporto la
bellezza delle loro molte specie, la delicatezza del loro sapore, e come si doveva cucinarli; e
trascinò così nella discussione anche sua moglie Domitilla, che s’era mostrata fino a quel
momento piuttosto incredula e distratta.
– E dove sono questi funghi? – domandarono i bambini. – Dicci dove crescono !
A quella domanda l’entusiasmo di Marcovaldo fu frenato da un ragionamento sospettoso:
«Ecco che io gli spiego il posto, loro vanno a cercarli con una delle solite bande di monelli, si
sparge la voce nel quartiere, e i funghi finiscono nelle casseruole altrui !» Così, quella scoperta
che subito gli aveva riempito il cuore d’amore universale, ora gli metteva la smania del
possesso, lo circondava di timore geloso e diffidente.
– Il posto dei funghi lo so io e io solo, – disse ai figli, – e guai a voi se vi lasciate sfuggire
una parola.
Il mattino dopo, Marcovaldo, avvicinandosi alla fermata del tram, era pieno d’apprensione.
Si chinò sull’aiola e con sollievo vide i funghi un po’ cresciuti ma non molto, ancora nascosti
quasi del tutto dalla terra.
Era così chinato, quando s’accorse d’aver qualcuno alle spalle. S’alza di scatto e cerca di
darsi un’aria indifferente. C’era uno spazzino che lo stava guardando, appoggiato alla sua scopa.
Questo spazzino, nella cui giurisdizione si trovavano i funghi, era un giovane occhialuto e
spilungone. Si chiamava Amadigi, e a Marcovaldo era antipatico da tempo, forse per via di
quegli occhiali che scrutavano l’asfalto delle strade in cerca di ogni traccia naturale da cancellare
a colpi di scopa.
Era sabato; e Marcovaldo passò la mezza giornata libera girando con aria distratta nei pressi
dell’aiola, tenendo d’occhio di lontano lo spazzino e i funghi, e facendo il conto di quanto
tempo ci voleva a farli crescere.
La notte piovve: come i contadini dopo mesi di siccità si svegliano e balzano di gioia al
rumore delle prime gocce, così Marcovaldo, unico in tutta la città, si levò a sedere nel letto,
chiamò i familiari. « È la pioggia, è la pioggia », e respirò l’odore di polvere bagnata e muffa
fresca che veniva di fuori.
All’alba – era domenica –, coi bambini, con un cesto preso in prestito, corse subito all’aiola.
I funghi c’erano, ritti sui loro gambi, coi cappucci alti sulla terra ancora zuppa d’acqua. –
Evviva ! –e si buttarono a raccoglierli.
– Babbo ! guarda quel signore lì quanti ne ha presi ! – disse Michelino, e il padre alzando il
capo vide in piedi accanto a loro, Amadigi anche lui con un cesto pieno di funghi sotto il
braccio
– Ah, li raccogliete anche voi ? – fece lo spazzino. – Allora sono buoni da mangiare ? Io ne
ho presi un po’ ma non sapevo se fidarmi… Più in lì nel corso ce n’è nati di più grossi
ancora… Bene, adesso che lo so, avverto i miei parenti che sono là a discutere se conviene
raccoglierli o lasciarli… – e s’allontanò di gran passo.
Marcovaldo restò senza parola: funghi ancora più grossi, di cui lui non s’era accorto, un
raccolto mai sperato, che gli veniva portato via così, di sotto il naso. Restò un momento quasi
impietrito dall’ira, dalla rabbia, poi – come talora avviene – il tracollo di quelle passioni
individuali si trasforma in uno slancio generoso. A quell’ora, molta gente stava aspettando il
tram, con l’ombrello appeso al braccio, perché il tempo restava umido e incerto. – Ehi,
voialtri ! Volete farvi un fritto di funghi questa sera ? – grida Marcovaldo alla gente assiepata
alla fermata. – Sono cresciuti i funghi qui nel corso ! Venite con me ! Ce n’è per tutti ! – e si
mise alle calcagna di Amadigi, seguito da un codazzo di persone.
Trovarono ancora funghi per tutti e, in mancanza di cesti, li misero negli ombrelli aperti.
Qualcuno disse: – Sarebbe bello fare un pranzo tutti insieme ! – Invece ognuno prese i suoi
funghi e andò a casa propria.
Ma si rividero presto, anzi la stessa sera, nella medesima corsia dell’ospedale, dopo la
lavatura gastrica che li aveva tutti salvati dall’avvelenamento: non grave, perché la quantità di
funghi mangiati da ciascuno era assai poca.
Marcovaldo e Amadigi avevano i letti vicini e si guardavano in cagnesco.
I l conigli o velenos o
Quando viene il giorno d’uscire d’ospedale, fin dal mattino uno lo sa e se è già in gamba
gira per le corsie, ritrova il passo per quando sarà fuori, fischietta, fa il guarito coi malati non
per farsi invidiare ma per il piacere d’usare un tono incoraggiante. Vede fuori delle vetrate il
sole, o la nebbia se c’è nebbia, ode i rumori della città: e tutto è diverso da prima, quando ogni
mattino li sentiva entrare – luce e suono d’un mondo irraggiungibile – svegliandosi tra le sbarre
di quel letto. Adesso là fuori c’è di nuovo il suo mondo: il guarito lo riconosce come naturale e
consueto; e d’improvviso, riavverte l’odore d’ospedale.
Marcovaldo un mattino così fiutava intorno, guarito, aspettando che gli scrivessero certe
cose sul libretto della mutua per andarsene. Il dottore prese le carte, gli disse: – Aspetta qui, – e
lo lasciò solo nel suo laboratorio. Marcovaldo guardava i bianchi mobili smaltati che aveva
tanto odiato, le provette piene di sostanze torve, e cercava d’esaltarsi all’idea che stava per
lasciare tutto quanto: ma non riusciva a provarne quella gioia che si sarebbe atteso. Forse era il
pensiero di tornare alla ditta a scaricare casse, o quello dei guai che i suoi figlioli avevano certo
combinato nel frattempo, e più di tutto la nebbia che c’era fuori e che dava l’idea di doversene
uscire nel vuoto, di sfarsi in un umido niente. Così girava gli occhi intorno, con un indistinto
bisogno d’affezionarsi a qualcosa di là dentro, ma ogni cosa che vedeva gli sapeva di strazio o di
disagio.
Fu allora che vide un coniglio in una gabbia. Era un coniglio bianco, di pelo lungo e
piumoso, con un triangolino rosa di naso, gli occhi rossi sbigottiti, le orecchie quasi implumi
appiattite sulla schiena. Non che fosse grosso, ma in quella gabbia stretta il suo corpo ovale
rannicchiato gonfiava la rete metallica e ne faceva spuntar fuori ciuffi di pelo mossi da un
leggero tremito. Fuori della gabbia, sul tavolo, c’erano dei resti d’erba, e una carota.
Marcovaldo pensò a come doveva essere infelice, chiuso là allo stretto, vedendo quella carota e
non potendola mangiare. E gli aprì lo sportello della gabbia. Il coniglio non uscì: stava lì fermo,
con solamente un lieve moto del muso come fingesse di masticare per darsi un contegno.
Marcovaldo prese la carota, gliel’avvicinò, poi lentamente la ritrasse, per invitarlo a uscire. Il
coniglio lo seguì, addentò circospetto la carota e con diligenza prese a rosicchiarla d’in mano a
Marcovaldo. L’uomo lo carezzò sulla schiena e intanto lo palpò per vedere se era grasso. Lo
sentì un po’ ossuto, sotto il pelo. Da questo, e dal modo come tirava la carota, si capiva che
dovevano tenerlo un po’ a stecchetto. «L’avessi io, – pensò Marcovaldo, – lo rimpinzerei
finché non diventa una palla». E lo guardava con l’occhio amoroso dell’allevatore che riesce a
far coesistere la bontà verso l’animale e la previsione dell’arrosto nello stesso moto dell’animo.
Ecco che dopo giorni e giorni di squallida degenza in ospedale, al momento d’andarsene,
scopriva una presenza amica, che sarebbe bastata a riempire le sue ore e i suoi pensieri. E
doveva lasciarla, per tornare nella città nebbiosa, dove non s’incontrano conigli.
La carota era quasi finita, Marcovaldo prese la bestia in braccio e andava
cercando intorno qualcos’altro da dargli. Gli avvicinò il muso a una piantina di
geranio in vaso che era sulla scrivania del dottore, ma la bestia mostrò di non
gradirla. Proprio in quel momento Marcovaldo sentì il passo del dottore che stava
entrando: come spiegargli perché teneva il coniglio tra le braccia ? Aveva indosso il
suo giubbotto da lavoro, chiuso alla vita. In fretta ci ficcò dentro il coniglio, s’abbottonò, e
perché il dottore non gli vedesse quel rigonfio sussultante sullo stomaco, lo fece passare dietro,
sulla schiena. Il coniglio, spaventato, stette buono. Marcovaldo prese le sue carte, e riportò il
coniglio sul petto perché doveva voltarsi e uscire. Così, col coniglio nascosto nel giubbotto,
lasciò l’ospedale e andò al lavoro.
– Ah, sei guarito finalmente ? – disse il caporeparto signor Viligelmo vedendolo arrivare. –
E cosa ti è cresciuto, lì ? – e gli indicò il petto sporgente.
– Ci ho un impiastro caldo contro i crampi, – disse Marcovaldo.
In quella il coniglio dette un guizzo, e Marcovaldo saltò su come un epilettico.
– Cosa ti piglia ? – fece Viligelmo.
– Niente: singhiozzo, – rispose lui, e con la mano spinse il coniglio dietro la schiena.
– Sei ancora un po’ malandato, vedo, – disse il capo.
Il coniglio cercava di arrampicarglisi sulla schiena e Marcovaldo scrollava le spalle per farlo
scendere.
– Hai i brividi. Va’ a casa ancora per un giorno. Domani vedi d’essere guarito.
A casa, Marcovaldo arrivò reggendo il coniglio per le orecchie come un cacciatore
fortunato.
– Papà ! Papà ! – l’acclamarono i bambini correndogli incontro. – Dove l’hai preso ? Ce lo
regali ? È un regalo per noi ? – e volevano subito afferrarlo.
– Sei tornato ? – disse la moglie e dall’occhiata che gli rivolse, Marcovaldo capì che il
tempo della sua degenza non era servito ad altro che a farle accumulare nuovi motivi di
risentimento contro di lui. – Un animale vivo ? E cosa vuoi farne ? Sporca dappertutto.
Marcovaldo sgombrò il tavolo e vi piazzò il coniglio in mezzo, che s’appiattì come
cercando di sparire. – Guai a chi lo tocca ! – disse. – È il nostro coniglio, e ingrasserà tranquillo
fino a Natale.
– Ma è un coniglio o una coniglia ? – chiese Michelino.
Alla possibilità che fosse una coniglia, Marcovaldo non ci aveva pensato. Subito
gli venne in mente un nuovo piano: se era una femmina si poteva farle fare i
coniglietti e mettere su un allevamento. E già nella sua fantasia gli umidi muri di
casa sparivano e c’era una fattoria verde tra i campi.
Era proprio un maschio, invece. Ma a Marcovaldo quest’idea dell’allevamento ormai gli era
entrata in testa. Era un maschio, ma un maschio bellissimo, a cui si poteva cercare una sposa e i
mezzi per crearsi una famiglia.
– E cosa gli diamo da mangiare, se non ce n’è per noi ? – disse la moglie, tagliente.
– Lascia pensare a me, – disse Marcovaldo.
L’indomani, in ditta, a certe piante verdi in vaso degli uffici della Direzione, che lui doveva
ogni mattino portar fuori, innaffiare e riportare a posto, tolse una foglia a ciascuna: larghe foglie
lucide da una parte e dall’altra opache; e se le ficcò nella giubba. Poi, a una impiegata che
veniva con un mazzetto di fiori chiese: – Glieli ha dati il moroso ? E non me ne regala uno ? –
ed intascò anche quello. A un ragazzo che sbucciava una pera, disse: – Lasciami le bucce –. E
così, qua una foglia, là una scorza, laggiù un petalo, sperava di sfamare la bestiola.
A un certo punto, il signor Viligelmo lo mandò a chiamare. « Si saranno accorti delle piante
spelacchiate ? » si domandò Marcovaldo, abituato a sentirsi sempre in colpa.
Dal caporeparto c’era il medico dell’ospedale, due militi della Croce Rossa ed una guardia
civica. – Senti, – disse il medico, – è sparito un coniglio dal mio laboratorio. Se ne sai qualcosa
ti conviene di non fare il furbo. Perché gli abbiamo iniettato i germi di una malattia terribile e
può spargerla per tutta la città. Non ti chiedo se l’hai mangiato perché a quest’ora non saresti
più tra i vivi.
Fuori aspettava un’autoambulanza; ci salirono di corsa, e con un continuo urlo
di sirena, percorsero vie e viali verso la casa di Marcovaldo: e per la via restò una
scia di foglie e bucce e fiori che Marcovaldo gettava via dal finestrino tristemente.
La moglie di Marcovaldo quel mattino non sapeva proprio cosa mettere in pentola. Guardò
il coniglio che il marito aveva portato a casa il giorno prima, e che ora stava in una gabbia
improvvisata, piena di trucioli di carta. « È venuto proprio a proposito, – si disse. – Soldi non
ce n’è; il mensile se n’è già andato in medicine extra che la Mutua non paga; le botteghe non
ci fanno più credito. Altro che far l’allevamento, o aspettare a Natale per metterlo arrosto ! Noi
saltiamo i pasti e ancora dobbiamo ingrassare un coniglio ! »
– Isolina, – disse alla figlia, – tu sei già grande, devi imparare come si cucinano i conigli.
Comincia ad ammazzarlo e a spellarlo e poi ti spiego come devi fare.
Isolina stava leggendo un giornale di novelle sentimentali. – No, – mugolò, – comincia tu
ad ammazzarlo e a pelarlo, e poi starò a vedere come lo cucini.
– Brava ! – disse la madre. – Io d’ammazzarlo non ho cuore. Ma so che è una cosa
facilissima, basta prenderlo per le orecchie e dargli una forte botta sulla collottola. Per spellarlo,
poi vedremo.
– Non vedremo niente, – disse la figlia senza alzare il naso dal giornale, – io colpi sulla
collottola a un coniglio vivo non ne do. E a spellarlo non ci penso neanche.
I tre bambini erano stati a sentire questo dialogo a occhi spalancati.
La madre restò un po’ soprappensiero, li guardò, poi disse: – Bambini…
I bambini, come d’intesa, voltarono le spalle alla madre e uscirono dalla stanza.
– Aspettate, bambini ! – disse la madre. – Vi volevo dire se vi piacerebbe uscire col
coniglio. Gli metteremo un bel nastro al collo e andate un po’ a passeggio.
I bambini si fermarono e si guardarono negli occhi. – A passeggio dove? – chiese
Michelino.
– Be’, potete fare quattro passi. Poi andate a trovare la signora Diomira, le portate il
coniglio e le dite se per favore ce lo ammazza e ce lo spella, lei che è così brava.
La madre aveva toccato il tasto giusto: i bambini, si sa, restano impressionati dalla cosa che a
loro piace di più, e al resto preferiscono non pensarci. Così trovarono un lungo nastro color
lilla, lo legarono attorno al collo della bestiola, e l’usarono come guinzaglio, strappandoselo di
mano e tirandosi dietro il coniglio riluttante e mezzo strangolato.
– Dite alla signora Diomira, – raccomandò la madre, – che poi può tenersi un cosciotto !
No, meglio dirle: la testa. Insomma: veda lei.
I bambini erano appena usciti quando l’alloggio di Marcovaldo fu circondato e invaso da
infermieri, medici, guardie e poliziotti. Marcovaldo era in mezzo a loro più morto che vivo. –
È qui il coniglio che è stato portato via dall’ospedale ? Presto, indicateci dov’è senza toccarlo:
ha addosso i germi d’una tremenda malattia ! – Marcovaldo li condusse alla gabbia, ma era
vuota. – Già mangiato? – No, no ! – E dov’è? – Dalla signora Diomira ! – e gli inseguitori
ripresero la caccia.
Bussarono dalla signora Diomira. – Il coniglio ? Che coniglio ? Siete pazzi ? – A vedersi la
casa invasa da sconosciuti, in camice bianco e in divisa, che cercavano un coniglio, alla
vecchietta venne quasi un colpo. Del coniglio di Marcovaldo non sapeva niente.
Infatti, i tre bambini, volendo salvare il coniglio dalla morte, pensarono di portarlo in un
posto sicuro, giocarci un poco e poi lasciarlo andare; e invece di fermarsi al pianerottolo della
signora Diomira, decisero di salire fino a un terrazzo che c’era sui tetti. Alla madre avrebbero
detto che aveva strappato il guinzaglio e era scappato. Ma nessun animale pareva così poco
adatto a una fuga quanto quel coniglio. Fargli salire tutte quelle scale era un problema: si
rannicchiava spaventato a ogni gradino. Finirono per prenderlo in braccio e portarlo su di
peso.
Sul terrazzo volevano farlo correre: non correva. Provarono a metterlo su un cornicione
per vedere se camminava come i gatti: ma pareva che soffrisse le vertigini. Provarono a issarlo
su un’antenna della televisione per vedere se sapeva stare in equilibrio: no, cascava. Annoiati, i
ragazzi strapparono il guinzaglio, lasciarono libera la bestia in un punto dove le si aprivano
davanti le vie dei tetti, mare obliquo e angoloso, e se ne andarono.
Quando fu solo, il coniglio prese a muoversi. Tentò alcuni passi, si guardò intorno, cambiò
direzione, si girò, poi a piccoli balzi, a saltelli, prese a andare per i tetti. Era una bestia nata
prigioniera: il suo desiderio di libertà non aveva larghi orizzonti. Non conosceva altro bene
della vita se non il poter stare un po’ senza paura. Ecco ora poteva muoversi, senza nulla
intorno che gli facesse paura, forse come mai prima in vita sua. Il luogo era insolito, ma una
chiara idea di cosa fosse e cosa non fosse solito non aveva potuto mai crearsela. E da quando
dentro di sé sentiva rodere un male indistinto e misterioso, il mondo intero lo interessava
sempre meno. Così andava sui tetti; e i gatti che lo vedevano saltare non capivano chi era e
arretravano timorosi.
Intanto, dagli abbaini, dai lucernari, dalle altane, l’itinerario del coniglio non era
passato inosservato. E chi cominciò a esporre catini d’insalata sul davanzale
spiando da dietro alle tendine, chi buttava un torsolo di pera sulle tegole e ci
tendeva intorno un laccio di spago, chi disponeva una fila di pezzettini di carota
sul cornicione, che seguitavano fino al proprio abbaino. E una parola d’ordine correva
in tutte le famiglie che abitavano sui tetti: – Oggi coniglio in umido – o – Coniglio in fricassea
– o – Coniglio arrosto.
La bestia s’era accorta di questi armeggii, di queste silenziose offerte di cibo. E sebbene
avesse fame, diffidava. Sapeva che ogni volta che gli uomini cercavano d’attirarlo offrendogli
cibo, capitava qualcosa d’oscuro e doloroso: o gli conficcavano una siringa nelle carni, o un
bisturi, o lo cacciavano di forza in un giubbotto abbottonato, o lo trascinavano con un nastro al
collo… E la memoria di queste disgrazie faceva una cosa sola col male che sentiva dentro di sé,
col lento alterarsi d’organi che avvertiva, col presentimento della morte. E con la fame. Ma
come se di tutti questi disagi sapesse che solo la fame poteva essere alleviata, e riconoscesse che
questi infidi esseri umani gli potevan dare – oltre a sofferenze crudeli – un senso – di cui pur
aveva bisogno – di protezione, di calore domestico, decise d’arrendersi, di prestarsi al gioco
degli uomini: andasse poi come voleva. Così, cominciò a mangiare i pezzettini di carota,
seguendo la scia che, lo sapeva bene, l’avrebbe fatto ancora prigioniero e martire, ma tornando
a gustare forse per l’ultima volta il buon sapore terrestre degli ortaggi. Ecco si avvicinava alla
finestra dell’abbaino, ecco che una mano si sarebbe protesa a ghermirlo: invece, tutt’a un tratto,
la finestra si chiuse e lo lasciò fuori. Questo era un fatto estraneo alla sua esperienza: una
trappola che si rifiutava di scattare. Il coniglio si volse, cercò gli altri segni d’insidia intorno, per
scegliere a quale d’essi gli conveniva arrendersi. Ma intorno le foglie d’insalata venivano
ritirate, i lacci gettati via, la gente affacciata spariva, sbarrava finestre e lucernari, i terrazzi si
spopolavano.
Era successo che una camionetta della polizia aveva attraversato la città, gridando da un
altoparlante: – Attenzione attenzione ! È stato smarrito un coniglio bianco dal pelo lungo,
affetto da una grave malattia contagiosa ! Chiunque lo rintracci sappia che la sua carne è
velenosa, e anche il contatto può trasmettere germi nocivi ! Chiunque lo veda lo segnali al più
vicino posto di polizia, ospedale o caserma dei pompieri !
Il terrore si sparse sui tetti. Ognuno stava in guardia e appena avvistava il coniglio che con
un floscio balzo passava da un tetto a quello vicino, dava l’allarme e tutti sparivano come
all’avvicinarsi d’uno sciame di locuste. Il coniglio procedeva in bilico sulle cimase; questo senso
di solitudine, proprio nel momento in cui aveva scoperto la necessità della vicinanza
dell’uomo, gli pareva ancora più minaccioso, intollerabile.
Intanto il cavalier Ulrico, vecchio cacciatore, aveva caricato il suo fucile con cartucce da
lepre, ed era andato ad appostarsi su un terrazzo, dietro un fumaiolo. Quando vide nella nebbia
affiorare l’ombra bianca del coniglio, sparò; ma tant’era la sua emozione al pensiero dei malefici
della bestia, che la rosa dei pallini grandinò un po’ discosto, sulle tegole. Il coniglio sentì la
fucilata rimbalzare intorno, e un pallino trapassargli un orecchio. Comprese: era una
dichiarazione di guerra; ormai ogni rapporto con gli uomini era rotto. E in dispregio a loro, a
questa che in qualche modo sentiva come una sorda ingratitudine, decise di farla finita con la
vita.
Un tetto coperto di lamiera scendeva obliquo, e terminava nel vuoto, nel nulla opaco della
nebbia. Il coniglio ci si posò con tutte e quattro le zampe, cautamente dapprima, poi
abbandonandosi. E così scivolando, divorato e circondato dal male, andava verso la morte. Sul
ciglio, la grondaia lo trattenne un secondo, poi sbilanciò giù…
E finì tra le mani guantate d’un pompiere, issato in cima a una scala portatile. Impedito fin
in quell’estremo gesto di dignità animale, il coniglio venne caricato sull’ambulanza che partì a
gran carriera verso l’ospedale. A bordo c’erano anche Marcovaldo, sua moglie e i suoi figlioli,
ricoverati in osservazione e per una serie di prove di vaccini.
ELSA MORANTE
I l gioco segreto
Sulla piazza era sempre ferma una buffa e antiquata carrozza da nolo che
nessuno mai noleggiava. Il cocchiere assopito si scuoteva ogni tanto al rintoccare delle ore
dal campanile e poi riabbassava il mento sul petto. Nell’angolo, presso il palazzo giallo sbiadito
del Municipio, c’era una fontana nella quale un filo d’acqua colava da una strana faccia di
marmo. Capelli grossi e cilindrici si torcevano come serpi intorno a questa faccia e gli occhi
sporgenti e senza pupille avevano uno sguardo morto.
Da quasi tre secoli un palazzo sorgeva sulla parte opposta, di fronte al Municipio. Era una
casa patrizia in rovina, una volta pomposa, ora disfatta e squallida. La facciata carica di
ornamenti, resa grigia dal tempo, mostrava i segni dello sfacelo. I putti librati a guardia della
soglia erano corrosi e sudici, i festoni di marmo perdevano i fiori e le foglie e il portale chiuso
mostrava macchie di muffa. Pure, la casa era abitata; ma i proprietari, eredi di un nome illustre
e decaduto, si mostravano di rado. Solo qualche volta ricevevano in visita il prete o il medico,
e, ad intervalli di anni, parenti piovuti da lontane città, che ripartivano presto.
Nell’interno del palazzo si seguivano grandi sale vuote in cui, nei ventosi giorni
di tempesta, entravano dai vetri rotti mulinando la polvere e la pioggia. Dalle
pareti pendevano lembi strappati di tappezzerie, avanzi di arazzi logori, e nei
soffitti, fra nuvole gonfie e smaglianti, navigavano cigni e angioli nudi, e donne
splendide si affacciavano entro ghirlande di fiori e di frutti. Alcune sale erano
affrescate di avventure e di storie, e vi abitavano popoli regali, che montavano
cammelli o giocavano in folti giardini, fra scimmie e falchi.
La casa guardava su due lati in vie spopolate ed anguste e sul terzo in un
giardino chiuso, una specie di prigione dall’alta muraglia in cui intristivano poche
piante di lauro e di arancio. Per l’assenza del giardiniere, ortiche selvagge avevano
invaso quel breve spazio, e sui muri nascevano erbe dai fiori azzurrastri e patiti.
La famiglia dei Marchesi, proprietaria del palazzo, lasciava disabitate quasi tutte le stanze, e
si era ridotta in un piccolo appartamento al secondo piano, fornito di mobili vetusti, da cui si
udiva, nel silenzio della notte, il lamento fievole dei tarli. La marchesa e il marchese, di aspetto
insignificante e meschino, avevano nei tratti quella triste somiglianza che sopravviene talvolta
per mimetismo dopo una convivenza di anni. Magri ed appassiti, con le labbra pallide e le
guance spioventi, si muovevano con gesti simili a quelli delle marionette. Forse fluiva nelle
loro vene, al posto del sangue, una sostanza pigra e gialliccia, e un’unica forza reggeva i loro
fili, l’autorità per l’una, e la paura per l’altro. Infatti il marchese era stato un tempo un nobile di
provincia spensierato e gioviale, preoccupato soltanto di dar fondo in qualche modo agli ultimi
resti del patrimonio. Ma la marchesa lo aveva educato. L’umanità ideale, nel concetto di lei,
doveva guardarsi dal ridere e dal parlare a voce alta, e sopratutto doveva scrupolosamente
nascondere agli altri le proprie debolezze segrete. Secondo i suoi dettami, era delitto torcer le
labbra, agitarsi, soffiarsi il naso con energia; e il marchese, timoroso di deviare nei gesti e
rumori illeciti, evitava da tempo qualsiasi gesto e rumore, riducendosi a una specie di mummia
dagli occhi mansueti e dalla testa china. Tuttavia non evitava le strapazzate e i rimbrotti.
Educatissima e pungente, ella lo colpiva spesso con rimproveri diretti, o con allusioni a certi
personaggi innominati, degni solo d’infamia. Costoro, diceva, ignari della loro stessa volontà,
ed incapaci di educare i propri figli, trascinerebbero la casa alla rovina, se la Grazia non li avesse
forniti di una Moglie. E l’uomo sopportava senza batter palpebra tali torture, fino all’ora in cui,
con in tasca i pochi spiccioli concessi dall’Amministratrice severa, usciva per il passeggio. Forse
nella solitudine delle straducole campestri, si abbandonava a gesti eccessivi, a cavatine, e a
tuonanti soffiate di naso; certo, quando tornava, aveva una strana luce negli occhi e questa
rivelazione involontaria di un suo divertente e maleducato mondo interiore destava sospetti
nella marchesa. Per tutta la sera ella lo incalzava con domande sempre più avvilenti e raffinate
allo scopo di strappargli rivelazioni compromettenti. E il poveretto col tossicchiare, il balbettare
e l’arrossire si comprometteva sempre più, così che la marchesa iniziò uno scrupoloso e rigido
controllo sul marito, e decise spesso di accompagnarlo al passeggio. Egli, rassegnato, si
sottomise; ma la fiamma nei suoi occhietti divenne ossessionante e fissa, e non più di allegria.
Da tali genitori erano nati i tre fanciulli; e per loro, nei primi anni, il mondo era fatto a
immagine e somiglianza di essi. Gli altri personaggi del paese non erano che parvenze vaghe,
mocciosi antipatici e maligni, donne dalle pesanti calze nere e dai capelli lunghi e oleosi, vecchi
religiosi e tristi. Tutte queste parvenze malvestite erravano sui brevi ponti, nelle viuzze e nella
piazza. I tre fanciulli odiavano il paese; quando uscivano in fila, con l’unico servo, passando di
striscio lungo i muri, avevano sguardi biechi e sprezzanti. I ragazzi del luogo se ne vendicavano
beffandoli e destando in loro un cupo terrore.
Il servo era un uomo alto e volgare, con polsi pelosi, narici larghe e rossastre e piccoli occhi
mutevoli. Egli si ripagava della soggezione in cui era tenuto dalla marchesa trattando i fanciulli
come un padrone; quando li accompagnava, dondolando leggermente le anche e guardandoli
dall’alto, o li richiamava con voci secche, essi tremavano per l’odio. Ma anche nella strada li
seguivano le brevi ammonizioni materne; avanzavano ordinati, silenziosi ed austeri.
Quasi sempre, la passeggiata si arrestava alla chiesa, in cui si entrava fra due colonne sorrette
da una coppia di leoni massicci e d’espressione tranquilla. In alto, un ampio rosone lasciava
entrare nella nave una luce illividita, fresca, in cui le fiamme delle candele si agitavano
vagamente. Nell’abside si vedeva un grande corpo di Cristo, dalle piaghe grondanti un sangue
viola, e intorno figure che gesticolavano e si abbattevano con movimenti pesanti.
I tre fanciulli compunti si ponevano in ginocchio e giungevano le mani.
Antonietta, la maggiore, quantunque avesse già compiuto i diciassette anni,
aveva il corpo e l’abito di una bambina. Era magra e sgraziata, e i suoi capelli lisci,
non essendo il lavarli frequente abitudine del palazzo, emanavano sempre un lieve
odore di topo. Erano divisi da una scriminatura nel mezzo, e questa scriminatura,
sulla nuca, si scorgeva netta, fra i capelli più corti e più fini, e ispirava la
protezione e la pena. Il naso di questa ragazza era lungo, curvo e sensibile, e le sue
labbra sottili palpitavano nel parlare. Nel viso pallido e scarno gli occhi si
muovevano con nervosa passione, salvo in presenza della marchesa, ché allora si
mantenevano opachi e bassi.
Ella portava le trecce sulle spalle e un grembiule nero così corto che, se si piegava troppo
vivacemente, si scorgevano le sue mutande di tela, strette e lunghe fin quasi al ginocchio,
adorne di una fettuccia rossa; il grembiule si apriva di dietro, sulla sottoveste col merletto. Le
calze nere erano fermate da un semplice elastico, attorcigliato e logoro.
Pietro, il secondo, sui sedici anni, era un mansueto. Muoveva con lentezza il corpo piccolo
e tozzo e gli occhi dalle luci discrete sotto le sopracciglia spesse. Aveva un sorriso buono e
domestico e la sua dipendenza dagli altri due appariva al primo sguardo.
Giovanni, il minore, era il più brutto della famiglia. Il suo corpo misero, come nato
vecchio, pareva già troppo avvizzito per crescere; ma i suoi occhi lucenti e mobili
rassomigliavano a quelli della sorella. Dopo brevi periodi di vivacità nervosa cadeva in subite
prostrazioni, a cui sopravveniva la febbre. Di lui il medico diceva: Non credo che passi il
tempo dello sviluppo.
Quando la sua febbre lo coglieva inspiegabile e bizzarra, lo percorrevano brividi simili a
scosse elettriche. Sapeva che questo era il segno e aspettava, con le labbra stirate e gli occhi
dilatati, l’avanzarsi del male. Per lunghi giorni gli incubi erravano intorno al suo letto in un
continuo ronzio, e una noia informe gli pesava addosso, dentro un’atmosfera fumosa. Poi
veniva la convalescenza ed egli, troppo debole per muoversi, si rannicchiava in una poltrona e
batteva con le dita, in cadenza, i braccioli. Allora pensava. Oppure leggeva.
La marchesa, occupata nelle sue funzioni di economa, non sorvegliava troppo l’educazione
e l’istruzione dei fanciulli. Le bastava che tacessero e non si muovessero. Giovanni ebbe così
modo di leggere strani libri scovati qua e là, in cui si agitavano personaggi in abiti non mai
visti: ampio cappello, giustacuore di velluto, spade e parrucche, e per le dame, vesti fantastiche,
adorne di gemme, e reti intessute d’oro.
Tali esseri parlavano un linguaggio alato, che sapeva toccare altezze e precipizi,
dolce nell’amore, feroce nell’ira e vivevano avventure e sogni su cui il fanciullo
fantasticava lungamente. Egli partecipò ai fratelli la sua scoperta e, tutti e tre,
credettero di identificare le persone dei libri con le figure che popolavano i muri e
i soffitti del palazzo e che, vive da tempo in loro, ma nascoste nei sotterranei della
loro infanzia, ora tornavano alla luce. Presto vi fu tra i fratelli un’intesa nascosta. Quando
nessuno poteva udirli, essi parlavano delle loro creature, le smontavano e le ricostruivano, ne
discutevano fino a farle vivere e respirare in loro. Odii e amori profondi li legarono a questa e
a quella, e spesso avveniva che la notte i tre rimanessero desti per dialogare fra loro con quelle
parole. Antonietta dormiva da sola in uno stanzino comunicante con la camera dei fratelli; la
camera dei genitori era separata dalla loro da una vasta sala, parlatorio o tinello. Nessuno
dunque li udiva se, ciascuno dal suo letto, dialogavano, impersonando le figure amate.
Erano discorsi deliziosi e nuovi.
– Leblanc, cavaliere Leblanc, – bisbigliava dal letto di destra la voce un po’ rauca di
Giovanni, – avete affilato le lucenti spade per il duello? L’alba sanguinosa sorgerà ben presto, e
voi sapete, cavaliere, che il fiero Lord Arturo non conosce umana pietà né trema dinanzi alla
morte.
– Ahimè, fratel mio, – gemeva la voce lamentevole d’Antonietta, – già già sono apprestate
le candide bende e i profumati unguenti. Voglia il Cielo che essi servano ad ungere il cadavere
del vostro nemico.
– L’alba sanguigna, l’alba sanguigna, – borbottava Pietro, meno ricco di fantasia e sempre
un po’ sonnolento. Ma Giovanni lo interrompeva subito, suggerendogli le parole:
– Tu, – diceva, – devi rispondere che impavido affronterai il pericolo e che non sarà un
conte Arturo colui che potrà farti arretrare né peraltro un tal uomo è ancor nato.
Fu così che i tre fanciulli scoprirono il teatro.
I loro personaggi uscirono del tutto dalla nebbia dell’invenzione, con suono d’armi e fruscio
di vesti. Acquistarono un corpo di carne ed una voce, e per i fanciulli cominciò una doppia
vita. Appena la marchesa si ritirava nella sua camera, il servo in cucina, e il marchese usciva per
la sua passeggiata, ciascuno dei tre si trasformava nella propria parte. Col cuore balzante,
Antonietta chiudeva i due battenti dell’uscio, e diventava la Principessa Isabella; Roberto,
innamorato di Isabella, era impersonato da Giovanni. Soltanto Pietro non aveva una parte
determinata, figurando ora il rivale, ora il servo, ora il capitano di un bastimento. Così viva era
la forza della finzione, che ciascuno dimenticava la propria persona reale; spesso, nelle lunghe
sedute di noia sorvegliate dalla marchesa, quel meraviglioso segreto troppo compresso sprizzava
da loro in occhiate furtive e brillanti: « Più tardi, – significavano, – faremo il gioco ». La sera, al
buio, le creature del gioco popolavano la loro solitudine, sotto le lenzuola, e gli avvenimenti
che si sarebbero svolti domani prendevano forma; essi ne sorridevano fra sé, oppure, se la scena
era violenta o tragica, stringevano il pugno.
In primavera, anche il giardino-carcere acquistava una vita fittizia. Nell’angolo assolato il
gatto striato di rosso fremeva lungamente chiudendo gli occhi verdastri. Strani odori subitanei
e viventi parevano scoppiare qua e là, da un cespuglio o da un cumulo di terra. Fiori ammalati
d’ombra si aprivano e cadevano in silenzio, e i petali macerati si accumulavano fra i sassi; gli
odori attiravano farfalle pigre, che lasciavano cadere il polline.
A sera, scendevano spesso piogge tiepide e sorde, e inumidivano appena la terra. Succedeva
a queste un vento basso, grave anch’esso di odori che vagavano attraverso la notte. Il marchese
e la marchesa, dopo colazione, si addormentavano sulla sedia; i dialoghi dei paesani, al
tramonto, parevano complotti.
Il gioco segreto era diventato una specie di congiura, che si svolgeva in un pianeta favoloso
e lontano, noto soltanto ai tre fratelli. Presi dall’incantamento, essi non dormivano la notte per
ripensarlo. Una notte la veglia fu più lunga; Isabella e Roberto, gli amanti contrastati,
dovevano accordarsi per una fuga, e i fanciulli smaniavano nei loro letti per riflettere e
risolversi in tali circostanze gravi. Finalmente i due maschi si assopirono, e i volti dei
personaggi inventati vaneggiarono un poco sotto le loro palpebre, fra accensioni e oscurità,
finché si spensero.
Ma Antonietta non riuscì a dormire. A volte le pareva di udire un lagno rauco e lungo nella
notte, e tendeva l’orecchio, all’erta. A volte rumori strani nelle soffitte rompevano con un
sussulto la commedia che ella continuava a vivere nell’inventarla, col capo sotto il lenzuolo.
Infine scese dal letto; entrò cauta nella camera dei fratelli e li chiamò a voce bassa.
Giovanni, che aveva il sonno leggero, balzò a sedere sul letto. La sorella aveva indossato
sulla camicia da notte, che le arrivava appena al ginocchio, un logoro cappottino di lana nera. I
suoi capelli lisci, non molto fitti né lunghi, erano sciolti, i suoi occhi brillavano fra oblique
ombre nere al lume di una candela che ella teneva stretta fra le due mani.
– Sveglia Pietro, – disse curvandosi sul letto del fratello con una sollecitudine impaziente e
febbrile. In quel momento nel letto vicino Pietro si scuoteva e schiudeva gli occhi insonnoliti.
– È per il gioco, – ella spiegò.
Pigramente, piuttosto di malavoglia, Pietro si rizzò sul gomito: ambedue i ragazzi
guardavano la sorella, il maggiore con aria distratta e inebetita, l’altro, già curioso, sporgendo il
volto dai tratti vecchi e puerili verso la fiamma.
– È accaduto, – cominciò Antonietta con fervore frettoloso, come chi parli di un evento
improvviso e grave, – che durante la partita di caccia Roberto ha scritto un biglietto e lo ha
nascosto nel cavo di un tronco. Il levriere di Isabella per un miracolo corre a quel tronco e
torna col biglietto in bocca. « Fingi di smarrirti », c’è scritto, « e trovati appena fa buio nel
bosco che circonda il castello di Challant. Di là fuggiremo ». Così, mentre tutti inseguono la
volpe, io scappo e incontro Roberto. E il vento soffia, e lui mi fa salire sul suo cavallo, e
fuggiamo nella notte. Ma i cavalieri si accorgono della nostra assenza e ci inseguono suonando
le trombe.
– Facciamo che li trovano ? – chiese Giovanni con gli occhi mobili e curiosi nella luce
rossastra.
La sorella non poteva rimaner ferma, gestiva con ambedue le mani, così che la fiamma della
candela oscillava in un disordine di esili baleni e di ombre enormi:
– Non si sa ancora, – rispose. – Perché, – aggiunse con un ridere misterioso e trionfante, –
noi ora andiamo nella sala della caccia a fare il gioco.
– Nella sala della caccia ! Non è possibile ! – disse Pietro scuotendo il capo. – Tu scherzi !
Di notte ! Ci udiranno e ci scopriranno. Così tutto sarà finito –. Ma gli altri due gli furono
contro indignati:
– Non ti vergogni ? – dissero. – Che paura !
In un deciso tentativo di ribellione, Pietro si distese nuovamente nel letto:
– Io non vengo, no, – disse. Antonietta allora diventò supplichevole:
– Non rovinare tutto, – pregò, – tu devi fare i cacciatori e le trombe –. In tal modo vinse
l’ultima resistenza di Pietro che si risolvette ad alzarsi. Egli indossava, come il fratello, una
consunta camicia di flanella su cui si infilò i pantaloni corti. Antonietta aperse con
circospezione l’uscio che dava sulla scala:
– Prendete anche la vostra candela, – avvertì a voce bassissima, – non ci sono lampade, là.
E i tre si avviarono, in fila, per la scala piuttosto stretta di un marmo sudicio e opaco. La «
sala della caccia », era al primo piano, subito dopo la gradinata. Era una delle stanze più vaste
del palazzo e l’abbandono che rendeva squallide le altre stanze qui era animato dagli ampi
scenari affrescati sulle pareti e sul soffitto. Rappresentavano scene di caccia, contro un
paesaggio rupestre su cui crescevano alberi irti ed oscuri. Una moltitudine di levrieri, col muso
in avanti e tese le zampe posteriori, correva dovunque in rapida fuga, mentre i cavalli
balzavano in alto o procedevano solenni, nelle loro gualdrappe rosse e dorate. I cacciatori in
abiti bizzarri di sete e velluti, squamati come la pelle dei pesci, con cappelli alti dalle lunghe
piume o tricorni verdi, camminavano o marciavano dando fiato alle trombe. Lunghi nastri
pendevano sventolando dalle trombe, drappi gialli e rossi sbattevano sul cielo ormai torbido, e
dalla rupe spuntavano piante dalle foglie aguzze, e fiori aperti e rigidi, simili a pietre. Tutto
questo era ingoiato dall’oscurità. Le candele, con le loro luci esigue per la vastità della sala,
scoprivano qua e là i colori vivi delle selle o i dorsi bianchi dei cavalli. Le ombre dei fanciulli
oscillavano gigantesche sulle pareti con gesti ingranditi e passi da fantasma.
Essi chiusero gli usci. Il dramma incominciò.
Il silenzio della notte era enorme; il vento si era fermato affinché gli alberi del bosco non
stormissero. Antonietta era in piedi presso un albero dipinto nel quale d’improvviso cominciò a
correre la linfa. Uccelli addormentati ma vivi giacquero fra le foglie. E su lei per miracolo
crebbe una veste lunga, di forma sontuosa e vegetale, da cui pendeva una borsa d’oro. I suoi
capelli si divisero in due trecce bionde, e le sue pupille si dilatarono per il rapimento e la paura.
– Coraggio, mio bene, sono qua io, qua, vicino a te, – sussurrò l’altro, mutandosi in
gagliardo cavaliere. Il suo viso tenero e faunesco si sporgeva nell’oscurità. – Roberto ! – ella
disse con un debole strido, – Roberto ! Stringimi, amore !
Una grazia subitanea affiorava in lei. I suoi denti e i suoi occhi brillavano di grazia, nel suo
collo incurvato e nelle sue labbra si annidava la grazia. Ella si piegò, poggiando sul pavimento
le ginocchia nude. – Che fai, mia sposa ? – egli disse. – Alzati.
Lei trasaliva. – Tu sei venuto, – sussurrò quasi gemendo, – e non è più notte, non ho più
paura. Finalmente sono vicina a te ! Sono come dentro una fortezza, come dentro un nido. Tu
sapessi che tristezza, e come piangevo in queste notti solitarie ! E tu, mio cuore, che cosa facevi
in queste notti ?
– Erravo, – egli disse, – sul mio cavallo, pensando al modo di rapirti. Ma non ricordare, mia
diletta, il tempo della solitudine. Ora tutto è passato. Nessuna forza potrà separarci. Siamo uniti
per l’eternità.
– Per l’eternità ! – ella ripeté smarrita. Sorrideva con le palpebre abbassate, e sospirava e
tremava. D’improvviso ebbe un sussulto, e si strinse a lui: – Non ti sembra, – disse, – di udire
come un suono di tromba in lontananza ?
Roberto tese l’orecchio. – Devo suonare le trombe ? – interrogò Pietro accostandosi. Era la
sua specialità. Egli sapeva imitare il suono degli strumenti da fiato e le voci degli animali e nel
far questo le sue gote si gonfiavano in modo strambo e mostruoso.
– Sì, – bisbigliarono gli altri due.
Un suono di tromba, roco e basso, che via via diventava più vicino e squillante, si udì nel
fondo. Nella foresta il vento si levò; una folata trascinò le chiome degli alberi come drappi di
bandiere. I cavalli balzarono, i cavalieri si scossero sulle groppe, i falchi girarono nell’aria
sibilante. I levrieri si gettarono nelle tenebre, e i cavalieri soffiando nei corni e gridando:
– Olà ! Olà ! – corsero innanzi fra le fiaccole che segnavano strisce e cerchi di fumo.
Isabella emise un grido, e rovesciò la testa indietro, aggrappandosi a Roberto:
– Mia Regina ! – questi esclamò. – Nessuno ti strapperà da queste braccia ! Lo giuro. E con
questo bacio suggello il giuramento. Ora, avanzatevi ! Avanzatevi, se ne avete il coraggio !
I due fanciulli si baciarono sulle labbra, Giovanni ingrandiva. Con gli zigomi
arrossati e le tempie che battevano, si stringeva alla sorella. E questa, i capelli scomposti, la
bocca bruciante, iniziò un ballo frenetico. – Venite, cavalieri e cavalli ! – gridavano intanto. E
Pietro saltava in qua e in là, ondeggiando sul corpo tozzo ed enfiando le gote, simile ad un
grosso zufolo.
In quel momento, la tragedia e il tripudio si interruppero. Gli alberi e i cavalieri si
irrigidirono, senza più dimensioni, e un silenzio polveroso entrò nella stanza. Alla luce delle
candele non c’erano più che tre brutti fanciulli.
L’uscio si apriva. La marchesa, ispirata, aveva deciso improvvisamente una visita notturna
nella camera dei figli, e le sue ricerche l’avevano condotta infine alla sala della caccia: – Che
cos’è questa commedia ? – esclamò con voce squillante e stupida. Ed entrò, reggendo un alto
candeliere, seguita dal marchese.
Le loro ombre grottesche strisciarono lunghe sulla parete di faccia. Il mento e il naso
aguzzo, le dita secche, la treccia oscillante della marchesa, appuntata in cima al cranio, si
scuotevano debolmente in quella luce ora più chiara, e la figura piccola ed umile del marchese
restava indietro, immobile. Egli indossava una logora veste da camera a strisce gialle e rosse che
lo faceva rassomigliare ad uno scarabeo, e i pochi capelli grigi, che ungeva sempre di una sua
pomata, ritti sulla testa, gli davano l’espressione del terrore. Se ne stava lì guardingo, come
pauroso d’inciampare, e velava con la palma distesa la fiamma del lume.
La marchesa girò sui figli uno sguardo acuto che li gelò; poi si volse alla figlia, con le
sopracciglia sollevate e un ironico e sprezzante sorriso.
– Ma guardala ! – esclamò, – carina ! Oh, cara, cara ! e, fatta d’improvviso rabbiosa e
pugnace, seguitò con tono più alto: – Dovreste vergognarvi, Antonia ! Mi spiegherete…
I fanciulli tacevano; ma mentre i due fratelli rimanevano confusi ad occhi bassi, Antonietta,
rincantucciata presso il suo albero ora ucciso, fissava la madre con occhi smarriti e aperti, simile
ad una giovane quaglia sorpresa dallo sparviero. Poi il suo viso pallidissimo, dalle labbra
sbiancate, si sparse di un rossore disordinato e violento, che coprì la sua pelle di chiazze oscure.
Le sue labbra tremarono, ed ella si agitò un attimo sperduta, sopraffatta da una dolorosa e
indomabile vergogna. Si ritraeva sempre più nel suo angolo, come paurosa che qualcuno
volesse toccarla e frugarla.
I due fratelli sbigottirono alla scena che seguì. La sorella cadde ad un tratto in
ginocchio, e credettero che volesse chiedere perdono: invece ella si coprì la faccia
infuocata con le mani, e cominciò a scuotersi bizzarramente in un rauco e febbrile
ridere, che presto diventò un pianto rabbioso. Si scoprì la faccia convulsa, e, distesa
a terra con le gambe irrigidite, prese a strapparsi, con un gesto puerile e continuo,
i suoi capelli sciolti.
– Antonietta ! Che cosa succede ? – esclamò il marchese esterrefatto. – Taci tu ! – ordinò la
marchesa, e, poiché la figlia nell’agitarsi aveva scoperto le sue gambe esili e bianche, torse il
capo con ribrezzo.
– Alzatevi, Antonietta, – comandò. Ma la sua voce esasperò la figlia, che parve posseduta
dalle furie; era la gelosia del suo segreto che la squassava. Muti, i fratelli si scostarono, ed ella
rimase sola nel mezzo, scrollando la testa come se volesse staccarla dal collo, gemendo con gesti
scomposti e impudichi. – Aiutatemi a sollevarla, – disse infine la marchesa, e, appena i genitori
la toccarono, Antonietta cessò ogni moto, sfinita. Sorretta per le ascelle, si avanzava senza
coscienza su per la scala dalle luci fioche; i suoi occhi erano asciutti e fissi, sulle labbra aveva la
schiuma dell’ira, e il suo gridare aveva ceduto ad un lamento soffocato e interrotto, ma pieno
d’odio. Ella continuò a lamentarsi in tal modo anche nel suo letto in cui la fecero distendere; e
la lasciarono sola.
Nella camera vicina i fratelli non potevano impedirsi di tendere l’orecchio a quel lamento
che li distoglieva anche dal pensiero del segreto violato. Poi Pietro fu sopraffatto da un sonno
privo di sogni, e Giovanni rimase solo a vegliare in quell’oscurità. Senza pace si rivoltava ora su
un fianco ora sull’altro, finché si decise e, lasciato il letto, entrò a piedi nudi nella camera della
sorella. Era una camera angusta, oblunga, in cui si respirava l’aria dell’infanzia, ma di
un’infanzia repressa di collegio. Il soffitto era adorno di una figurina scolorita: una donna snella,
vestita di veli arancione, che danzando tendeva le braccia verso un vaso dipinto. Le pareti
erano macchiate e squallide, un paio di vecchie babbucce rosse era posto accanto al letto di
legno, e sulla parete un angelo dalle ali distese reggeva un’acquasantiera. La lampada della notte
era accesa e spandeva sul letto un alone azzurrastro e fievole:
– Antonietta ! – chiamò Giovanni. – Sono io…
La sorella parve non accorgersi del richiamo, quantunque i suoi occhi fossero aperti e pieni
di lagrime; giaceva immersa nel suo lagno infantile, con le labbra contratte e tremolanti, e non
si mosse; piano piano i suoi occhi si andavano chiudendo, e le ciglia umide apparivano lunghe
e raggiate. A un tratto come scuotendosi ella chiamò:
– Roberto ! – e questo nome e l’acuta dolcezza della voce piena di rimpianto sbigottirono il
fratello.
– Antonietta ! – ripeté. – Sono io, tuo fratello Giovanni !
– Roberto, – ella ripeté a voce più bassa. Ora, calmandosi, pareva raccolta in se
stessa e attenta, come chi segue cauto le orme di un sogno. In silenzio, il fratello
avvertì anch’egli la presenza di Roberto nella camera; alto, un po’ spaccone, col
giustacuore di velluto nero, l’arma arabescata e le fibbie d’argento, Roberto era in
piedi fra loro due.
Antonietta pareva ormai tranquilla e addormentata; egli uscì nel corridoio. Qui
lo avvolse il silenzio della casa, un silenzio rinchiuso e nello stesso tempo senza
limiti, come quello dei sepolcri. Il soffocamento e la nausea lo presero alla gola,
così che si accostò all’ampia finestra della scala e aprì i vetri. Udiva nella notte
leggeri tonfi, come di corpi molli che cadessero sulla sabbia del giardino; vivo e
sensibile gli apparve lo spazio di là dal giardino, e il bisogno della fuga, avvertito
già altre volte, seppure chimerico e vago, lo afferrò ora subitaneo e irresistibile.
Senza pensare, quasi inerte, tornò nella sua camera e si infilò i panni al buio. Con le scarpe
in mano discese la scala, e il cigolio del portone richiuso dietro di lui lo atterrì, e insieme lo
deliziò come un canto:
– Addio, Antonietta, – disse piano. Pensava che mai più avrebbe rivisto Antonietta, mai più
la casa e la piazza; doveva soltanto camminare diritto innanzi perché tutto ciò non esistesse più.
Sulla piazza vuota si udiva il rauco gocciare della fontana ed egli si volse dall’altro lato,
distogliendo lo sguardo da quella fredda e trista faccia di marmo. Percorse le strade note, finché
cominciarono i viottoli campestri e poi i campi aperti. Il grano già alto e verde cresceva a
destra e a sinistra, nel fondo le montagne parevano una nuvolaglia indistinta, e la notte
avanzata, come esausta, respirava umida e ferma sotto i lumi pungenti delle stelle. «Arriverò a
quella catena di monti, – egli pensò, – e poi al mare ». Non aveva mai visto il mare, e il rombo
illusorio e cupo di una conchiglia che spesso da bimbo accostava per giuoco all’orecchio
ritornò a lui, ma vivente ora e ripercosso intorno, così che invece dei campi gli parve di avere
ai lati due stese di acque tranquille in continuo risucchio. Dopo qualche tempo, pensò di aver
molto camminato, mentre si era di poco allontanato dal suo borgo. Sfinito volle riposarsi al
piede di un albero dal tronco liscio e dalla chioma ampia e divisa in due lunghe ramificazioni
simili ai due bracci di una croce.
Aveva appena appoggiato il capo alla corteccia quando avvertì un brivido: « Il male », pensò
atterrito e insieme calmo. La febbre infatti entrava in lui, scavava con le radici infuocate e
torbide nel suo corpo già troppo debole per rialzarsi. Subito la sua vista divenne acuta, così che
egli distingueva ora il brulichio degli animali notturni che gli facevano cerchio d’intorno, e
vedeva il battere e lo spegnersi dei loro occhi simili a fuochi appannati.
Ammiccavano, li riconosceva tutti, e forse avrebbe potuto chiamarli uno per uno e fare ad
essi le infinite domande che fin dall’infanzia si accumulavano in lui.
Ma, con una strana fretta, già la notte trasmigrava nel giorno. Sopravveniva un’alba chiara
nella quale il paesaggio parve mutato in una larga città di creta, polverosa e deserta, sparsa di
capanne simili a cumuli di terra, e di tozze colonne. In questa città, dalla parte del sole, apparve
Isabella, grande sul cielo come una nuvola, con la veste uguale al calice di un fiore rosso. Ella
gli veniva incontro, sebbene i suoi piedi fossero immobili. Le sue spalle nude si rilasciavano per
la stanchezza mentre la sua bocca chiusa pareva sorridere, e i suoi occhi vitrei e fermi lo
fissavano per farlo dormire.
Egli docile si addormentò: e a giorno fatto, fu proprio l’odiato servo che lo ritrovò e lo
portò a casa fra le sue braccia volgari. Come tante altre volte, Giovanni giaceva nel suo letto
per giornate inconsapevoli di esser vissute, sua sorella Antonietta lo vegliava. Ella stava lì pigra
e tranquilla, qualche volta cucendo, spesso in ozio. Guardava il fratello che vaneggiava nei suoi
mondi rossi e infuocati, e di tanto in tanto gli porgeva l’acqua. Stava seduta là, col suo
grembiule e la pettinatura liscia, simile ad una serva di convento.
Le sue labbra parevano bruciate.
Donna Ama lia
Donna Amalia Cardona (che a quel tempo doveva avere sui cinquant’anni, ma ne mostrava
trentacinque), era alta più del comune, non soltanto fra le signore, ma anche in confronto alla
media degli uomini; così che la si vedeva torreggiare nei salotti e a teatro, in qualsiasi
compagnia si trovasse. Di più, essa portava sempre scarpette dai tacchi sottili e altissimi, per far
meglio figurare il suo piedino, che, in contrasto con la statura, aveva piccolo come un piede di
bambola. Le sue scarpette parevano uscite dalla bottega d’un orefice piuttosto che da quella
d’un calzolaio; e né polvere né fango le toccavano, giacché donna Amalia, a somiglianza delle
antiche dame cinesi, non camminava mai, se non all’interno del suo palazzo (ma le sarebbe
piaciuto d’essere una Papessa, per avere il diritto di farsi condurre in portantina anche
attraverso i suoi giardini e le sue stanze). Le pareva una assurdità contro-natura di sottomettere
a fatica i suoi piedini o le sue manine (minuscole anche queste al pari dei piedi) i quali erano
fatti solo per figurare, come i gerani sulle logge.
Sebbene tanto infingarda, donna Amalia, tuttavia, non era ingrassata
smisuratamente, come molte altre signore della sua età. Le sue membra, non
troppo grasse, erano però di un disegno così nobile, e la sua ossatura così vigorosa
sotto le carni delicate, che ella appariva quale una gigantessa sacra, una statua
dipinta della Processione. Il colore della sua pelle era di un bruno olivastro, e la
testa, piuttosto piccola, di profilo appariva un po’ grifagna, per via del naso,
fortemente aquilino; ma vista di fronte, ti raddolciva il cuore: in grazia del sorriso,
in cui la bocca, piccola e carnosa, mostrava dei denti che somigliavano al
gelsomino d’Arabia. E in grazia degli occhi, i quali (sotto i sopraccigli nerissimi e forse
troppo folti), erano di un ovale sottile, di un color nero vellutato, lucente; e riflettevano dei
pensieri di un’allegria tanto consolante, che, a guardare quegli occhi, ti pareva di sentir
dialogare due uccelli.
La ragione per cui donna Amalia non ingrassava troppo era che, nell’intimo di lei,
continuava ad ardere, senza mai consumarsi, quel fervore che una donna comune può
conoscere quando è bambina; ma che poi si frena in gioventù, e tramonta nell’età adulta. I
sentimenti, i pensieri di donna Amalia erano sempre in moto, sempre accesi; e perfino nel
sonno non si quietavano giacché il suo riposo era un tale spettacolo di sogni che, a raccontarli,
sembrerebbero le Mille e una Notte.
Il segreto del carattere di donna Amalia stava tutto in ciò: che ella, a differenza
della gente comune, non acquistava mai, verso gli aspetti (anche i più consueti)
della vita, quell’abitudine da cui nascono l’indifferenza e la noia. Mostrate a un
bambino un candelabro acceso: spalancherà gli occhi, agiterà le mani e farà festa
come se vedesse una meraviglia della natura. Col tempo, egli s’abituerà alle grazie
della vita, e ci vorrà qualcosa di raro per dargli meraviglia e piacere. Non così per
donna Amalia; essa rimaneva sempre una novellina, e il mondo, per lei, era un
teatro d’Opera sempre aperto, con tutte le luci accese. Per esempio: che cosa c’è di
più comune, di più visto, del sole e della luna ? Ebbene: a ogni sole, a ogni luna,
donna Amalia si entusiasmava, si incuriosiva, e si tormentava d’invidia come se
vedesse passare il corteo della Regina di Saba. La mattina, quando le aprivano le
finestre, lei dal suo letto (dormiva su tre guanciali di piume così che, pure in letto,
sotto i suoi bei riccioli ala-di-corvo e nella camicia da notte di pizzo, pareva assisa
in trono), si dava a esclamare, languida, incantata: – Ah, che sole ! Santa
Rosaliuzza mia, che sole ! Apri, apri tutte le persiane, Antoniuccia, scosta le tende.
Ah, beata Vergine del Carmelo, guardate ! s’è mai visto un sole simile, mi fa
chiudere gli occhi, mi viene quasi male. Questo non è un sole, è un tesoro, questa
è una miniera ! sembra che a parare le mani, si devano riempire d’oro zecchino.
Che si dice, eh ? c’è una gran distanza di qui al sole ! pare che non la misurino
nemmeno col chilometro, ma con gli anni. E si dice che lo stesso Matusalem, se
avesse impiegato l’intera sua vita a filare su al cielo senza riposarsi mai, niente;
pure con quella testa dura che aveva, non sarebbe arrivato !
E sul primo tempo della luna calante, poteva accadere che donna Amalia svegliasse a grandi
scampanellate, nel cuore della notte, le sue cameriere predilette, addette particolarmente alla
sua persona (erano tre, e si chiamavano Medina, Cristina e Antoniuccia). E com’esse
accorrevano. scalpicciando a piedi nudi, coperte alla meglio e spettinate, trovavano la loro
padrona gioiosa, estatica, che diceva: – Ah, figliuzze mie, venite tutte qua; venite tutte qua
intorno a me. Io non posso dormire più ! Non vedete che luna è uscita in cielo ? Ci
coricammo che non c’era, fuori faceva un buio tale che pareva una caverna; e d’un tratto mi
sveglio, e che vedo ? è uscita una luna ! una luna come non s’è mai vista ! Questa non è una
luna, è un sole ! Guardate l’aria ! Questa non è un’aria, è una specchiera ! sembra che ad
affacciarsi su questa serata uno ci si deva specchiare il viso. Ah, Maria Santissima, madruzza mia
dolce, che bellezza di luna ! che se ne va per il cielo, come una barchetta per il mare ! guardate
quanto è bianca ! che corpicino candido, che bellezza ! Guardala bene, tu, Medina; tu devi
vederla bene, perché hai gli occhi verdi, come i gatti. A guardarci dentro, ci si vedono come
dei disegni, delle macchie. Si dice che sia la figura della corona di spine e dei chiodi di Nostro
Signore. Ma certuni ci vedono due fidanzati che si baciano, e altri una faccia che ride. Tu che
ci vedi ?
Con gli occhi mezzo chiusi dal sonno, Medina guardava la luna e rispondeva:
– Sì, Eccellenza…
– Come sarebbe a dire: sì, Eccellenza ! ti domando che cosa ci vedi tu !
– Quelli, Eccellenza, son proprio gli strumenti del martirio di Nostro Signore.
– E tu, Cristina, che ci vedi ? eh, che ci vedi, tu ?
Cristina osservava attentamente la luna, senza sapere che cosa rispondere. Ma, non
interrogata, interveniva nel discorso la più giovane, Antoniuccia:
– Vi devo dire una cosa, Eccellenza (sarà peccato ?) Io la guardo sempre, la luna, l’avrò
guardata più di mille volte, e anche da più vicino, da sopra la montagna. Beh, quelle figure là,
che dite voi, non mi significano niente, a me. Io ci vedo tutto uno scarabocchio.
– Salomone parlò ! Savi, stronomici, religiosi a migliaia hanno studiato quei disegni nel corpo
della luna; ci hanno consumato gli occhi, gli strumenti, ci hanno stampato delle tonnellate di
libri ! E uno li spiega in un modo, uno in un altro: è un mistero ! ma sul più bello arriva la
signorina… come ti chiami tu, di cognome ?
– Antoniuccia.
– Dieci con lode ! Fin qui l’avevo già imparato da sola. Non il nome di battesimo, t’ho
domandato, ma il cognome. Non posso avere in mente tutti i vostri cognomi.
– Ah, scusate. Di cognome faccio Altomonte, Eccellenza. Altomonte Antoniuccia.
– … arriva la signorina Altomonte, e li mette tutti in castigo con una sola
parola. Quelle figure là sono scarabocchi, non significano nulla ! Lo vuoi sapere che cosa
sei, tu, Antoniuccia ? una scarruffona !
A queste ultime parole Antoniuccia si faceva rossa: – Scusate, Eccellenza, – balbettava, –
quando ho sentito il vostro campanello, sono corsa qua così di corsa, che non ho avuto
neanche il tempo di pettinarmi, – e, sorridendo confusa, cercava di ravviarsi i capelli con le
dita.
Ma donna Amalia già non s’occupava più di lei; i suoi occhi rimiravano di nuovo la luna, e
s’erano fatti pensierosi:
– Curioso ! – ella diceva con un sospiro, – a guardarla di qua, mica sembrerebbe tanto
lontana. Dicono che quello… che nome aveva, quello che stava giù all’Albergheria ? il
Balsamo, il Conte Cagliostro ! lui, a quanto dicono, ci andò. Medina ! tu conoscesti una
parente, è vero, del Conte Cagliostro ? Le hai parlato ?
– Sì, Eccellenza, la conobbi. Si chiama Vittorina. Sua nonna era la figlia di una
che fu comare del Santo Battesimo al Conte Cagliostro. Sì, Eccellenza, le parlai.
– E ti facesti raccontare qualcosa di questo viaggio nella luna? In che modo ci arrivò, quel
cristiano, e che cosa vide, là dentro?
– Veramente, Eccellenza, su questo viaggio che voi dite non le domandai nulla.
– Somara ! Questa era la prima cosa che dovevi domandare !
– A dire la verità, Eccellenza, io non feci nessuna domanda. Mi pareva un poco brutto,
domandare, perché certa gente dice che quel signore antico era il diavolo. Non mi pareva
buona creanza, domandare. Fu Vittorina che, senza domande, mi parlò di lui. Mi disse che era
un grande mago e aveva imparato il segreto per fare l’oro.
– Io dico che colui provava gusto a perdere tempo ! Vale proprio la pena di
ammattirsi sopra una simile invenzione. Io, per me, questo segreto di fabbricare
l’oro lo lascio volentieri al Signore Iddio, che in sette giorni ha fabbricato il cielo e
la terra, con tutte le costellazioni, e le miniere d’oro, e per far nascere le creature
gli bastava un soffio di fiato, come per accendere delle braci. Se uno vuole l’oro, va
dal gioielliere, e lo trova là bello e fatto, e anche lavorato magnificamente. Invece,
andare a esplorare i misteri della luna ! questa fu davvero una meraviglia ! Stammi a
sentire, Medina: io non vedo l’ora che sia domani. Ho un’impazienza che mangerei i minuti.
Perché ho deciso che tu domani mi condurrai a far visita a quella Vittorina, e ci faremo
raccontare ogni cosa.
– Voi volete andare da lei ! Scusate se mi permetto, ma voi vi ci trovereste male,
Eccellenza. Essa si presenta come una donnetta, ha una presenza modesta, mica si direbbe la
parente di un Conte. Abita in un vicolo stretto, dove la Vostra macchina non potrà nemmeno
entrare, in cima a un monticello pieno di fichi d’India. Scuserete se sono sfacciata, ma non è
per voi, Eccellenza. E la casa, dentro, pare una casa di zingari. C’è una sedia sola, appesa al
soffitto, e la gente si siede per terra. Ma la cosa che fa più impressione (scusate, Eccellenza) è il
cattivo odore !
– Eh, che odore sarà mai ! Sarà pur sempre un odore cristiano. Ascolta bene
adesso il primo comando per te domani, Medina. Appena ti svegli, tu devi andare
là su quel monticello, e portare quella Vittorina qui da me. La faremo parlare !
Ritiratevi tutte, adesso, figliuzze mie; Antoniuccia, raggiustami bene i guanciali.
Noi stavamo tutte qui a conversare, ci pareva d’esser di giorno con questa luna, e
invece il sonno è ripassato di qua. Ah, che sbadigli faccio, mi sembra di diventare
una tigre. Buona notte, andate… buona notte. Ah, mi si chiudono gli occhi, come
fa bene dormire. Un sentimento mi dice che sognerò il Conte Cagliostro.
Questa gran dama aveva viaggiato, aveva girato il mondo, eppure in certi momenti
somigliava alle povere barbare dei deserti che non hanno mai veduto nulla; e se un viaggiatore
mostra loro un pezzo di vetro che brilla al sole, son tutte estasiate e protendono le mani per
vederlo. Naturalmente, donna Amalia amava gli ori, gli argenti, le pietre preziose, e ne
possedeva tanti scrigni e cofanetti pieni da mortificare una regina. Pure, oltre ai gioielli veri,
continuavano a piacerle quelli falsi, che di solito posson dare soddisfazione a una bambina
ignorante o a una contadina o a una misera serva. Ciò che l’attirava non era il valore degli
oggetti, ma piuttosto il loro effetto, il piacere che essi le davano a guardarli e a portarli. E
siccome, a dire tutta la verità, essa era rimasta sempre mezzo analfabeta e aveva conservato lo
stesso gusto incolto di quando era una povera ragazza, le cianfrusaglie d’un venditore
ambulante potevano piacerle quanto le piaceva il tesoro del Gran Visir, ed era capace di
fermarsi a contemplare un carrettino della Fiera come se fosse davanti a una vetrina di Parigi.
Quando c’erano le fiere dell’Epifania, o di qualche altra festa, essa faceva fermare l’automobile
all’ingresso della piazza, nelle ore meno affollate; e piano piano, coi suoi piedini passeggiava su
e giù davanti alle baracche, ai carretti; e ogni momento le si accendevano gli occhi, e voleva
questo e quello. Così che non bastavano due servitori per caricarsi di tutti i suoi acquisti. E
arrivando a casa, era tutta impaziente di riguardare i regali che s’era comperata. Appena messo
piede in anticamera, li sciorinava sulla consolle di marmo, e rideva di piacere, eccitata, ansiosa,
e si provava davanti allo specchio gli orecchini di vetro colorato, i bracciali di perline e le
collane di nocciòle o di legno dipinto. Se poi si recava a qualche ricevimento, era capace di
lasciare a casa i brillanti e di ornarsi con una collana di nocciòle o di castagne secche che, quella
sera, le pareva più bella. Essa faceva così per la sua ignoranza e magnificenza e spensieratezza di
cuore; ma tale era il suo prestigio fra le dame della città, che, se una sera donna Amalia
compariva con una collana di castagne secche, la sera dopo dieci dame, comportandosi proprio
come scimmie, lasciavano a casa brillanti e smeraldi, e sfoggiavano monili di castagne secche
nei teatri e nei saloni. Ora però succedeva che, mentre addosso a donna Amalia le castagne
secche figuravano preziose come diamanti, addosso alle altre dame esse avevano assolutamente
l’aria di castagne secche.
La vita di donna Amalia non era libera da dispiaceri. Infatti, lo abbiamo già
detto, il cuore di donna Amalia s’era conservato bambino; e, come succede ai
bambini, non sempre s’accontentava di ammirare le cose che avevan l’onore di
piacergli, ma spesso avrebbe voluto possederle per sé, a dispetto della ragione. E se
una cosa di cui s’era invaghito non si poteva avere assolutamente (come per
esempio l’Alhambra o i tesori dell’Imperatore cinese), donna Amalia si struggeva e
si tormentava. Non ch’essa fosse tanto insensata da non capire l’assurdità d’un
simile tormento; anzi, il più delle volte lei stessa, in tali occasioni, rideva
follemente dei propri capricci. Ma, pure ridendo, non poteva ricacciare un
sentimento amaro, di rivolta e quasi di disgusto. Le era odioso il pensiero che (a
meno di un qualche sconvolgimento imprevedibile, e indipendente da lei), ella non
avrebbe potuto mai, finché era viva, passeggiare da padrona in quei bei cortili
dell’Alhambra o adornarsi dei braccialetti fantastici dell’antica sovrana cinese.
L’impossibilità la turbava e la inquietava. E non aveva altra risorsa che immaginare
(o magari sognate la notte), di spingere col suo sorriso il suo sposo don Vincente,
in testa a un manipolo di prodi, alla conquista dell’Alhambra; ovvero di insinuarsi
lei in persona nella Sala del Tesoro, a Pechino, e, infrante le custodie, rubare quei
monili che giacevano là sacrificati, dietro un vetro. Quindi, nasconderli in seno, e
risalire affannosa sul suo palanchino che la condurrebbe in salvo, fuggendo, oltre la
Grande Muraglia.
Tali passeggere malinconie di donna Amalia erano state la sola croce di don
Vincente, suo sposo. Giacché il sommo amore di questo Hidalgo e la sua perpetua
delizia, era di suscitare, di rimirare e di intrattenere le felicità infantili di donna
Amalia. Noi certo non possiamo dargli torto. C’è spettacolo più grazioso, più consolante della
felicità infantile ? E quale maggior fortuna che il poter accendere una tale specie di felicità nella
persona più amata, nella propria moglie? Con l’animosa cortesia dei Cavalieri spagnoli, quel
nobile Catalano coltivava la sua donna Amalia come una pianta di rose; la accarezzava come
un’oziosa, appassionata gatta di Persia; le offriva i più degni spettacoli della tetra al modo di un
re che ospita un altro re; e le recava i propri omaggi e regali come a una santa. Ora ad ogni
nuova offerta la cara donna Amalia arrossiva, rideva e palpitava come alla prima, e cioè come il
giorno che aveva ricevuto da lui l’anello di fidanzamento (e fu questo il primo anello d’oro da
lei posseduto, giacché, fino a quel giorno, essa era stata così povera che a mala pena poteva
comperarsi un anellino di ottone al festino di Santa Rosalia).
Inutile aggiungere che Vincente sorvegliava lo spuntare dei desideri nel cuore di Amalia
come un fanciullo che alleva un uccellino del Paradiso: ad ogni pispiglio del suo dilettissimo
egli si domanda, con la mente sospesa: « Che intenderà chiedermi ? che gli manca ? » Ma si
davano dei casi in cui, malgrado tutta la sua volontà di vedere Amalia contenta, Vincente non
poteva dirle: « Señora, è vuestro ! »
Questa era la croce di don Vincente; ma da parte sua donna Amalia, per non amareggiarlo,
cercava di nascondergli le proprie pene, allorché era assalita da una voglia senza speranza.
Tolta questa piccola ombra, nessun marito potrà mai dirsi fortunato come Vincente. Difatti,
è risaputo che la consuetudine alle grazie del mondo (la quale rende presto noiosa la vita),
ancor più dei poveri perseguita i ricchi, per i quali sono consuete moltissime grazie che per gli
altri rimangono rare. Un marito ricchissimo, poi, è un uomo disgraziato: perché, ad ogni
giorno che passa, diminuisce, per lui, quella che è una delle più dolci soddisfazioni di un
marito: e cioè di rallegrare e festeggiare con bei doni la propria sposa. Una donna comune,
anche se nata povera, s’abitua presto alla ricchezza. E viene presto il giorno che un rubino è
per lei consueto, insignificante, come un’arancia per la figlia d’un fattore.
Ma, per fortuna nostra, donna Amalia non era una donna comune. Ed è impossibile trovare
delle parole degne per dire quale divertimento, quale emozione, quale perpetua celebrazione
fu, per il suo sposo, la vita a fianco di lei. Egli era sceso per caso a Palermo circa trentaquattro
anni prima; vi aveva conosciuto donna Amalia (la quale era allora una povera ragazza di
quindici anni) e pazzo di felicità l’aveva sposata nella Chiesa della Martorana, con una festa
nuziale che rimase poi fra le leggende di Palermo.
Veramente, erano stati in due a volere in isposa Amalia: don Vincente, e un suo amico, don
Miguel, ch’era venuto insieme con lui a Palermo e aveva conosciuto Amalia insieme con lui.
Tutti e due, non appena l’avevano conosciuta, avevano deciso: O Amalia o la morte. Quanto ad
Amalia, essa, per causa loro, aveva passato dei giorni disperati, durante i quali non faceva che
piangere: giacché non sapeva quale di loro due scegliere, voleva bene a tutti e due, e non
voleva fare un torto né all’uno né all’altro. Erano entrambi giovani, entrambi simpatici,
entrambi catalani. Don Miguel era marchese, e don Vincente soltanto Cavaliere; ma in
compenso don Vincente era più alto di don Miguel, e aveva una voce più melodiosa; mentre
don Miguel, da parte sua, aveva la vita più sottile e il sorriso più dolce. La pena di Amalia era
arrivata a un tal punto, che, per finirla, ella s’era quasi decisa a rinchiudersi per sempre in un
convento di sepolte vive. Ma i suoi due innamorati, per evitare un simile epilogo, risolvettero
la questione con un duello. Don Miguel ne uscì con una leggera ferita alla spalla; e dopo aver
abbracciato e baciato don Vincente, se ne partì solo. Pare che, negli anni seguenti, egli abbia
viaggiato qua e là per il mondo, senza poter dimenticare Amalia, cercando invano un’altra che
le rassomigliasse. Finché si ritirò in uno dei suoi castelli in Catalogna, e morì di malinconia.
Difatti, dopo aver conosciuto Amalia, tutte le sue ricchezze gli parevano sabbia del deserto, se
non poteva goderle insieme a lei.
NATALIA GINZBURG
Lu i e i o
Lui ha sempre caldo; io sempre freddo. D’estate, quando è veramente caldo, non fa che
lamentarsi del gran caldo che ha. Si sdegna se vede che m’infilo, la sera, un golf.
Lui sa parlare bene alcune lingue; io non ne parlo bene nessuna. Lui riesce a parlare, in
qualche suo modo, anche le lingue che non sa.
Lui ha un grande senso dell’orientamento; io nessuno. Nelle città straniere, dopo un giorno,
lui si muove leggero come una farfalla. Io mi sperdo nella mia propria città; devo chiedere
indicazioni per ritornare alla mia propria casa. Lui odia chiedere indicazioni; quando andiamo
per città sconosciute, in automobile, non vuole che chiediamo indicazioni e mi ordina di
guardare la pianta topografica. Io non so guardare le piante topografiche, m’imbroglio su quei
cerchiolini rossi, e si arrabbia.
Lui ama il teatro, la pittura, e la musica: soprattutto la musica. Io non capisco niente di
musica, m’importa molto poco della pittura, e m’annoio a teatro. Amo e capisco una cosa sola
al mondo, ed è la poesia.
Lui ama i musei, e io ci vado con sforzo, con uno spiacevole senso di dovere e fatica. Lui
ama le biblioteche, e io le odio.
Lui ama i viaggi, le città straniere e sconosciute, i ristoranti. Io resterei sempre a casa, non
mi muoverei mai.
Lo seguo, tuttavia, in molti viaggi. Lo seguo nei musei, nelle chiese, all’opera. Lo seguo
anche ai concerti, e mi addormento.
Siccome conosce dei direttori d’orchestra, dei cantanti, gli piace andare, dopo lo spettacolo,
a congratularsi con loro. Lo seguo per i lunghi corridoi che portano ai camerini dei cantanti, lo
ascolto parlare con persone vestite da cardinali e da re.
Non è timido; e io sono timida. Qualche volta, però, l’ho visto timido.
Coi poliziotti, quando s’avvicinano alla nostra macchina armati di taccuino e matita. Con
quelli diventa timido, sentendosi in torto.
E anche non sentendosi in torto. Credo che nutra rispetto per l’autorità costituita.
Io, l’autorità costituita, la temo, e lui no. Lui ne ha rispetto. È diverso.
Io, se vedo un poliziotto avvicinarsi per darci la multa, penso subito che vorrà portarmi in
prigione. Lui, alla prigione, non pensa; ma diventa, per rispetto, timido e gentile.
Per questo, per il suo rispetto verso l’autorità costituita, ci siamo, al tempo del processo
Montesi, litigati fino al delirio.
A lui piacciono le tagliatelle, l’abbacchio, le ciliege, il vino rosso. A me piace il minestrone,
il pancotto, la frittata, gli erbaggi.
Suole dirmi che non capisco niente, nelle cose da mangiare; e che sono come certi robusti
fratacchioni, che divorano zuppe di erbe nell’ombra dei loro conventi; e lui, lui è un raffinato,
dal palato sensibile. Al ristorante, s’informa a lungo sui vini; se ne fa portare due o tre bottiglie,
le osserva e riflette, carezzandosi la barba pian piano.
In Inghilterra, vi sono certi ristoranti dove il cameriere usa questo piccolo cerimoniale:
versare al cliente qualche dito di vino nel bicchiere, perché senta se è di suo gusto. Lui odiava
questo piccolo cerimoniale; e ogni volta impediva al cameriere di compierlo, togliendogli di
mano la bottiglia. Io lo rimproveravo, facendogli osservare che a ognuno dev’essere consentito
di assolvere alle proprie incombenze.
Così, al cinematografo, non vuol mai che la maschera lo accompagni al posto. Gli dà subito
la mancia, ma fugge in posti sempre diversi da quelli che la maschera, col lume, gli viene
indicando.
Al cinematografo, vuole stare vicinissimo allo schermo. Se andiamo con amici, e questi
cercano, come la maggior parte della gente, un posto lontano dallo schermo, lui si rifugia, solo,
in una delle prime file. Io ci vedo bene, indifferentemente, da vicino e da lontano; ma essendo
con amici, resto insieme a loro, per gentilezza; e tuttavia soffro, perché può essere che lui, nel
suo posto a due palmi dallo schermo, siccome non mi son seduta al suo fianco, sia offeso con
me.
Tutt’e due amiamo il cinematografo; e siamo disposti a vedere, in qualsiasi momento della
giornata, qualsiasi specie di film. Ma lui conosce la storia del cinematografo in ogni minimo
particolare; ricorda registi e attori, anche i più antichi, da gran tempo dimenticati e scomparsi;
ed è pronto a fare chilometri per andare a cercare, nelle più lontane periferie, vecchissimi film
del tempo del muto, dove comparirà magari per pochi secondi un attore caro alle sue più
remote memorie d’infanzia. Ricordo, a Londra, il pomeriggio d’una domenica; davano in un
lontano sobborgo sui limiti della campagna un film sulla Rivoluzione francese, un film del ’30,
che lui aveva visto da bambino, e dove appariva per qualche attimo un’attrice famosa a quel
tempo.Siamo andati in macchina alla ricerca di quella lontanissima strada; pioveva, c’era
nebbia, abbiamo vagato ore e ore per sobborghi tutti uguali, tra schiere grigie di piccole case,
grondaie, lampioni e cancelli; avevo sulle ginocchia la pianta topografica, non riuscivo a
leggerla e lui s’arrabbiava; infine, abbiamo trovato il cinematografo, ci siamo seduti in una sala
del tutto deserta. Ma dopo un quarto d’ora, lui già voleva andar via, subito dopo la breve
comparsa dell’attrice che gli stava a cuore; io invece volevo, dopo tanta strada, vedere come
finiva il film. Non ricordo se sia prevalsa la sua o la mia volontà; forse, la sua, e ce ne siamo
andati dopo un quarto d’ora; anche perché era tardi, e benché fossimo usciti nel primo
pomeriggio, ormai era venuta l’ora di cena. Ma pregandolo io di raccontarmi come si
concludeva la storia, non ottenevo nessuna risposta che m’appagasse; perché, lui diceva, la
storia non aveva nessuna importanza, e la sola cosa che contava erano quei pochi istanti, il
profilo, il gesto, i riccioli di quell’attrice.
Io non mi ricordo mai i nomi degli attori; e siccome sono poco fisionomista, riconosco a
volte con difficoltà anche i più famosi. Questo lo irrita moltissimo; gli chiedo chi sia quello o
quell’altro, suscitando il suo sdegno; « non mi dirai – dice – non mi dirai che non hai
riconosciuto William Holden ! » Effettivamente, non ho riconosciuto William Holden. E
tuttavia, amo anch’io il cinematografo; ma pur andandoci da tanti anni, non ho saputo farmene
una cultura. Lui se ne è fatto, invece, una cultura: si è fatto una cultura di tutto quello che ha
attratto la sua curiosità; e io non ho saputo farmi una cultura di nulla, nemmeno delle cose che
ho più amato nella mia vita: esse sono rimaste in me come immagini sparse, alimentando sì la
mia vita di memorie e di commozione ma senza colmare il vuoto, il deserto della mia cultura.
Mi dice che manco di curiosità: ma non è vero. Provo curiosità di poche, pochissime cose;
e quando le ho conosciute, ne conservo qualche sparsa immagine, la cadenza d’una frase o
d’una parola. Ma il mio universo, dove affiorano tali cadenze ed immagini, isolate l’una
dall’altra e non legate da alcuna trama se non segreta, a me stessa ignota e invisibile, è arido e
malinconico.
Il suo universo invece è riccamente verde, riccamente popolato e coltivato, una fertile e
irrigua campagna dove sorgono boschi, pascoli, orti e villaggi.
Per me, ogni attività è sommamente difficile, faticosa, incerta. Sono molto pigra, e ho
un’assoluta necessità di oziare, se voglio concludere qualcosa, lunghe ore sdraiata sui divani.
Lui non sta mai in ozio, fa sempre qualcosa; scrive a macchina velocissimo, con la radio accesa;
quando va a riposare il pomeriggio, ha con sé delle bozze da correggere o un libro pieno di
note; vuole, nella stessa giornata, che andiamo al cinematografo, poi a un ricevimento, poi a
teatro. Riesce a fare, e anche a farmi fare, nella stessa giornata, un mondo di cose diverse; a
incontrarsi con le persone più disparate; e se io son sola, e tento di fare come lui, non approdo
a nulla, perché là dove intendevo trattenermi mezz’ora resto bloccata tutto il pomeriggio, o
perché mi sperdo e non trovo le strade, o perché la persona più noiosa e che meno desideravo
vedere mi trascina con sé nel luogo dove meno desideravo di andare.
Se gli racconto come si è svolto un mio pomeriggio, lo trova un pomeriggio tutto sbagliato,
e si diverte, mi canzona e s’arrabbia; e dice che io, senza di lui, non son buona a niente.
Io non so amministrare il tempo. Lui sa.
Gli piacciono i ricevimenti. Ci va vestito di chiaro, quando tutti sono vestiti di scuro; l’idea
di cambiarsi vestito, per andare a un ricevimento, non gli passa per la testa. Ci va magari col
suo vecchio impermeabile e col suo cappello sbertucciato: un cappello di lana che ha comprato
a Londra, e che porta calzato sugli occhi. Sta là solo mezz’ora, gli piace, per una mezz’ora,
chiacchierare con un bicchiere in mano; mangia molti pasticcini, io quasi nessuno, perché
vedendo lui mangiare tanto penso che io almeno, per educazione e riserbo, devo astenermi dal
mangiare; dopo mezz’ora, quando comincio un poco ad ambientarmi e a star bene, si fa
impaziente e mi trascina via.
Io non so ballare e lui sa.
Non so scrivere a macchina; e lui sa.
Non so guidare l’automobile. Se gli propongo di prendere anch’io la patente, non vuole.
Dice che tanto non ci riuscirei mai. Credo che gli piaccia che io dipenda, per tanti aspetti, da
lui.
Io non so cantare, e lui sa. È un baritono. Se avesse studiato il canto, sarebbe forse un
cantante famoso.
Se avesse studiato musica, sarebbe forse diventato un direttore d’orchestra.
Quando ascolta i dischi, dirige l’orchestra con una matita. Intanto scrive a macchina, e
risponde al telefono. È un uomo che riesce a fare, nello stesso momento, molte cose.
Fa il professore e credo che lo faccia bene.
Avrebbe potuto fare molti mestieri. Ma non rimpiange nessuno dei mestieri che non ha
fatto. Io non avrei potuto fare che un mestiere, un mestiere solo: il mestiere che ho scelto, e
che faccio, quasi dall’infanzia. Neanch’io non rimpiango nessuno dei mestieri che non ho fatto:
ma io tanto, non avrei saputo farne nessuno.
Io scrivo dei racconti, e ho lavorato molti anni in una casa editrice.
Non lavoravo male, ma neanche bene. Tuttavia mi rendevo conto che forse non avrei
saputo lavorare in nessun altro luogo. Avevo, con i miei compagni di lavoro e col mio
padrone, rapporti d’amicizia. Sentivo che, se non avessi avuto intorno a me questi rapporti
d’amicizia, mi sarei spenta e non avrei saputo lavorare più.
Ho coltivato a lungo in me l’idea di poter lavorare, un giorno, a sceneggiature per il
cinema. Tuttavia non ne ho mai avuta l’occasione, o non ho saputo cercarla. Ora ho perso la
speranza di lavorare mai a sceneggiature.
Lui ha lavorato a sceneggiature, un tempo, quand’era più giovane. Ha lavorato lui pure in
una casa editrice. Ha scritto racconti. Ha fatto tutte le cose che ho fatto io, più molte altre.
Rifà bene il verso alla gente, e soprattutto a una vecchia contessa. Forse riusciva a fare
anche l’attore.
Una volta, a Londra, ha cantato in un teatro. Era Giobbe. Aveva dovuto noleggiare un frac;
ed era là, in frac, davanti a una specie di leggìo; e cantava.
Cantava le parole di Giobbe; qualcosa tra la dizione e il canto. Io, in un palco, morivo di
paura. Avevo paura che s’impappinasse, o che gli cadessero i calzoni del frac.
Era circondato di uomini in frac, e di signore vestite da sera, che erano gli angeli e i diavoli
e gli altri personaggi di Giobbe.
È stato un grande successo, e gli hanno detto che era molto bravo.
Se io avessi amato la musica, l’avrei amata con passione. Invece non la capisco; e ai
concerti, dove a volte lui mi costringe a seguirlo, mi distraggo e penso ai casi miei. Oppure
cado in un profondo sonno.
Mi piace cantare. Non so cantare, e sono stonatissima; canto tuttavia, qualche volta,
pianissimo, quando son sola. Che sono così stonata, lo so perché me l’hanno detto gli altri;
dev’essere, la mia voce, come il miagolare d’un gatto. Ma io, da me, non m’accorgo di nulla; e
provo, nel cantare, un vivo piacere. Lui, se mi sente, mi rifà il verso; dice che il mio cantare è
qualcosa di fuori della musica; qualcosa di inventato da me.
Mugolavo, da bambina, dei motivi di musica, inventati da me. Era una lunga melopea
lamentosa, che mi faceva venir le lagrime agli occhi.
Di non capire la pittura, le arti figurative, non me ne importa; ma soffro di non amare la
musica, perché mi sembra che il mio spirito soffra per la privazione di questo amore. Pure non
c’è niente da fare; non capirò mai la musica, non l’amerò mai. Se a volte sento una musica che
mi piace, non so ricordarla; e allora come potrei amare una cosa, che non so ricordare?
Ricordo, di una canzone, le parole. Posso ripetere all’infinito le parole che amo. Ripeto anche
il motivo che le accompagna, al mio modo, nel mio miagolare; e provo, così miagolando, una
sorta di felicità.
Mi sembra di seguire, nello scrivere, una cadenza e un metro musicale. Forse la musica era
vicinissima al mio universo, e il mio universo, chissà perché, non l’ha accolta.
Tutto il giorno si sente musica, in casa nostra. Lui tiene tutto il giorno la radio accesa. O fa
andare dei dischi. Io protesto, ogni tanto, chiedo un po’ di silenzio per poter lavorare; ma lui
mi dice che una musica tanto bella è certo salubre per ogni lavoro.
Si è comprato un numero di dischi incredibile. Possiede, dice, una delle più belle
discoteche del mondo.
Al mattino, in accappatoio, stillante dell’acqua del bagno, accende la radio, si siede alla
macchina da scrivere e comincia la sua laboriosa, tempestosa e rumorosa giornata. È in tutto
sovrabbondante: riempie la vasca del bagno fino a farla straripare; riempie la teiera, la tazza del
tè, fino a farle strabordare. Ha un numero stragrande di camicie e cravatte. Raramente, invece,
compera scarpe.
Era, dice sua madre, da bambino, un modello di ordine e di precisione; e pare che una
volta che doveva attraversare certi rigagnoli pieni di fango, in campagna, in un giorno di
pioggia, con stivaletti bianchi e veste bianca, era alla fine della passeggiata immacolato e senza
una chiazza di fango sull’abito e gli stivaletti. Ora non c’è in lui traccia di quell’antico,
immacolato bambino. I suoi vestiti sono sempre pieni di macchie. È diventato
disordinatissimo.
Conserva però, con puntiglio, tutte le ricevute del gas. Trovo nei cassetti remote ricevute
del gas, di alloggi lasciati da tempo, e che lui si rifiuta di buttar via.
Trovo, anche, dei sigari toscani, vecchissimi e incartapecoriti, e bocchini di legno di
ciliegio.
Io fumo sigarette Stop, lunghe, senza filtro. Lui, a volte, quei sigari toscani.
Io sono disordinatissima. Sono però diventata, invecchiando, nostalgica dell’ordine e
riordino, a volte, con grande zelo gli armadi. Mi ricordo, credo, di mia madre. Riordino gli
armadi della biancheria, delle coperte, e ricopro ogni cassetto, nell’estate, di teli candidi.
Raramente riordino le mie carte, perché mia madre, non usando scrivere, non aveva carte. Il
mio ordine, e il mio disordine, son pieni di rammarico, di rimorsi, di sentimenti complessi.
Lui, il suo disordine è trionfante. Ha deciso che per una persona come lui, che studia, avere il
tavolino in disordine è legittimo e giusto.
Lui non migliora, in me, l’irresolutezza, l’incertezza in ogni azione, il senso di colpa. Usa
ridere e canzonarmi per ogni mia minima azione. Se vado a fare la spesa al mercato, lui a volte,
non visto, mi segue e mi spia. Mi canzona poi per il modo come ho fatto la spesa, per il modo
come ho soppesato gli aranci nella mano, scegliendo accuratamente, lui dice, i peggiori di tutto
il mercato, mi schernisce perché ho impiegato un’ora a fare la spesa, ho comprato a un banco
le cipolle, a un banco i sedani, a un altro la frutta. A volte, fa lui la spesa, per dimostrarmi come
si può fare velocemente: compra tutto a un unico banco, senza nessuna incertezza; e riesce a
farsi mandare il cesto a casa. Non compra sedani, perché non li può soffrire.
Così, io più che mai ho il dubbio di sbagliare in ogni cosa che faccio. Ma se una volta
scopro che è lui a sbagliare, glielo ripeto fino all’esasperazione. Perché io sono a volte
noiosissima.
Le sue furie sono improvvise, e traboccano come spuma di birra. Le mie furie sono anche
improvvise. Ma le sue svaporano subito; e le mie, invece, lasciano uno strascico lamentoso e
insistente, noiosissimo credo, una specie di amaro miagolio.
Piango, a volte, nel turbine delle sue furie; e il mio pianto, invece di placarlo, lo fa
arrabbiare ancora di più. Dice che il mio pianto è tutta una commedia; e forse è vero. Perché
io sono, in mezzo alle mie lagrime e alla sua furia, pienamente tranquilla.
Sui miei dolori reali, non piango mai.
Usavo scagliare, un tempo, nelle mie furie, piatti e stoviglie per terra. Ma adesso non più.
Forse perché sono invecchiata, e le mie furie non sono più cosi violente; e poi non oserei ora
toccare i nostri piatti, a cui sono affezionata, e che abbiamo comprato a Londra, un giorno, a
Portobello road.
Il prezzo di questi piatti, e di molte altre cose che abbiamo comprato, ha subìto, nella sua
memoria, un forte ribasso. Perché gli piace pensare d’aver speso poco, e d’avere fatto un buon
affare. Io so il prezzo di quel servizio di piatti, ed erano sedici sterline; ma lui dice dodici. Così
per il quadro di re Lear, che sta nella nostra stanza da pranzo: un quadro che lui ha comprato
pure a Portobello, e che ha pulito con cipolle e patate; e dice ora d’averlo pagato una cifra, che
io ricordo molto più grande.
Ha comprato, anni fa, allo Standard, dodici scendiletti. Li ha comprati perché costavano
poco, e gli sembrava di doverne fare provvista; li ha comprati per polemica, trovando che io
non ero buona di comprare nulla per la casa. Questi scendiletti di stuoia color vinaccia, sono
diventati, in poco tempo, repellenti: son diventati di una rigidità cadaverica; e io li odiavo,
appesi al filo di ferro del balcone di cucina. Usavo rinfacciarglieli, come esempio di una cattiva
spesa; ma lui diceva che erano costati poco, pochissimo, quasi nulla. C’è voluto del tempo,
prima che riuscissi a buttarli via: perché erano così tanti, e perché al momento di buttarli via
mi veniva il dubbio che potessero servire da stracci. Abbiamo, lui e io, una certa difficoltà a
buttar via le cose: in me, dev’essere una forma ebraica di conservazione, e il frutto della mia
grande irresolutezza; in lui, dev’essere una difesa dalla sua mancanza di parsimonia e dalla sua
impulsività.
Lui usa comprare, in grande quantità, bicarbonato e aspirina.
È, qualche volta, malato, di suoi misteriosi malesseri; non sa spiegare che cosa si sente; se
ne sta a letto per un giorno, tutto ravviluppato nelle lenzuola; non si vede che la sua barba, e la
punta del suo naso rosso. Prende allora bicarbonato e aspirina, in dosi da cavallo; e dice che io
non lo posso capire, perché io, io sto sempre bene, sono come quei fratacchioni robusti, che si
espongono senza pericolo al vento e alle intemperie; e lui è invece fine e delicato, sofferente di
malattie misteriose. Poi la sera è guarito, e va in cucina a cucinarsi le tagliatelle.
Era, da ragazzo, bello, magro, esile, non aveva allora la barba, ma lunghi e morbidi baffi; e
rassomigliava all’attore Robert Donat. Era così quasi vent’anni fa, quando l’ho conosciuto; e
portava, ricordo, certi camiciotti scozzesi, di flanella, eleganti. Mi ha accompagnata, ricordo,
una sera, alla pensione dove allora abitavo; abbiamo camminato insieme per via Nazionale. Io
mi sentivo già molto vecchia, carica di esperienza e d’errori; e lui mi sembrava un ragazzo,
lontano da me mille secoli. Cosa ci siamo detti quella sera, per via Nazionale, non lo so
ricordare; niente d’importante, suppongo; era lontana da me mille secoli l’idea che dovessimo
diventare, un giorno, marito e moglie. Poi ci siamo persi di vista; e quando ci siamo di nuovo
incontrati, non rassomigliava più a Robert Donat, ma piuttosto a Balzac. Quando ci siamo di
nuovo incontrati, aveva sempre quei camiciotti scozzesi, ma ora sembravano, addosso a lui,
indumenti per una spedizione polare; aveva ora la barba, e in testa lo sbertucciato cappelluccio
di lana; e tutto in lui faceva pensare a una prossima partenza per il Polo Nord. Perché, pur
avendo sempre tanto caldo, sovente usa vestirsi come se fosse circondato di neve, di ghiaccio e
di orsi bianchi; o anche invece si veste come un piantatore di caffè nel Brasile; ma sempre si
veste diverso da tutta l’altra gente.
Se gli ricordo quell’antica nostra passeggiata per via Nazionale, dice di ricordare, ma io so
che mente e non ricorda nulla; e io a volte mi chiedo se eravamo noi, quelle due persone,
quasi vent’anni fa per via Nazionale; due persone che hanno conversato così gentilmente,
urbanamente, nel sole che tramontava; che hanno parlato forse un po’ di tutto, e di nulla; due
amabili conversatori, due giovani intellettuali a passeggio; così giovani, così educati, così
distratti, così disposti a dare, l’uno dell’altra, un giudizio distrattamente benevolo; così disposti
a congedarsi l’uno dall’altra per sempre, quel tramonto, a quell’angolo di strada.