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sintesi a cura di Gianfranco Panina
Gli animali selvatici quale fonte di zoonosi
Un’indagine condotta nel 2001 ha accertato che sono
1415 gli agenti patogeni noti che possono colpire l’uomo
e che il 62% di essi sono di origine zoonosica. Nel tempo
sembra che questa percentuale vada aumentando, tanto
che oggi la maggior parte delle malattie infettive emergenti dell’uomo possono ritenersi zoonosi. Gli animali
selvatici sembrerebbero coinvolti nell’epidemiologia della
maggior parte di queste infezioni, agendo essi da serbatoio importante per la trasmissione di agenti zoonosici agli
animali domestici e all’uomo. Si tratta di vari batteri, virus
e parassiti, mentre i funghi rivestono importanza trascurabile. Riguardo ai prioni, rilevante è la presenza di essi nei
cervi del Nord America (chronic wasting disease).
Ampio è lo spettro dei modi di trasmissione delle zoonosi
che hanno nei selvatici il loro serbatoio. Alcuni esempi:
- Francisella tularensis, agente causale della tularemia,
può essere trasmessa per contatto diretto con la pelle
di un roditore ammalato o morto, ma anche attraverso la morsicatura di un insetto o l’ingestione di carni o
acque infette, nonché per aerosol.
- Il virus della rabbia viene trasmesso dalla morsicatura
di un animale rabido.
- Gli Hantavirus,di cui i roditori selvatici sono serbatoi,
vengono trasmessi per via indiretta tramite aerosol di
polveri infettate dagli escrementi dei roditori.
- Gli insetti sono vettori di molte zoonosi. Tra esse, la
Rift Valley Fever, l’encefalite equina, l’encefalite giapponese, ma anche le infezioni da Yersinia pestis, Leishmania, Borrelia burgdorferi e Ehrlichia/Anaplasma.
- Salmonella spp. può diffondere dagli animali selvatici
all’uomo attraverso diverse vie. Tra i bambini viene
frequentemente descritta la trasmissione per via diretta o indiretta da rettili o altri animali esotici che sono
portatori di salmonella. Serbatoi sono anche i ricci,
nonché i passeracei.
-
Bacillus anthracis può essere trasmesso all’uomo in vari
modi, grazie alle sue spore che rimangono vitali in natura per oltre 100 anni. L’infezione può realizzarsi per
contatto diretto della pelle, ma anche per ingestione di
cibo o acqua contaminati, nonchè tramite insetti vettori.
I cambiamenti ecologici influenzano notevolmente l’epidemiologia delle zoonosi. Si tratta di cambiamenti che
sono sia naturali che antropogenici. Fra questi, l’espansione delle popolazioni, le occupazioni abusive di territori, il rimboschimento, l’inquinamento ambientale e i
mutamenti climatici.
I movimenti dei patogeni, dei loro vettori e degli animali
ospiti sono altri fattori che influenzano l’epidemiologia
delle zoonosi derivanti dagli animali selvatici. Si tratta di
movimenti realizzati dall’uomo con viaggi e commerci,
ma anche da movimenti naturali, cioè da migrazioni.
Anche le mutazioni microbiche (drift e shift genici, attivazione di geni silenti, ricombinazione genica, ecc.), i fenomeni
di adattamento e la selezione naturale influenzano l’epidemiologia delle zoonosi da serbatoi selvatici. L’adattamento
di un microrganismo da una specie selvatica all’uomo può
avvenire in vari modi e in questo rispetto i commerci illegali giocano un loro importante ruolo. Si pensi alla SARS,
emersa nell’uomo per adattamento di un coronavirus derivato, quasi certamente, da un serbatoio selvatico.
L’epidemiologia delle zoonosi da serbatoi selvatici può
essere influenzata anche dal comportamento dell’uomo
e da fattori demografici. Il trekking, il camping, la caccia
e altre attività all’aperto portano l’uomo a contatto con
serbatoi selvatici, così come il cibarsi di certe prede può
presentare lo stesso rischio di infezione. L’AIDS è malattia
la cui diffusione è certamente legata a fattori demografici
e a comportamenti dell’uomo; l’origine del virus che ne
è causa (HIV) è controversa, ma potrebbe essere passata
all’uomo da primati non-umani.
Kruse H., Korkemo A., Handeland K. (2004)
Wildlife as source of zoonotic infections. Emerging Infectious Diseases 10 (12), 2067-2072
Il clonaggio degli animali
Il tasso di sviluppo a termine degli embrioni clonati è
oggi ancora molto basso, inferiore al 5%. Tuttavia, fino
ad ora si è potuto stabilire che i cloni possono svilupparsi in adulti dall’apparenza fisiologica normale, es-
sere fertili e avere una durata di vita pari a quella degli
animali ottenuti per riproduzione sessuale.
Nei bovini, largamente utilizzati come modello sperimentale, le acquisizioni più recenti indicano che le proprietà
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zooteniche dei cloni sono simili, e per certi aspetti meno
variabili, di quelle di un animale nato da fecondazione.
In questa specie, gli insuccessi di clonaggio sono dovuti a
una precoce (primo trimestre di gestazione) o a una tardiva (ultimo trimestre di gestazione) mortalità embrionale o
fetale. Circa il 30% dei cloni presentano alla nascita una
sindrome letale complessa, conosciuta come LOS (Large
Offspring Syndrome), caratterizzata da un peso corporeo
superiore alla norma, placentomi in numero ridotto ed
edematosi e alterazioni fisiologiche che si traducono in
disfunzioni a carico dei sistemi cardiovascolare, respira-
torio o immunitario o anche in alterazioni delle funzioni
epato-renali. Gli animali affetti da questa sindrome in
generale vengono a morte nei primi due mesi dopo la
nascita.
Le ricerche attuali si concentrano per lo più sugli aspetti
clinici della gestazione dei cloni e sugli studi embriologici,
i quali mostrano che tali disordini spesso derivano da una
alterazione dei meccanismi di crescita dei tessuti e degli
organi fetali. L’analisi molecolare di questi disturbi epigenetici dovrebbe permettere una migliore conoscenza
dell’ontogenesi delle grandi funzioni dell’organismo.
Renard J-P. Chavatte-Palmer P. (2004)
Le clonage de l’animal et son apport en recherche veterinaire. Bull. Acad. Vet. France 157 (4), 5-15
Gli adenovirus dei suini come vettori
di vaccini e di immunomodulatori
L’adenovirus porcino (PadV) è stato isolato per la prima
volta nel 1964 in Inghilterra e da allora la sua presenza
è stata dimostrata ovunque nel mondo, sia con metodi
virologici che sierologici. Almeno 5 sierotipi di PadV sono
presenti nella popolazione di suini domestici; predominante risulta PadV3.
PadV possiede un basso grado di patogenicità verso i
suini domestici; può causare lieve diarrea di breve durata, ma in molti casi l’infezione non dà luogo ad alcun
sintomo. È specie-specifico, cioè è stato isolato solo da
suini e non da altri ospiti. L’infezione si mantiene in un
allevamento per trasmissione oro-fecale tra animali che
convivono a stretto contatto.
Le caratteristiche descritte fanno di PadV un vettore ideale
nei suini, senza il pericolo di una sua diffusione ad altre
specie animali o all’uomo. Per di più, esso si coltiva ad
alto titolo in colture cellulari, per cui una sua produzione
in laboratorio risulta possibile e a bassi costi. Queste stesse caratteristiche si mantengono allorquando PadV venga
ingegnerizzato in modo da contenere geni estranei (PadV
ricombinante).
La conoscenza della sequenza nucleotidica completa del
genoma virale di PadV ha permesso inserzioni razionali
dirette di geni estranei, che rimangono stabilmente inseriti nel genoma e possono essere espressi ad alti livelli
a seguito del trasferimento del virus ricombinante in un
determinato ospite. Particolare importante, PadV ricombinante può essere somministrato per inoculazione o per
via orale, con l’alimento o l’acqua di abbeverata.
PadV ricombinanti in grado di esprimere frazioni genomiche di virus responsabili di patologie nei suini (Pseudorabbia, TGE, Peste suina classica) sono stati costruti in
laboratorio, con il proposito di allestire vaccini di nuova
generazione. Alcuni di essi sono stati testati con successo
nella pratica (Peste Suina Classica), altri sono in corso di
sperimentazione.
A seguito del successo ottenuto con PadV ricombinante
come vettore di antigeni vaccinali nei suini, è stata studiata la potenzialità dello stesso vettore a trasferire ai suini
molecole terapeutiche di diversa natura. Una sperimentazione condotta con un adenovirus suino ricombinato
con il gene di gamma-interferon suino dimostrò che PadV
ricombinante era in grado di stimolare nei suini l’espressione dello stesso interferon.
Analogo successo è stato ottenuto con un ceppo di PadV
ricombinante esprimente G-CSF (Granulocyte Colony
Stimulating Factor), un induttore di leucociti polimorfonucleati che gioca un ruolo vitale nel provvedere la prima
linea di difesa verso gli agenti patogeni.
Considerata l’ubiquitarietà di PadV nella popolazione suina, questo virus non sembrerebbe adatto come
vettore, stante la potenziale pre-esistenza di anticorpi
neutralizzanti nei suini che potrebbe interferire con il
virus ricombinante introdotto nell’ospite. Al contrario,
esperimenti condotti con il sierotipo 3 di PadV hanno dimostrato che esso è efficace come vettore anche quando
venga somministrato ad animali con alti livelli di anticorpi
specifici verso il sierotipo vettore.
Hammond J.M., Johnson M.A. (2005)
Porcine adenovirus as a delivery system for swine vaccines and immunotherapeutics. Vet. J. 169, 17-27
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Terapia genica e sviluppo di vaccini
Alcuni vettori virali che hanno trovato recente applicazione in terapia genica potrebbero essere utilizzati come
vaccini virali ricombinanti. Particolare interesse deriva dall’osservazione che vettori virali manipolati per esprimere
persistentemente antigeni in cellule dendritiche risultano
efficaci nello scatenare una risposta immunitaria.
Si ricordi, al proposito, che le cellule dendritiche sono i
naturali iniziatori di una risposta immunitaria. Intervenendo nel sito di un’infezione, esse trasportano gli antigeni ai
tessuti linfoidi per stimolare i linfociti. Le cellule dendritiche possono essere coltivate in vitro e poi caricate con un
antigene. L’inoculazione di tali cellule, per es. in un topo,
stimola una risposta protettiva di cellule T verso l’antigene
veicolato. La preparazione di tali cellule portatrici di anti-
gene risulta, però, difficoltosa e costosa. Suscita pertanto
grande interesse la possibilità di veicolare nelle cellule
dendritiche un antigene tramite un vaccino inoculabile,
la qualcosa può oggi realizzarsi tramite un vettore virale.
Adenovirus, retrovirus e lentivirus ingegnerizzati sono
stati utilizzati come vettori in terapia genica e recenti studi
hanno dimostrato che la loro inoculazione diretta è in
grado di stimolare una potente e prolungata risposta CTL
(Cytotoxic T Lymphocyte) verso l’antigene transgenico.
Pertanto, allo stato attuale delle cose, vettori virali in
grado di esprimere un antigene in cellule dendritiche si
propongono come vaccini particolarmente efficaci per
scatenare una risposta immunitaria.
Collins M.K. and Cerundolo V. (2004)
Gene therapy meets vaccine development. Trends in Biotechnology 22 (12), 623-626
La lotta al doping del cavallo in Francia
Gli sport equestri sono soggetti, in Francia, alla stessa
legislazione antidoping delle competizioni umane, che
ricade sotto l’autorità del Ministero della Gioventù e degli
Sport. Le corse, invece, sono governate da un regolamento a sé stante (Code des courses) che è controllato
dal Ministero dell’Agricoltura. È interessante notare che
il dispositivo messo in atto per le competizioni dei cavalli, comparato alla regolamentazione antidoping delle
competizioni sportive dell’uomo, risulta particolarmente
severo, sia che si tratti di corse che di sport equestri. Ciò
è dovuto in parte ai mezzi finanziari messi a disposizione
dall’industria delle scommesse, ma soprattutto ai valori
etici a cui aderiscono le imprese coinvolte in questi sport.
Regolamento antidoping per le corse
- Prodotti soggetti a interdizione permanente
A tutti i cavalli destinati a una carriera di corse non possono venir somministrati:
- steroidi anabolizzanti
- fattori di crescita
- sostanze agenti sull’eritropoiesi
- trasportatori d’ossigeno sintetico
Sono inoltre proibite manipolazioni sanguigne quali le
trasfusioni, le autotrasfusioni, i salassi, ecc.
- Prodotti autorizzati in periodo di allenamento, ma
proibiti al momento della corsa
Tutte le sostanze differenti da quelle prima citate sono
autorizzate durante l’allenamento, purchè il loro uso risulti giustificato dallo stato di salute del cavallo e siano
regolarmente prescritte da un veterinario.
Esse sono comunque proibite dal momento che un cavallo sia in partenza per una corsa, cioè allorquando la sua
partecipazione venga confermata. Di regola è richiesto
un periodo di sospensione di 2 giorni prima della corsa.
In questo capitolo ricadono le sostanze che agiscono sui
sitemi nervoso, cardiovascolare, respiratorio, digestivo,
urinario, riproduttore, muscolo-scheletrico, emolinfatico
e circolazione sanguigna, immunitario (vaccini a parte),
endocrino, nonché sostanze antipiretiche, analgesiche,
antinfiammatorie, citotossiche o mascheranti.
Particolari soglie sono previste per sostanze endogene al
cavallo (idrocortisone, testosterone, ecc.) o provenienti
dai normali alimenti dei cavalli (arsenico, acido salicilico,
teobromina, ecc.).
Regolamento antidoping per gli sport equestri
Contrariamente al dispositivo adottato per le corse, la
legge non prevede una lista di sostanze totalmente proibite, in qualunque circostanza. Inoltre, non sono previ-
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ste regole particolari relative alle medicazioni applicate
durante l’allenamento. Invece di redigere un elenco di
sostanze assolutamente proibite, l’orientamento è quello
di considerare classi farmacologiche di sostanze agenti
su determinati tessuti o apparati. Per esempio: sostanze
agenti sui tegumenti, sostanze agenti sul sistema immunitario, sostanze agenti sull’ematopoiesi, ecc. In ogni caso,
i controlli di tali medicazioni vengono eseguiti con una
certa flessibilità, tenendo peraltro conto della durata dei
concorsi internazionali.
Controlli
Sia per le corse che per gli sport equestri, i controlli sono
effettuati da veterinari appositamente designati, per le
corse dalla Federazione Nazionale delle Corse francesi
(FNCF), per gli sport dal Ministero della Gioventù e degli
Sport. Tutti i prelievi devono rispettare l’anonimato e vengono fatti in doppio campione. Il primo viene analizzato
in Francia dai laboratori della FNCF, il secondo viene
conservato per un’eventuale seconda analisi, in caso di
positività della prima.
Per quanto riguarda il mondo delle corse, i sistemi di
controllo messi in atto risultano molto dissuasivi. Da un
numero elevato di controlli si deduce che il tasso di positività varia, secondo gli anni, dallo 0,30 allo 0,45%.
Nel campo degli sport equestri, invece, i controlli sono da
ritenersi insufficientemente dissuasivi. I tassi di positività
risultano del 3,0-4,5%, secondo gli anni e con un numero
di controlli molto basso.
Gadot P.M. (2005)
Reglementation de la lutte contre le dopage du cheval. Bull. Acad. Vet. France 158 (1) 39-45
Reprimenda a un veterinario per un caso di eutanasia
A un veterinario di Cardiff, Regno Unito, fu presentato un
cane Yorkshire che i proprietari avevano deciso di sopprimere, stante le cattive condizioni fisiche.
Il sanitario, da solo, senza alcun aiuto, si accinse a praticare l’eutanasia. Dopo aver afferrato l’arto anteriore,
si apprestò a introdurre un ago in vena, ma da subito il
tentativo andò a vuoto e la gamba cominciò a sanguinare. Egli ripetè quindi l’operazione su un’altra vena della
stessa gamba e poi su una vena dell’altra gamba, ma
senza riuscire a centrare le vene. Durante queste operazioni il cane piagnucolava e abbaiava. A tal punto nel
veterinario subentrò uno stato di frustrazione; sospeso
l’intervento, dichiarando che non era possibile procedere
senza un aiuto per il contenimento dell’animale, indirizzò
i proprietari al dipartimento di chirurgia di un Centro di
Sanità Animale. Nel frattempo, il cane presentò da subito
un evidente stato di malessere, con difficoltà a reggersi
in piedi, girava in tondo e incespicava. A detta del proprietario, il veterinario dichiarò a tal punto che l’atteggiamento del cane era dovuto a un po’ di barbiturico
assorbito dall’animale durante i tentativi precedenti.
Il fatto venne segnalato al Comitato Disciplinare del Registro dei Veterinari (RCVS) che, esaminato il caso, ritenne
il comportamento del veterinario scorretto, in particolare
verso il proprietario a cui non fornì corrette informazioni
e adeguata assistenza, stante le condizioni del cane, nel
periodo che intercorse tra il suo intervento sull’animale e
quello seguente, risolutivo, eseguito presso il Centro di
Sanità Animale. Da qui la decisione del Comitato Disciplinare di punire il veterinario con una reprimenda.
Anonymous (2005)
Vet reprimanded over handling of euthanasia case. Vet. Rec. 156 (12), 363
Benessere animale e castrazione dei suinetti
All’incirca 100 milioni di suinetti maschi vengono castrati ogni
anno negli Stati membri dell’Unione Europea. L’intervento ha
come obiettivo primario quello di prevenire lo sviluppo, nelle
loro carcasse, di sapori e odori sgradevoli, propri del verro,
La Direttiva della Commissione 2001/93/EC, che emen-
da la Direttiva del Consiglio 91/6307EEC, prescrive che
la castrazione dei suinetti maschi può essere eseguita
solo con mezzi che evitino di strappare i tessuti. Tuttavia,
risulta impossibile castrare chirurgicamente un suino maschio senza strappare i tessuti, cioè il funicolo spermatico,
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operazione peraltro richiesta dalla necessità di arrestare
l’emorragia. È chiaro, pertanto, che su questo punto la
direttiva viene ampiamente ignorata.
La castrazione può essere legalmente eseguita senza
anestesia prima dei 6 giorni di età, ma è indubbio che
si tratta di un intervento di per sé doloroso ad ogni età.
L’anestesia, sia essa generale che epidurale, risulta costosa, necessita una speciale conoscenza da parte dell’operatore ed è comunque laboriosa; dal punto di vista
pratico, solo l’anestesia locale sembra offrire la soluzione
migliore per alleviare il dolore.
I suinetti castrati chirurgicamente sembrerebbero più predisposti alle patologie, rispetto alle scofe o agli animali
interi. Per tale ragione è stata proposta, in alternativa alla
castrazione chirurgica, l’inoculazione intratesticolare di
agenti in grado di distruggere il tessuto testicolare. Questo
tipo di intervento richiede, però, uno studio particolare sia
nei riguardi del benessere animale che della reale capacità di ridurre spiacevoli odori e sapori della carcassa.
L’immunocastrazione, molto diffusa in Australia, offre
una ulteriore possibile alternativa, ma la reale efficacia
della pratica nella riduzione di odori e sapori resta ancora da stabilire.
In Irlanda e nel Regno Unito i suini vengono macellati ad
un peso inferiore ai 100 kg e sembra che questa pratica
possa ridurre le spiacevoli caratteristiche della carne di
verro. Non si tratta comunque di una pratica sicura al
100%.
Anche particolari precauzioni adottate nel corso dell’allevamento, quali per es. l’esclusione di determinati ingredienti dal mangime o l’impedire che gli animali sguazzino negli escrementi, sembrano ridurre sapori e odori
indesiderati, così come una mirata selezione genetica di
animali con ridotti livelli di androstenone.
Purtroppo, lo studio di tecniche idonee a ridurre proprietà
organolettiche indesiderate delle carni di suino è frenato
dalla mancanza di metodiche standardizzate idonee a
rilevare il livello di componenti che contribuiscono allo sviluppo del fenomeno, sia ante-mortem che sulle carcasse.
Opinion of the Scientific Panel on Animal Health and Welfare on a request from the Commission related
to welfare aspects of the castration of piglets, The EFSA Journal (2004) 91, 1-18
BSE: infettività preclinica delle tonsille e presenza di residui
di tessuto tonsillare nelle lingue dei bovini macellati
In una serie di esperimenti, condotti tramite inoculazione
intracerebrale a bovini di diversi tessuti prelevati da animali che erano stati esposti oralmente alla BSE dieci mesi
prima, sono state rilevate tracce di infettività nelle tonsille
palatine. Molto probabilmente questo tessuto diviene infetto in via primaria per diretta esposizione al materiale
contaminato somministrato per via orale, in quanto studi
sulla patogenesi della BSE hanno indicato che in nessun
stadio della malattia vi è una diffusione del prione per via
linfatica o ematogena.
Stante questo risultato, si è voluto indagare sulla distribuzione anatomica e istologica delle tonsille linguali
poste alla base della lingua dei bovini. Allo scopo, lingue
destinate all’alimentazione umana furono prelevate in un
macello di bovini della Gran Bretagna. Un’attenta indagine rilevò che nel 75% di esse era rilevabile macroscopicamente la presenza di tessuto tonsillare; in quelle in cui esso
non appariva presente, fu l’esame istologico a rilevare la
presenza di tessuto linfoide in oltre il 90% dei campioni.
Da queste osservazioni sembra di poter dedurre che,
stante la distribuzione delle tonsille linguali, nelle condizioni attuali della pratica tracce di tessuto tonsillare possano essere presenti alla base della lingua, anche dopo
una rigorosa rifinitura dell’organo.
L’osservazione riveste particolare importanza in quanto
secondo la legislazione europea, le tonsille dei bovini
macellati di tutte le età sono considerate tra gli organi
destinati alla distruzione. Tutte le strutture tonsillari sono
entro la testa, che va distrutta per intero, ma la lingua
non è classificata tra gli organi destinati alla distruzione.
Poiché le tonsille linguali sono situate alla radice della
lingua, questa parte anatomica, se non accuratamente
depurata dalle tonsille da parte del macellatore (eliminazione dell’intera radice della lingua caudale fino alle
papille del dorso), ha la potenzialità di trasmettere l’infezione prionica all’uomo.
Wells G.A.H., Spiropoulos J., Hawkins S.A.C., Ryder S.J. (2005)
Pathogenesis of experimental bovine spongiform encephalopathy: preclinical infectivity in tonsil and observations
on the distribution of lingual tonsil in slaughtered cattle. Vet. Rec. 156, 401-407
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I cavalli e il rischio di zoonosi
Nel contesto delle malattie dei cavalli, i nosocomi veterinari costituiscono un centro privilegiato di sorveglianza,
in grado di rilevare tempestivamente ogni evento inusuale, al fine di tutelare la salute non solo degli animali,
ma anche, in caso trattasi di zoonosi, degli addetti alle
scuderie e dei proprietari.
Malattie emergenti. È notorio che molte encefaliti virali (dell’est, dell’ovest, giapponese, West Nile, ecc), sono
zoonosi. Tuttavia, di esse né i cavalli né l’uomo sembrano
rivestire importanza ai fini della trasmissione, trattandosi
di ospiti terminali. Indicativi del potenziale impatto che
malattie emergenti dei cavalli possono avere sulla salute
dell’uomo sono alcuni episodi verificatosi in Australia nel
1994, legati all’infezione da virus Hendra. Insorta dapprima nei cavalli, con gravi sintomi respiratori, l’infezione
si estese a più riprese a numerose persone (addetti alle
scuderie o proprietari), che svilupparono encefaliti a seguito di stretti rapporti con i cavalli ammalati o per aver
collaborato all’esecuzione delle autopsie dei cavalli deceduti, senza ricorrere alla protezione di guanti, maschere
od occhiali. In seguito fu accertato che il virus Hendra
si trasmetteva per contatto diretto con le secrezioni degli
animali infetti e che pipistrelli frugiferi (Pteropus sp) costituivano, probabilmente, il sebatoio del virus.
Episodi come questo devono richiamare l’attenzione del
veterinario all’adozione costante di misure protettive adeguate, allorquando ci si trova di fronte a casi inusuali.
Ricomparsa di malattie del passato. Alcune malattie sono state dimenticate nei Paesi sviluppati, sia per una
maggiore igiene degli allevamenti che per l’avvento degli
antimicrobici. Ciononostante, non mancano episodi di
ricomparsa di infezioni di cui si era perduto il ricordo. È
il caso, ad esempio, dell’infezione da Burkholderia mallei
(morva), diagnosticata con una certa difficoltà nel 2000
negli Usa in un ricercatore militare, dopo che si era verificato l’ultimo caso di malattia nel 1945. Peraltro, su
tale forma batterica si ripone oggi particolare attenzione,
per un suo possibile utilizzo per atti terroristici dato che
pochi batteri sono sufficienti a causare la malattia, essi
sono facilmente coltivabili, generano alta mortalità per
inalazione e pochi sono gli elementi clinici che permettono una diagnosi tempestiva. In questo caso, i cavalli
possono fungere da idonea sentinella e da qui il richiamo
all’attenzione dei veterinari pratici.
L’introduzione del vaccino antirabbico ha portato, a partire dagli anni ’50, a una virtuale scomparsa della rabbia
nell’uomo. Tuttavia, negli ultimi tempi l’epidemiologia
di questa infezione è andata modificandosi, con l’insorgenza di casi attribuibili alla morsicatura di pipistrelli.
Rara è l’infezione rabida nei cavalli e non sono riportati
in letteratura casi umani attribuibili all’esposizione agli
equini. Tuttavia, dal 1990 al 1996 sono stati registrati
negli USA 22 grossi episodi di rabbia, con 64 persone
potenzialmente esposte; tre di questi episodi videro coinvolti i cavalli. Sfortunatamente questi eventi svilupparono
anche all’interno di ospedali veterinari e ciò dimostra la
necessità di minimizzare l’impatto di questi rischi mediante appropriate procedure di controllo, vaccinazioni preesposizione e limitando i contatti con animali sospetti.
Malattie con una complessa rete di trasmissione.
Non sono infrequenti casi di diarrea negli equini con isolamento di Salmonella e conteporanei casi in persone che
frequentano le scuderie dove quei cavalli sono alloggiati.
Episodi simili sono stati descritti anche in ospedali annessi
a scuole di veterinaria. Pertanto, si richiede una particolare diligenza nell’isolare e testare i cavalli con diarrea, nel
limitare l’acceso a persone, nell’addestrare gli studenti e
anche nell’identificare prontamente gli addetti con sintomi d’infezione. Particolari precauzioni vanno prese con il
personale veterinario che si trovi in un particolare stato di
immunocompromissione.
Persone immunocompromesse. Il numero di persone
immunocompromesse è in continuo aumento, per l’uso
di droga, per il cancro, per infezioni quale quella da HIV
o per vecchiaia. In linea di massima, sembrerebbe che il
rischio di zoonosi negli immunocompromessi sia basso,
purtuttavia esso aumenta allorquando il numero di linfociti CD4 scende al di sotto di 100 cellule/mm3 . In tale
situazione, le zoonosi più comuni sono la criptosporidiosi,
la salmonellosi e la toxoplasmosi. Gli agenti che possono
essere trasmessi più frequentemente dai cavalli sono Salmonella e Rhodococcus equi. Quest’ultimo era ritenuto in
passato un patogeno esclusivamente equino, non quindi
causa di zoonosi. Ultimamente la sua patogenicità si è
estesa alle persone colpite da HIV, con polmonite, ascessi, noduli ed eventuale batteriemia.
Controllo delle infezioni. Tutte le precauzioni che
vengono applicate nei nosocomi umani per impedire la
diffusione delle infezioni non sono certamente sempre
applicabili negli ospedali veterinari. Tuttavia, alcune di
esse non possono essere dimenticate, fra esse: l’uso di
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vestiti e guanti protettivi per prevenire la trasmissione diretta di patogeni, dispositivi che proteggano il personale
dalla trasmissione di patogeni tramite aerosol o per via
aerogena, la pulizia delle mani, procedure standard per
l’igiene delle strutture ospedaliere e un appropiato uso
di vaccini.
Bender J.B., Tsukayama D.T. (2004)
Horses and the risk of zoonotic infections. Vet. Clin. Equine 20, 643-653
Reazioni allergiche postvaccinali nei cani
Reazioni allergiche post-vaccinali non sono rare nei cani;
fra esse l’anafilassi è certamente quella dalle conseguenze più temibili. In un precedente studio condotto in Giappone su 311 cani che avevano presentato reazioni indesiderate dopo vaccinazione, fu accertato che per 46 di essi
si trattava di anafilassi; di questi, 7 vennero a morte.
Al fine di ottenere maggiori informazioni epidemiologiche riguardo a queste reazioni post-vaccinali, è stato
condotto, pressso l’Università di Tokio, uno studio su 85
cani che avevano manifestato sospette reazioni allergiche
entro 24 ore dall’inoculazione di vaccini non-rabbia.
Dalle informazioni raccolte, i cani furono suddivisi in 3
gruppi:
1- con sintomi predominanti cardiovascolari e/o respiratori,
2- con sintomi predominanti dermatologici,
3- con sintomi cardiovascolari/respiratori e dermatologici contemporanei.
Per quanto riguarda i vaccini impiegati, le indagini portarono alle seguenti osservazioni.
- Vaccino monovalente vivo verso il parvovirus: 2 casi di
sospetta allergia.
- Vaccini inattivati monovalenti verso il parvovirus o la
Leptospira: nessun caso.
- Vaccino vivo combinato verso parvovirus canino, virus
-
cimurro, adenovirus tipo 2 e/o virus parainfluenza:
28 casi.
Vaccini vivi e inattivati combinati, composti da parvovirus canino vivo, virus cimurro, adenovirus tipo 2,
virus parainfluenza e/o coronavirus e coronavirus e/o
Leptospira: 53 casi.
Per quanto riguarda il tipo di reazione allergica, 24 cani
furono classificati nel gruppo 1, 59 nel gruppo 2 e 2 nel
gruppo 3.
Prima dell’inoculazione del vaccino che aveva provocato
la reazione allergica, 24 cani avevano ricevuto una sola
inoculazione di vaccino, 40 due o più inoculazioni. Sorprendentemente, 16 cani non avevano ricevuto alcuna
vaccinazione prima di quella che aveva indotto la reazione allergica. Di altri 5 cani non era noto il numero di
vaccinazioni subite in precedenza.
I 16 cani che avevano presentato reazione allergica alla
prima inoculazione erano stati probabilmente sensibilizzati da allergeni inclusi nel vaccino, la cui natura potrebbe essere riportabile alla gelatina o al siero bovino. È
pure possibile che i sintomi rilevati in questi animali siano
riportabili a reazioni anafilattoidi, senza sensibilizzazione
ad allergeni contenuti nei vaccini.
Ohmori K., Sakaguchi M., Kaburagi Y., Maeda S., Masuda K., Ohno K., Tsujimoto H. (2005)
Suspect allergic reactions after vaccination in 85 dogs in Japan. Vet. Rec. 156, 87-88
Infezione da virus LCM (Lymphocytic Chorionmeningitis)
trasmessa da un hamster
Quattro pazienti che avevano ricevuto trapianti di fegato,
polmoni e reni da una stessa donatrice manifestarono,
tre settimane dopo il trapianto, gravi sintomi patologici.
Le indagini di laboratorio dimostarono trattarsi di un’infezione da virus LCM, un arena virus che ha come ospite
abituale i roditori. Tre dei trapiantati vennero a morte,
uno che aveva ricevuto il rene migliorò clinicamente dopo
trattamento intravenoso con ribavirin, in aggiunta a una
riduzione del regime immunosoppressivo, messi in atto
subito dopo che era stata fatta la diagnosi dal laboratorio.
Per determinare l’origine dell’infezione, una vasta indagine epidemiologica fu condotta anzitutto a livello ospedaliero, senza che emergesse alcuna fonte di possibile presenza di virus LCM. Lo stesso fu fatto sul posto di lavoro
e a casa della donatrice, dove emersero poche possibilità
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dalla stampa internazionale
di esposizione a roditori selvatici, salvo la presenza di un
hamster, acquistato di recente e tenuto in casa come animale d’affezione. Nessun sintomo d’infezione era stato
notato in precedenza né nella donatrice né nei membri
della famiglia. Un’indagine sierologica mise in evidenza,
nel familiare che accudiva l’hamster, anticorpi IgM e IgG
verso il virus LCM. Anche l’hamster risultò positivo, con
isolamento del virus LCM. Pertanto, la fonte primaria dell’infezione da virus LCM è stata identificata nell’hamster.
L’infezione da virus LCM decorre, generalmente, nell’uo-
mo in forma asintomatica o in forma di lieve malessare
nelle persone debilitate. Ciò non esclude l’adozione di
particolari precauzioni nei rapporti con roditori d’affezione, quali l’hamster, in particolare da parte di donne in
stato di gravidanza o immunodepresse. Peraltro, il virus
LCM è stato descritto anche come causa di menengite,
raramente fatale.
La gravità dei casi descritti è certamente legata al trattamento immunosoppressivo a cui i trapiantati erano
sottoposti.
Anonymous (2005) Limphocytic Choriomenengitis Virus infection in organ transplant recipients.
Morbidity and Mortality Weekly Review, May 26 2005/54 (Dispatch), 1-2
<http://www.cdc.gov./mmwr/preview/mmwrhtml/mm54d526a1.htm>
Piodermiti recidivanti nel cane
Si parla di piodermite recidivante allorquando un trattamento antibiotico ben condotto permette la risoluzione
completa dei sintomi infettivi, a cui segue una ricaduta,
qualche giorno o qualche settimana dopo l’arresto del
trattamento. Queste forme patologiche del cane rappresentano una della cause più frequenti di consultazione
in dermatologia veterinaria. La loro incidenza elevata è
legata a fattori anatomici (finezza della pelle del cane,
assenza di protezione lipidica dell’ostium dei follicoli piliferi), epidemiologici (contatto frequente con l’ambiente,
leccature) e cliniche (frequenza delle dermatosi pruriginose). Spesso, lo sviluppo di un’infezione cutanea è secondario a una malattia sottostante, cutanea o sistemica,
la cui mancata identificazione e trattamento spiegano le
recidive e il passaggio alla cronicità.
Malgrado la frequenza di tali episodi, pochi sono gli
studi ad essi relativi. Pertanto, allo scopo di approfondire
l’argomento, è stato condotto uno studio che aveva come
obiettivo la caratterizzazione delle piodermiti recidivanti
su un piano epidemiologico, clinico e citobatteriologico.
L’indagine fu condotta su trenta cani con piodermite, che
avevano presentato almeno due episodi di piodermite
nei 12 mesi precedenti la visita. In ogni caso, l’infezione
cutanea fu trattata con un appropriato ciclo di antibiotici,
quindi, dopo guarigione, fu condotta un’indagine diagnostica differenziale al fine di individuare la causa che
sottostava alla recidiva.
Dal punto di vista epidemiologico, varie razze canine risultavano colpite (19 in totale) e tra queste le più rappre-
sentate erano la Bouledogue francais (13,3%) e la West
highland white terrier (10%), senza alcuna predilezione di
sesso o di età.
L’aspetto clinico più frequente era quello di una follicolite
superficiale. In quasi tutti i casi era presente il prurito,
motivo principale della richiesta di una visita veterinaria
da parte del proprietario. Eritema e lesioni pustolose dominavano nettamente il quadro clinico.
L’esame citologico mostrava una predominanza di cocchi
e la batteriologia una predominanza di Staphylococcus
intermedius.
Dalle indagini diagnostiche emersero, come cause sottostanti più frequenti, dermatiti allergiche e specialmente
dermatite atopica. Più raramente, ectoparassitosi, squilibri ormonali e disturbi della cheratinizzazione.
Questo studio conferma la necessità, in presenza di una
piodermite batterica del cane, di ricercarne attentamente
la causa sottostante. Le piodermiti recidivanti “idiopatiche” sono eccezionali in questa specie.
L’intervento veterinario deve passare attraverso tre tappe
distinte ed essenziali. Il riconoscimento dell’affezione batterica, il suo trattamento fino alla guarigione totale delle
lesioni infettive e l’identificazione della causa sottostante.
Il ricorso a un trattamento sintomatico antipruriginoso è
sconsigliato. In effetti, tale trattamento potrebbe essere
responsabile di un cattivo controllo dell’infezione batterica, mascherando nel contempo la maggior parte dei
sintomi clinici e delle lesioni che permettono di orientare
la diagnosi della patologia sottostante.
Bensignor E., Germain P.A., Daix B., Florant E., Gerbier C., Groux D., Hennequin G.,
Laumonnier M., Mege C., Meyral J., Migraine P. et Medaille C. (2005)
Etude étiologique des pyodermites récidivantes chez le chien. Revue Med. Vet. 156 (4), 183-189
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