Alcune voci della Chiesa locale sulle attese del Sinodo
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Alcune voci della Chiesa locale sulle attese del Sinodo
Perché una Seconda Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per l‟Africa? (Dall’Instrumentum Laboris, testo preparatorio dell’Assemblea) È riconosciuto che la Chiesa è profondamente impegnata nella società africana al servizio di tutti attraverso le sue istituzioni educative e sanitarie e i programmi di sviluppo. Lo sguardo che la Chiesa rivolge a questo continente si alimenta alle fonti della vita concreta delle comunità cristiane nel loro contesto ordinario di vita. Affinché la Chiesa in Africa si manifesti appropriatamente, la Prima assemblea Speciale per l‟Africa del Sinodo dei Vescovi (svoltasi nel 1994) aveva proposto il modello della Chiesa Famiglia di Dio, segnalando tra le condizioni di una testimonianza credibile: la riconciliazione, la giustizia e la pace. Essa raccomandava la formazione dei cristiani alla giustizia e alla pace, il rafforzamento del ruolo profetico della Chiesa, la giusta remunerazione dei lavoratori e l‟istituzione di Commissioni Giustizia e pace. Il contesto sociale africano è andato modificandosi in maniera significativa dopo l‟ultima assise sinodale del 1994. Pur se, a grandi linee, determinati problemi fondamentalmente umani restano invariati, alcuni dati invitano ad approfondire le questioni già sollevate quindici anni fa sul piano religioso, politico, economico e culturale. Per questo la Chiesa in Africa intende riflettere sulla sua missione di comunione e sul suo impegno a servire la società come nuova dimensione dell‟annuncio del Vangelo, essendo “sale della terra” e “luce del mondo” (Mt 5,13.14). A quindici anni di distanza le chiese africane sentono l‟urgenza di riflettere insieme sul cammino percorso e per rispondere ai nuovi problemi che si trovano a vivere. E per questo il tema scelto per il secondo Sinodo per l‟Africa che si svolgerà in Vaticano dal 4 al 25 ottobre è: La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. In alcune Chiese particolari, le indicazioni scaturite dal Sinodo del 1994 hanno trovato applicazione attraverso il piano d‟azione pastorale, l‟apostolato biblico, le Comunità Ecclesiali Viventi (luoghi di studio, meditazione e condivisione della Parola di Dio), l‟evangelizzazione della famiglia, l‟apostolato per i giovani, la mediazione da parte della Chiesa tra parti in conflitto, la lotta contro le povertà, le Commissioni Giustizia e Pace, l‟investimento nei mass media, il dialogo ecumenico ed interreligioso con la Religione 1 Tradizionale Africana e con l‟Islam, la lotta all‟aids e i progetti sanitari, i progetti per sostenere l‟opera di evangelizzazione. Tuttavia non mancano situazioni negative e spesso nello spazio pubblico, la Chiesa cattolica è oggetto di una virulenta aggressione da parte delle sétte cristiane, strumentalizzate dai politici per abbattere i valori che essa difende: famiglia, rispetto della dignità e della sacralità della vita umana, unità. Le Chiese particolari chiedono perciò ai Padri sinodali di aiutarle a proporre meglio il proprio messaggio profetico, per permetterle di parlare con autorità ai dirigenti politici. In alcune comunità ecclesiali si constatano divisioni etniche o tribali, regionali o nazionali ed atteggiamenti ed intenzioni xenofobi da parte di alcuni Pastori. Si rilevano situazioni di discordia tra alcuni vescovi e il loro presbiterio, mentre all‟interno di una stessa Conferenza episcopale nazionale si infiltrano delle prese di posizione di alcuni vescovi in favore di un determinato partito politico. Le esperienze sociali ed ecclesiali interpellano dunque la Chiesa affinché cerchi modi e mezzi per ricostruire la comunione, l‟unità, la fraternità episcopale e sacerdotale, si rivesta di coraggio profetico, si impegni nella formazione di dirigenti laici dalla fede salda per agire in politica, per adoperarsi a far vivere insieme le differenze nella società. Con un‟attenzione particolare alla formazione di sacerdoti, religiosi e religiose desiderosi di essere segni e testimoni del Regno. E ad una pastorale migliore affinché le verità e i valori delle culture africane siano toccati e trasfigurati dal Vangelo. 2 Alcune voci delle Chiese particolari sul prossimo Sinodo su: “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace” Intervista con il Card. WILFRID FOX NAPIER, arcivescovo di Durban, in Sudafrica (a cura di Abdul Festus Tarawalie) D. - Ci stiamo preparando al Sinodo speciale dei Vescovi per l‟Africa il cui tema è «La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. “Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13.14)». Che interesse riveste questo tema per l‟Africa oggi? R. - Penso che la risposta migliore sia che il tema è stato scelto sulla base delle risposte che le Conferenze episcopali hanno dato al Consiglio Speciale per l'Africa della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi sin dalla sua prima sessione nel 1994. Quindi le questioni indicate nel tema sono sicuramente questioni che la Chiesa in Africa ha individuato nel corso di questi ultimi 15 anni. D. - Questo a causa delle numerose aree critiche nel continente… Sì, proprio così: le situazioni rilevate dai vescovi riflettono innanzitutto il bisogno di riconciliazione nelle aree dove i conflitti sono stati in qualche modo risolti. C‟è un bisogno veramente urgente di passi pratici, ma anche molto concreti, voglio dire sostenibili, verso la riconciliazione. Penso a Paesi come il Burundi o il Ruanda, dove c‟è stato quel problema in passato e adesso, in particolare in Burundi, ci si sta muovendo verso la costituzione di una Commissione per la Verità e la Riconciliazione con l‟obiettivo appunto di stabilire la pace e la riconciliazione. D. - Quali lezioni possiamo trarre dall‟esperienza sudafricana della riconciliazione? Mi riferisco alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione che è stata istituita dopo la fine del regime dell‟apartheid. Quale è stato il ruolo della Chiesa in questo processo? 3 Il nostro ruolo era cominciato parecchio prima della transizione. Già nel 1980 la Chiesa era impegnata in un processo volto ad individuare quelle aree in cui poteva dare un contributo significativo al cambiamento e alla costruzione di un nuovo Sudafrica. Abbiamo capito che occorreva partire dalla costruzione di comunità tra gente che era stata separata e divisa in passato e che la Chiesa poteva fare qualcosa quando riusciva a riconciliare i suoi membri e a formare una comunità. Da lì poteva quindi portare questo senso comunitario al resto della società. Quindi quando ha avuto luogo la transizione ci sono state molte iniziative: come Chiesa, noi vescovi ci siamo impegnati attivamente con i partiti politici e le altre Chiese per preparare il terreno alla transizione e quindi aiutare il Paese durante questo processo. D. - Cosa si aspetta la Chiesa sudafricana da questo secondo Sinodo africano? La prima cosa che cerchiamo è come promuovere meglio la dimensione dell‟essere “luce del mondo e sale della terra”: se vogliamo avere un impatto sulla società, il Vangelo deve essere il centro della nostra vita e ogni membro della Chiesa deve essere autenticamente e profondamente evangelizzato. In altre parole, dobbiamo cercare un‟autentica amicizia, una relazione personale con Cristo. Il nostro auspicio è che il Sinodo ci mostri come la Chiesa in altri Paesi africani sia riuscita a fare ciò. Dal canto loro, le altre Chiese africane che ci hanno contattato sono interessate a sapere in che modo noi abbiamo contribuito alla creazione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, come ha funzionato, dove è riuscita e dove è fallita. A questo proposito è importante analizzare le ragioni dei nostri insuccessi, perché altri possano evitarli e forse riuscire a portare il processo di riconciliazione più avanti di quanto siamo riusciti noi in Sudafrica. Che differenze ci sono tra la situazione durante la preparazione del primo Sinodo del 1994 (penso al Ruanda e al Burundi in quegli anni) e la situazione attuale? Nel 1994 avevamo una situazione unica. Da un lato, avevamo la transizione in Sudafrica che rappresentava il migliore esempio delle cose buone che si possono fare in Africa quando la gente lavora insieme e mossa da un unico intento: la transizione dall‟apartheid alla democrazia è stata probabilmente la meno sanguinosa di tutte le transizioni in Africa. Nello stesso momento avevamo i massacri in 4 Ruanda, i peggiori mai avuti in Africa, in cui l‟etnocentrismo ha causato la perdita insensata di tante vite umane. La vera tragedia era che ciò era potuto accadere in Paesi come il Burundi e il Ruanda, ma in particolare il Ruanda, con un‟alta percentuale di cattolici. Per noi è stato quindi uno shock: da un lato, avevamo una Chiesa che svolgeva un ruolo importante nell‟aiutare il Sudafrica a uscire da una situazione di oppressione alla libertà e, dall‟altro, membri della Chiesa che causavano la morte di altri. Non sapevamo se gioire o piangere per quello che stava avvenendo in Africa. Oggi vedo molti più esempi di Paesi che hanno compiuto una transizione da dittature a forme di governo più democratiche. Ma ci sono ancora aree dove la popolazione non può godere della pace: penso in particolare all‟area dei Grandi Laghi, al Congo Orientale, al Nord e Sud Kivu, dove la povera gente è all‟esasperazione. Avete parlato della cupa situazione durante il primo Sinodo, il cui tema centrale era «La Chiesa in Africa e la sua missione evangelizzatrice verso l'anno 2000: "Mi sarete testimoni" (At 1, 8)». Quali sono i principali successi di quel Sinodo? Il primo Sinodo ha voluto porre l‟attenzione su alcuni temi ai quali la Chiesa doveva dedicarsi per potere essere una forza evangelizzatrice alla vigilia del Terzo millennio. Quindi il punto centrale è stata la proclamazione della Parola: abbiamo appreso come la Chiesa stava annunciando la Parola nei diversi Paesi del Continente. Il secondo punto è stato il dialogo e ritengo che questo sia particolarmente importante in Africa dove, in genere, c‟è un forte senso comunitario per cui il fatto di appartenere a diverse Chiese o religioni non significa che non possiamo sentirci comunità. Quindi il dialogo nelle Chiese e il dialogo tra cristiani e altre religioni è stato un altro tema molto importante di quel primo Sinodo. C‟è poi l‟area della giustizia e della pace: lo spazio riservato a questo tema durante il Sinodo ha attirato l‟attenzione dei vescovi africani nel periodo successivo. 5 Intervista con Mons. MENGHESTEAB TESFAMARIAM, Vescovo di Asmara, in Eritrea (A cura di Isabella Piro) D. – La seconda Assemblea Speciale per l‟Africa del Sinodo dei Vescovi è incentrata su riconciliazione, giustizia e pace: cosa fa la Chiesa eritrea per raggiungere questi tre obiettivi? R. - Prima di tutto il nostro lavoro consiste nella sensibilizzazione delle persone, della Chiesa e di tutte le persone di buona volontà, attraverso “laboratori”, manifesti, traduzioni e qualsiasi altro mezzo di comunicazione di massa. Riteniamo, infatti, che prima di tutto dobbiamo conoscere l‟avvenimento in sé, di quali problemi tratterà il Sinodo: riconciliazione, giustizia, pace, parole molto importanti; tuttavia è necessario andare al di là del significato esterno e cercare di comprendere il significato più profondo, proprio come la Chiesa lo comprende, ed assicurarsi che anche la nostra gente lo comprenda, poiché le parole possono avere un significato diverso a seconda delle persone. Dunque, il nostro primo compito è quello di sensibilizzare e incoraggiare la nostra gente a capire. D. – C‟è una collaborazione con il governo per favorire la pace? Il potere politico ascolta le proposte della Chiesa? R.- Cerchiamo di fare del nostro meglio per dire ciò che è giusto, per cercare di contattare le persone adatte, ma la risposta di coloro che sono al potere dipende molto dalle singole persone. Alcuni sono ben disposti a collaborare, altri meno. Per la Chiesa è positivo ricevere una risposta e una collaborazione efficace, ma dobbiamo andare avanti comunque. Continuiamo a sensibilizzare sulla significativa attuazione della riconciliazione, della pace e della giustizia; soprattutto nel nostro territorio, abbiamo bisogno di giustizia, abbiamo bisogno di pace e di riconciliazione, con tutti i conflitti, siccità, carestie presenti in quest‟area dell‟Africa Orientale. La Chiesa non deve mai fermarsi nel suo compito di esortare alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Naturalmente, la risposta di ogni individuo o gruppo dipende dalla predisposizione dei singoli gruppi e individui. 6 D. – Ufficialmente, la guerra tra l‟Eritrea e l‟Etiopia è terminata nel 2000, ma poi ci sono stati altri conflitti. Qual è ora la situazione? R.- La situazione potrebbe essere così definita: non vi è una pace completa, ma neanche guerra, il che rappresenta una situazione ancora peggiore, in un certo senso, poiché si tratta di una situazione anomala. La gente non può dire: “Abbiamo la pace” e recarsi a compiere le proprie attività, ma stare sempre in guardia contro l‟eventuale scoppio di altri conflitti. Siamo, per così dire, in questa situazione. Speriamo che con l‟aiuto della comunità internazionale e la buona volontà di entrambi i governi possiamo arrivare a una completa cessazione delle ostilità, a una pace completa e che la giustizia e la riconciliazione possano fiorire, poiché è molto difficile parlare di riconciliazione, quando ci si trova in questo genere di situazioni. La gente ha soprattutto bisogno di essere consolata. Questa guerra ha causato molti morti, sfollati, feriti, disabili; molte famiglie sono rimaste senza un padre, una figlia o un figlio…hanno bisogno di conforto. La nostra Chiesa si concentra in primo luogo sulla consolazione; proprio da quest‟atteggiamento di conforto e sostegno potranno poi scaturire la riconciliazione, la giustizia e la pace. Ecco ciò che cerchiamo di fare. D. – Quali sono le principali difficoltà che incontrano i cristiani in Eritrea? R.- Facciamo del nostro meglio per vivere la nostra vita cristiana nel modo migliore. Le difficoltà sono ovunque. Ma non posso dire che siamo ostacolati nel nostro lavoro pastorale, nella celebrazione del culto nelle nostre chiese. Naturalmente, le difficoltà sono un po‟ ovunque in questa situazione di “non guerra e non pace”; tante cose influenzano la vita della Chiesa, sia positivamente, sia negativamente. D. – Il dialogo con le altre religioni, in particolare con l‟Islam, è possibile? R.- Per quanto riguarda il nostro rapporto con l‟Islam, le cose vanno davvero bene. Nella maggior parte dei casi, i nostri fratelli musulmani, noi stessi e tutti i cristiani viviamo insieme, condividiamo tanti valori e credo che ci rispettiamo anche l‟uno con 7 l‟altro. Così i nostri rapporti sono buoni e speriamo di continuare così per il futuro. D.- All‟Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio, lo scorso ottobre, è emerso spesso il problema delle sètte in Africa. Qual è la situazione in Eritrea? R.- Con minore intensità, anche noi dobbiamo far fronte al problema delle sètte. È molto difficile conoscere le loro origini, i loro sostenitori, ma esistono. Non tante come in altri Paesi, quali il Kenya, Sud Africa, Nigeria; in Eritrea, anche se in misura inferiore, esistono comunque e sono una sfida, poiché alcuni dei nostri membri aderiscono ad esse. Ci chiediamo perché ciò accada, per esaminare meglio il nostro approccio pastorale. Perché queste persone, soprattutto giovani, lasciano la Chiesa cattolica, ortodossa o protestante e vogliono unirsi a queste sètte? Abbiamo bisogno di capire le ragioni che si nascondono dietro a questo passaggio. Che cosa li attrae? Che cosa hanno loro che manca, ad esempio, nella Chiesa cattolica? È una questione pastorale di grande rilevanza, poiché abbiamo bisogno di conoscere le cause di questa tendenza. Forse i giovani hanno bisogno di sperimentare la novità, ma non credo che questo sia l‟unico motivo. Forse anche noi non espletiamo bene il nostro ministero con la gioventù, il nostro lavoro pastorale: abbiamo dunque bisogno di esaminare e cercare di trovare nuove vie nel nostro metodo pastorale per trattenere i nostri giovani nella loro Chiesa e cercare di soddisfarli. Poiché se non sono soddisfatti della loro Chiesa, cercheranno altre Chiese, altre sètte, che forse potranno dar loro la soddisfazione che ricercano. D. – Le organizzazioni non governative, le associazioni di carità riescono ad operare liberamente in Eritrea? R.- Vi sono pochissime organizzazioni non governative, siamo un piccolo Paese, al momento pochissime tra di loro operano in Eritrea. D. – Di cosa ha più bisogno l‟Eritrea in questo momento? R.- Credo che l‟Eritrea abbia soprattutto bisogno di una pace duratura e di cibo, poiché le piogge sono state molto scarse negli ultimi due anni e così anche i raccolti sono stati insufficienti. La gente non riesce a trovare cibo a sufficienza; se lo trova, è costretta 8 a pagare prezzi altissimi. Abbiamo quindi bisogno di queste due cose in particolare: in primo luogo, la pace, una pace autentica e durevole, dove riconciliazione, giustizia e pace siano i principiguida, e poi abbiamo bisogno di risolvere il problema della scarsità del cibo giornaliero per la maggior parte della nostra gente. Speriamo che la buona quantità di pioggia caduta durante l‟estate possa aiutare la nostra gente a disporre di una maggiore quantità di cibo, cibo abbondante, affinché i loro figli e ogni altra persona sia soddisfatta. In tal modo, potremo passare allo stadio successivo, quello dello sviluppo, poiché se manca il cibo sufficiente, non si può pensare allo sviluppo, ma solo alla sopravvivenza: ho bisogno di sopravvivere, ho bisogno di mangiare per sopravvivere. Una volta assicurata un‟adeguata quantità di cibo, altre attività potranno seguire. D. – La Chiesa in Africa è sempre stata molto impegnata nel campo dell‟educazione. Qual è la situazione in Eritrea? R. - Siamo molto impegnati nel campo dell‟istruzione e dell‟assistenza sanitaria, della promozione umana, della promozione della donna, dell‟assistenza ai bambini negli asili per l‟infanzia; abbiamo scuole, cliniche, ospedali, centri di promozione. D. – Quali sono le Sue aspettative per il Sinodo dei Vescovi per l‟Africa? R.- Mi aspetto che questo Sinodo possa essere davvero uno strumento attraverso il quale la Chiesa in Africa possa cogliere i problemi in modo onesto e franco, è molto importante individuare i problemi in modo aperto e onesto. Questa è la prima attesa. In secondo luogo, dopo averli individuati, occorre prendere misure concrete per dare il nostro contributo. Sono sicuro che la Chiesa da sola non possa risolvere i problemi dell‟Africa, ma può dare un ottimo contributo. Come autorità morale in Africa, la Chiesa può aiutare, prima di tutto, ad educare le persone a diventare artigiani di pace fin dai primi anni di età, ad insegnare agli africani ad essere amanti della pace ad impegnarsi per la causa della giustizia e della riconciliazione. Possiamo, inoltre, fare molto con il nostro concreto impegno per lo sviluppo dei popoli, nell‟assistenza ai più vulnerabili, ai malati, ai poveri. Il nostro impegno ecclesiale di aiuto ai poveri non deve solo salvare le persone dalla morte, ma deve significare qualcosa di più: aiutare le persone ad esprimere la loro identità, a sviluppare le loro capacità al massimo livello. Ecco ciò 9 che mi attendo e sono sicuro che molti dei miei confratelli, vescovi e delegati, condividono questo obiettivo, questa aspettativa. Discorsi, auspici e programmi per l‟Africa non sono mancati in passato: è tempo, ora, che noi africani prendiamo la situazione nelle nostre mani, la analizziamo con franchezza e assumiamo infine le misure necessarie per impegnarci a risolvere i diversi problemi. Ecco le mie attese. Intervista con Mons. CORNELIUS FONTEM ESUA, Arcivescovo di Bamenda, in Camerun (A cura di Abdul Festus Tarawalie) D. – Arcivescovo Esua, Lei è membro del Consiglio Speciale per l‟Africa del Sinodo dei Vescovi ed è stato tra coloro che hanno contribuito maggiormente alla stesura dell‟Instrumentum Laboris, presentato ai vescovi dell‟Africa da parte del Papa, durante la sua recente visita in Camerun. Può dirci quali sono i punti principali del documento e, in particolare, come avete affrontato il tema della riconciliazione, della giustizia e della pace e come vi state preparando per il prossimo Sinodo? R. – Siamo partiti da una riflessione biblico-teologica sui problemi dell‟Africa: il problema della riconciliazione, i problemi della giustizia e della pace. Quindi, abbiamo rivolto un appello alle diverse comunità cristiane perché trovassero il modo di impegnarsi di più, con l‟obiettivo rendere davvero stabile la società africana che, d‟altro canto, è composta da molte persone che si sono riappacificate. Una società di persone riappacificate che vive come una famiglia e che si sta assumendo le proprie responsabilità, di fronte al mondo, per rendere l‟Africa una società migliore in cui vivere. Ed il modo migliore di fare ciò è quello di iniziare organizzando le nostre comunità Cristiane, così che riflettano su questi temi, in un contesto biblico e teologico. In questo modo, sebbene vivano fra persone non cristiane, esse potranno cominciare a mettere in pratica questi temi e diventare il lievito, il fermento della società, il sale della terra e la luce del mondo. La Chiesa è come un lievito della società e per questo il buon lavoro che abbiamo avviato deve continuare. Non dobbiamo scoraggiarci, ma dobbiamo guardare a queste problematiche in modo realistico, interpellando i giovani, coloro che detengono il potere nella società e le nostre famiglie cristiane. E io penso che abbiamo appena iniziato. 10 Intervista con Mons. MARCEL UTEMBI TAPA, arcivescovo di Kisangani, Repubblica Democratica del Congo (A cura di padre Joseph Ballong) D. - Cosa si può fare perché i cristiani, tutti i cristiani, dai politici fino all'ultimo villaggio possano vivere concretamente, essere concretamente portatori di pace, di riconciliazione e di giustizia in Africa? R. - Questo è un problema molto importante. Si parla tanto oggi del fatto che abbiamo bisogno di maestri, ma oggi abbiamo bisogno soprattutto di testimoni. E se è necessario ascoltare i maestri, è fondamentale che essi siano dei testimoni. È in questa prospettiva, che siamo impegnati a promuovere la testimonianza della vita cristiana, a partire dalla base. Riconciliazione, è forse una parola forte, ma la riconciliazione trova il suo terreno di applicazione già nel nostro cuore, nel cuore di ogni uomo. Come diceva San Paolo, il mio corpo ha fatto ciò che la mia mente non vuole: c‟è una lotta interiore in ogni uomo. Ogni uomo deve cercare di essere riconciliato con se stesso. L'esame di coscienza personale è molto importante. Al secondo livello, già nella famiglia, non è tutto armonioso. Ci sono problemi, ci sono malintesi, incomprensioni che devono essere eliminate. Pertanto invitiamo i genitori, con i loro figli, a vivere questo amore nella verità. Quando ci sono problemi, devono cercare di trovare un terreno comune, invece di aggirare il problema. A livello di comunità ecclesiali viventi è la stessa cosa. Nel clero, abbiamo bisogno di ritrovarci per incoraggiarci, spronarci reciprocamente per ripristinare questa vita fraterna, anche chiedendo perdono, quando è necessario, a qualcuno che abbiamo offeso. E questo a tutti i livelli. Anche nella Conferenza Episcopale, abbiamo bisogno di questi scambi per stringere di più i nostri legami e testimoniare effettivamente a chi ci sta intorno che quello che predichiamo sulla riconciliazione, il perdono, la giustizia, l'amore, la verità lo viviamo noi stessi. In questo modo, credo potremo invitare i fedeli a vivere con noi quello che ci aspettiamo dal Sinodo Speciale per l'Africa, vale a dire la riconciliazione, il perdono, la giustizia, la verità e la pace. D. - I politici africani non danno forse l‟impressione che questi discorsi della Chiesa non li riguardino? R. - Sicuramente sì. Perché, più di una volta, abbiamo dovuto sentirci dire: "Voi vescovi, non dovete occuparvi di questioni politiche, il vostro 11 posto è in sacrestia". Ma noi rispondiamo che la Chiesa si occupa dello sviluppo integrale dell‟uomo. Nel Vangelo, vi è anche una dimensione politica per l'insegnamento di Gesù Cristo che noi non possiamo tralasciare. Noi, come custodi della missione di Gesù Cristo, dobbiamo compiere questa missione nella sua piena dimensione, anche nel suo aspetto politico. *** 12 “LUCI E OMBRE” DELLE SOCIETA‟ AFRICANE ALCUNE RIFLESSIONI A PARTIRE DALLE LINEE-GUIDA DELL’INSTRUMENTUM LABORIS LUCI 1 La crescita democratica e l‟emancipazione dalle dittature (cfr. Instr. Laboris: cap. I, pp. 3-4, punti 7-8; cap. III, pp.40-43) A partire dagli anni Novanta molti Stati africani hanno intrapreso un cammino di democratizzazione, attraverso l‟introduzione di varie riforme di liberalizzazione del quadro politico, economico e sociale: elezioni multipartitiche, diritto di voto individuale, pluralismo mediatico e delle associazioni della società civile. Si sono verificate alcune alternanze di governo, grazie anche al contributo di Commissioni Nazionali e degli osservatori internazionali, e la nuova cultura democratica ha migliorato l‟immagine di questi Stati africani all‟estero, rendendoli interlocutori più credibili in seno alle Organizzazioni Internazionali. La Chiesa si è fatta promotrice delle istanze democratiche ogni volta che è stata coinvolta nelle dinamiche di transizione politica. In tutto il continente si possono osservare, a vari livelli, forme di partnership tra membri delle comunità ecclesiastiche e attori istituzionali locali, che favoriscono il confronto e il dialogo. Ne è un esempio l‟Accordo quadro fra Santa Sede e Repubblica del Gabon del 12 dicembre 1997, che sancisce la libertà di culto e la collaborazione tra Stato e organizzazioni cattoliche in campo di assistenza sociale e medica. Intervista con PRATIBHA THAKER, membro dell‟ Economist Intelligence Unit (A cura di Silvia Koch) D. - Come giudica le riforme democratiche applicate dalla maggioranza dei governi africani negli ultimi venti anni? R. - Nell‟ultimo decennio ci sono state elezioni libere in tutta una serie di Paesi. Per rendersi conto della portata delle innovazioni democratiche, basti considerare alcuni dati relativi al passato: durante gli anni Sessanta si sono contati ventuno colpi di stato nel continente, diciotto negli anni Ottanta e non più di cinque nella fase di passaggio dal 1990 al 2000. In molti paesi è stato intrapreso un 13 processo di riforma del quadro istituzionale e, se venticinque anni fa solo quattro regimi potevano dirsi “democratici” (Senegal, Botswana, Zimbabwe e Mauritius), oggi sono 45 i governi eletti con un sistema multipartitico. Infine, ricordo che un importante momento di cesura nella storia della democratizzazione africana è stata la fine della guerra civile in Angola. D. - Gli effetti positivi di questa generale ventata di democratizzazione arrivano facilmente alle popolazioni, alla gente comune? R. - Sicuramente i cambiamenti democratici si riflettono in ambiti diversi e numerosi fattori, dallo sviluppo economico alla graduale liberalizzazione politica, ne sono conseguenza ed espressione. In particolare, negli ultimi dieci anni numerosi investitori cinesi si sono fatti avanti sulla scena africana e questa presenza asiatica sta influenzando molto l‟economia interna del continente. D. - Come mai solo negli ultimi anni si è iniziato a parlare in maniera costante di pirateria? È, questo, un fenomeno nuovo nelle relazioni internazionali? R. - Quella della pirateria è una grossa problematica internazionale che ha radici profonde, nonostante se ne parli, è vero, solo da poco. È un traffico che coinvolge il mondo intero in quanto, per contrastare la pirateria, tutte le navi che transitano per il Golfo di Aden, e che sono circa ventimila ogni anno, devono dotarsi di una serie di dispositivi, contratti e assicurazioni e questo fa lievitare molto i costi di gestione delle imbarcazioni. D. - C‟è un legame tra il cambiamento climatico che sta interessando l‟Africa e la sicurezza internazionale? R. - Il cambiamento climatico è un flagello che si abbatterà sull‟Africa. Si prevede che questo continente sarà il più colpito dagli effetti dallo stravolgimento degli ecosistemi naturali, proprio perché per il 75% le economie africane dipendono dall‟agricoltura. L‟innalzarsi del livello dei mari e la siccità colpiranno fortemente il settore rurale creando instabilità sociale e insicurezza alimentare. Il dramma della carestia ha colpito addirittura regioni un tempo prospere, come il Senegal e il Sudafrica. Il diffondersi delle carestie in Africa rappresenta una minaccia anche per l‟Europa e per gli altri Paesi occidentali. L‟insicurezza alimentare provoca, infatti, un aumento di sommosse e 14 disordini politici, a livello locale, e un conseguente incremento dell‟emigrazione clandestina, sulla scena internazionale. Si è calcolato che negli ultimi dieci anni circa un milione di immigrati clandestini hanno trovato il modo di entrare in Europa e se non si interviene a monte, nella tutela dell‟ecosistema rurale locale africano e nella promozione del settore agricolo, ci si troverà a fronteggiare dei flussi sempre maggiori di clandestini che arrivano in Europa. L‟attuale tendenza dell‟Unione Europea, di “chiusura” nei confronti dell‟immigrazione, non rende più sicure le sue frontiere; al contrario, la politica dei respingimenti produce un incremento dei traffici criminali, in quanto questa gente, che in Africa non ha di che vivere, cercherà ad ogni costo il modo per giungere, illegalmente, in Europa. 15 2. La crescita della cooperazione tra i Paesi Africani (cfr. Instr. Laboris: cap. I, p. 4, punto 8) A causa della tendenza alla concentrazione dei poteri, tipica di molti Stati Africani, nel continente il processo di integrazione regionale non trova, storicamente, un terreno fertile. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Ottanta, i paesi si sono dotati di varie organizzazioni sovranazionali, utili nelle funzioni di governance e promozione economica. Le Unioni regionali consentono, inoltre, di rivendicare una maggiore autonomia dagli attori occidentali, rendendo il continente africano un partner più forte nel processo di globalizzazione economica. Gli organismi più importanti sono: African Union (UA); African Parlamentary Union (APU); Organisation Internationale de la Francophonie (OIF); New Partnership for Africa‟s Development (NEPAD); Meccanismo Africano di Controllo Paritario (MAEP); Arab Maghreb Union (AMU); infine la Southern African Custums Union (SACU) e la Zona del Franco.1 Si realizzano poi anche collaborazioni più flessibili, pianificate sulla base di esigenze specifiche (iniziative di promozione culturale o economica; partnership tra le forze dell‟ordine; infine programmi sanitari, di lotta alla fame e alla povertà). Intervista con PIERFRANCESCO SACCO, consigliere della Direzione generale Cooperazione e Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri italiano (A cura di Silvia Koch) D. - In cosa consiste la riformulazione internazionali in ambito di cooperazione? delle relazioni R. - L‟elemento più innovativo del nuovo approccio alla cooperazione è l‟idea di collaborazione, partnership, parità e responsabilità reciproca. Uno degli obiettivi prioritari è il rafforzamento della società civile nei paesi partners, fondamentale per dare concretezza al principio dell‟ownership. Questo concetto esprime l‟appartenenza ai Paesi poveri dei loro processi di sviluppo, qualificandola in termini di democraticità. A tal fine è indispensabile, tra le altre cose, disporre di mezzi di comunicazione validi e solidi. 1 La SACU e la Zona del Franco sono le uniche forme di integrazione economica effettiva. 16 D. - Questo comporterà, a suo avviso, una riduzione dei fondi devoluti alle attività di sviluppo? R. - Io mi auguro di no. Il complesso dei finanziamenti per lo sviluppo deve essere al centro dell‟attenzione anche nell‟agenda politica internazionale. Questo è necessario per fronteggiare l‟impatto grave della crisi finanziaria sui paesi del Sud del mondo. D. - Quali saranno i nuovi rapporti tra le Istituzioni italiane preposte alla cooperazione allo sviluppo e la società civile? R. - Per quanto concerne il contesto italiano, per i prossimi anni si prevede un coinvolgimento diretto degli attori della società civile nazionale non solo nella fase di attuazione dei progetti, ma anche nell‟elaborazione delle nuove linee-guida settoriali e nella pianificazione delle attività istituzionali finalizzate alla cooperazione. Riguardo alla società civile locale, la nostra cooperazione ha una lunga tradizione di collaborazioni, che si realizzano anche attraverso le attività delle numerose Ong italiane, partners delle Ong dei Paesi in questione. Questa filiera sarà rafforzata con l‟adozione di strategie destinate appositamente ad accrescere il coinvolgimento e il protagonismo degli attori locali nei nostri programmi di sviluppo. D. - A causa della grave recessione economica che stiamo vivendo, nel 2008 si è registrata globalmente una drastica riduzione delle risorse destinate dagli Stati industrializzati ai Paesi poveri. Crede che queste linee-guida, da Lei illustrate, troveranno un adeguato supporto finanziario? R. - Io ho fede nella sostenibilità del nuovo approccio allo sviluppo. Invito l‟opinione pubblica a registrare le dichiarazioni e gli impegni che le classi politiche, di diversi paesi occidentali, hanno assunto in ambito di cooperazione. Abbiamo dei gravi vincoli di bilancio, è vero, ma penso che questo aspetto qualificante della politica estera degli Stati industrializzati non potrà non avere il giusto peso anche in sede di programmazione finanziaria, nelle varie Nazioni. Noi, in quanto Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo, siamo molto incoraggiati anche dagli appelli che, recentemente, lo stesso Pontefice ha lanciato in questa direzione. 17 3. La crescita dei battezzati e delle vocazioni e la sfida dell‟inculturazione (cfr. Instr. Laboris: cap. I, p. 4, punto 10) La rapida crescita delle comunità ecclesiastiche, degli ultimi decenni, si manifesta attraverso un consistente incremento dei battesimi, delle vocazioni sacerdotali; dei movimenti e associazioni di fedeli laici, infine delle fondazioni. Secondo un rapporto del 2007 della Conferenza Episcopale tedesca, i cattolici in Africa sono aumentati del 6.708 % tra il 1900 e il 2000, passando da 1,9 a 130 milioni in cento anni. Gli ultimi dati pubblicati dall‟agenzia Fides, poi, indicano che nel 2006 in Africa si contavano 158.313.000 cattolici (ben 4.843.000 unità in più rispetto all‟anno precedente, su una popolazione di 926.878.000 individui); 638 vescovi (+ 8 elementi dal 2005); 33.478 sacerdoti (+ 1.108) e oltre 68.000 seminaristi tra maggiori e minori (quest‟ultimo dato è riferito al 2004). Una dinamica evolutiva vivace ha riguardato, inoltre, i vescovi e i seminaristi africani. Se continuerà a registrarsi tale tendenza, solo in parte imputabile all‟incremento demografico, in 25 anni i battezzati africani e gli operatori pastorali saranno numericamente superiori di quelli europei (che risultano, invece, in decrescita) Intervista con Padre GIUSEPPE CAVALLINI, Coordinatore del Centro Comboni Multimedia (A cura di Isabella Piro) D. - Secondo gli ultimi dati dell‟Annuario Pontificio, nel periodo 2000-2007 i sacerdoti in Africa sono aumentati del 27,6%. A cosa si deve questo incremento, secondo Lei? R. – Quando si guarda a questi dati, che pure sono veri, bisogna fare attenzione a non considerarli in se stessi, ma a metterli in un quadro più ampio, che è quello per il quale in Africa c‟è in effetti una vitalità molto forte, che nasce dal senso profondo di attaccamento al sacro esistente nelle società africane, tant‟è che ancor più dei sacerdoti, dei cristiani e della Chiesa cattolica, crescono la religione dell‟Islam, quella delle Chiese indipendenti, le sètte di vario genere che spuntano da ogni parte. E quindi è proprio in questo quadro di sensibilità generale che dobbiamo guardare questi dati. Nonostante ciò, certamente fa impressione ed è un dato molto positivo il fatto che aumentino i sacerdoti che diventano un po‟, ormai direi, il segno di una comunità cristiana che, in generale, va assumendosi la propria 18 responsabilità, diventando davvero capace di guardare a se stessa. (…) Quindi, l‟aumento del clero anche locale di sicuro, in questo senso, sarà un grande trampolino di lancio per il futuro della Chiesa in Africa. D. – Qual è il rischio che alcune vocazioni nascano come scelta di comodo, per sfuggire alla povertà, ad esempio? R. – Questo è certamente vero, lo sperimentiamo continuamente anche noi missionari; è un po‟ quello che succedeva fino ad una decina di anni fa nei nostri ambienti, in Italia, in Europa, in genere. Il fatto che (in Africa ndr) le famiglie siano così numerose, ci siano delle realtà demografiche in costante espansione e però che, con questo, ci sia anche una crescita reale del numero di aderenti alla Chiesa, attraverso il catecumenato ecc., certamente favorisce il fatto che in ogni famiglia, quasi, ci sia da un lato il desiderio che qualche figlio diventi religioso e prenda questa strada, dall‟altro certamente è anche il desiderio di molti giovani che vedono aprirsi una possibilità più garantita, per certi versi più facile, di costruirsi una vita migliore di quella che magari vedono nei loro contesti. Tante volte, (questo desiderio ndr) li spinge davvero su questa strada. E qui nascono, naturalmente, tutti i problemi legati ad essa perché, se è vero che c‟è molta generosità in molti sacerdoti giovani - e questo non va ignorato – è anche vero che molti poi dimostrano che avevano imboccato la strada con altre intenzioni. D. - Rilevante anche, in Africa, l‟aumento dei fedeli battezzati, pari ad un +3,0 %. Qual è stata la causa di questo “trend positivo”, possiamo dire? R. – Io stesso, nella mia esperienza, vedo come da molti anni, ma direi ancora adesso, ci sono intere regioni dell‟Africa che sono molto aperte al Vangelo, alla Parola di Dio, al desiderio di esprimere la propria fede anche, se si vuole, in modo istituzionalizzato. E quindi ci sono dei catecumenati molto floridi in molte parti dell‟Africa e c‟è molto desiderio soprattutto di cercare Dio, di metterlo ancora al centro della propria vita. Da qui, certamente, nasce (questo trend positivo ndr), insieme al fattore demografico, al fatto che la Chiesa sia già una grandissima realtà con oltre 150milioni di “abitanti”, quindi c‟è anche una crescita di fedeli che è diventata un processo naturale, fisiologico, perché ogni anno nascono moltissimi bambini anche nelle comunità cattoliche e che, automaticamente, entrano nella Chiesa. 19 D. - Dal punto di vista logistico, a Suo parere, l‟Africa ha strutture adeguate alla formazione ed al sostentamento dei religiosi? R. – Questo è un campo davvero critico perché ci sono ormai in quasi tutte le diocesi delle istituzioni, dei seminari, dei centri particolari di formazione che, dal punto di vista strutturale, soddisfano molte esigenze di questa crescita della Chiesa. Quindi direi che più che l‟assenza di strutture che aiutano l‟adeguata formazione delle persone, quello che manca forse è la preparazione, alle volte, di un sufficiente numero di formatori autoctoni, di personale locale che davvero segua la formazione di questi giovani con amore, con disinteresse, grande fede, con grande passione. Tra l‟altro, non credo che siano le istituzioni “gigantesche”, presenti da noi tradizionalmente, a garantire un futuro di buona formazione, ma dovrebbero essere anche gli ambiti delle comunità cristiane, quindi la crescita dei giovani nel proprio contesto ecclesiale, culturale, famigliare, che danno l‟impronta fondamentale alla formazione di un clero e di una Chiesa davvero convinta, responsabile D. - Quali le linee-guida dell‟evangelizzazione in Africa? R. – Come sappiamo, il primo Sinodo africano, oltre quindici anni fa, aveva già offerto un quadro globale che era quello che parlava di ricostruire una Chiesa in Africa intesa come grande famiglia, “la famiglia di Dio”, come era stata definita. Al centro di essa si era posto, in modo fortissimo, il tema dell‟inculturazione, cioè la capacità di trovare le espressioni della tradizione culturale di ogni popolo, di ogni gruppo, e quindi anche di ogni Chiesa che meglio esprimessero lo stesso Vangelo. Direi che in questi anni, questo grande tema credo debba essere recuperato, speriamo venga fatto nel secondo Sinodo che si celebrerà il prossimo ottobre e che l‟inculturazione venga rimessa al centro perché da essa nasce un‟identità autentica per le comunità così estese e così numericamente favorevoli che ci sono oggi in Africa. L‟altro grande tema dell‟evangelizzazione è certamente è quello del continuare il cammino verso l‟autosufficienza, in termini economici, ma non soltanto delle Chiese locali, ma anche in termini ministeriali – come per altro sta succedendo – e in termini di missionarietà. Anche qui, l‟Africa sta esprimendosi molto bene perché davvero questo interscambio di personale, di sacerdoti, di religiosi va aumentando sempre di più. L‟ultimo elemento è quello del dialogo con le altre realtà religiose perché dovremmo essere noi quelli che promuovono questa realtà secondo lo spirito del Concilio Vaticano II, 20 sia al livello ecumenico che al livello interreligioso, diventando poi così davvero agenti di trasformazione sociale perché un grande ruolo giocato dalla Chiesa fino ad oggi e che certamente anche in futuro sarà altrettanto importante è proprio quello di applicare la presenza di fede alla trasformazione dell‟uomo e della società. D. – Abbiamo parlato di inculturazione, ma c‟è sempre anche l‟altro fronte, quello delle culture tradizionali africane: come conciliare questi due aspetti? R. – Io credo che si concilino in modo perfetto, perché – almeno nell‟esperienza mia, di tanti miei amici e confratelli e nell‟incontro proprio con le Chiese locali – laddove si è saputo operare in modo abbastanza oculato e saggio, direi, l‟introduzione, a tutti i livelli, di elementi di espressione tradizionale anche sul piano religioso, della sensibilità per il sacro, l‟inculturazione è avvenuta secondo un processo quasi spontaneo ed è dove le Chiese hanno raggiunto il maggior grado di responsabilità, di capacità di gestirsi, anche nel passaggio graduale a superare il grande rischio, per altro molto presente, di “clericalizzare” un po‟ l‟ambiente ecclesiale. Mentre, invece, inculturare significa promuovere, ad esempio, la responsabilità dei laici, dei capi locali che sono molto apprezzati, molto ascoltati anche nell‟ambito tradizionale. Anche nell‟ambito della formazione e dell‟educazione l‟inculturazione è la chiave per dare “un volto africano alla Chiesa in Africa”, come diceva Paolo VI. D. – Alla luce di quello che abbiamo detto, qual è il contributo delle missioni? R. – (…) In base alla mia esperienza, probabilmente ci verrà chiesto di fare un‟opera di autoconversione ancor più grande di quella che siamo stati capaci di operare finora. Perché secondo me l‟Africa sta vivendo la stagione della propria adolescenza, quindi è in pieno fermento ed è alla ricerca di un‟identità propria che la mette automaticamente quasi in conflitto molto spesso con le modalità tradizionali di vedere gestita la propria crescita, ovvero quella operata di più dall‟esterno. È una sfida grande giocare il ruolo di Giovanni Battista, in questo tempo, cioè diminuire per lasciare davvero spazio a loro, alla localizzazione, al clero autoctono, ai laici ormai impegnati, molto capaci e convinti nella propria fede. Quindi, (il nostro contributo ndr) è quello di riqualificare un po‟il nostro impegno, la nostra presenza come missionari, preparandoci di più, specializzandoci non nella Pastorale “ordinaria” diciamo, ma in quelle 21 strutture in cui è importante esserci per dare garanzia di preparare davvero bene quelli che saranno i protagonisti futuri della continua crescita, della maturazione di questa Chiesa in futuro. 22 4. Il ruolo dei mass media e lo sviluppo di quelli di ispirazione cristiana, soprattutto radio (cfr. Instr. Laboris: cap. I, pp. 7-8-9, punti 18-19) La Chiesa fa largo uso delle nuove tecnologie dell‟informazione per sensibilizzare al rispetto dei valori religiosi e per far emergere delle realtà altrimenti ignorate dall‟opinione pubblica mondiale. Ricordiamo la Radio Sol Mansi (“Il sole è sorto”) di padre Davide Sciocco, che nasce con l‟intento di dare voce alla popolazione della Guinea Bissau, straziata dalla guerra civile del 1998, e la Radio Don Bosco del Madagascar, particolarmente attenta ai programmi culturali ed educativi rivolti al pubblico giovanile. Il potere della comunicazione è enorme. Varie volte l‟intervento dei giornalisti ha influenzato l‟esito di processi politici (le votazioni senegalesi del 2000, dette “elezioni dell‟alternanza” ne sono forse l‟esempio più significativo). Non a caso, d‟altra parte, i media subiscono le ingerenze di leader politici o di gruppi di parte (come la rwandese Radio des Milles Collines, che nel 1994 alimentava la violenza etnica). L‟esistenza di un‟alternativa credibile alle notizie omologate e filogovernative, come quella fornita dai media di matrice cattolica, è un elemento essenziale per qualunque regime che si voglia ispirato ai valori della democrazia. Intervista con JEAN LÉONARD TOUADÌ, giornalista e scrittore congolese (A cura di Silvia Koch) D. - Perché oggi si parla della necessità di nuovi linguaggi giornalistici per informare sulla vita dei paesi africani? R. - La mia impressione è che l‟informazione occidentale sull‟Africa sia ancora prigioniera degli stereotipi, dei pregiudizi etnologici dell‟Ottocento e del Novecento. Il risultato è una rappresentazione di questo continente che non fotografa l‟oggi, ma che continua a riprodurre l‟immaginario sedimentato nei secoli passati. Questo ci impedisce di cogliere i nuovi fenomeni e le forme di espressione originali delle società africane, che potrebbero rappresentare, diversamente, un contributo interessante alla nostra conoscenza della realtà locale. Dobbiamo, allora, rinnovare i nostri linguaggi e affinare quegli strumenti che facilitano una migliore comprensione del continente, così vario e articolato. Io penso che tale fondamentale opera di rinnovamento dei codici della comunicazione possa iniziare 23 dalla considerazione della letteratura, della poesia, dell‟arte, del cinema e di tutti quei linguaggi che consentono di penetrare la realtà locale originaria, al di là delle mediazioni sovrastrutturali del passato. D. - Come giudica determinate esperienze di media internazionali in Africa, i cosiddetti “media di pace”, come ad esempio la Radio Okapi del Congo, legata alle Nazioni Unite? R. - La radio ricopre un ruolo molto importante in Africa perché riproduce, in qualche modo, la tradizione orale. Una tradizione che si esprime “da bocca a orecchio”, tipica di questo continente nel quale l‟analfabetismo è estremamente diffuso. In Africa, la radio è intesa come mezzo di comunicazione e come strumento di sviluppo, ma anche come canale per veicolare messaggi di pace, per diffondere una cultura di concordia, di condivisione dinanzi alle difficoltà e di promozione di nuove relazioni tra le etnie e gruppi in opposizione. Così come in determinate occasioni, ad esempio nel Rwanda del 1994, la radio si è fatta portavoce di sentimenti di odio e divisione che hanno portato ad atti di violenza inaudita, come il genocidio. In altri contesti, invece, questo mezzo di comunicazione assume oggi un ruolo significativo in quanto cemento di nuove socialità e di nuovi orizzonti di pace. A mio avviso questo è molto importante. D. - In un momento come quello che stiamo vivendo, da Lei definito “di chiusura” da parte delle nazioni europee - che si manifesta attraverso le attuali scelte degli Stati nell‟ambito delle politiche sull‟immigrazione - come è possibile abbattere le barriere della “fortezza europea” e tornare all‟idea di “Eurafrica” del celebre padre della patria senegalese, Léopold Sédar Senghor? R. - Innanzitutto dobbiamo comprendere che non siamo soli al mondo. In un‟epoca di globalizzazione, quale è quella odierna, ogni parola pronunciata, ogni azione commessa viene ascoltata, vista e giudicata altrove. La mia impressione è che i nostri politici, la stampa e l‟opinione pubblica non siano ancora consapevoli del carattere “glocale” dei nuovi mezzi di comunicazione. Di conseguenza, il modo con cui stiamo affrontando la questione dell‟immigrazione, molto rigido, severo e repressivo all‟interno e “di chiusura” all‟esterno delle frontiere, sta provocando in Africa un sentimento di rigetto nei confronti dell‟Europa. Un rifiuto di antichi legami plasmati dalla storia e dalla geografia comuni. Io credo che noi dobbiamo ricostruire questo ponte con l‟Africa e ripristinare, a partire dallo scambio culturale, un contatto diretto tra i popoli. Le comunità devono tornare 24 a frequentarsi e a conoscersi reciprocamente. Da questo punto di vista, la diaspora africana in Europa può essere di aiuto, perché la presenza degli africani ci stimola a riallacciare relazioni sociali e culturali. D. - Come immagina un progetto di scambio formativo tra giornalisti africani ed europei, del quale si è fatto promotore? R. - Penso non a un corso di formazione unilaterale, ma a uno spazio di contaminazione reciproca, nel quale i giornalisti africani possano portare l‟autenticità e il vissuto del loro continente e della loro professione. Gli europei, d‟altro canto, potranno sostenerli dal punto di vista teorico, tecnico e tecnologico. La mia idea è quella di realizzare occasioni di “impollinazione reciproca” tra giornalisti. Intervista con DIANE SENGHOR, direttrice dell‟Istituto “Panos” di Dakar (A cura di Silvia Koch) D. - Cosa possono fare i media internazionali per migliorare la qualità dell‟informazione sulle realtà africane? R. - Penso che non sia facile, perché il pubblico occidentale è interessato soprattutto da ciò che è “spettacolare”, “catastrofico”. Al contrario, i giornalisti africani non hanno un‟immagine così pessimista del loro continente; essi mostrano piuttosto la vitalità che l‟Africa manifesta in tutti i settori, dall‟attivismo sociale alle diverse forme di resistenza politica, fino alle espressioni della creatività economica. Io credo che i media occidentali dovrebbero appoggiarsi maggiormente sulla produzione giornalistica africana. D. - Cosa rende una realtà “interessante” dal punto di vista mediatico? R. - Se si guarda al passato, si noterà che Paesi come la Cina o l‟India 10-15 anni fa erano coperti poco e male dai media occidentali; esattamente quello che avviene oggi per l‟Africa. Io penso che l‟immagine di un “paese del Sud” cambi, sulla scena internazionale, quando e se questo Stato diventa interessante dal punto di vista economico. Questo è avvenuto, ad esempio, per il Sudafrica. Ad ogni modo, non si può attendere che la situazione economica dei Paesi cambi affinché essi possano essere adeguatamente rappresentati sui 25 canali internazionali della comunicazione; io penso che sia necessario educare i giornalisti, stabilire dei partenariati con le redazioni locali, creare occasioni di scambio e di co-produzione tra media occidentali e media africani. D. - Può raccontarci l‟esperienza dell‟Institut Panos? R. - L‟Institut Panos si propone l‟obiettivo di sostenere i media locali e di aiutarli a migliorare la qualità della loro produzione. In Africa le piccole realtà locali, così come i “soggetti marginalizzati”, non hanno voce a livello nazionale o internazionale. Di conseguenza essi non hanno alcuna influenza a livello sociale e politico. L‟Insitut Panos promuove la cooperazione tra canali di comunicazione locali, media nazionali e grandi network internazionali. Ad esempio, il centro raccoglie in rete la produzione dei piccoli operatori dell‟informazione, in modo da rendere questo materiale fruibile dai loro colleghi anche all‟estero. D. - Quali benefici possono essere apportati da un incremento dell‟“informazione positiva” sull‟Africa, relativa alla sua arte, alla sua cultura e alle sue ricchezze? R. - Innanzitutto, ci sarebbero effetti positivi sugli aiuti allo sviluppo, che, in generale, risultano ancora non adeguati in quanto fondati su analisi spesso superficiali, su dati “politici” che non rispecchiano le realtà del continente e le vere condizioni di vita della gente. Penso che una copertura mediatica più coerente possa stimolare degli interventi di cooperazione più appropriati ed efficaci. Inoltre, anche dal punto di vista finanziario, un‟immagine positiva dell‟Africa può generare un clima di fiducia reciproca proficuo per gli investimenti e, quindi, fondamentale per stimolare un‟economia locale più autonoma, forte e meno basata sull‟aiuto allo sviluppo. 26 Intervista con RICCARDO BONACINA, Progetto Afro (A cura di Silvia Koch) D. - Perché alcune realtà africane vengono dimenticate dai media internazionali? R. - Questo è un vizio tipico dei media occidentali, che interpretano l‟informazione come un atto unilaterale concepito al centro, dai poteri forti. L‟Africa soffre di quest‟informazione elaborata all‟esterno e la sua voce, il suo racconto riescono difficilmente a emergere. D. - Quali sono le conseguenze di un deficit di mediatizzazione? R. -È come se si guardasse attraverso una lente, che difficilmente coglie la realtà vera. Di conseguenza, si ripete spesso il binomio Africa-emergenza: fanno “notizia” solo le guerre, le crisi umanitarie, i cosiddetti “diamanti insanguinati” o l‟eventuale episodio di chiusura alla cooperazione internazionale da parte di un dittatore. Ma al di là di questo, sappiamo pochissimo del cinema, della musica e dell‟arte africana. Questo continente ha bisogno di una lente che faccia emergere i suoi colori. D. - Quali benefici può portare la cooperazione internazionale in ambito mediatico? R. - I partenariati fra media europei e africani possono costituire ottime occasioni di stimolo e scambio di competenze per i giornalisti, come anche importanti canali di accesso a risorse, infrastrutture e finanziamenti. Bisogna elaborare modi per dare voce alle piccole redazioni locali, ai suoi giornalisti e a tutte le esperienze che nascono dal basso, dalla società civile. Mi auguro che i giornalisti occidentali colgano queste opportunità per prestare ascolto al racconto dell‟Africa fatto non dai giganti dell‟informazione, dalle agenzie di stampa globali, ma dagli africani. 27 Intervista con MASSIMO ALBERIZZI, inviato in Africa per il Corriere della Sera (A cura di Silvia Koch) D. - Quali effetti positivi può portare la copertura mediatica in situazioni caratterizzate da limitazioni gravi delle libertà individuali e collettive? R. - Ci sono regimi politici molto rigidi in Africa, nei quali l‟opposizione non ha voce, la stampa è pilotata e i reporter vengono frequentemente imprigionati. Il caso più eclatante è l‟Eritrea, ma il diritto di opinione viene continuamente violato anche in altri paesi, come la Guinea Equatoriale, il Ciad, la Nigeria e il Sudan. Tuttavia, ritengo necessario che si parli dei casi di violazione dei diritti umani in qualunque contesto socio-politico, in modo che i politici e l‟opinione pubblica siano informati. Diversamente, tali regimi resteranno privilegiati dal punto di vista delle relazioni bilaterali diplomatiche e finanziarie. È quanto avviene, ad esempio, fra l‟Italia e l‟Eritrea. D. - Quali limiti e difficoltà incontra un giornalista in Africa? R. - Il problema principale sono i costi che, specialmente in zone di conflitto, sono molto alti. Ad esempio, per andare in Somalia, sulla “costa dei pirati”, oggi un operatore straniero ha bisogno di circa mille dollari al giorno per la scorta, le automobili, i traduttori... Per i giornalisti locali generalmente queste cifre si riducono, ma incidono in misura addirittura maggiore sui bilanci finanziari delle redazioni, che sono minimi. I costi restano alti anche in aree geografiche relativamente stabili, non colpite da conflitto. È un limite che andrebbe abbattuto, perché questo continente ha bisogno di notizie, di informazioni che circolino sia all‟interno dei paesi sia all‟esterno, così da arrivare alle opinioni pubbliche mondiali. D. - Come giudica il livello di articolazione delle società civili africane, anche in relazione alle scelte politiche adottate dai relativi governi? R. - La società civile africana è, in generale, molto più evoluta dell‟establishment istituzionale. Spesso le élites politiche sono limitate nelle scelte perché magari devono fare i conti con eventuali guerriglie, oppure rispondere dei rapporti internazionali e delle alleanze strategiche. Ad esempio in Kenya, in occasione delle contestazioni e 28 delle violenze generate dallo scrutinio del dicembre 2007, molta parte della società civile si è schierata a difesa dei principi della democrazia. Diverse fazioni hanno invocato la tutela delle garanzie costituzionali al di là delle divisioni etniche, che spesso vengono strumentalizzate dalle leaderships per combattersi e per garantirsi il potere. Questo dimostra che determinate espressioni della società africana sono attive, avanzate e possono coinvolgere parte della popolazione, contribuendo, così, allo sviluppo sociale, ideologico e democratico del continente. 29 5. Il ruolo delle Commissioni „Giustizia e Pace‟ (cfr. Instr. Laboris: cap. II, pp. 19-20; cap. III, pp. 30-31, punti 8086, pp. 44-45; conclusioni, p. 51) La storia del continente africano è costellata da innumerevoli ingiustizie e l‟impegno dei fedeli al servizio della riconciliazione è un imperativo urgente. Molte Conferenze Episcopali africane hanno istituito Commissioni per la giustizia e la pace, strumenti impegnati nella sensibilizzazione alla pace, nell‟educazione civica, nella ricerca di giustizia per le vittime di ogni tipo di violenza. L‟esempio più significativo, rimasto celebre nella storia, è rappresentato dalla Commissione di Verità e Conciliazione sudafricana, presieduta dall‟arcivescovo Desmond Tutu nel 1999, che ha permesso di chiudere moralmente con il dramma dell‟apartheid. I valori della riconciliazione sono veicolati dalla Chiesa anche attraverso la pratica sacramentale, che rigenera l‟armonia tra i figli di Dio. La speranza è che i fedeli “consacrati” possano essere, a loro volta, artefici di pace e che tale forma di celebrazione comunitaria possa contribuire a medicare le ferite delle società africane, lacerate da esperienze di estrema violenza, da conflitti e da guerre. Intervista con JEAN AIMÉ BRICE MACKOSSO, Commissione Giustizia e Pace del Congo Brazzaville (A cura di Silvia Koch) D. - Quali attività svolge la Commissione di Giustizia e Pace in Congo Brazzaville? R. - Noi lavoriamo sulla formazione dei cristiani, per diffondere una cultura di pace e di non violenza. Cerchiamo inoltre di fare pressione per una migliore gestione delle entrate economiche legate ai combustibili fossili. Il bilancio pubblico del Congo Brazzaville dipende in larga parte dal petrolio; per questo i vescovi nel 2002 hanno lanciato un appello affinché questa risorsa sia utilizzata per ridurre la povertà, nel paese. La Commissione di Giustizia e Pace si occupa inoltre della pastorale e dell‟assistenza giuridica nelle prigioni. È impegnata poi con i ragazzi-schiavi, che dall‟Africa Occidentale arrivano in Congo, dove lavorano come schiavi nei mercati. Infine, curiamo un corso di “Culture cristiane della pace” nelle scuole e altri programmi educativi in diverse strutture per la gioventù, ad esempio in quella di Kinkala dove si lavora sul reinserimento degli ex-bambini 30 soldato. Ecco dunque i vari settori di intervento della Commissione di Giustizia e Pace, in Congo Brazzaville. D. - Qual è il contesto nel quale lavorate? R. - Sono condizioni molto difficili, perché in un Paese che ha conosciuto la guerra non è facile denunciare la corruzione, la cattiva utilizzazione delle finanze pubbliche. Soprattutto dal momento che dietro le attività criminali ci sono spesso le multinazionali, che anche in passato hanno peggiorato la situazione, in diverse occasioni. Dunque, diventa complicato pretendere che le risorse statali siano devolute alla battaglia contro la povertà. D. - Quali sono i risultati concreti del lavoro sul campo della Commissione di Giustizia e Pace? R. - Fornirò l‟esempio di come si è evoluto il dibattito intorno alle materie prime. In passato i congolesi non ne erano al corrente, non sapevano che la nazione producesse petrolio. Chi si occupava di questi argomenti rischiava di essere arrestato; addirittura un detto popolare diceva: “Il petrolio uccide; colui che ne parla può morire”. Oggi invece la gente ne discute liberamente; gli intellettuali sono informati sulle problematiche e sui benefici legati all‟attività estrattiva. I vescovi hanno avuto il merito di portare l‟attenzione del dibattito pubblico su tali tematiche. Il petrolio non rappresenta più un “tabù”, e questo io credo sia una delle conquiste più importanti della Commissione di Giustizia e Pace. D. - Esistono forme di collaborazione tra la Commissione di Giustizia e Pace congolese e il Pontificio Consiglio „Giustizia e Pace‟? R. - Tutte le Commissioni africane hanno delle relazioni con il Pontificio Consiglio. Innanzitutto noi inviamo periodicamente al Consiglio un rapporto sulle nostre attività. A livello di Africa Centrale, esiste un coordinamento delle Commissioni di Giustizia e Pace, la SERAC, che si riunisce ogni tre anni per fare una valutazione degli interventi effettuati nei diversi paesi. E il Pontificio Consiglio prende sempre parte ai lavori, nella figura del Cardinale responsabile o di un suo delegato. Per quanto riguarda il nostro Dicastero, posso dire che esiste davvero una collaborazione importante con il Consiglio. 31 D. - A suo avviso, ci sono degli aspetti da incrementare riguardo a questa collaborazione? R. - Io credo che il Consiglio faccia già molto. Ad esempio ha realizzato studi settoriali su varie tematiche, tra cui il debito e la corruzione, che sono fondamentali per il nostro lavoro sul campo. Forse sarebbe importante un intervento più incisivo riguardo alla problematica dei combustibili. Possiamo dire che tutti i conflitti africani sono riconducibili, in una maniera o nell‟altra, allo sfruttamento delle risorse, dal Sudan alla Repubblica Democratica del Congo, all‟Angola…Anche in Congo Brazzaville, si dice che la guerra è stata causata dal petrolio, oppure che se alcune aree, dove si concentra l‟attività estrattiva, non sono state devastate dalla violenza armata, è proprio grazie all‟oro nero. Possiamo concludere, allora, che il petrolio rappresenta una fonte di male e bene al tempo stesso. Dunque, io ritengo importante che la Chiesa, con la sua autorevolezza universale, si pronunci al riguardo. Le indicazioni della Chiesa e un apposito studio del Pontificio Consiglio sarebbero fondamentali e molto ascoltate dal popolo di Dio. D. - In alcuni paesi nei quali l‟economia del petrolio ha sconvolto l‟ecosistema naturale, la Nigeria ad esempio, ci si sta interrogando sulla possibilità di interrompere l‟attività petrolifera, lasciare le risorse nel sottosuolo per avviare produzioni alternative ed ecosostenibili, nei siti estrattivi. Cosa pensate di questo tipo di progetti? R. - Ci sono dei paesi che non possiedono petrolio in Africa, dunque è possibile vivere senza questa risorsa. In generale, nelle economie che non dipendono dallo sfruttamento delle risorse energetiche, si registra addirittura una crescita maggiore, rispetto alle economie petrolifere. Aggiungo che quasi ovunque il petrolio è legato a problematiche di corruzione, di debito, di violenza, di guerra civile. Ricordo un vescovo del Congo che diceva che il nostro petrolio deve diventare “un combustibile per la vita, e non per la morte”. Dunque, se il petrolio non rappresenta una fonte di benessere, ci sono buone ragioni per pensare ad attività alternative a quella estrattiva. Benché per paesi come il Congo Brazzaville, dove l‟80% del budget nazionale dipende dal petrolio, non sia facile rinunciare a questa fondamentale entrata, è tuttavia necessario riflettere sulla convenienza di attività produttive alternative. Io penso che in molti luoghi i combustibili fossili non costituiscano una benedizione per le popolazioni locali, ma siano al contrario fonte di grandi difficoltà. 32 6. Il dialogo interreligioso e ecumenico e il problema delle sètte (cfr. Instr. Laboris: cap. III, pp. 36-37, punti 99-102) “Una Chiesa non chiusa in se stessa, ma che condivide gioie e speranze, problemi e sfide della società africana.” È questo il progetto che emerge dalla Seconda Assemblea Speciale per i vescovi del continente. Le Comunità cristiane locali, di tutte le confessioni, si sono poste come sfida di resistere alla virulenta aggressione delle sètte (spesso strumentalizzate dai politici), di superare la diffidenza e le specifiche divergenze dottrinali per collaborare reciprocamente, “farsi unica voce” e fondare una “Chiesa d‟Africa”. Perché una Comunità solidale è più credibile nella promozione della pace e della riconciliazione. La Chiesa, sempre più radicata e impregnata della realtà africana, si apre anche al dialogo con le religioni tradizionali e con l‟Islam. Attraverso la conoscenza delle culture locali, l‟adozione degli elementi positivi e la purificazione dagli aspetti incompatibili con il Vangelo, si può forgiare una cultura di tolleranza e riconciliazione. Partnership dottrinali, come il celebre movimento dei Focolari di Algeri dell‟arcivescovo Teissier, ne sono un risultato e al tempo stesso uno strumento di promozione. Intervista con SANDRA MAZZOLINI, docente di Teologia ed Ecclesiologia presso la Pontificia Università Urbaniana (A cura di Isabella Piro) D. - Ci sono reali possibilità di dialogo interreligioso in Africa? R. - La possibilità effettiva di dialogo interreligioso va contestualizzata sullo sfondo della storia dell‟Africa, a partire dal Sinodo del 1994, che è una storia caratterizzata dalla proliferazione di sanguinosi conflitti. E penso che proprio questo abbia suggerito la scelta di incentrare i lavori del prossimo Sinodo sulle categorie di riconciliazione, giustizia e pace. Dunque mi sembra che proprio in questa opzione risieda la possibilità effettiva di un dialogo interreligioso, soprattutto nella prospettiva di quello che Giovanni Paolo II chiamava “dialogo di vita”. È un dialogo nel quale si testimoniano reciprocamente i propri valori spirituali e umani, sostenendosi nel viverli per edificare una società più giusta e fraterna (cfr. RMi 57). È chiaro che, se noi consideriamo 33 riconciliazione, giustizia e pace, queste implicano un impegno condiviso e, in questo senso, mi sembra proprio che costituiscano ambiti specifici di attuazione del dialogo interreligioso che, evidentemente, i vescovi ritengono possibile per l‟Africa. D. - Con quali religioni il cristianesimo ha rapporti migliori, in Africa? R. - È difficile dare indicazioni precise in merito, perché oggettivamente la situazione è assai variegata. Basterebbe farsi venire alla mente una cartina geografica dell‟Africa e pensare, nel loro insieme, ad esempio, ai Paesi dell‟Africa settentrionale e a quelli dell‟Africa sub-sahariana o dell‟Africa del sud. Se noi guardiamo questa cartina e la guardiamo anche dal punto di vista religioso, è chiaro che la presenza dei cristiani in genere (e dei cattolici in specie) varia nelle diverse zone del continente, così come varia la presenza di altre tradizioni religiose. Poi c‟è anche da ricordare che, sulla qualità del rapporto con le altre religioni, incidono anche fattori diversi: sto pensando, ad esempio, alle diverse legislazioni degli Stati in materia religiosa. E poi, tra questi fattori, dobbiamo anche tener conto della storia stessa dell‟evangelizzazione: l‟Africa è stata evangelizzata in più fasi, con metodi e metodologie differenti. Oggi credo che per ciò che riguarda questa rete di relazioni del cristianesimo, o meglio del cattolicesimo con le altre religioni, ci sono due fattori ulteriori, che possono rendere più o meno problematico il rapporto tra le varie tradizioni religiose: il primo fattore è costituito dalla diffusione del radicalismo islamico. Anche qui io credo che basterebbe controllare una cartina geografica: questo radicalismo islamico si sta indubbiamente diffondendo nel Corno d‟Africa, ma anche nella Nigeria, nel Sudan, nella Costa d‟Avorio, nella Guinea Conakry, nel Niger, nel Mali, nel Togo ecc. Questa diffusione rende possibile la costituzione di reti terroristiche. Un secondo fattore è la diffusione di sette che molto difficilmente si possono definire “cristiane”; se lo sono, lo sono soltanto come patina esteriore. Sono sétte che si presentano con un‟offerta di benessere, naturalmente da conseguire dietro compenso, un benessere che può essere e accadere qui e ora. D. – Possiamo tracciare brevemente una mappa su quali sono le aree geografiche del continente africano in cui si manifestano maggiori tensioni legate alla diversità di credo? 34 R. - Credo che sia abbastanza difficile, perché i conflitti che insanguinano l‟Africa hanno chiavi di lettura diverse: sono conflitti etnici, clanismo, tribalismo, signori della guerra e, attualmente, anche episodi terroristici. Quindi l‟individuazione delle cause è complessa; anche se si pensa che oggi c‟è un fattore – non nuovo per la verità, ma nuovo per le forme – che è dato dalle nuove presenze coloniali. L‟Africa è ricca di materie prime che sostengono lo sviluppo economico di Paesi come gli Stati Uniti o l‟Europa e che sono molto appetibili dalle nuove nazioni emergenti come l‟India e la Cina. Io credo che, se noi dovessimo analizzare, ad esempio, la guerra nella zona dei Grandi Laghi, ci troveremmo di fronte ad una serie di conflitti che sono emblematici di questa complessità. E allora, talvolta capita che episodi di conflitto violento, dall‟apparente carattere religioso, si verificano però in contesti caratterizzati da complessità etno-tribali e dalla presenza di „confraternite‟ religiose con interessi locali (sto pensano al Sudan, ma anche alla questione del Darfur). E allora, come individuare le aree geografiche del continente africano in cui si manifestano maggiori tensioni legate alla diversità di credo? Io penso che ci sia, in sintesi, un indicatore molto chiaro, ovvero che le aree dove è maggiormente possibile l‟insorgenza di queste tensioni sono quelle dove maggiore è il sottosviluppo, a fronte però, di ricchezze naturali che non sono utilizzate per uno sviluppo interno. Questa situazione di terribile sottosviluppo correlativamente comporta una possibilità maggiore di penetrazione di sette e movimenti fondamentalisti. D. - Ci sono in Africa modelli cristianesimo ed Islam? positivi di rapporto tra R. - Quando si parla dei rapporti con l‟Islam, occorre precisare che non è un mondo monolitico, ma complesso, un mondo che attualmente sta conoscendo, al suo interno, non facili dinamiche di trasformazione. Dunque, le relazioni con l‟Islam vanno comprese nel quadro del suo dinamismo attuale, che presenta anche i tratti dell‟intolleranza religiosa, e tali relazioni vanno considerate anche nel variegato impatto politico dell‟Islam che non poche volte rende difficile il dialogo. Ciononostante, ci sono molte esperienze positive, nelle quali si attua il cosiddetto “dialogo di vita”, e sono tutte esperienze che attengono, ad esempio, all‟ambito caritativo e sociale. Un esempio interessante è quello di “Radio Sol Mansi”, organizzata in Guinea Bissau, in cui si realizza una concreta collaborazione quotidiana di cristiani e musulmani, quindi un‟attuazione del “dialogo di vita”; se poi si osserva il palinsesto 35 della radio, si vede che non mancano programmi sia per i musulmani e sia per gli evangelici. E poi ci sono interventi congiunti formativi su temi di attualità, per esempio la lotta all‟AIDS, la promozione della donna, l‟educazione alimentare, il dialogo tra fedi diverse. D. – E nel dialogo ecumenico tra le chiese cristiane, a che punto si è giunti in Africa? R. - Il dialogo ecumenico – in Africa come altrove nel mondo – sta attualmente procedendo più sulla linea del “dialogo della vita”, anche se non manca un impegno anche a livello teoretico. Luci e ombre disegnano l‟indubbio cammino già compiuto, che, positivamente, trova espressione concreta in esperienze condivise di preghiera: per esempio, sto pensando alla celebrazione della Settimana di Unità dei Cristiani, ma anche esperienze di studio. Significativa è la traduzione della Bibbia in lingue locali in collaborazione con l‟Alleanza biblica, ma penso anche ad esperienze condivise di impegno caritativo e sociale. Si tratta di un cammino da potenziare, perché naturalmente ci sono ombre, superando ostacoli quali una certa diffidenza, rivalità tra gruppi, mancanza di tolleranza e di comprensione reciproca. Le radici di questi ostacoli sono certamente da ritrovarsi, da un lato, nella storia pregressa delle relazioni tra le diverse comunità cristiane ma, dall‟altro, nella mancanza, che frequentemente si riscontra, di conoscenza della propria e, soprattutto, dell‟identità degli altri. Dunque, le Chiese e le comunità ecclesiali coinvolte nel dialogo ecumenico in Africa si trovano poi oggi a dover affrontare anche le sfide derivanti dal moltiplicarsi incontrollato delle sétte, che ingenerano evidenti fenomeni di “transumanza” religiosa. Si tratta di fenomeni che non possono essere spiegati soltanto con l‟aggressività delle sétte. Alla luce di tutto questo, credo che anche in Africa, per proseguire il dialogo ecumenico, più che mai appare oggi necessaria un‟adeguata formazione cristiana. D. – Affrontiamo il tema delle religioni tradizionali africane: è possibile conciliarle con il cristianesimo? E in che modo? R. - Se “conciliare” significa creare una religione “sincretistica”, allora tale conciliazione non è possibile perché il cristianesimo ha una sua specificità irriducibile che non è conciliabile con altre esperienze religiose (sto pensando al mistero salvifico e cristologico, Gesù Cristo che è il compimento della salvezza e delle promesse 36 divine). Ma se “conciliare” invece allude piuttosto al riconoscimento nelle religioni tradizionali della presenza di aspetti positivi – e perciò salvifici (sono quelli che, con categoria tradizionale, si chiamano i “semi del Verbo”) –, allora tale conciliazione è possibile. “Maestro”, in questo senso, è il Concilio Vaticano II, che segna un momento di apertura al mondo delle altre tradizioni religiose; il Concilio adopera un linguaggio positivo per parlare del rapporto della Chiesa con le diverse religioni, mettendo in luce elementi comuni, che possono favorire un dialogo reciproco. Le religioni tradizionali africane costituiscono un humus socio-culturale di riferimento anche per coloro che già sono cristiani, e dunque anche per questo si impone come necessario un discernimento che ne metta in luce elementi positivi e negativi. Inoltre, non c‟è dubbio che l‟attenzione alle culture tradizionali possa favorire i processi di inculturazione e di contestualizzazione del cristianesimo, a patto però di ricordare che le culture tradizionali non vanno mitizzate: non esistono allo stato “puro”, ma nel tempo hanno conosciuto modificazioni causate per esempio dall‟incontro con altri universi culturali. D. – Alla luce di tutto quello che abbiamo detto, l‟Africa è comunque „un continente di speranza‟? R. – L‟Africa è più che un continente di speranza: è un continente dove già si sta vivendo un cambiamento, difficile finché si vuole, ma è un continente ferito che però cammina. Forse anche noi, qui in Occidente, dovremmo imparare a guardare l‟Africa anche con queste “lenti”. L‟Africa non è solo quella dell‟Aids: l‟Africa è anche quella del cinema, della letteratura e di tanta bella gente: tra i miei studenti, ho trovato persone eccezionali dal punto di vista umano e cristiano. 37 7. L‟operato della Chiesa nella sanità e nella lotta all‟AIDS (cfr. Instr. Laboris: cap. III, p. 49, punto 142) L‟Aids, il colera, la malaria, la meningite e molte altre malattie, ormai arginate in Occidente, continuano a colpire l‟Africa. La situazione è aggravata anche da fenomeni naturali, come la carenza di acqua, da un‟educazione all‟igiene non adeguata e da infrastrutture e tecnologie sanitarie arretrate. Inoltre, molti Stati africani non investono risorse sufficienti nella sanità pubblica e per molte famiglie i centri specializzati sono troppo costosi. Nei villaggi rurali è prassi ancora diffusa rivolgersi a guaritori tradizionali e utilizzare medicinali a base di piante. In un simile contesto, le risorse distribuite attraverso i canali religiosi risultano essenziali. Diversi Istituti ecclesiastici, come L‟Ajan (African Jesuit Aids Network), si fanno carico di responsabilizzare e di educare le popolazioni alla cura e alla prevenzione. Numerosissimi sono, poi, i centri medici che provvedono alla cura dei malati. Le iniziative religiose non dovrebbero, tuttavia, sostituire l‟intervento dello Stato, che resta il principale responsabile dell‟assistenza sanitaria per i cittadini (es.: Museveni, Uganda, si appoggia molto sui programmi di lotta all‟Aids portati avanti dalla Chiesa). Intervista con padre MICHAEL F. CZERNY, direttore dell‟African Jesuit AIDS Network (AJAN) (A cura di Philippa Hitchen) D. - L‟AJAN compie sette anni: quali risultati sono stati conseguiti in questi sette anni di lavoro? R. - La rete è stata istituita per incoraggiare tutti i gesuiti che lavorano nell‟Africa sub-sahariana (una trentina di Paesi) a dedicare parte del loro ministero al problema dell‟HIV/AIDS. Si tratta di una missione ampia, non di un compito specifico. A sette anni di distanza, direi che un risultato positivo della nostra missione è dato dall‟elenco dei nomi e delle iniziative: sono almeno 200 i Gesuiti impegnati in vario modo su questo fronte. Dobbiamo essere contenti che la Compagnia di Gesù sia seriamente impegnata in questa lunga battaglia. D. - Sono persone che svolgono questo apostolato a tempo pieno? 38 R. - No, non proprio. Si tratta di Gesuiti che hanno il loro lavoro normale: parroci, insegnanti, direttori spirituali, formatori, superiori, novizi, Gesuiti in ogni posizione che hanno integrato la battaglia contro l‟Aids nel loro lavoro ordinario. Poi ci si sono uno, due o tre dozzine che sono attivamente e pubblicamente impegnate nel senso che intende lei. Quindi abbiamo due tipologie di impegno, ma devo dire che la nostra priorità era di coinvolgere tutti a vario titolo (…). D. - Parliamo dei principali progetti dell‟Ajan: che tipo di lavoro cercate di svolgere per vincere questa battaglia contro la malattia? R. - Anche qui dovrei mettere da parte la parola “principali”, perché non abbiamo una politica specifica (…), quindi ogni esempio che le darò sarà diverso (…). In Togo, ad esempio, c‟è un centro in un quartiere povero al quale le persone si rivolgono per tutta una serie di servizi, di cui l‟assistenza alle persone affette dall‟Hiv è solo una parte. La sua principale attività è di carattere educativo, quindi le persone non devono dire che vengono per l‟Aids. (…). In Burundi, invece, abbiamo qualcosa di molto diverso: non esiste alcun centro come tale, c‟è un piccolo ufficio dal quale il personale esce per raggiungere una decina di parrocchie remote e praticamente inaccessibili e questo programma viene incontro ai bisogni delle parrocchie. Come vede, è un servizio completamente decentralizzato, anche se la gente viene all‟ufficio centrale per le cure mediche, la maggior parte del lavoro è svolto da un camion che gira da una parrocchia all‟altra. D. - Quindi la chiave di tutto è di rispondere alle diverse esigenze di ciascuna comunità parrocchiale e villaggio? R. - Ci sono le scuole ad esempio. Ad Addis Abeba c‟è un bellissimo programma coordinato dalla cappellania universitaria: non si vede nulla, ma si coinvolgono gli studenti universitari che hanno trovato delle persone sieropositive con cui lavorare e che si sentono, diciamo così, “salvate”, perché adesso hanno qualcosa da fare e hanno trovato un modo per mantenersi, senza essere rinchiusi e marginalizzati, come lo sono molte persone affette dall‟Aids. D. - Quali sono a suo avviso le principali sfide in questo lavoro? Lei parla di una grande varietà di progetti e situazioni diverse: qual‟è per voi la difficoltà maggiore su cui state ancora lavorando? 39 R. - Questo è un nuovo apostolato per la Chiesa. 25 anni fa non esisteva e stiamo ancora scoprendo diversi aspetti di un problema che è straordinariamente complesso. La difficoltà è che all‟inizio e per un certo tempo è stato al centro dell‟attenzione pubblica internazionale e le Nazioni Unite hanno adottato misure di alto profilo, ma ora sta progressivamente passando in secondo piano: se guardate i telegiornali vedrete molto meno sull‟Aids quest‟anno rispetto a cinque anni fa. D. - Questo è perché stiamo facendo progressi o questa è una lettura sbagliata? R. - È una lettura forse corretta per l‟Europa e l‟America, ma è imprecisa se parliamo dell‟Africa. Uno dei problemi è proprio questo: l‟idea che ci siamo fatti si è formata qui, ma lì non è la stessa cosa. Quindi la sfida è di fissare un impegno a lungo termine. Noi diciamo che è un progetto che richiederà 100 anni: ci vorrà un secolo per affrontare seriamente il problema. Dovremo lavorare per il tempo che sarà necessario, in base alle esigenze delle persone che aiutiamo e dei migliaia, milioni che ancora non aiutiamo. È un lavoro che richiederà generazioni. D. - Quando parliamo di successo nella lotta all‟Aids forse voi intendete la parola successo in modo molto diverso. Per il mondo secolare successo è permettere a tutti i malati di accedere agli anti-retrovirali … R. - Non è un obiettivo sbagliato, ma solo il 10 % delle persone affette possono sempre accedere agli antiretrovirali. Quindi esiste un 90% di sieropositivi, che hanno molte esigenze, potrebbero essere un pericolo per gli altri e hanno bisogno di un aiuto pastorale, umano, materiale e di cure e dei quali i produttori degli antiretrovirali, i finanziatori di questi programmi di alto profilo non si interessano. Quindi, se noi diciamo che va bene che il 10% sia preso in cura dal sistema medicosanitario, che dire dell‟altro 90%? D. - Queste persone non sono abbastanza ammalate per potere assumere antiretrovirali? R. - Non sono abbastanza ammalate, o lo sono troppo, oppure non hanno abbastanza cibo per potere prendere questi medicinali, o, ancora, non possono permettersi il biglietto per andare in clinica o 40 non lo sanno, o forse sarebbero uccise dalle loro famiglie se facessero una cosa del genere … D. - Quindi sta dicendo che la vera sfida è raggiungere queste comunità? R. - Non è una comunità, ma migliaia di migliaia di persone e quello che è incoraggiante è la risposta delle nostre Chiese locali: spesso non stiamo cercando arrivare a queste persone, ma siamo già lì (…). Quindi non siamo seduti a pensare che cosa possiamo fare e dove dobbiamo andare per portare il nostro aiuto. No, questa è la nostra gente, i nostri parrocchiani, studenti, famiglie con cui dobbiamo continuare a stare e a cui dobbiamo dare la forte sensazione che anche se sono sieropositivi, o colpiti in qualche modo dall‟Aids, sono membri a pieno titolo della famiglia di Dio e della comunità cristiana e integrate nelle loro famiglie di origine, cosa che non è sempre facile. D. - Come diceva, l‟impegno della Chiesa in questo campo è straordinario grazie alla rete di parrocchie e comunità che sono sempre esistite lì. Eppure, recentemente abbiamo visto un attacco violento contro la politica della Chiesa sull‟Aids durante il viaggio del Papa in Africa, che è stata definita irrealistica e inefficace. È sorpreso? R. - No, veramente no. Quello che mi ha sorpreso è il grande polverone sollevato, perché né la domanda, né la risposta erano molto nuove. (…). La domanda sembrava riguardare l‟Africa, ma in realtà era una polemica tutta occidentale: era un attacco della cultura occidentale e globale a un approccio sereno della Chiesa alla sessualità e sono felice di potere dire che su una cosa importante come la sessualità non cambieremo tale approccio per seguire un trend culturale. Quando il Papa chiede di “umanizzare la sessualità” non vedo come una persona di buona volontà non possa convenire sul fatto che c‟è bisogno di questo e che questo è quello che vogliamo (…). D. - Ma qual è il motivo di questo rifiuto? La questione riguarda chiaramente l‟uso dei preservativi come mezzo di prevenzione e nella visione del mondo secolare tutto il dibattito sembra ruotare intorno a questo punto… R. - Non penso ci sia molto dibattito sull‟Aids nel mondo secolare: come ho già detto, non è più una questione calda come una volta. I grandi programmi continuano e mi domando se sopravvivranno 41 all‟attuale crisi economica, ma a parte questo, ad eccezione di qualche occasionale conferenza scientifica, non penso ci sia molto interesse. Sicuramente non vedo molti articoli della stampa sull‟argomento. Quindi non dobbiamo pensare che ci sia un vivo dibattito in cui si è intromesso il Santo Padre: era già un problema passato in sordina. Il preservativo è un oggetto concreto e un simbolo, è quindi facile far ruotare l‟intera questione attorno a questo punto. Ma in Africa non è certamente questo il vero problema e la mia impressione è che, anche in Occidente, la vivace reazione dei media non riguarda tanto il preservativo in sé, quanto piuttosto la possibilità che sulla sessualità ci siano dei sì e dei no e che essa non sia solo una questione di consensualità: ci sono cose che una persona dovrebbe fare e altre che non dovrebbe fare e ci sono persone con cui uno può, o non può. [L‟idea che] la cultura, la società, la religione o la famiglia possano avere voce in capitolo e che non sia solo una questione di scelte personali è ritenuta inaccettabile. Questa è la vera reazione che il Papa ha scatenato e penso che il dibattito continuerà e tornerà. Non so come andrà a finire, ma so che la posizione [del Santo Padre] in Africa è molto apprezzata, perché coincide, se non con il comportamento reale di ciascuno, con la consapevolezza che questo è il tipo di comunità in cui vogliamo vivere (…).. D. - Come mai è così difficile fare accettare questo punto di vista? Cos‟altro potete fare per cercare di meglio promuovere questo approccio integrale a lungo termine di cui lei parla? R. - (…) Ritengo che la Chiesa possa proporre una nuova catechesi sulla sessualità basata su queste semplici, ma illuminanti parole del Santo Padre sull‟aereo [in occasione del viaggio in Africa]: “l‟umanizzazione della sessualità” (…) e che la Chiesa e altre istanze culturali, morali e religiose hanno qualcosa di importante da dire su questo. Penso che se noi potessimo trovare un modo per fare questo ne beneficerebbe l‟intera società. Altrimenti lasceremmo ai pubblicitari e ai media, in particolare a quelli di intrattenimento, di fissare standard sempre più bassi di divertimento e provocazione, ma chiamare questa umanizzazione della sessualità è semplicemente falso. D. - Quali le vostre speranze e le vostre ambizioni per i prossimi sette anni? R. - La mia più grande speranza sembrerà molto modesta e conservatrice: spero che possiamo continuare a coinvolgere più 42 Gesuiti. Se ce ne sono 300 adesso esistono altri mille da coinvolgere. Quindi ci sono molte opportunità per i Gesuiti in Africa di fare ciascuno qualcosa per l‟Aids e sono molto eccitato alla prospettiva di vedere i nuovi progetti che verranno (…) . Spero molto che in futuro l‟apostolato accanto ai malati di Aids sarà incorporato in modo serio e competente nel lavoro di tutta la Chiesa (…) per cui sarà evidente che almeno in Africa la Chiesa è impegnata su questo fronte non perché l‟ONU ha lanciato l‟allarme o perché Bill Gates ha dato milioni, ma perché questo è parte della vita (…) e essa vuole essere con la gente, quando si trova in queste difficili situazioni. Spero diventi sempre più normale che chiunque si trovi in difficoltà sappia di potersi rivolgere alla parrocchia, alla casa religiosa, alla scuola cattolica locale, o alle cappellanie universitarie e trovare un aiuto solidale, competente e stimolante. Penso che saremmo molto grati di questo. Intervista con il prof. LEONARDO PALOMBI, direttore scientifico del Progetto Dream per l‟Aids della Comunità di Sant‟Egidio (A cura di Tiziana Campisi) D. – Che cos‟è il “Progetto Dream”? R. - Il progetto Dream (Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition) è il sogno di curare l‟Aids in Africa e di curare anche la fame, la malnutrizione, che è una condizione piuttosto diffusa e che purtroppo accompagna e aggrava la malattia. Alla fine del 2007 dei 33 milioni di persone colpite in tutto il mondo dal virus dell‟Hiv, ben 22 milioni erano africani e alla fine del 2008 i numeri sono aumentati, soprattutto nell‟Africa subsahariana. Nel 2007 le nuove infezioni erano circa 2 milioni, i morti un milione e mezzo. Quindi un saldo di 400-500 mila nuove infezioni. In pratica l‟epidemia continua a crescere perché il numero dei nuovi infetti è superiore a quello dei morti. E l‟Africa raccoglie ancora oggi due terzi di tutti i casi di malattia del mondo, e le cifre sono in rapida espansione. Certo, questa espansione sta diminuendo nel tempo, e se il saldo positivo fino a pochi anni fa era superiore al milione, oggi siamo a meno di mezzo milione; questo perché finalmente si è capito che l‟epidemia va curata e non solo prevenuta. Dream nasce proprio in questo contesto. Alla fine degli anni „90 tutti dicevano che per curare l‟Aids bisognava prevenire, che non c‟era altra soluzione, che chi contraeva la malattia era condannato a morte. Noi ci ribellammo al fatto che milioni e milioni di persone fossero condannate a morte in Africa quando, negli stessi anni in Europa, negli Stati Uniti e in generale nel Nord del 43 mondo, chi era affetto da Aids poteva curarsi, poteva vedere questa malattia trasformarsi in una patologia cronica con lunghissimi periodi di sopravvivenza. Dream nasce con questa intuizione, che alla fine, la miglior prevenzione della malattia è anche la cura. La terapia, infatti, ha l‟effetto di limitare la carica virale, cioè impedire al virus di crescere nel corpo e in tutti i suoi fluidi e questa, negli anni, si è dimostrata essere un‟intuizione vincente. D. - Praticamente come si è inserito il progetto Dream nella lotta all‟Aids in Africa? R. - Dream è cominciato in Mozambico, Paese con il quale avevamo rapporti di grande fiducia, di grande collaborazione, anche grazie all‟accordo di pace firmato nel ‟92; accordo che prevedeva, sostanzialmente, la realizzazione di laboratori specifici di biologia molecolare e l‟offerta di cure. Sembravamo un po‟ degli eretici in quegli anni, perché, al contrario di quello che facevano tutti, cioè occuparsi solo di prevenzione, parlare solo di preservativi e via dicendo, noi cominciavamo a curare la gente con uno standard qualitativo molto alto, molto vicino a quello dei paesi occidentali. Quindi si facevano tutti i test e le analisi di laboratorio necessarie… Dream nasce dall‟inizio come una risposta di emergenza ma anche di sviluppo. Negli anni i centri dove è stato attivato il progetto - che poi spesso erano centri nazionali o anche ospedali missionari – sono cresciuti e si sono diffusi in tanti paesi africani. Oggi Dream è presente in 10 paesi: Mozambico, Malawi, Tanzania, Kenia, Guinea Conacry, Guinea Bissau, Angola, Repubblica Democratica del Congo, Camerun, Nigeria) e cura attualmente 75 mila persone che hanno contratto il virus dell‟Hiv. In realtà i benefici di Dream, proprio per questo suo approccio largo di sviluppo, raggiungono oltre un milione di persone perché, ad esempio, tutta la famiglia del malato di Aids, riceve assistenza e ogni mese un pacco alimentare gratuito. Dream raggiunge le famiglie dei malati, i loro villaggi, per esempio con una intensa opera di educazione sanitaria. Uno dei drammatici e grandi problemi nella cura dell‟Aids in Africa è la carenza di personale addestrato e qualificato: medici, ma anche infermieri, biologi, tecnici di laboratorio, informatici. Dream in questi anni ha utilizzato i suoi centri non solo per assistere, ma anche per permettere a tanti professionisti africani, attraverso corsi teorici, ma anche stage pratici, di apprendere e di poter essere in prima linea non solo all‟interno del progetto, ma anche nei diversi sistemi sanitari – parlo di oltre 3.300 professionisti – che hanno appreso, studiato, lavorato, operato nei 32 centri di Dream e nei 18 laboratori di biologia molecolare. 44 D. - Come è stato accolto Dream nei vari paesi in cui è stato attivato? R. - Diciamo che è stato sempre accolto bene. In alcuni paesi veniva ritenuto troppo sofisticato, oppure visto con incredulità, anche per il fatto che si tratta di un progetto gratuito. Quindi sono stati avanzati tanti dubbi sulla sua sostenibilità e proponibilità come modello. Ma in questi anni, tanti professionisti, tanti gestori della sanità pubblica, tanti governanti, si sono convinti della validità di questo modello e altri paesi ce lo hanno chiesto, sicché oggi stentiamo a rispondere ad una domanda che è effettivamente assai elevata. Dream, davanti alle critiche esplicite iniziali per esempio sul non dare abbastanza importanza - secondo alcuni - alla prevenzione, ha dimostrato invece una cosa sulla quale invece oggi c‟è un grande accordo: prevenire curando. La terapia antiretrovirale ormai nel mondo scientifico è largamente accettata. Fare bene sanità in Africa, farla con grande qualità, ha voluto anche dire produrre risultati scientifici. Ad esempio Dream è il primo programma al mondo che ha dimostrato che le donne, dopo la nascita del bambino, possono allattare al seno se fanno una terapia completa con antiretrovirali, cioè la triperapia. E ancora recentemente Dream ha dimostrato che con i farmaci non solo la percentuale di bambini che contraggono l‟infezione è diminuita dal 40 per cento al 3 per cento alla fine del primo anno di vita, ma che questi bambini sopravvivono. D. - Nei paesi in cui Dream è presente, come sono cambiati i numeri dell‟Aids? R. - Purtroppo ancora c‟è una crescita, sebbene il diffondersi della cura abbia di fatto un po‟ frenato quel saldo fra nuovi infetti e morti. In alcuni paesi le cose vanno meglio, in altri purtroppo molto peggio perché la terapia è stata ritardata. La battaglia da vincere è proprio quella di raggiungere tutti; nei paesi in cui si è cominciato tardi, purtroppo, l‟Aids ha raggiunto tante persone. In alcune aree del Sud Africa, ad esempio, viene colpito oltre il 60 per cento delle donne fra i 20-25 anni. Quindi bisogna ancora lavorare per migliorare l‟accesso alle cure, per raggiungere tutti, soprattutto nelle campagne, nel volto rurale dell‟Africa. Anche in questo Dream è in prima linea, perché sta sviluppando – come in Malawi – un modello di presenza molto capillare laddove oltre l‟80 per cento della popolazione vive in villaggi che contano fra le 200 e le 400 persone. E‟ un quadro molto dispersivo, caratterizzato da cattive vie di comunicazione, ma Dream 45 ha organizzato e ha valorizzato bene i programmi sanitari. I pazienti sono sempre coinvolti nel processo di cura, e in genere questi pazienti chiedono di poter aiutare altre persone a loro volta. Noi li addestriamo e molti di loro, poi, accedono ad un salario stabile. Si tratta di migliaia di donne, soprattutto, ma anche di uomini, che hanno scoperto non solo la resurrezione del loro corpo. Si tratta di donne e uomini che erano arrivati a pesare 30-40 chili e che 20-25 chili dopo ritrovano le energie per occuparsi della famiglia, per tornare a lavoro e ad una vita normale. E che trovano anche le motivazioni di una vera e propria rinascita che le spinge ad essere solidali con altre situazioni di povertà e di difficoltà. È molto bello questo aspetto di Dream, perché fa vedere come in realtà curare nel corpo, nel fisico, accogliere questi pazienti che spesso sono stigmatizzati, emarginati, di cui si ha quasi paura, accogliere queste persone, farle tornare a star bene, produce poi una serie di energie umane e spirituali veramente incredibili. E sono queste persone che noi chiamiamo attivisti che ci aiutano a raggiungere nuovi pazienti in ambienti difficili, rurali. Sono queste persone che vincono tante diffidenze che fanno crescere il programma ogni giorno. È una componente umana che definirei assolutamente decisiva di Dream. D. - Dream si occupa di ricerca scientifica, come si inserisce invece nell‟ambito dell‟educazione sessuale? R. - Dream soprattutto ha compreso un aspetto del mondo africano che è spesso dimenticato. Il mondo africano ha una sensibilità nei confronti della malattia completamente diversa da quella occidentale, il che è un valore ma spesso è anche un grave limite e un grande problema. Al di là di tutto, noi abbiamo sempre sentito l‟esigenza di fare cultura. Fare educazione sanitaria in Africa è un fatto decisivo, perché introduce alla nozione della malattia infettiva, della trasmissibilità delle malattie, dell‟igiene, degli alimenti, della casa, dei rapporti umani... Questo bagaglio di conoscenze è assolutamente preliminare ad ogni altro tipo di discorso e noi su questo abbiamo investito molto; ma non si può saltare l‟umanità, la cultura, i comportamenti, le tradizioni di interi popoli. Su questo credo che un lavoro serio, onesto e lento, nel tempo, dà frutti molto importanti. D. - Ci sono delle campagne che avete avviato a tal proposito? R. - Sì. Dream fa tanta educazione sanitaria e tanta educazione alla conoscenza dell‟Aids. Lo fa nelle industrie, nelle fabbriche, attraverso i media, sia alla radio che alla televisione. E dando elementi di 46 conoscenza della malattia, dà anche elementi di speranza. Ad esempio è importante far capire quanto sia fondamentale sottoporsi al test Hiv e che si può fare molto per se stessi, per i propri figli… Direi che intorno a Dream è nato un movimento largo di speranza che raccoglie tanta parte della società civile in tante sue manifestazioni. D. - Circa le campagne avviate da Dream, in particolare, in che cosa poi si concretizzano e come vengono accolte? R. - Vengono accolte molto bene. Abbiamo curato e realizzato in paesi come il Malawi e il Mozambico serie televisive, che sono un po‟ racconti di storie di vita che ripercorrono il cammino di tanti malati africani ma che valorizzano alcuni aspetti. Faccio l‟esempio delle donne e a quanto sia importante insistere sulla loro responsabilità. La donna, in Africa, ha un valore decisivo, sia dal punto di vista della famiglia ma anche dal punto di vista economico e della società civile. D. - Dream vuole trasmettere anche dei valori? R. - Sì. È qualcosa che Dream fa quotidianamente, perché in fondo rappresenta qualcosa di gratuito. In una società che vive una specie di dittatura del materialismo, spesso legata alle necessità, alla insicurezza del cibo, dell‟acqua, dei vestiti, del lavoro, della casa, trovare un‟espressione gratuita, solidale e di stima, di accoglienza e di gentilezza, è un fatto assolutamente decisivo. In questo senso io credo che i centri Dream, spesso, sono anche centri di tante storie evangeliche in cui la gratuità, l‟accoglienza, si accompagnano al miracolo di vere e proprie guarigioni, di vere e proprie rinascite. Quindi, in questo senso, io credo che tante volte i centri Dream e la loro gente, la loro popolazione, rappresentino un po‟ vere e proprie pagine evangeliche. D. - Chi sono le persone che prestano il loro volto al progetto Dream? R. - Noi siamo partiti con una presenza occidentale fortissima. Oltre 400 persone di Sant‟Egidio, provenienti dall‟Italia e da altri paesi europei, hanno animato inizialmente il progetto e a tutt‟oggi lo coordinano, lo aiutano, ad esempio per quanto riguarda la raccolta dei fondi, nei rapporti internazionali, nella ricerca scientifica, per quello che riguarda la formazione, l‟educazione e il training. Devo dire che però, in questi anni, sono tanto cresciute le equipe locali, africane. Oggi noi abbiamo tecnici africani qualificatissimi, in 47 laboratorio ma anche nel settore dell‟informatica e tanti altri settori, che non solo gestiscono bene i centri, ma sono essi stessi motori di formazione di altre generazioni africane. Noi abbiamo sempre creduto nel fatto che la vera sostenibilità non fosse tanto e solo un discorso economico, quanto nel fatto che lavorare insieme, africani ed europei, potesse poi dar vita ad una generazione di persone che possano lavorare bene insieme. Alla fine degli anni ‟90, in Mozambico, non c‟era una sola macchina automatica per contare i globuli rossi del sangue automatica, c‟erano solo dei tecnici che al microscopio li contavano uno ad uno. Oggi ci sono fior di laboratori e di tecnici che svolgono analisi non solo di ematologia, ma anche di biochimica, di immunologia, di biologia molecolare; non solo in Mozambico, ma anche in tanti altri paesi. Quindi, in questo senso, oggi Dream ha un volto europeo ma anche un volto molto africano, che è non solo il volto dei suoi attivisti e dei suoi pazienti, ma anche quello di tanti professionisti. D. – Quali i rapporti fra Dream e le altre realtà della Chiesa? R. - Sì. Dream è portato avanti anche da tanti religiosi, in ospedali missionari, ad esempio quelli delle Figlie della Carità, dei Camilliani, o ancora gestiti da altri religiosi. Direi che Dream ha una collaborazione con la Chiesa nel fatto stesso che esiste e dà voce ad un‟espressione di risposta della Chiesa al problema dell‟Aids. In un mondo in cui tanti dicevano che non era possibile fare nulla per i malati di Aids, la risposta di Dream è stata anche la risposta della Chiesa, cioè una risposta di vita, di giustizia. Ricordo solo le espressioni di Benedetto XVI nel suo recente viaggio in Camerun, in cui insisteva, giustamente, e in modo molto appropriato, sul fatto che il diritto alla cura, il diritto agli antiretrovirali, è un diritto per gli africani ed è un diritto da far valere con la gratuità. Questa è stata una risposta della Chiesa molto bella a mio avviso; in un panorama abbastanza desertificato in questo senso, Dream è stato una sua incarnazione significativa dall‟inizio del 2000. D. - Il sogno, Dream, può quindi proseguire? R. - Io direi di sì. Questo sogno intanto è già diventato un po‟ realtà, però vuole essere il sogno di vincere l‟Aids. È un sogno che si colora di tanti altri aspetti, di questo movimento di vita, di giustizia, di solidarietà che si sviluppa intorno ai centri Dream. Un movimento di grande rinascita per l‟Africa a partire dalla sua gente, dai suoi popoli e dal fatto che in questa sfida, terribile, rappresentata dall‟Aids, in 48 fondo Dream è stato il sogno di una risposta umana, giusta, equa, per tutti. È stato il sogno di vincere con la vita una battaglia di minaccia da parte di questa malattia. Intervista con SR. ANGELA ANIGBOGU, Medical Missionary of Mary e amministratrice dell‟Ospedale di Ibadan, in Nigeria (A cura di John Baptist Munyambibi) D. – Concentriamoci sul virus HIV che sta uccidendo molte persone in Nigeria. Quali misure sta prendendo l‟ospedale per prevenire il propagarsi di questa malattia? R. – Noi creiamo la consapevolezza (della malattia ndr), e lo facciamo non solo in ospedale. Andiamo anche nei villaggi perché offriamo un servizio sanitario di base anche lì. Così, quando siamo in giro, cerchiamo di educare le persone, parlando loro dell‟AIDS e del virus HIV, spiegando come esso si contrae e come si previene. E non solo: talvolta, andiamo nelle Chiese e nelle scuole a parlare con la gente. Oltre a queste misure preventive, facciamo anche dei colloqui in ospedale con gli ammalati ed offriamo loro, gratuitamente, un servizio di consulenza ed un test sanitario. Il test è gratuito e noi incoraggiamo le persone a farlo. Quanto a coloro che hanno già contratto il virus HIV, li accogliamo in ospedale e non li segreghiamo lontano dalla gente perché, se li segregassimo, gli altri pazienti capirebbero che sono malati di AIDS ed inizierebbero ad evitarli. In questo modo, invece, cerchiamo di non isolarli. Il trattamento, per loro, è lo stesso. Abbiamo anche un programma speciale chiamato “Prevenzione del contagio da madre a figlio”: quando le donne in gravidanza vengono in ospedale per la prima volta, offriamo loro un servizio di consulenza. Le donne vengono così informate sul virus HIV, sui metodi di prevenzione e su cosa è bene fare una volta che abbiano scoperto di avere l‟AIDS, perché se le madri conoscono prima le proprie condizioni di salute, allora sarà possibile aiutare il bambino che portano in grembo. E per coloro che risultano positive al test dell‟AIDS, offriamo un percorso di assistenza, fornendo i trattamenti sanitari richiesti, in modo da prevenire il contagio del bimbo nell‟utero. D. – La Chiesa come può aiutare spiritualmente coloro che risultano positivi al test HIV? 49 R. – Alcuni di loro appartengono a religioni diverse; per questo, l‟assistenza spirituale dipenderà dalla religione del paziente. E noi cerchiamo di rispettare questo fatto. Quanto ai pazienti cattolici, talvolta chiedono di incontrare un sacerdote e noi ci rivolgiamo al parroco. Poi, li visitiamo personalmente, parliamo e preghiamo con loro. Quando le persone contraggono l‟AIDS, spesso pensano di essere cattive, di essere dei peccatori, e credono che la malattia sia una punizione inflitta da Dio. Per questo, noi cerchiamo di consolarle, di far comprendere loro che Dio li ama. D. – Assistere gli ammalati non è un compito facile, richiede molti sacrifici. Cosa motiva il vostro lavoro? R. – Innanzitutto, io appartengo ad una Congregazione che ha, come apostolato, quello sanitario. Ed è per questo che siamo chiamate “Medical Missionaries of Mary”. Il carisma della Congregazione è quello di portare la salvezza, la salvezza di Cristo, seguendo le sue orme. Questo è ciò che dà senso al mio lavoro, anche quando è difficile. Io vedo Cristo in queste persone e so che queste persone sono esseri umani, bisognosi di cure e di amore. Talvolta non è facile, ma io sono motivata perché il mio fulcro è Cristo e la sua missione salvifica, della quale io voglio far parte e della quale io sono parte. 50 8. Le attività della Chiesa nel campo educativo per la riconciliazione (cfr. Instr. Laboris: cap. I, punto 19, p. 7; cap. II, p. 22, punto 60; cap. III, pp. 32-33, p. 49, punto 141) Nel 2004 l‟agenzia Fides ha contato circa 50.000 istituti cattolici tra educazione materna, primaria e secondaria e oltre 110.000 studenti iscritti a scuole superiori e Università cattoliche. Istituti di livello avanzato, come l‟Hekima College dei Gesuiti del Madagascar, aiutano a educare i giovani alla pace e alla comprensione delle dinamiche politiche internazionali. Un‟altra esperienza, meno formale ma ugualmente incisiva, è portata avanti dalla diocesi di Lira, di Mons, Franzelli, in Uganda. La strategia educativa adottata parte dalla promozione della “Chiesa Famiglia”, ovvero dall‟assunzione della famiglia (unità-base della riconciliazione) quale modello di rispetto, disponibilità e collaborazione, da riproporre a livello collettivo. Intervista con Mons. NICOLAS DJOMO, vescovo di Tshumbe, Presidente della Conferenza Episcopale Nazionale del Congo (CENCO) (A cura padre Jean-Baptiste Malenge) D. – Come insegnare i valori della pace ai giovani? R. - Attraverso la nostra Commissione Giustizia e Pace abbiamo sviluppato un vasto programma di educazione alla cultura della pace. Questo programma è stato inserito nel curriculum delle scuole primarie, secondarie e anche delle superiori. Il futuro del Congo dipende dall'uomo che formiamo oggi. Nella Conferenza Episcopale Nazionale del Congo ci siamo detti che uno dei migliori contributi che possiamo dare al futuro di questo Paese è quello di preparare un uomo nuovo per domani. E questo passa attraverso l'istruzione e in particolare l‟educazione a una cultura della pace. Attualmente abbiamo dei programmi nelle scuole primarie per parlare ai bambini più piccoli di pace attraverso l'identificazione con Cristo e dire loro - e questo è elementare - che l‟altro sono io e che il male che non posso fare a me stesso non lo posso fare al prossimo. È un programma che sta producendo ottimi risultati e lavoriamo insieme ad altre Chiese in modo da raggiungere tutte le comunità credenti nel nostro Paese, cristiane e non cristiane. D. - I media sono accusati talvolta di attizzare e fomentare l‟odio 51 in Africa. Qual è l‟impegno della Chiesa per la pace nel nuovo contesto del pluralismo democratico e dei media? R. - I mezzi di comunicazione sociale sono uno strumento per unire le persone e, come è noto, a partire dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha dato uno spazio importante alla comunicazione della Parola di Dio, ma anche alla formazione delle coscienze. Ciò significa che per tutti i mezzi di comunicazione sociale la questione fondamentale è il contenuto. Abbiamo bisogno di media ancorati a un contenuto di valore che possa formare l'uomo, la sua coscienza, ai valori egualitari della pace, della giustizia e dei diritti umani. E questo è ciò che dobbiamo fare e che facciamo nel nostro Paese, in particolare da quando molte delle nostre diocesi si sono dotate di radio comunitarie diocesane e anche di canali televisivi. Stiamo lavorando intensamente per fissare contenuti che riflettano la dottrina della Chiesa e che mettano l‟uomo al centro di tutti i valori. (…) È un compito importante. D. - Come sono invece i rapporti con le sétte? R. - I rapporti con le sétte restano molto difficili, nella misura in cui, in generale, esse si occupano dell‟essere umano in modo pericoloso per il suo benessere spirituale. (…) Il problema, in generale, è che i leader di questi gruppi religiosi approfittano della miseria materiale che affligge la popolazione per cercare di offrire soluzioni immediate ai suoi problemi, come la salute o l‟occupazione. Inoltre queste sétte con le illusioni in cui sprofondano comunità e famiglie, sottraggono queste persone alle loro responsabilità e ai loro obblighi sociali. Questo, a nostro avviso, è pericoloso ed è il motivo per cui è difficile per noi lavorare con le sétte, perché esse tendono piuttosto a sfruttare la miseria materiale del nostro popolo. Di più: chiediamo che i legislatori prendano misure per proteggere i più deboli, che sono sfruttati da queste sétte. (...) D. - In altre parole lottate per il rispetto dei diritti umani, un tema ampio di cui si parlerà anche al prossimo Sinodo… R. - Sì. I diritti umani sono un tema ampio, molto importante e fondamentale. Un paese che si sforza di difendere i diritti umani è in grado di costruire una società solida nell‟interesse di tutti i soggetti. Questa è la base di tutto ed è per questo che noi, Chiesa cattolica, ci battiamo per il riconoscimento dei diritti delle persone in questo Paese. Quando abbiamo lanciato il nostro programma di educazione 52 civica, dove abbiamo insegnato cosa sono le elezioni, la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani in un paese dove la gente ha subito decenni di repressione – (…) abbiamo cominciato spiegando loro che hanno diritti e che senza il rispetto di questi diritti, non è possibile fondare una repubblica a beneficio di tutti. Quindi per noi la questione dei diritti umani è fondamentale e, come ho detto, l‟abbiamo inserita tra le materie fondamentali di insegnamento nelle scuole. D. - Lei ha parlato più volte della povertà, dell'uomo che bisogna salvare dalla miseria. È per questo che come vescovi avete istituito una Commissione ad hoc incaricata di occuparsi della questione dei proventi delle risorse naturali? R. - Sì. Il nostro paese ha immense risorse, ma purtroppo, questa ricchezza, che avrebbe dovuto essere la base della ricchezza della sua popolazione, è, al contrario all‟origine delle sue sventure. È a causa di questa ricchezza che abbiamo conosciuto le guerre che hanno provocato milioni di morti e che sono guerre economiche, e (…) oggi i focolai di conflitti o che alimentano i conflitti nel Congo orientale sono intorno alle miniere, hanno motivazioni economiche. Quello che dobbiamo fare come congolesi, insieme alla comunità internazionale, è garantire che questa ricchezza possa essere destinata alla popolazione. (…) Ciò richiede una legislazione specifica, e noi, vescovi, abbiamo lanciato un‟opera di sensibilizzazione delle grandi potenze, perché vengano varate leggi a livello nazionale e anche a livello internazionale che tutelino tali risorse naturali in modo che possano beneficiare il popolo congolese e di conseguenza i paesi vicini e anche il mondo. Ma senza tale legislazione, questa ricchezza è sprecata, lo Stato non può ricavarne i proventi a cui ha diritto. Insomma perdono tutti, la popolazione, il Paese. Sono gli altri che sfruttano queste ricchezze (...). Tra questi le multinazionali che contribuiscono a creare un circolo pericoloso: le ricchezze minerarie alimentano i conflitti, perché permettono di comprare le armi che vengono usate contro le popolazioni (...). È quindi molto urgente - e siamo in contatto con certi ambienti e Paesi stranieri che stanno preparando leggi per vietare alle loro multinazionali di comprare minerali provenienti dal Congo attraverso un sistema di certificazioni, al fine di limitare questa dilapidazione di ricchezze sfruttate in modo selvaggio e che alimentano i conflitti all‟origine della miseria del popolo che è il proprietario di queste ricchezze. Quindi all'interno della CENCO, la Conferenza episcopale nazionale del Congo, abbiamo una commissione sulle risorse naturali, che è costantemente al lavoro su 53 questo tema e, tra le soluzioni che abbiamo trovato, vi è quella di informare il cittadino comune congolese. Abbiamo elaborato un vademecum che distribuiamo in tutto il Paese, attraverso le nostre parrocchie, per dimostrare ai congolesi che le ricchezze del sottosuolo appartengono a loro e che è necessario proteggerle in ogni modo. Occorre sensibilizzare la base della società congolese per resistere ai predatori nazionali e internazionali. D. - Come gli altri vescovi congolesi, Lei si sta preparando al 2° Sinodo Speciale dei Vescovi per l'Africa. Dopo tutte le questioni che abbiamo affrontato, che ne è dell‟inculturazione? Questa priorità, in Africa e in Congo, è stata dimenticata? R. - No, non è stata dimenticata, nella misura in cui l'inculturazione, è la vita stessa. Lo dice il Santo Padre nel suo recente libro "Gesù di Nazaret", che ci invita a evangelizzare la cultura e ad inculturare il Vangelo. Si tratta di due facce di una stessa medaglia: c‟è l'incontro di Cristo con l'uomo, l'uomo che riceve la Parola di Dio (…) e, allo stesso tempo, questo uomo dà al Vangelo che accoglie una parte di sé. E oggi, a livello di ricerca teologica, un teologo cerca di esaminare la questione da questo punto di vista. In primo luogo, il Vangelo, che è venuto a trovare il continente africano, il popolo africano con la sua cultura, sta cercando di trasformarlo in un discepolo di Cristo con i valori positivi della sua cultura. E poi, oggi, l'uomo africano vive in un contesto specifico. È molto importante che l'evangelizzazione tenga conto della situazione concreta dell‟uomo da evangelizzare oggi, una situazione in Congo segnata dalla guerra, dalla povertà, le malattie, l'AIDS e quello che un teologo chiama la “teologia contestuale” (...) si muove in questa direzione. Quindi è una questione attuale, è parte di un‟evangelizzazione continua. Lo ripeto, è essenziale che prendiamo in considerazione le situazioni in cui vivono gli africani, i congolesi oggi. Il Vangelo di Gesù Cristo viene a interpellarli in queste circostanze e noi siamo chiamati a lavorare in modo che l‟uomo integrale, nella sue molteplici dimensioni possa incontrare Cristo ed essere salvato da Cristo. 54 9. La Chiesa, la questione sociale e la promozione umana (cfr. Instr. Laboris: cap. II, pp. 22-24-25, punti 67-69; cap. III, pp.34-35, punti 96-98, pp. 45-47-50) Secondo i dati dell‟agenzia Fides, nel 2004 in Africa erano oltre 9.500 gli istituti di assistenza sociale e di beneficienza (ospedali, dispensari, lebbrosari, case di accoglienza per handicappati e anziani, orfanotrofi e giardini per l‟infanzia). La Chiesa è impegnata nella lotta contro le “povertà” umane di ogni genere, dal campo educativo (analfabetismo) a quello economico (fame e povertà), da quello umanitario (violazione dei diritti dei più vulnerabili) a quello socio-politico (assenza di senso civico). L‟Instrumentum Laboris sottolinea la dimensione sociale delle epidemie che colpiscono il continente, il loro legame con la violenza e con la destrutturazione del tessuto relazionale originario delle società africane. La salute dipende molto dalla qualità dei rapporti all‟interno delle comunità. Non a caso, le comunità religiose si fanno carico di promuovere la pace e il perdono attraverso il dialogo tra i giovani, il confronto, l‟aiuto reciproco e il ristabilimento dell‟autorità parentale nelle famiglie. Intervista con PAULINE ZONGO YAMEOGO, segretaria esecutiva della “OCADES-Caritas Burkina Faso” (A cura di Dulce Araujo) D. - Sig.ra Zongo, che strade intraprenderete per rinforzare la coscienza della donna nel senso del suo sviluppo integrale e, conseguentemente dello sviluppo della società? R. - Noi diamo sempre più la parola alla donna e la aiutiamo a prendere coscienza, ad avere fiducia in sé stessa, a sapere che può parlare senza paura e che ha diritto di parola. Questo è importante perché si può lavorare per la promozione della donna, ma è la stessa donna che deve impegnarsi, e noi prendiamo misure affinché la donna capisca, affinché smetta di aver paura, affinché abbia fiducia in sé stessa, affinché sappia che ha mezzi per poter difendersi, per poter dire ciò che pensa del posto che le è dato a livello della società. Quando vediamo, per esempio che, a livello del Burkina-Faso, convenzioni internazionali sono stati ratificate, che delle leggi favorevoli al diritto della donna sono state adottate e che tutto questo non è messo totalmente in pratica e che le donne se ne stanno zitte, è un silenzio che non è normale. È necessario che la donna sappia che deve parlare, che è lei che si deve alzare per difendere i propri diritti”. 55 D. – Bisogna sottolineare anche il ruolo dell‟uomo nel processo che deve condurre all‟emancipazione della donna come forma di promozione della società nel suo insieme. Che vie privilegiate per arrivare a questo? R. - Quando parliamo di donne, gli uomini non sono esclusi. Il lavoro è far prendere loro sempre più coscienza del fatto che è necessario che accettino di dare la parola alla donna, che accettino di ascoltarla, che si impegnino anche loro nella promozione della donna, perché tutti abbiamo da guadagnare da questo, la famiglia innanzitutto, ma anche l‟uomo, la società. Noi non lavoriamo lasciando da parte l‟uomo. Noi non ci opponiamo a loro perché a livello della creazione non sono stati opposti. Dio creò l‟uomo e la donna insieme e in armonia. Ed è in armonia che lavoriamo. Per esempio: quando facciamo un pozzo in un villaggio, incontriamo uomini e donne insieme e ognuno dà la propria opinione, ognuno ha la propria responsabilità. Ed è insieme ed in armonia che costruiamo, non in opposizione come alcuni vorrebbero che fosse. Noi lavoriamo in un‟ottica di complementarietà. È questa la nostra visione fondamentale. Per questo non opponiamo la donna all‟uomo. Sono sempre associati e ognuno ha il proprio ruolo, la propria responsabilità. Bisogna trovare soluzioni insieme per i problemi di sviluppo che abbiamo. D. - C‟è qualche altro aspetto che vorrebbe sottolineare? R. - Ciò che vorrei dire è che ci sono procedure, nozioni che provengono da fuori, che non sono nostre. Non le ignoriamo. Ascoltiamole, osserviamole, interroghiamoci su di esse, ma pensiamo che sia fondamentale partire dalla nostra cultura e partire dal Vangelo. È in questo modo che faremo la promozione della donna in Burkina-Faso, perché non possiamo svilupparci con la cultura degli altri. È attraverso la nostra cultura, evangelizzata, che faremo la promozione della donna in Burkina-Faso. 56 10. Le Organizzazioni non governative (Ong) Negli ultimi anni la cooperazione internazionale ha adottato gradualmente un approccio meno “a senso unico” e di emergenza. Le Ong religiose (la Caritas, la Comunità di S. Egidio e molti membri della rete Focsiv-Volontari nel mondo) hanno cercato di promuovere riforme strutturali, iniziative finalizzate a uno sviluppo di lungo periodo e hanno puntato al massimo coinvolgimento di attori locali. Tale nuova strategia (alternativa al classico “paternalismo-terzomondista”) consente agli operatori di conoscere meglio le reali esigenze delle popolazioni e rendere le attività di cooperazione più efficaci e adeguate. Il trasferimento di tecnologie e know-how sta in parte sostituendo l‟aiuto finanziario: gli strumenti concreti arrivano più facilmente alle popolazioni, mentre grandi somme di denaro si disperdono, di frequente, nei passaggi che seguono una donazione (e in molti casi finiscono nelle tasche di imprese occidentali o leader locali corrotti). Intervista con SERGIO MARELLI, Direttore Generale Volontari nel mondo-FOCSIV (A cura di Silvia Koch) D. - Quali sono le principali Ong attive nel continente africano? R. - L‟Africa resta una delle priorità delle oltre 160 organizzazioni italiane, che hanno quasi tutte dei progetti nel continente. Posso ricordare le tre grandi federazioni che raggruppano buona parte delle Ong: la FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontariato), il COCIS (Coordinamento delle Organizzazioni non governative per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo) e il CIPSI (Coordinamento di Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionale). Insieme, queste tre federazioni sono presenti in tutti i paesi africani. D. - Nel panorama di associazioni impegnate in Africa, esistono forme di collaborazione tra le Ong di matrice cattolica e i soggetti “laici”? R. - La ricerca di forme di collaborazione e di coordinamento delle attività delle singole Ong è da sempre una peculiarità della cooperazione italiana. Molte associazioni sono di piccole o medie dimensioni e trovano quindi una forma di sostegno nella sinergia di 57 azioni con le altre. La frammentazione e la sovrapposizione di interventi risulta sempre, al contrario, poco efficace. D. - Quali sono le maggiori problematiche del continente Africa, e, dunque, i principali settori in cui operate? R. - Non vi è una selezione a monte degli ambiti di intervento, dal momento che la metodologia generalmente adottata è quella di rispondere ai bisogni dei partners locali. Nonostante ciò, si può statisticamente affermare che i tre grandi settori che assorbono la maggior parte dei progetti nel continente, sono quello sociosanitario, l‟educazione e il sostegno all‟apparato agricolo. Quasi tutti i programmi sono articolati, integrati e multisettoriali, nel senso che includono, al proprio interno, questi tre diversi campi di intervento. Tuttavia, dal momento che gran parte della popolazione africana è costituita da comunità rurali, lo sviluppo del sistema agricolo costituisce, in particolar modo, la base da cui partire per risollevare le sorti del continente. D. - Come si manifestano gli effetti della crisi economica mondiale a livello locale? R. - Le crisi sono molteplici - economico-finanziaria, alimentare e quella generata dai cambiamenti climatici – e hanno conseguenze drammatiche, in Africa come nel resto del sud del mondo. I devastanti sintomi della recessione economica hanno già iniziato a manifestarsi: contrazione delle risorse che i governi e le imprese dei paesi ricchi si erano impegnati a investire per lo sviluppo del sud del mondo; svalutazione di buona parte delle monete locali; diminuzione delle rimesse degli emigrati, per effetto dell‟aumento della disoccupazione nei paesi industrializzati. Se la comunità internazionale non affronterà da subito e con misure significative questi fenomeni, di grande impatto sui paesi poveri, queste economie saranno ulteriormente indebolite e le popolazioni locali maggiormente colpite dalla fame, dall‟instabilità politica e sociale. Inoltre, molte realtà africane, che risultano ancora escluse dal sistema economico mondiale, subiranno gli effetti della recessione finanziaria specialmente in un secondo momento: si può dunque prevedere un ulteriore peggioramento della situazione attuale, in alcune aree del continente. 58 LE OMBRE 1. Lo sfruttamento messo in atto dalle multinazionali (cfr. Instr. Laboris: cap. I, p. 5, punti 12-13, p. 12) L‟Africa è un continente ricchissimo. Ma le sue risorse (petrolio, gas, coltan, tanzanite, diamanti, oro, per citarne solo alcune) continuano ad essere deturpate da multinazionali europee, asiatiche e americane, la cui ingerenza schiaccia le imprese locali e stravolge ulteriormente un quadro economico-istituzionale già estremamente instabile e complesso. La povertà di molte popolazioni è il prodotto di una commistione fra „neocolonialismo‟ delle potenze economiche (Cina e Francia in primis) e „neopatrimonialismo‟ di molti regimi africani, che sono, dunque, in parte vittime e in parte responsabili del proprio sottosviluppo. Leader di gruppi locali si trasformano (spesso proprio in nome di accordi di natura economica o tramite golpe) in attori politici, senza tuttavia avere una base di legittimazione e di consenso elettorale. Questa globalizzazione delle economie africane (precoce rispetto allo sviluppo politico) riduce gli spazi e le risorse disponibili e fa riemergere particolarismi e rivalità etnico-culturali. La maggior parte delle guerre civili che affliggono l‟Africa, infatti, è dovuta proprio a questa corsa all‟accaparramento delle risorse energetiche. Intervista con SERGIO MARELLI, Direttore Generale Volontari nel mondo-FOCSIV (A cura di Silvia Koch) D. - Qual è la responsabilità specifica delle imprese straniere che sfruttano le risorse africane? R. - È una responsabilità enorme. Non a caso, anche nell‟Enciclica “Caritas in Veritate”, Benedetto XVI ha esplicitamente citato gli impatti negativi che le multinazionali hanno sullo sviluppo delle popolazioni locali, a causa del loro agire violando continuamente i diritti umani e avendo come unico obiettivo quello della massimizzazione del proprio profitto. Inoltre, molte aziende straniere sfruttano senza criterio le grandi risorse naturali africane, utilizzando metodologie ecologicamente non compatibili. D. - Nell‟ultima Enciclica, il Pontefice fa riferimento proprio alla necessità di ricercare nuovi paradigmi di sviluppo, attraverso il coinvolgimento delle istituzioni politiche locali 59 e della società civile dei paesi in questione. La cooperazione internazionale sta andando nella medesima direzione? R. - Sottolineo la mia completa condivisione delle parole di Benedetto XVI. Fondare un nuovo modello di sviluppo è sicuramente il primo passo da compiere per combattere la recessione in atto e per evitare l‟insorgere di nuove crisi. Il mondo delle Ong ha da tempo compreso la necessità di investire risorse anche nelle iniziative di advocacy, da compiere in collaborazione con la società civile mondiale e finalizzate a modificare le politiche delle istituzioni internazionali e dei governi donatori. Occorre quindi coinvolgere i soggetti locali nella ricerca di soluzioni specifiche, che puntino allo sviluppo integrale della persona, abbandonando definitivamente l‟ambizione alla massimizzazione del profitto individuale. D. - Quale influenza ha la dimensione etica sui drammi che affliggono il continente africano? R. - Io credo fermamente nella responsabilità individuale e nella moralità della singola persona. Sono questi due presupposti indispensabili alla creazione di qualunque modello di sviluppo, che si voglia improntato all‟etica, alla giustizia e alla pace. L‟immoralità delle persone si trasmette sul cattivo funzionamento delle istituzioni e delle organizzazioni. Ad esempio, se il fenomeno della corruzione è molto diffuso, a vari livelli, in Africa, significa che ci sono a monte degli individui che ricorrono a questa pratica per gestire gli affari economici e politici. Ricordo che anche Giovanni Paolo II aveva individuato nella lotta alle “strutture di peccato”, una delle grandi finalità della giustizia perseguita dal cristiano. Le “strutture di peccato” sfruttano la persona e calpestano la sua dignità, mirando unicamente a massimizzare i propri guadagni. Io penso che oggi ci sia ancora un grande bisogno di combattere i fenomeni di illegalità finanziaria, proprio ai fini della crescita delle nazioni svantaggiate. D. - Ecco, la corruzione diceva. Ci spiega in quale modo questa pratica illegale di gestione dei fondi si inserisce nelle attività di cooperazione e quali sono le altre difficoltà che le Ong incontrano sul territorio? R. - Esiste un dato significativo che può aiutare a comprendere il meccanismo della corruzione: a fronte dei 107 miliardi di dollari 60 che l‟insieme dei paesi donatori trasferisce nei paesi del sud del mondo, il flusso di risorse economiche che annualmente viene trasferito dalle economie svantaggiate alle nazioni ricche è oggi pari a 800 miliardi di dollari, ovvero 8 volte tanto. Come è possibile questo? Attraverso i cosiddetti paradisi fiscali, l‟evasione dalle tasse e i conti presso le banche che garantiscono il segreto bancario. Questi istituti finanziari possono accogliere, tra le altre, le ingenti ricchezze di quei pochi africani fortunati, che si sono arricchiti proprio sfruttando questo modello perverso di sviluppo. Dunque, anche le élites locali hanno la possibilità di sfruttare questi meccanismi illeciti, diffusi a livello internazionale ma evidentemente sostenuti da elementi forti delle economie sviluppate. A questo proposito, mi stupisce molto che l‟Italia non abbia ancora sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Corruzione. Tornando alle difficoltà che le Ong incontrano sul campo, quindi, i soggetti intermediari che gestiscono gli aiuti rappresentano sicuramente un‟aggravante. Più sono i passaggi intermedi, più aumenta il rischio che i capitali si disperdano, vengano riciclati o comunque gestiti in maniera non adeguata a garantire il massimo beneficio per i soggetti destinatari. Ancora, lo stato di miseria che affligge la popolazione rappresenta un altro elemento che ritarda le attività di sviluppo. Questa povertà dalle dimensioni drammatiche non dipende, a mio avviso, dal comportamento delle comunità colpite; è piuttosto l‟effetto di politiche di cooperazione erronee, di meccanismi commerciali distorti e soprattutto, appunto, del perseguimento di obiettivi “altri” rispetto allo sviluppo integrale degli uomini. Le grandi questioni del continente africano vengono ancora affrontate con strategie che rispondono a quella stessa logica coloniale, di considerare l‟Africa come un bacino da cui attingere per arricchire il resto del mondo. Un bacino che dispone di risorse naturali, di produzioni agricole e di mercati locali. La politica internazionale, al contrario, dovrebbe essere finalizzata proprio al bene comune che – come ricordato nell‟Enciclica “Caritas in Veritate” – non può essere delimitato a una parte della popolazione mondiale, ma necessariamente deve essere esteso a tutti gli uomini e le donne del pianeta. 61 2. La crescita del divario tra ricchi e poveri (cfr. Instr. Laboris: cap. 2, punti 61-62, p. 23) Contrariamente a quanto suggerisce l‟apparente isolamento politico in cui verte l‟Africa, il continente non è escluso dal processo di globalizzazione. Proprio la sua posizione “subordinata” alle potenze economiche può essere interpretata, anzi, come una specifica forma di integrazione nel sistema capitalistico. In altre parole l‟incredibile crescita economica che ha interessato, nella seconda metà del Novecento, l‟Occidente industrializzato sarebbe stata resa possibile proprio grazie a una “sottrazione” di ricchezza all‟Africa. Questo gioco a somma zero si riproduce anche all‟interno dei singoli paesi, dove capi politici, nuove mafie, trafficanti di armi e di droga continuano ad arricchirsi sulla pelle di popolazioni sempre più povere e affamate. Paradossalmente, ma non a caso, gli Stati più ricchi di materie prime sono quelli più colpiti da guerre e carestie. Malnutrizione e alto tasso di mortalità infantile, disoccupazione e arretratezza delle infrastrutture, infine la mancanza di un mercato interno e il sottosviluppo culturale di questo continente (che pure è il primo produttore mondiale di alimenti) sono diretta conseguenza di tale dinamica predatoria “glocale”. 2 L‟intervento delle Ong e associazioni religiose è essenziale per la ridistribuzione delle risorse alle popolazioni (specialmente in questo periodo di crisi economica mondiale che ha provocato un dimezzamento dei fondi devoluti dai governi alla cooperazione). Intervista con SERGIO MARELLI, Direttore Generale Volontari nel mondo-FOCSIV (A cura di Silvia Koch) D. - Quali misure sono necessarie per invertire le tendenze che causano il divario nord-sud? R. - In Africa c‟è un grande bisogno di democrazia. Non di una democrazia imposta dall‟esterno e che replichi i nostri modelli occidentali, ma di una politica elaborata dal basso. Uno sviluppo partecipato, che coinvolga le popolazioni locali nella fase 2 Von Grember K. et al. (2008) Global Hunger Index – The Challenge of Hunger 2008. Bonn, Washington D.C., Dublin: Welt Hunger Hilfe, IFPRI, Concern Worldwide. http://www.ifpri.org/pubs/cp/ghi08.asp#dl Nel rapporto, l’International Food Policy Research Institute (IFPRI) individua la Repubblica Democratica del Congo, l’Eritrea, il Burundi, il Niger, la Sierra Leone, la Liberia, l’Etiopia come i paesi le cui popolazioni sono maggiormente colpite dalla fame e dalla povertà. 62 decisionale, non solo nei processi esecutivi. Una nuova centralità alla famiglia, alle comunità locali di questo continente. Solo su queste basi le politiche economiche, che pure sono necessarie, potranno avere successo. Altrimenti continuerà a ripetersi quel meccanismo degli “aiuti all‟Africa”, che ha caratterizzato la cooperazione degli ultimi cinquanta anni, e che quasi mai è riuscita a sradicare la povertà e a migliorare, in maniera duratura, le condizioni di vita delle popolazioni. Da un punto di vista produttivo, è senza dubbio necessario rilanciare l‟agricoltura, che rappresenta l‟80% dell‟economia africana, coinvolgendo i piccoli produttori, attraverso l‟applicazione dello stesso modello partecipato, e sostenendo le economie familiari. Ricordo, a questo proposito, un dato spesso citato dal direttore generale della Fao: alla fine degli anni ottanta i fondi devoluti all‟agricoltura africana dai paesi ricchi corrispondevano al 17,8% del totale degli aiuti indirizzati continente; oggi invece questa percentuale si è ridotta a un misero 3%. In generale, poi, le risorse devolute alla cooperazione dalle nazioni economicamente più forti devono essere adeguate. È una vergogna che i paesi donatori siano oggi inadempienti rispetto agli accordi da essi stessi sottoscritti con la Comunità Internazionale in ambito di cooperazione. L‟Italia in primis, che quest‟anno ha devoluto solo lo 0,1% del proprio PIL all‟aiuto allo sviluppo, e che risulta essere il paese più lontano da quello 0,7% del proprio PIL, che le Nazioni Unite avevano richiesto alle nazioni industrializzate per raggiungere i famosi obiettivi si sviluppo del Millennio. Infine, torno a ricordare che un ulteriore criterio da tenere in considerazione per massimizzare i risultati dell‟aiuto è la semplificazione dei passaggi attraverso i quali si realizzano le donazioni, cercando di indirizzare i fondi direttamente ai destinatari dell‟aiuto e, soprattutto, tenendo presente le loro esigenze e non eventuali tornaconti per i paesi donatori L‟impostazione ideale a cui puntare sono i progetti di sviluppo partecipato e sostenibile, condotti dalla società civile locale, magari in partenariato con le Ong del nord del mondo. D. - Nell‟ultima Enciclica, Benedetto XVI ha espresso la sua convinzione che la crisi economica mondiale possa essere arginata proprio attraverso la cooperazione, uno strumento in grado di creare ricchezza per tutti, a livello globale… R. - Sebbene la solidarietà internazionale sia innanzitutto un dovere morale nei confronti delle nazioni svantaggiate, sono convinto che fare cooperazione sia anche conveniente per il nord del mondo. Questo perché senza lo sviluppo dell‟Africa, le economie 63 ricche non potranno mai godere di stabilità. Una prova evidente della necessità di una crescita globale coerente è il fenomeno dell‟emigrazione. I milioni di persone costrette a fuggire dalla disperazione e dalla miseria delle nazioni d‟origine, si riverseranno sempre più nei nostri paesi ricchi. Quindi è interesse proprio delle nazioni sviluppate attivare politiche di cooperazione efficaci e puntare a riforme strutturali globali, le sole in grado di arginare questo flusso migratorio. D. - Esistono in Africa determinati modelli culturali, ad esempio nel settore sanitario. Come può la cooperazione inserirsi in tali contesti? R. - La promozione delle diverse culture dei popoli è il pilastro sul quale fondare qualsiasi modello di sviluppo. Penso che sia necessario cercare di comprendere quali siano i valori etici di riferimento delle comunità che si intende accompagnare nella fase di sviluppo, rafforzare le buone tradizioni locali e centrare su queste, modelli di crescita specifici. La storia è ricca di esempi che dimostrano come sistemi culturali trapiantati, imposti dall‟esterno, abbiano portato le più grandi catastrofi. Un atteggiamento di apertura e di confronto verso gli ideali di base delle popolazioni africane, che spesso sono modelli nobili di grande insegnamento, può aiutare lo stesso Occidente sviluppato a recuperare l‟essenza della propria etica originaria, oggi spesso eclissata dai modelli culturali dettati dalle necessità materialistiche. (…) La riscoperta dei valori tradizionali, in un‟ottica di interdipendenza culturale, può essere la ricetta giusta per la promozione di uno sviluppo sostenibile, a livello globale. Intervista con il prof. JUSTINO PINTO DE ANDRADE, Preside della Facoltà di Economia dell‟Università Cattolica di Luanda, in Angola (A cura di Antonio Pinheiro) D. - A cosa è dovuto il ritardo nello sviluppo dell‟Africa? R.- Se, ad eccezione dell‟ultima crisi economica mondiale, ci concentriamo sulla crescita economica mondiale degli ultimi tempi, ci rendiamo conto che la crescita dell‟economia africana è insignificante e piena di disparità, paragonata a quella di Paesi emergenti. Per esempio, il Prodotto Interno Lordo dell‟Africa subsahariana 64 corrisponde al 28% del PIL della Cina, al 69% del PIL del Brasile e all‟80% di quello dell‟India. Guardando alla situazione interna della regione africana subsahariana, ci rendiamo conto che il Sudafrica che rappresenta la più grande economia africana, detiene il 33% del PIL di tutta la regione a sud del Sahara. Se mettiamo insieme il PIL del Sudafrica e quello della Nigeria, notiamo che queste due economie concentrano più della metà del PIL di tutti i Paesi africani a sud del Sahara. D. – Ma si tratta di una disparità solo economica? R. - Questa disparità si trova anche a livello dell‟estensione geografica, della disponibilità di ricchezze naturali e del reddito. Per esempio, il PIL pro capite delle Isole Seychelles è 77 volte superiore a quello della Repubblica Democratica del Congo. A livello demografico, ci sono Paesi africani che hanno conosciuto una significativa esplosione demografica che è stata, però, spazzata via dagli alti livelli di mortalità infantile e dai bassi livelli di speranza di vita alla nascita, a causa delle gravi incidenze di malattie come la malaria, il colera, la tubercolosi, la dissenteria. A queste malattie negli ultimi tempi si è associato l‟AIDS che, in certi casi, ha invertito negativamente la tendenza alla crescita demografica, colpendo anche i ceti elitari in Paesi come Sudafrica, Mozambico, Swaziland, Botswana, Lesotho e altri ancora. Invece, in pochi casi, come in quello delle Isole Mauritius, la speranza di vita alla nascita si è alzata fino a 73,2 anni, collocandosi abbastanza vicina a quella dei Paesi economicamente più sviluppati. D. – Ma l‟Africa dispone comunque di grandi potenzialità… R. - Sì, l‟Africa dispone di grandi potenzialità per lo sviluppo, soprattutto per quello che riguarda le ricchezze naturali. Ma bisogna anche da ricordare che l‟attuazione di tali potenzialità richiede delle politiche di correzione delle tendenze negative che abbiamo fin qui analizzato. A questo punto, la responsabilità diventa di tutti, cioè dei governi africani, dei governi dei Paesi economicamente più sviluppati e degli operatori economici privati. È da ricordare come Paesi ricchissimi di risorse naturali, come per esempio la Nigeria e l‟Angola, tutti e due produttori di petrolio e con grandi estensioni di terre arabili, non abbiano ancora trovato il modo per sfamare totalmente le loro popolazioni e continuino ad essere principali importatori di alimenti. 65 D. - Che tipo di popolazione presenta l‟Africa? R. - L‟Africa è il continente con la popolazione più giovane del pianeta, i giovani al di sotto dei 18 anni costituiscono il 50% del totale della popolazione. Questo suppone però un grande impegno nella creazione di posti di lavoro, nella costruzione di scuole e di parchi d‟infanzia, soprattutto considerando che la fascia che va da 0 a 14 anni è improduttiva e che i tanti giovani dai 10 ai 14 lavorano nei campi e aiutano il reddito familiare, ma lo fanno contro la legge sullo sfruttamento dei minori e perdono la possibilità di vivere un‟ infanzia tranquilla e di studiare. Se consideriamo che i giovani che fanno parte della popolazione attiva in Africa costituiscono il 40% del totale, possiamo anche costatare che il ritmo della creazione di nuovi impieghi è molto basso in rapporto ai reali bisogni dello sviluppo e dell‟occupazione della grande forza di lavoro disponibile e molte volte poco qualificata. D. – Cosa auspica che il prossimo Sinodo possa fare per l‟Africa? R. - Sappiamo che questo Sinodo ha come scopo quello di illuminare le vie intraprese dai governanti africani che, nonostante gli sbagli, vorrebbero trovare le strade giuste per tirare fuori l‟Africa dalla situazione di sottosviluppo. E il Sinodo vuole anche incoraggiare i fedeli cristiani e i popoli africani, in generale ad avere speranza nel Vangelo che salva l‟uomo nella sua totalità di corpo e anima, in modo tale che l‟uomo africano abbia accesso alle possibilità di diventare, come tutti gli altri, immagine di Dio. 66 3. La fame e la crisi dell‟agricoltura (cfr. Instr. Laboris: cap. I, punto 29, pp.12; cap. II, p. 22, punto 60) La crisi dell‟agricoltura in Africa ha molte cause, prime fra tutte il difficile ecosistema e la tendenza alla desertificazione. Tuttavia, le riforme contenute nei PAS (Programmi di Aggiustamento Strutturale), imposti dalle Istituzioni internazionali in cambio dei finanziamenti, hanno dato un contributo decisivo nella distruzione del delicato equilibrio naturale. La vulnerabilità delle nuove economie agricole e il difficile accesso alla terra sono annoverati tra le cause di molti conflitti locali. Eppure, ancora oggi molti Stati industrializzati continuano a difendere i propri interessi, illudendosi di poter ignorare il dramma dell‟Africa (es. gli Epas). D‟altra parte però, sono stati anche istituiti Organismi ad hoc, come il Programma Alimentare Mondiale dell‟Onu, proprio allo scopo di estinguere la fame nel mondo. Un esempio concreto dell‟intervento ecclesiastico nella lotta alla fame in Africa è rappresentato dalla Fondazione per il Sahel, istituita nel 1984 da Giovanni Paolo II, che si impegna nella lotta alla desertificazione e nel soccorso delle vittime della siccità in nove paesi del Sahel. Intervista con MARIA VITTORIA DE MARCHI, portavoce per l‟Italia del WFP (World Food Programme) (A cura di Silvia Koch) D. - Circa un miliardo di individui, una persona su sei al mondo, soffre la fame. Di questi, oltre 270 milioni si trovano in Africa. Come si distribuisce la povertà sul continente africano e quali sono le principali cause? R. - La più colpita dalla povertà è l‟Africa sub-sahariana, dove si concentra un numero molto alto di persone che soffrono la fame e nella quale quasi tutti i paesi ciclicamente rischiano la povertà. La non accessibilità al cibo è la prima causa di morte in Africa: provoca più vittime della malaria, della tubercolosi e dell‟Aids combinati insieme. Questa miseria - che direi endemica - ha ragioni diverse a seconda dell‟area specifica. In alcuni casi è dovuta ai conflitti – ne sono esempio il Darfur, il Ciad o il Congo, dove una guerra strisciante obbliga da anni le popolazioni a fuggire e spinge chi ne ha la possibilità a trovare riparo altrove. Altre volte è invece riconducibile allo smembramento di uno Stato nazionale, come in 67 Somalia - dove la fame si associa alla realtà di un territorio fuori controllo per il governo. Ancora, un‟altra causa di povertà sono i fattori climatici – pensiamo al Corno d‟Africa, colpito da frequenti siccità o inondazioni. Diversi paesi, poi, hanno difficoltà a dotarsi di infrastrutture, di istituzioni politiche stabili e sono restii nel darsi buone pratiche di governo – la cosiddetta good governance. L‟inefficienza degli Stati è un‟aggravante che, in molti contesti, impedisce di far fronte al dramma della povertà. Ci sono però anche esempi positivi, come il Ghana, che è riuscito a combattere con grande efficacia la povertà e che rappresenta uno degli esempi riusciti di progresso, anche dal punto di vista del raggiungimento degli obbiettivi di sviluppo del Millennio. D. - In Africa, continente ancora prevalentemente agricolo, la fame è collegata direttamente con le caratteristiche del sistema produttivo rurale. Quali sono i principali elementi della crisi agricola che affligge molti paesi africani? R. - La mancanza di infrastrutture, di servizi, di tecnologie e di sementi. Ma anche la difficoltà di accesso ai mercati in quanto venditori. Le merci dei piccoli contadini spesso non sono in grado di reggere la concorrenza con le produzioni industriali. Inoltre, l‟instabilità politica e sociale, come anche lo stato di belligeranza che persevera in diversi paesi, sono tutti fattori che danneggiano, a volte distruggono, l‟apparato produttivo locale. Le conseguenze principali di un sistema economico che non funziona si registrano nella denutrizione - specialmente delle mamme e dei bambini nella penalizzazione del sistema sanitario ed istruttivo - a causa della mancanza di risorse – e nella distruzione del tessuto di protezione sociale, che è fondamentale in questi paesi. Ecco perché anche nei periodi di forte emergenza economica, come quello in atto, il Programma Alimentare delle Nazioni Unite continua a promuovere la creazione di reti di sicurezza, affinché le persone che non hanno possibilità di accesso autonomo ai beni di prima di prima necessità, possano sempre trovare un sostegno nella comunità di appartenenza. D. - Benedetto XVI, nell‟Enciclica “Caritas in Veritate”, fa riferimento allo “scandalo delle disuguaglianze clamorose”, che persistono nel mondo. Il divario tra paesi ricchi e poveri sta aumentando sotto i colpi cella crisi mondiale? Qual‟è la responsabilità delle Istituzioni Finanziarie Internazionali? 68 R. - Esiste soprattutto un‟enorme diseguaglianza nel modo con cui determinate crisi colpiscono, con maggiore intensità, il sud del mondo. Pensiamo, ad esempio, all‟aumento dei prezzi alimentari che si è registrato l‟anno scorso. Vero è che il fenomeno ha colpito in generale tutti i continenti ma, mentre nei paesi occidentali, la spesa per il cibo incide per circa il 20% sul budget familiare, in un paese in via di sviluppo questa percentuale arriva al 60, a volte il 70%. Spesso in Africa il problema delle vittime della fame non è la mancanza di cibo, ma l‟assenza di denaro per acquistarlo. È chiaro, dunque, che alcuni fenomeni globali hanno ripercussioni particolarmente drammatiche sulle economie del sud del mondo, perché qui non sono stati attivati dei meccanismi di protezione e di sostegno all‟agricoltura, non sono state create infrastrutture sanitarie e non è stato investito abbastanza nel settore dell‟educazione. Anche la drastica riduzione delle rimesse, causata dall‟aumento della disoccupazione nei paesi industrializzati, rende più gravi gli effetti della crisi finanziaria sulle economie già deboli. Ci sono paesi africani, ma anche asiatici o del sud America che sono stati interessati da una forte emigrazione e il cui prodotto interno lordo dipende in larga misura dalle rimesse. Nell‟ambito degli stessi paesi in via di sviluppo, poi, si è creato un nuovo divario tra alcune nazioni emergenti dell‟Asia e del Sudamerica che hanno registrato un tasso accelerato di sviluppo negli ultimi anni e che si avviano a una relativa autonomia anche nell‟elaborazione delle politiche sociali - e l‟Africa sub-sahariana che, salvo rarissime eccezioni, registra invece le maggiori battute di arresto. Nel continente africano la crisi economica tende ad annullare anche i pochi vantaggi acquisiti dai ceti urbanizzati, dalla classe media in formazione. Da non dimenticare, poi, la riduzione degli investimenti e degli aiuti allo sviluppo devoluti dall‟Occidente. Credo sia responsabilità proprio dei paesi industrializzati e delle Organizzazioni Internazionali riattivare un circolo virtuoso a favore delle economie deboli, per mezzo degli investimenti ma anche grazie alla revisione di quei negoziati commerciali che non promuovono la crescita dei paesi svantaggiati. D. - Sempre nell‟Enciclica, il Papa sottolinea la necessità di impostare un nuovo modello di sviluppo sulla giustizia e sull‟inclusione delle realtà più svantaggiate. Da dove si deve partire per fondare un‟economia in grado di generare ricchezza per tutti? 69 R. - Innanzitutto reimpostando le regole internazionali del commercio, affinché i prodotti delle economie in via di sviluppo possano avere uguale dignità e possibilità di accesso ai mercati internazionali. È importante anche aiutare questi paesi a organizzare meglio il proprio sistema agricolo. Questo non significa soltanto migliorare le produzioni o aumentare gli investimenti nel settore specifico, ma anche aiutare i piccoli contadini a rendere le proprie merci competitive sul mercato locale e internazionale. Come PAM, abbiamo recentemente avviato diversi progetti pilota, nell‟ambito dei quali sosteniamo piccoli agricoltori acquistando i loro prodotti, che poi ci serviranno per intervenire in situazioni di emergenza nella regione stessa. L‟altro elemento, a mio avviso fondamentale per poter realizzare, in futuro, una giustizia sociale ed economica, è garantire l‟educazione. Ricordo un altro programma realizzato dal PAM, che prevede la fornitura dei pasti ai bambini che vanno a scuola. Per alcuni di essi questo cibo rappresenta l‟unica fonte di nutrimento, ma il progetto vuole essere anche un motore per l‟alfabetizzazione i giovani. L‟istruzione è fondamentale per la costruzione del proprio futuro. D. - Quali sono le maggiori difficoltà che nell‟attuare i vostri programmi di sviluppo? riscontrate R. - Il problema principale - per noi che siamo un‟agenzia delle Nazioni Unite finanziata dai contributi volontari dei governi e dei privati – è quello di riuscire ad avere fondi per attuare i nostri progetti. Generalmente riusciamo a raccogliere addirittura meno della metà di quello che, secondo il nostro bilancio, sarebbe necessario per assistere oltre 100 milioni di persone. Questo si tradurrà in un taglio drastico nei programmi e nelle razioni di cibo. D. - Esistono alcune Organizzazioni sovranazionali africane che cercano di promuovere lo sviluppo nei paesi membri. Istituzioni come il NEPAD (New Partnership for Africa‟s Development) o la CEDEAO (Communauté économique des États de l‟Afrique de l‟Ouest) costituiscono strumenti efficaci per rilanciare le economie del continente? Esistono forme di collaborazione tra le Organizzazioni panafricane e quelle internazionali, come le agenzie di sviluppo delle Nazioni Unite? R. - Ritengo che gli organismi panafricani siano fondamentali e mi auguro che i singoli Stati promuovano anche in futuro nuove forme 70 di coordinamento sovranazionale. Sono segnali di un protagonismo politico dell‟Africa essenziale affinché le esigenze e le iniziative del continente possano avere più peso, anche sulla scena mondiale. Già in passato, ci sono stati molti interventi paralleli e forum mondiali ai quali hanno partecipato, tra gli altri, le Nazioni Unite, l‟Unione Africana e il Nepad. In generale, si sta promuovendo una sempre maggiore collaborazione internazionale, sia sul fronte del peacekeeping che dal punto di vista del peacebuilding. 71 4. Globalizzazione e distruzione dell‟identità africana, dei suoi valori, del tessuto familiare e della coesione sociale (cfr. Instr. Laboris: cap. I, punti 30-31, pp. 12-13; cap II, punto 66, p. 24) Sulla spinta della globalizzazione, i mezzi di comunicazione hanno provocato un‟invasione dei modelli occidentali sulla scena culturale africana e l‟economia capitalistica all‟abbandono dei sistemi di sussistenza, con un conseguente incremento accelerato dell‟urbanizzazione. I giovani che migrano dalle campagne alle città si ritrovano spesso in uno stato di emarginazione, di alienazione dal proprio background socio-culturale e familiare (che è considerato un valore essenziale nelle culture africane). Questa destrutturazione della protezione sociale e dei valori originari africani, associati alla miseria che costringe a condizioni di vita disumane, possono favorire quell‟instabilità sociale e moltiplicare, in ultimo, le possibilità di conflitto. Le società multietniche sono oggi una realtà diffusa, in Occidente come nelle stesse città africane. Le Chiese locali sono impegnate in prima linea nella promozione di una dignitosa accoglienza degli stranieri e nella difesa dei diritti dei rifugiati politici. Intervista con MARGUERITE PEETERS, autrice del libro “La Mondializzazione della Rivoluzione Culturale Occidentale” (A cura di Dulce Araujo) D. Lei parla del pericolo che una nuova cultura globalizzata e la sua etica rappresentano per l‟identità culturale africana e anche per il cristianesimo. Perché? R. – Per diverse ragioni: la prima è che c‟è un deficit democratico nel senso che questi concetti (prendo l‟esempio della “salute riproduttiva” e di “genere” che sono i più conosciuti) non sono stati sottomessi a dibattito democratico come si fa normalmente. Quindi, non provengono dalle popolazioni, non rappresentano la volontà dei popoli, bensì – e questo può essere provato storicamente – da certe minoranze occidentali, partners di certi organismi dell‟ONU che hanno svolto un ruolo determinante nella formulazione di queste norme mondiali negli anni „90. Quindi c‟è innanzitutto un problema democratico, cioè una presa di potere normativo da parte di certe minoranze occidentali. In secondo luogo, mi preoccupa perché pone un problema per i cristiani, nella misura in cui chi conosce la storia 72 dell‟Occidente sa molto bene che la rivoluzione culturale del mondo occidentale (e non parlo semplicemente del maggio del 1968) è una lunga storia di secolarizzazione della civiltà occidentale, e questa rivoluzione culturale ha avuto come risultato la perdita della fede in Occidente. Costatiamo questo ora che le chiese sono vuote o frequentate solo da anziani; i giovani prendono le distanze. È chiaro che c‟è un rinnovamento della Chiesa, ma la cultura occidentale, che era cristiana, ha smesso di esserlo. Io vorrei chiamare l‟attenzione delle popolazioni e delle culture non occidentali che stano passando, artificialmente, per questo stesso fenomeno di una rivoluzione culturale, come in Africa, dove si parla dappertutto di “genere”, di “salute riproduttiva” … Come ho detto, si tratta solo di due esempi in mezzo a tanti altri, ma sono forse i più eloquenti di questa rivoluzione occidentale che è letteralmente imposta all‟Africa non solo attraverso i governi, ma soprattutto attraverso la cultura (la mondializzazione culturale), internet, media, tv, stili di vita… D. - Questo rappresenta quindi una sfida per le culture non occidentali. Conserveranno le loro culture o si lasceranno occidentalizzare? R. - Si tratta anche di una sfida per la fede cristiana perché questi concetti rappresentano un pericolo, nella misura in cui posso sedurre i cristiani, allontanandoli del Vangelo. D. - Ma ci sono segnali di speranza che l‟Africa non si lascerà travolgere dalla spirale di questa nuova cultura occidentale e riesca a svilupparsi partendo dalle sue proprie realtà, dalle sue proprie ricchezze culturali, pur innovando quando e dove è necessario? R. - Io penso che Dio abbia dato all‟Africa alcuni doni che non ha dato ad altri continenti; che ci sono doni che Dio ha fatto specificamente all‟Africa; che l‟Africa ha una missione; che l‟ora di questa missione è arrivata. Per me, personalmente è una grande allegria, un grande regalo cominciare a conoscere l‟Africa, a scoprire innanzitutto quello che è immediatamente percettibile, cioè, questo senso fondamentale di fraternità: qualsiasi uomo, qualsiasi donna è un fratello, una sorella, non importa chi sia, conosciuto o sconosciuto. È un fratello, una sorella! Ed è una fraternità molto diversa dal concetto di fraternità della Rivoluzione francese, fraternità senza padre. In Africa, al contrario, si tratta di una fraternità filiale. Cioè, siamo fratelli perché abbiamo lo stesso padre. Questo senso di paternità, di 73 maternità, di vita, questa gioia di vivere, questo senso del sacro…La natura in Africa è chiamata “Creato”, questo vuol dire che c‟è un Creatore. Ora, nella civiltà caratterizzata dall‟apostasia, cioè dal rifiuto di Dio, non si parla più di Creatore. In Africa la natura viene da Dio. E penso che questo dono che Dio ha fatto all‟Africa è senza pentimento; cioè, quando Dio ha fatto questo dono all‟Africa è stato per sempre. Penso che, con lo shock della mondializzazione, sta nascendo nel cuore degli africani un desiderio di conservare la propria identità, stanno prendendo coscienza di quello che sono, dei doni che hanno ricevuto da Dio…Sono stata di recente in Ouagadougou in Burkina-Faso e mi è sembrato che le persone sono coscienti di questo rapido, rapidissimo cambiamento culturale che sta avvenendo e, quindi, questo desiderio di resistere a tutto questo. Il quadro è comunque abbastanza preoccupante, perché questa nuova cultura avanza in modo estremamente rapido . 74 5. La corruzione e la debolezza dello Stato-Nazione (cfr. Instr. Laboris: cap. I, p. 5, punto 11) “Tutti i mali che destabilizzano il continente africano hanno origine nel cuore ferito dell‟uomo”. Non c‟è pace senza giustizia e non c‟è giustizia senza perdono. Questo il pensiero che Giovanni Paolo II ha espresso nell‟Esortazione Apostolica Postsinodale, Reconciliatio et paenitentia, nel 1984. L‟imperialismo occidentale ha generato profonde fratture nel tessuto sociale africano e gravi contraddizioni nel processo evolutivo politico. La conseguenza (in molti contesti, ma non in tutti) è un‟evoluzione delle sue forme statali alquanto distorta, caratterizzata da: assenza del senso dello Stato e del bene comune, debolezza delle Istituzioni politiche (fino al “collasso”), populismo, uso coercitivo della violenza come strategia politica, eccesso di militarizzazione (e frequenti colpi di Stato) infine da una gestione delle risorse economiche di natura neopatrimoniale e clientelistica. L‟esempio più eclatante è la Somalia, dove sono subentrati gruppi fondamentalisti, milizie private o forze internazionali nella gestione del potere e dell‟ordine socio-politico. La veicolazione dei valori cristiani può rivelarsi essenziale nella cura di quelle ferite che marcano, indelebili, la storia del continente. La testimonianza e il ruolo profetico della Chiesa sono le principali forme di educazione dei fedeli al perdono, alla giustizia e al rispetto reciproco. Intervista con PADRE FRANCO MORETTI, direttore della rivista dei comboniani “Nigrizia” (A cura di Isabella Piro) D. – Quali sono le cause della corruzione in Africa? R. – Spesso e volentieri, la classe politica non è degna di questo nome, anche perché spesso i politici raggiungono il potere non attraverso elezioni democratiche, ma attraverso colpi di Stato e imbrogli, e una volta raggiunto il potere, poi, è difficile perderlo. Qualche decennio fa, in Africa circolava una battuta: “Per far perdere le elezioni ad un presidente africano, bisogna sparargli direttamente in testa”. Era un modo crudo per dimostrare quanto è difficile che un politico che assurge al potere, poi, possa accettare di perderlo. Farà di tutto per rimanerci. C‟è poi il fatto che la popolazione, la società civile non è ancora ben educata ad un‟etica sociale, proprio perché la stragrande maggioranza della gente vive nella miseria, non solo nella povertà. Ecco: quando ci sono intere popolazioni che vivono nella disperazione, 75 il personaggio corrotto non è, di per se stesso, odiato o inviso, ma è quasi invidiato. Spesso e volentieri, chi è nella disperazione sogna di poter arrivare ad una situazione che possa assomigliare, nel suo piccolo, a quella di un “grande” che è corrotto. Il misero, il disperato è pronto a qualunque cosa, anche ad imitare il suo politico corrotto, quindi farà di tutto per poter imbrogliare il suo vicino, non perché lo voglia di per sé, ma perché è disperato, non sa come “sbarcare il lunario”. D. – Quando si parla di corruzione in Africa, si parla principalmente di compravendita dei posti di potere o anche di gestione pratica del potere stesso? R. - Bisogna tener presente una cosa: in molti Stati africani, non esiste un sistema fiscale appropriato. Pochi africani pagano le tasse, se non l‟IVA che pagano quando comprano un oggetto in città (non è così, però, nei mercati rionali o rurali). Quindi, il politico quasi si sente di poter dire alla gente: “Io non vi chiedo molti soldi, quindi non preoccupatevi di come mi comporto”. Sta di fatto che le nazioni più corrotte in Africa corrispondono a quelle più ricche di risorse naturali, quindi l‟Angola, il Ciad, il Congo. I proventi che il governo ottiene attraverso la vendita delle risorse naturali – in particolare, minerali preziosi, greggio e gas – sono proventi quasi avvertiti come proprietà privata da parte del governo stesso. L‟esecutivo qualcosa fa, per esempio nella riparazione delle strade, ma la maggior parte di questi soldi viene usata in maniera distorta: una buona parte di essi viene inviata in Occidente, in qualche banca, su conti privati. Ma la gente, proprio perché non ha dato molto al governo, non sente il dovere di dire: “Usa bene questi soldi”. Per esempio, in Italia, in Europa noi diciamo sempre: “Sono soldi dei contribuenti”. In Africa, questa espressione non è ancora molto usata proprio perché il contribuente non contribuisce in modo adeguato allo sviluppo del Paese ed i politici approfittano di questa situazione: sfruttano le risorse naturali, le vendono o le svendono, in modo corrotto spesso, e considerano i proventi un po‟ loro proprietà privata e fanno ciò che vogliono con questi soldi. Ci vorrebbe, da parte della gente, un senso di sdegno, più che di rabbia o di invidia. Questa capacità sta crescendo, soprattutto in alcuni gruppi della società civile, ma questo senso di sdegno nei confronti dei politici corrotti non è ancora generalizzato. D. – Quali sono le conseguenze di tutto questo sulla popolazione africana? 76 R. – L‟Africa sta diventando sempre più povera. Mentre le piccole élites si arricchiscono in maniera sfacciata, la stragrande maggioranza della popolazione giace ancora all‟ombra della povertà e peggiora sempre di più. Il sistema sanitario in molti Paesi è allo sfacelo; ricordo che nel „63-‟64, in Kenya, ad esempio, si arrivava a spendere il 53% del bilancio dello Stato per l‟educazione, oggi invece siamo al 3 o 4%. Quindi educazione, sanità, servizi sociali sono tutti settori allo sfascio. D. – Ci sono comunque degli esempi positivi di buon governo tra i vari Paesi africani? R. – Sì, per esempio mi viene in mente il Ghana che, anche grazie ad una tradizione di democrazia pluridecennale, ha una certa parvenza di etica sociale e di politica basata sul buon governo. Ma si tratta di casi rari. Potremmo citare il Sudafrica, ma anche qui, pur se la popolazione sta meglio che nel resto del Continente, la corruzione è ad altissimi livelli. È difficile citare un caso, oggi, che possa diventare un esempio di buon governo in Africa. D. – Quali sono le possibili soluzioni alla piaga della corruzione? R. – Ce ne sono tante. Senz‟altro, la formazione e l‟educazione della società civile così che, quando si arriva al momento di eleggere i leader (politici ndr), si sappiano eleggere persone davvero degne di essere capi di un dicastero, di un governo, di un ufficio ministeriale. Poi, ci vorrebbe – anche da parte del nord del mondo, delle banche mondiali che fanno prestiti a questi Paesi africani – un po‟ più di lealtà. È un po‟ troppo facile accusare l‟Africa di essere così povera a causa della corruzione dei suoi governanti, quando noi accettiamo nelle nostre banche questi soldi, frutto di corruzione, frutto di estorsione. E ce ne facciamo anche vanto. (…) Ultimamente, nel maggio scorso, c‟è stato il rapporto della Global Witness, una ONG statunitense, che ha presentato al Congresso degli Stati Uniti un documento in cui si dice che le banche del nord del mondo fanno affari con questi governi corrotti del sud (…). Molte di queste banche sono quelle in cui noi depositiamo i nostri conti, a cui chiediamo prestiti, fingendo di non sapere che queste banche stanno facendo affari corrotti con i politici del sud del mondo. Quindi, è necessaria la pulizia in Africa, la crescita del senso civico in Africa, ma anche la crescita del senso di responsabilità da parte nostra. Molti dei soldi che hanno contribuito a creare questo ingente debito estero del sud del mondo sono stati inviati dalle banche, dalle istituzioni del nord del 77 mondo come aiuti. Poi, però, venivano depositati su conti privati dei presidenti africani, e lo si sapeva, ma si accettava il fatto. Quindi, ci vuole una cooperazione: più serietà da parte loro, ma anche più onestà da parte nostra. D. – La Chiesa locale, nei differenti Paesi africani, è sempre stata impegnata nella lotta alla corruzione. Secondo Lei, è possibile fare ancora di più? R. – Senz‟altro è possibile fare di più. Io direi che il “momento magico” della Chiesa cattolica in Africa è stato il decennio del 1970, quando in molti Stati africani la Chiesa era davvero l‟unico “partito” di opposizione. Uso la parola “partito” in modo improprio, ma la Chiesa era davvero una voce profetica. Poi c‟è stato un altro momento in cui la Chiesa cattolica si è dimostrata capace di dire qualcosa di nuovo in Africa ed è stato l‟inizio degli anni ‟90, durante le famose “primavere democratiche” dell‟Africa. Da allora, la voce profetica della Chiesa cattolica in Africa si è un po‟ smorzata. (…) Si spera comunque che i pochi buoni esempi vengano imitati e si moltiplichino. Ci sono stati, senz‟altro, dei casi in cui le Chiese si sono dimostrate davvero capaci di puntare il dito contro i veri mali e hanno fatto nomi e cognomi. Mi vengono in mente il Kenya, in cui la Chiesa africana non ha taciuto durante i disordini che sono seguiti alle elezioni del 2007, o la Repubblica Democratica del Congo, in cui i vescovi dicono chiaramente cosa sta accadendo in questo Stato, dove tutte le grandi potenze del mondo sono lì per fare affari e fanno questi affari a spese della povera gente. Speriamo che il prossimo Sinodo per l‟Africa sia davvero un “altoparlante” potente, che faccia giungere queste voci profetiche a tutto il mondo. D. – A cosa è dovuto, secondo Lei, l‟affievolimento della voce della Chiesa contro la corruzione? R. – Forse, al fatto che i vescovi e le Conferenze episcopali di oggi sono, in un modo o nell‟altro, un po‟ più legati ai politici, a livello quasi “partitico”. E lo dice chiaramente anche l‟Instrumentum Laboris in cui si legge che alcuni pastori si schierano decisamente con un partito (cfr. IL, II, 53 ndr). (…) Poi, forse, c‟è un certo senso di stanchezza nella Chiesa, di delusione: teniamo presente che è da trent‟anni che la Chiesa sta cercando, sta dicendo di sforzarsi (nella lotta alla corruzione ndr.) Dopo tanti anni, può venire meno questa speranza, qualche Pastore può, magari, scoraggiarsi o, addirittura, dire: “Non c‟è niente da fare”. 78 D. – Quindi di corruzione si parla nell‟Instrumentum Laboris… R. – Certo! La parola “corruzione” appare ben nove volte nel testo, quindi figura tra i primi posti nella lista delle ombre che oscurano il Continente ed impediscono il suo sviluppo. La parola “corruzione” appare in tutti i contesti: quello civile, quello sociale, quello economico, in quello etico…dappertutto! Ovviamente, l‟Instrumentum Laboris non lesina parole di critica per questo malcostume. D. – Alla luce di tutto quello che abbiamo detto, possiamo comunque dire che l‟Africa resta un Continente di grandi speranze e di grandi possibilità? R. – Vorrei sottolineare il fatto che sia Giovanni Paolo II, sia Benedetto XVI hanno il coraggio di esprimere questa fiducia nel Continente. Sia l‟uno che l‟altro usano questa espressione: “L‟Africa è il Continente della speranza per il futuro del mondo”. (…) A livello prettamente cristiano, non può darsi il fatto che un continente così provato dal dolore non stia maturando in sé i semi del suo futuro migliore (…). Bisogna credere per forza che, prima o poi, il Terzo Giorno per l‟Africa ci sarà. Dobbiamo pregare perché ciò avvenga presto, ma anche impegnarci nel fare le cose necessarie. E l‟Instrumentum Laboris le indica tutte, punto per punto: educazione, formazione, piccole comunità, riflessione sulla Parola di Dio, grande studio sull‟insegnamento sociale della Chiesa. Questi piccoli passi ci sono, ma vanno incrementati. Intervista con MARIA TERESA BRASSIOLO, presidente di Transparency International Italia (A cura di Isabella Piro) D. - Quali sono i Paesi africani colpiti maggiormente dal problema della corruzione? R. – L‟indice di corruzione stilato da Transparency è un indice di percezione della corruzione e dà alcuni punteggi: 10 sono i Paesi senza corruzione e 1, o anche meno, sono quelli più corrotti. Quindi, gli Stati che sono intorno al punteggio di 1 sono: la Somalia, che è al livello più basso del nostro indice, poi abbiamo il Sudan, la Guinea, il Ciad, la Guinea Equatoriale, il Congo, lo Zimbabwe, e poi il Gambia e la Repubblica Democratica del Congo al 158° posto, il Burundi, 79 l‟Angola…Insomma, troviamo molti Paesi africani in fondo alla classifica. D. – Quali sono le cause principali della corruzione in Africa? R. – Io penso che siano molteplici: a mio giudizio, sono le scarse risorse che vengono dedicate all‟educazione. Quando le persone non riescono a difendersi, evidentemente sono soggette ad ogni tipo di sopruso e la possibilità di difendersi anche creandosi un‟attività economica, un‟indipendenza economica passa, assolutamente, attraverso l‟educazione. Molta parte degli aiuti che sono stati distribuiti dalle nazioni – aiuti materiali - hanno avuto sicuramente un impatto poco importante. Molto più lo hanno avuto quelle operazioni religiose, della Chiesa cattolica per esempio, che promuovono i valori, l‟integrità, una modalità di comportamento che riesce a combattere la corruzione e che riesce anche a formare delle coalizioni virtuose contro la corruzione stessa. D. – Prima abbiamo citato i Paesi più corrotti; possiamo ora citare i Paesi in cui lo Stato effettivamente funziona? R. – Mi viene in mente il Botswana, che viene spesso citato per la qualità del suo governo e anche per il relativo benessere che è stato raggiunto. Però, dobbiamo dire che accanto a questo caso non è che ce ne siano molti altri. Anche il Sudafrica, che sta facendo dei grandissimi sforzi, comunque non è in una posizione molto soddisfacente. D. – L‟Occidente che parte ha in tutto questo? R. – Mi riferisco alle pubblicazioni della Banca Mondiale, che sta diventando molto scettica sul genere di aiuto che è stato dato all‟Africa: sembra che il 40% degli aiuti, elargiti dalla Banca stessa, sia stato usato per obiettivi diversi da quelli previsti. Altri studi (…) hanno identificato negli aiuti, così come sono stati dati finora, addirittura la fonte stessa della corruzione. Il denaro che entrava (in Africa ndr) a qualsiasi titolo benefico, poi usciva per altre strade, andando nei “paradisi fiscali” e quindi non producendo alcun benessere per il Paese o per gli obiettivi per i quali era stato dato. Per cui, un‟azione meritoria come poteva essere un aiuto si trasformava addirittura in un abuso (…), perché serviva a rimpinguare i conti dei vari personaggi che governavano quel Paese. Questo è un dato agghiacciante! 80 D. – La Chiesa locale, nei diversi Paesi africani, è sempre stata impegnata nella lotta alla corruzione. Secondo Lei, è stato fatto abbastanza? La Chiesa può fare ancora di più? R. – La Chiesa ha fatto moltissimo ed è stata, probabilmente, quella che ha fatto di più nell‟aiutare la società civile a formarsi una coscienza, una forza interna per combattere le violenze. Certo, si può fare di più, ma le risorse della Chiesa non sono infinite. Le risorse che arrivano, ad esempio, da Banca Mondiale, dovrebbe essere indirizzate verso l‟educazione, perché ci sarebbero meno abusi, ci sarebbe meno corruzione e si andrebbe ad incidere davvero su un punto fondamentale. Qualche anno fa c‟è stata un‟inchiesta che ha evidenziato come l‟aumento degli stanziamenti nel settore dell‟educazione faceva crescere il PIL dall‟1 all‟1,5%. D. – Il Sinodo dei Vescovi per l‟Africa può dettare delle lineeguida, tracciare delle strade in quest‟ambito? R. – Sicuramente sì, anche per l‟autorevolezza della Chiesa e, soprattutto, per la possibilità che ha la Chiesa di entrare nelle case, di entrare nell‟animo delle persone, cosa che i politici normalmente non hanno. La Chiesa si rivolge anche, molto spesso, alle donne che sono, molto più sensibili a queste problematiche, perché pensano più ai loro figli che non a motivazioni politiche. Penso che la Chiesa abbia sempre avuto, ma dovrebbe avere ancora di più, un ruolo fondamentale, e dovrebbe chiedere ai donatori internazionali che facciano passare le loro donazioni attraverso dei sistemi educativi, magari coinvolgendo anche molto la società civile, dando i finanziamenti non ai governi, ma alle organizzazioni sul territorio. E sicuramente quella più rappresentata, quella che ha un potere di convinzione forte è senz‟altro l‟organizzazione religiosa. È una strada che la Banca Mondiale sta già percorrendo. D. – Il propagarsi della corruzione si può dire anche che è legato ad una debolezza dello Stato-nazione in Africa? R. – È difficile dirlo (…) Però, io penso che lo Stato-nazione si crei anche intorno a dei valori. Non si può creare uno Stato a tavolino, tracciando dei confini, ma bisogna crearlo intorno a dei valori nella politica, nella popolazione (…) L‟ha fatto Mandela, e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Dove, invece, questi valori non ci sono, si creano le guerre civili, lo sperpero e l‟abuso dei cittadini inermi. 81 6. Le violazioni dei diritti umani: pena di morte, sfruttamento di donne e bambini, le migrazioni (cfr. Instr. Laboris: cap. I, punti 12-13, pp. 9-10-11, punto 32, p. 13; cap. II, punti 56-59, pp. 21-22) In Africa si perpetuano gravi violazioni dei diritti umani, sia sul piano collettivo sia su quello individuale. Le donne subiscono violenze domestiche e discriminazioni in ambito pubblico. La schiavitù è ancora molto praticata, ad esempio in Niger. In Liberia, Costa d‟Avorio, Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo, Congo-Brazzaville e GuineaConakry è ancora diffuso il sequestro e l‟arruolamento dei minori.3 Infine, in alcune regioni (ad esempio in Somalia) è stata reintrodotta la Sharia, che rappresenta una minaccia specialmente per le donne e per i fedeli di confessioni diverse da quella islamica. Pur promuovendo il dialogo interreligioso e il contributo delle religioni alla crescita delle società africane, la Chiesa non può accettare le politiche che comportano una minaccia alla dignità individuale e numerose volte vescovi o associazioni cristiane hanno sostenuto battaglie contro determinate pratiche non rispettose dei diritti della persona e delle collettività. Intervista con RICCARDO NOURY, portavoce di Amnesty International Italia (A cura di Isabella Piro) D. – Partiamo dalla pena di morte: in quali Paesi africani è ancora in vigore e in quali, invece, è stata abolita? R. – La cosa importante da sottolineare è che si fa prima ad elencare i Paesi che ancora la mantengono, perché sono ormai una minoranza rispetto a quelli che ormai l‟hanno abolita. Nelle leggi è prevista ancora in sedici Paesi: sono Botswana, Ciad, Comore, Egitto, Etiopia, Guinea, Guinea Equatoriale, Lesotho, Libia, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Uganda e Zimbabwe. In realtà, nel 2008 la pena di morte è stata applicata soltanto in Botswana, Egitto, Libia e Sudan, quindi in quattro di questi sedici Paesi. La seconda cosa importante da sottolineare è che negli ultimi dieci anni i Paesi africani che hanno abolito la pena di morte sono stati ben quindici. Burundi e Togo l‟hanno abolita nel 3 Oggi ci sono oltre 300.000 bambini soldato nel mondo, ben 120.000 solo nel continente africano. Il 40 % circa dei soggetti rapiti, spesso drogati, è costituito da bambine, reclutate per prestazioni sessuali. 82 2009 e certamente il Paese che ha fatto più storia e in cui l‟abolizione è stata più significativa è il Rwanda, che l‟ha abolita nel 2007, mostrando all‟intero mondo che si può rinunciare alla pena capitale anche nella fase dolorosissima post-genocidio in cui le autorità ed il popolo del Rwanda hanno deciso che si poteva ricostruire la società e fare giustizia senza ricorrere ad uno strumento supremo di ingiustizia quale è la pena capitale. D. – Possiamo quindi dire che è cambiata la sensibilità dei governi africani nei confronti del diritto alla vita? R. - Certamente. Per quanto riguarda l‟applicazione della pena capitale, c‟è una sensibilità maggiore e tra i numerosi argomenti abolizionisti certamente quello che fa più presa, in questi Paesi, è il diritto alla vita. Ha aiutato anche la moratoria internazionale che è stata finalmente proclamata nel 2007 e poi ribadita nel 2008 dalle Nazioni Unite. Insomma, l‟Africa è il continente che in questi ultimi venti anni ha fatto passi avanti enormi sul tema della pena capitale. Ripeto: ormai, il numero dei Paesi nei quali viene effettivamente applicata si è ridotto a quattro e possiamo che, con alcune limitate eccezioni, la pena di morte nell‟Africa sub-sahariana è del tutto scomparsa. D. – A livello internazionale – lo abbiamo detto poco fa a proposito della moratoria – la mobilitazione contro la pena capitale è molto forte. L‟Africa come vive questo clima? R. – Lo vive in maniera saggia, evitando, salvo alcuni casi specifici, di ricorrere al consueto tema che invece utilizzano molti Paesi del Medio Oriente e dell‟Asia, cioè dell‟ingerenza negli affari interni. Al contrario, Paesi africani sono stati essi stessi promotori della mobilitazione internazionale che ha dato vita alla risoluzione dell‟ONU sulla moratoria e di questa moratoria hanno beneficiato certamente le associazioni laiche e religiose, i movimenti per i diritti umani che hanno fatto pressione sui governi. Da ultimo, voglio ricordare che proprio in Africa è stata registrata la più grande commutazione della pena capitale che si ricordi nella storia moderna: è avvenuto in Kenya, ai primi di agosto, con la commutazione (in ergastolo ndr) di quattromila condanne a morte. Il presidente del Kenya (Mwai Kibaki ndr) ha motivato questa decisione dicendo delle cose importanti che sembrano quasi richiamare le motivazioni di Amnesty International, cioè che la permanenza nei bracci della morte è una condizione 83 disumana, degradante, equiparabile alla tortura, è una condizione che causa stress, ansia, angoscia sul piano fisico e mentale. D. – Apriamo ora un altro drammatico scenario dell‟Africa, ovvero quello dei bambini-soldato: in quali Paesi sono più numerosi? R. – Nei Paesi in cui ci sono guerre: certamente lo scenario peggiore è quello dei Grandi Laghi, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, ma anche in Uganda movimenti di opposizione armati, gruppi armati che utilizzano bambini-soldato sono numerosi. È difficile tener conto, esattamente, della dimensione di questo fenomeno perché si tratta, in larga parte, di regioni in cui non è facile accedere, di regioni in cui ci sono scoppi improvvisi di ostilità, di Paesi anche molto grandi, come la Repubblica Democratica del Congo. (…) Poi, per quanto riguarda il fenomeno nella sua globalità, al di là dell‟Africa ci sono Paesi – penso allo Sri Lanka, penso al Myanmar – nei quali i bambini-soldato sono utilizzati non soltanto come parte attiva nei combattimenti, ma anche ridotti, possiamo dire, in stato di schiavitù, cioè utilizzati come portantini o addirittura per soddisfare appetiti sessuali o dati in ricompensa per vittorie militari. Un fenomeno veramente turpe! D. – Quali sono le cause principali del coinvolgimento dei minori nei conflitti armati? R. – Uno Stato certamente debole, che non riesce ad imporre uno stato di diritto; il fatto che i bambini sono facilmente manovrabili, cadono in queste “trappole” dei grandi; costano poco dal punto di vista del loro mantenimento in vita; sono più docili, addomesticabili, e quindi, dal punto di vista di chi li usa, sono purtroppo delle prede facili da arruolare e dei soldati assolutamente economici da usare. D. – Se ne parla poco, ma ci sono anche le bambine-soldato… R. – Sì, (…) è un fenomeno che è stato denunciato recentemente più volte da organismi per i diritti umani ed è purtroppo collegato anche alla riduzione in schiavitù sessuale. Molto spesso le bambine-soldato non sono attive nei combattimenti, ma stanno nelle retrovie, nei campi, utilizzate proprio per scopi sessuali dai comandanti delle truppe per premiare il comportamento dei soldati, per premiare il valore mostrato in battaglia. Anche questo è un fenomeno veramente terribile. 84 D. – Su quali fattori agiscono i programmi di reinserimento dei bambini-soldato e, secondo Lei, sono efficaci? R. – Sulla carta sono molto efficaci. Ovviamente, prima del reinserimento dei bambini e delle bambine soldato all‟interno delle proprie comunità, occorre un processo di pace e di smobilitazione e questi non sempre sono facili. I motivi per cui spesso questi programmi sono destinati all‟insuccesso sono, da un lato, il fatto che sono scarsamente finanziati da Stati che sono poveri, ridotti in condizioni terribili, di non funzionamento proprio a causa della guerra. C‟è anche un notevole disinteresse della comunità dei (Paesi ndr) donatori che sembra non puntare molto sull‟importanza di avere una smobilitazione e un reinserimento effettivo. In terzo luogo, purtroppo, queste guerre a cui partecipano i bambini e le bambine soldato sono così crudeli che a volte è difficile accettare il ritorno nelle comunità di questi ragazzi, perché spesso sono stati protagonisti, loro malgrado, di episodi efferati proprio all‟interno delle loro comunità. D. – Un‟altra grande questione riguardante l‟Africa è quella delle migrazioni: possiamo tracciare una mappa, a grandi linee, delle principali rotte di partenza e di arrivo dei migranti? R. – Sì: certamente le due zone da cui partono i principali flussi di migranti sono l‟Africa Occidentale, con episodici scoppi di crisi (abbiamo avuto, ad esempio, negli anni scorsi, grandi afflussi di migranti dalla Costa d‟Avorio,) e, in secondo luogo, il Corno d‟Africa dove ci sono, da un lato, Stati al collasso che esistono solo sulla carta, come la Somalia; dall‟altro Paesi in condizioni perenne di guerra o di conflitto latente, come l‟Eritrea e l‟Etiopia. Poi, c‟è da sottolineare che ci sono dei flussi interni che sfuggono alla nostra vista e che Amnesty International ed altre organizzazioni per i diritti umani cercano di verificare: penso, ad esempio, a movimenti dal Darfur verso il Ciad, penso al recente flusso di migranti dallo Zimbabwe verso il Sudafrica. Ecco, questi sono fenomeni più invisibili, ma certamente non meno numerosi. D. – A Suo parere, cosa c‟è all‟origine del bisogno di emigrare? R. – La ricerca di un luogo sicuro in cui stare, in cui non ci sia guerra, non ci sia persecuzione per motivi politici, etnici, religiosi, la ricerca di un lavoro che è una necessità certamente non meno nobile della ricerca di sicurezza. Tutto un insieme di fattori che danno luogo a quei così detti “flussi misti” di migranti per cui a volte, su un‟unica 85 rotta e su un‟unica imbarcazione, si incontrano centinaia di persone provenienti da Paesi diversi dell‟Africa, con ragioni diverse, ma tutte quante certamente molto impellenti. D. – Al di là delle normative messe in atto dai singoli Paesi nei confronti dell‟immigrazione, dal punto di vista umano un migrante di cosa ha veramente bisogno? R. – Ha bisogno intanto di sicurezza ed incolumità fisica, nel breve periodo. Poi, nel periodo più lungo, ha bisogno di una prospettiva, che è quella di avere un luogo sicuro e stabile in cui trovare riparo, formare una famiglia, cercare un lavoro, con – io credo – la visione ultima di poter rientrare un giorno nella propria terra. Ricordiamoci che sono persone che vengono e cercano di entrare nelle nostre terre perché nelle loro non possono più restare. D. – Spesso sembriamo dimenticarci che il migrante è anche una risorsa: in un mondo globalizzato, il razzismo è ancora una realtà? R. – È una realtà molto diffusa, tant‟è che proprio il diritto d‟asilo è uno dei diritti più compromessi in questi ultimi decenni. C‟è una situazione di discriminazione, di razzismo che Amnesty International denuncia da moltissimo tempo e che si aggrava proprio nel momento in cui una crisi economica globale prende piede. Il che vuol dire restringere il mercato del lavoro proprio mentre aumentano i flussi di migranti anche in cerca di lavoro; vuol dire soprattutto, all‟indomani dell‟11 settembre 2001, che ci troviamo in un mondo nel quale vige la paura, il sospetto, l‟insicurezza, il timore che il diverso e l‟altro da noi sia una minaccia. Ecco, questo insieme di insicurezza economica, di incertezza, di sospetto, di paura, di minaccia è un mix terribile che costituisce proprio il luogo di coltura del razzismo. D. – Parliamo ora dello sfruttamento di donne e bambini africani: quali sono i settori i cui si contano più casi? R. – Oltre ai bambini e le bambine soldato di cui abbiamo parlato prima, altri due fenomeni particolarmente gravi sono il ricorso al lavoro minorile, che è una condizione largamente praticata: penso alle piantagioni di cacao nell‟Africa occidentale. Poi, nei confronti delle donne, c‟è ancora, in diversi Paesi africani e poi arriva anche in Europa e in Italia, un traffico turpe di donne destinate al mercato della prostituzione. Si tratta di persone ridotte in condizione di 86 schiavitù. Tutto questo ha a che fare, da un lato, con condizioni difficili di vita che spingono persone nelle mani di bande criminali; dall‟altro, per quanto riguarda il lavoro minorile, ha a che fare anche con il fatto che l‟Africa è un continente ricchissimo di risorse e il lavoro minorile è quello più economico. Ciò fa sì che oggi, nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo o di altri Paesi il cui sottosuolo è ricchissimo, si trovino a lavorare moltissimi bambini. Il tutto, ovviamente, con il beneficio economico di multinazionali che sono ben lontane da quei Paesi e che però dalle risorse di quei Paesi traggono beneficio. D. – Secondo Lei è giusto dire che lo sfruttamento è legato anche in parte a situazioni culturali e a tradizioni locali? R. – Non è sbagliato dirlo. Però, nei casi che ho descritto, l‟interesse e il beneficio vanno lontani dall‟Africa, verso Paesi e culture che non sono africane. In Africa, ci sono forme di discriminazione: penso in particolare a quelle nei confronti delle donne, che hanno uno status inferiore non tanto nella legge, quanto nella prassi. Il che fa sì che le donne siano cittadine di serie B. Molti Paesi africani, in questi ultimi anni, si sono dotati di normative che cercano di porre fine alla discriminazione sul piano dei diritti civili, politici, sul piano della successione dell‟eredità, sul piano del matrimonio. Però, esistono ancora molte resistenze sul piano tradizionale. Poi, non va dimenticato che ci sono alcune prassi, alcune tradizioni, alcuni costumi che vanno a colpire in maniera feroce le donne: penso alle mutilazioni genitali femminili che, nonostante siano in diminuzione, restano un fenomeno molto diffuso in Africa. D. – Come aiutare le vittime di questa piaga? R. – Denunciando, facendo sapere, aiutando l‟Africa, ma aiutandola dando voce, spazio, risorse anche donazioni, alle associazioni spesso di donne che, in moltissimi Paesi cercano di porre fine a queste violazioni dei diritti umani, in una società civile, che è precaria, povera, ma molto attiva. D. – Di fronte a tutto ciò che abbiamo detto, quali sono le aspettative di Amnesty International per il prossimo Sinodo dei Vescovi per l‟Africa? R. – Fare della questione dei diritti umani, a tutto tondo, una grande priorità, continuare a farlo nei casi in cui ciò già avviene, appoggiare 87 le associazioni di base che fanno un lavoro straordinario, sia quelle legate alla Chiesa sia quelle laiche, che sono coloro che danno voce a persone che, altrimenti, non hanno voce. Quindi, puntare molto sui diritti umani nella consapevolezza che l‟Africa è un continente in grande sviluppo, con grandi problemi di guerre, di povertà, di miseria, ma è un continente dal quale arrivano segnali, sui diritti umani, straordinari. Intercettare questi segnali ed aiutarli a rafforzarsi credo sia uno degli auspici che Amnesty International si propone per questo Sinodo. D. – Secondo Lei la Chiesa come può agire in questo campo? R. – Può agire con parole importanti, autorevoli, può agire con le Chiese locali, con le associazioni. La voce della Chiesa è molto ascoltata e una parola che proviene dalla Chiesa è una parola che fa sempre la differenza. 88 7. Le „guerre dimenticate‟ (cfr. Instr. Laboris: cap. II, p. 23, punto 64) Somalia, Etiopia (Ogaden), Repubblica Democratica del Congo (Kivu), Uganda, Sudan (Darfur), Repubblica Centroafricana, Ciad, Nigeria (delta) e Algeria sono afflitti da guerre civili. Negli ultimi mesi il Madagascar è stato colpito da una crisi istituzionale e in Kenya, Mauritania e Zimbabwe l‟equilibrio politico risulta ancora precario. Infine, i Saharawi dell‟Africa Occidentale, i Tuareg del Mali e del Niger, gli abitanti della Casamance (nel sud del Senegal) e altre popolazioni sono impegnate in conflitti di bassa intensità dettati da esigenze di autonomia politica, di spartizione del territorio e dei siti produttivi. Si tratta di “emergenze complesse” (nel senso che coinvolgono attori di varia natura), la cui conseguenza è una “normalizzazione” della violenza e l‟istituzione di una vera e propria economia di guerra (basata su sfruttamento delle risorse energetiche, privatizzazione della sicurezza, contrabbando di armi e di droga). 4 Nonostante la loro gravità, molte emergenze vengono “dimenticate” dai media internazionali, che tendono a dare rilievo (anche per mezzo di esagerate “spettacolarizzazioni”) solo alle realtà riconducibili, in qualche modo, a elementi occidentali.5 In molte occasioni esponenti della Chiesa hanno svolto importanti funzioni di mediazione fra le parti in conflitto nelle guerre africane, promuovendo sempre un nuovo concetto di sicurezza, ispirato a “assenza di povertà”, autosufficienza e incremento delle opportunità di emancipazione socio-economica per gli individui.6 Intervista con GIAMPAOLO CALCHI NOVATI, ordinario di Storia e istituzioni dei Paesi Afro-Asiatici all‟Università di Pavia (A cura di Silvia Koch) D. - Professore, quali sono le principali aree di conflitto oggi in Africa? 4 Il fine ultimo di questa nuova tipologia di guerre (spesso celato dietro giustificazioni di natura etnico-culturale) è il perpetuare situazioni di conflittualità, necessaria per i profitti delle imprese coinvolte nell’economia bellica. 5 Emblematici, in questo senso, sono la crisi in Somalia, nella quale sono coinvolti alcuni italiani; la malnutrizione infantile, di cui si parla principalmente in occasione di vertici della FAO o del G8; infine il Sudan, perché le relative iniziative di sensibilizzazione vedono coinvolti testimonial famosi. 6 Alcune Chiese particolari hanno appositamente fondato progetti allo scopo di produrre risorse per le popolazioni (es. banche, compagnie di assicurazione e unità di produzione agricola). Inoltre, la condanna della violenza armata è stata oggetto di alcuni interventi di Benedetto XVI, come già dei suoi predecessori (per il 2009 ricordiamo l’Angelus del 1° gennaio; l’Udienza ai giovani in Servizio Civile; infine l’Udienza del 20 maggio “Ricercare la pace con metodi non violenti”). 89 R. - La Somalia e il Sudan, specialmente sul fronte Sudan-Darfour. L‟altro conflitto sudanese, quello tra il nord e il sud, è in via di pacificazione, benché ci si possa aspettare qualche recrudescenza in vista delle elezioni previste per il 2011, quando si dovrebbe votare per un‟eventuale secessione del sud dal resto del paese. C‟è, poi, una situazione di conflittualità, poco nota ai media internazionali, nella fascia immediatamente sub-sahariana, chiamata saheliano-sudanese, dove la tensione è generata dal confronto tra movimenti cosiddetti salafisti, islamistifondamentalisti e forme di repressione delle stesse, coordinata anche a livello internazionale. Va ricordato il Congo, perché la parte nord-orientale è probabilmente fuori dal controllo del governo centrale ed è continuamente oggetto di tensioni. Attualmente si sta portando avanti un processo di pace tra il Congo e il Rwanda, che erano i principali competitori. Un altro caso poco noto è quello della Guinea Bissau, che recentemente è stata teatro di colpo di Stato e dove passa, pare, tutto il traffico della droga che è in transito per il continente africano. L‟Africa australe sta vivendo, invece, una situazione relativamente più stabile. La crisi in Zimbabwe, che tra l‟altro sembra aver trovato una soluzione nella creazione di un governo bipartisan, non è fortunatamente sfociata in una vera guerra, sebbene si siano registrati episodi di abusi nei confronti dei diritti dell‟uomo, delle associazioni e dei partiti. D. - Perché queste crisi belliche vengono comunemente dette “guerre dimenticate”? R. - L‟espressione “conflitto dimenticato” non rappresenta sempre la realtà. È diventato un modo di dire mediatico, con cui da una parte si vuole ribadire la perifericità e quasi la marginalità dell‟Africa nel sistema mondiale, nella nostra attenzione e nella nostra coscienza. Dall‟altra, si vuole assolvere la Comunità Internazionale dall‟incapacità di far fronte non tanto alla crisi in sé, ma ai motivi più profondi, reali e globali delle stesse guerre. Ci sono delle guerre croniche che si trascinano quasi come un modus vivendi regolare. Su questo stato di conflittualità latente a volte si registrano delle impennate e generalmente soltanto questi episodi vengono divulgati dai media internazionali. Spesso tali eventi o elementi parziali, che non consentono di comprendere la complessità della crisi, vengono addirittura “spettacolarizzati” dai media, esagerati rispetto alla realtà dei fatti – è il caso, ad esempio, delle cifre sulle vittime di alcune emergenze. Il fatto che l‟opinione pubblica venga informata solo di tanto in tanto è un‟aggravante, 90 perché fa si che si ignorino le permanenze, le cause, le radici dei conflitti. La guerra del Sudan è un perfetto esempio di crisi bellica saltuariamente mediatizzata. Il conflitto “classico” è quello fra il nord e il sud, che in teoria si è concluso per mezzo di un accordo di pace firmato nel 2005. Tuttavia, dal 2003 si è aperto un secondo fronte, conosciuto con il nome di Darfur, una regione che tecnicamente appartiene al nord del paese. Sul Darfur si è concentrata l‟attenzione dell‟opinione pubblica e l‟incriminazione del presidente del Sudan, Omar Al Bachir (o El Bachir) davanti alla Corte Penale Internazionale è diretta conseguenza proprio della forte mediatizzazione di questa crisi. Un secondo esempio di “guerre dimenticate” è la Somalia, dal momento che l‟attenzione mediatica tende a concentrarsi sui fenomeni che coinvolgono anche la dimensione internazionale, come la pirateria, piuttosto che sugli episodi di belligeranza interna. D. - Quali fattori determinano la „ribalta mediatica‟ o meno di un conflitto? R. - L‟Africa nel suo complesso non è certamente al centro dell‟attenzione mondiale. La realtà di alcuni paesi africani sono sconosciuti ai più. Quando un evento compare molto sui media internazionali, è probabile che ci siano dietro interessi materiali o strategici. Ad esempio, si parla molto di Zimbabwe, specialmente sulla stampa anglosassone, perché in Inghilterra è molto forte la lobby che rappresenta gli ex-coloni inglesi, penalizzati dagli ultimi avvenimenti politici di Harare. Di conseguenza, le turbolenze registrate nel paese africano, pur gravi, sono state in parte “ingigantite”. Ugualmente, la regione sudanese, ovvero la fascia a sud del Sahara, ha attirato l‟opinione pubblica, soprattutto durante l‟amministrazione Bush, perché è stato uno dei teatri di guerra della battaglia globale al terrorismo di matrice islamica, che in quest‟area si contrapponeva all‟Islam politico. Ancor più grave della non mediatizzazione di una guerra è, a mio avviso, il fatto che non ci sia un‟informazione sistematica sulle vicende, anche positive, dell‟Africa. Una conoscenza delle sue problematiche, delle culture, dei processi costituzionali, senza aspettare necessariamente l‟emergenza, il colpo di Stato o la guerra. Quello che si sa dell‟Africa è ben poco. In generale poi, la capacità dell‟opinione pubblica mondiale di influire sulla realtà della periferia del mondo sta diminuendo drasticamente. Si registra una sorta di connivenza che tollera forme di repressione e di violenza nei confronti dei popoli e dei paesi che non appartengono al centro del sistema. 91 D. - Si possono individuare delle cause che accomunano i principali conflitti africani? R. - Innanzitutto, la debolezza che potrei definire strutturale delle istituzioni politiche. Tipico dei sistemi africani è il cosiddetto “quasi-Stato”, ovvero un sistema che non riesce a far fronte alle problematiche del territorio. Di conseguenza, sebbene si siano fatti molti progressi in direzione della democratizzazione, esiste una tendenza a ricorrere alla violenza per risolvere i contrasti. Questo spiega perché, paradossalmente, spesso le crisi si acuiscono in coincidenza delle elezioni. Generalmente, la competizione elettorale è caratterizzata da una condizione di ineguaglianza fra la forza al potere e le forze di opposizione, sia dal punto di vista del monopolio dei mezzi di comunicazione sia, soprattutto, dal punto di vista della proprietà dei beni, spesso in mano alla classe dirigenziale uscente. A parte la facilità nel ricorso alla violenza, un altro fattore scatenante le crisi africane è il fatto che sin dall‟indipendenza, in generale, lo Stato africano non ha mai goduto del monopolio legale della violenza, intesa come sovranità verso l‟esterno e quale uso legale della forza all‟interno per la tutela delle Istituzioni, che è una delle caratteristiche fondanti dello Stato in quanto tale. In Africa, invece, l‟uso della violenza è stato appannaggio di altre forme di “sub-sovranità”. Tale caratteristica, naturalmente, rende più facile che altrove il progressivo scivolamento di un contrasto politico, in una crisi a sfondo bellico. Il 90 % dei conflitti africani sono guerre “infra-statuali”, civili, domestiche, che si svolgono fra competitori interni. Anche quando ci siano interferenze di Stati “occidentali” o di paesi africani confinanti – come è il caso della guerra in Congo – gli scontri hanno sempre come obiettivo originario la conquista del potere interno. Forse l‟unico esempio di guerra “inter-statale” è la guerra combattuta tra Etiopia ed Eritrea dal 1998 al 2000.Spesso, poi, alle guerre africane si associa l‟aggettivo “tribale”, perché, sebbene l‟elemento tribale sia spesso esterno alle cause originarie della crisi, tuttavia esso diventa quasi sempre rilevante in una fase del conflitto. L‟appartenenza ad un medesimo gruppo è uno strumento utile, ad esempio, dal punto di vista della mobilitazione e della creazione del consenso alla propria causa. Infine, altra pratica diffusa nei sistemi africani è il “neo-patrimonialismo”, ovvero la tendenza dello Stato a gestire le risorse pubbliche non a favore della popolazione, ma a favore della classe dirigente. È chiaro come questo susciti facilmente frustrazione e ribellismo. A queste motivazioni interne a volte si sovrappongono, poi, gli 92 interessi delle Potenze esterne, che si coalizzano con una delle due parti. Da questo punto di vista, il pericolo è che si trovi soluzione solo ad una delle varie dimensioni del conflitto - come è avvenuto in Angola nel 1988, quando si è trovato un accordo sulle questioni internazionali, ma non sulle problematiche interne, ovvero sui rapporti tra governo e ribelli. Questo è uno dei motivi per cui spesso le turbolenze continuano, anche dopo la pacificazione ufficiale. D. - In che modo le ingenti risorse del continente africano e i traffici internazionali, spesso illegali come nel caso del contrabbando delle armi, intervengono nell‟economia di guerra che alimenta il conflitto interno? R. - Il problema delle ricchezze del continente ha due facce. Da una parte le risorse sono una delle poste in gioco nel conflitto, a cui si può accedere legalmente – attraverso l‟ascesa all‟arena politica – o illegalmente, perché durante la guerra cresce la possibilità di occupare le zone produttrici di risorse e di aumentare i traffici illeciti - anche detti informali - di beni, di armi o di droghe. È il caso, ad esempio, dei diamanti e delle altre miniere del Congo. In un certo senso le risorse “attivano” la guerra, perché danno la possibilità di raccogliere fondi per poter acquistare armi e reclutare soldati. La dimensione internazionale è certamente coinvolta. Le potenze straniere che ambiscono a monopolizzare le risorse o i mercati africani saranno certamente tentate di intervenire in difesa di quella classe dirigente, in grado di assicurare loro diritti di sfruttamento o spazi di commercio nei mercati locali. Si è anche detto che la guerra abbia una propria economia perversa, perché facilita i traffici informali, diventando in sé fonte di risorse. In alcuni casi gli stessi aiuti internazionali sono stati involontariamente cause guerra, perché costituivano la principale risorsa di un paese, sulla quale si sono concentrate le ambizioni dei governi e dei ribelli. D. - Diversi interventi delle Organizzazioni Internazionali nei conflitti africani hanno fallito nel tentativo di ristabilire un clima di pace. Quali sono stati i principali errori commessi? R. - Bisogna intanto chiedersi quali obiettivi avesse l‟intervento. Quasi sempre le Grandi Potenze che gestiscono gli interventi internazionali, anche sotto la debole copertura di organismi sovranazionali come le Nazioni Unite o l‟Unione Africana, hanno in 93 realtà degli obiettivi propri. E difficilmente gli interessi del paese in guerra coincidono con quelli internazionali. Nella risoluzione dei conflitti è necessario risalire alla causa originaria, possibilmente essere neutrali, non avere secondi fini e avere una certa capacità di persuasione morale sui contendenti. Queste qualità oggi mancano persino all‟Onu, che purtroppo ha perso credibilità (…) L‟Onu ha perso la sua autorità sui paesi belligeranti, proprio perché in passato la sua neutralità originaria è stata sacrificata in nome della difesa di interessi di parte. Di conseguenza, gli stessi strumenti attivati per risolvere i conflitti sono risultati spesso inadeguati. Un caso riuscito di risoluzione è quello del Mozambico, un episodio lusinghiero per la politica italiana anche perché il negoziato è stato mediato in parte dalla Comunità di S. Egidio, in parte dal Ministero degli Esteri italiano. Il successo di questo conflitto è riconducibile alla decisione di procedere al disarmo ancor prima di avviare la normalizzazione politica. È un raro caso positivo, da prendere ad esempio. D. - Negli ultimi decenni gli Stati africani si sono dotati di una serie di organismi regionali sovranazionali. Si può guardare a tali strumenti come a un mezzo efficace per arginare i fenomeni di violenza diffusi sul continente? R. - Il principale organismo inter-africano, l‟Unione Africana, è un‟istituzione ancora relativamente giovane (ha preso vita fra il 2002 e il 2003, sulle spoglie dell‟OUA, l‟Organizzazione dell‟Unione Africana) per cui non si può ancora valutare appieno la sua esperienza. Tuttavia, possiamo sottolineare che, nello Statuto dell‟UA, trova riconoscimento il diritto all‟ingerenza negli affari interni degli Stati membri, cosa che dovrebbe distinguerla e renderla più efficace della precedente OUA. Inoltre, l‟UA è dotata di un organo interno, il Consiglio per la Pace e la Sicurezza, pensato ad hoc per intervenire, per mezzo di sanzioni o altre misure politiche, nella gestione pratica delle emergenze, nelle situazioni di belligeranza e di violazione dei diritti umani. Quindi, nella sua impostazione, questa istituzione panafricana ha tutti gli strumenti per risolvere i conflitti africani. I risultati non sono mancati: la mediazione dell‟UA è stata efficace in Burundi, in Costa d‟Avorio e in Congo. Le missioni in Somalia e in Sudan non sono riuscite, invece, nell‟opera di pacificazione tra le parti in conflitto. C‟è da dire che nella Repubblica democratica del Congo si registra un tentativo di “ri-costituzionalizzazione” del sistema politico interno, stravolto dalla guerra. Se un domani questo paese riuscisse a 94 ristabilire la sua unità e la sua capacità di influenza politica anche all‟esterno, allora ci sarebbero tre poli di riferimento sulla scena africana - il Sudafrica, la Nigeria e lo stesso Congo - in grado, forse, di garantire maggiore operatività agli organi dell‟UA e, di riflesso, un certo equilibrio al continente. D. - Come può la Comunità Internazionale intervenire per contribuire a risollevare i sistemi politici e le economie africane? R. - La premessa è che si perseguano i valori di pace, di riconciliazione e di ricostruzione, essenziali allo sviluppo del continente. Le potenze europee dovrebbero adottare politiche che consentano all‟Africa, ai suoi prodotti, alle sue istituzioni, alle sue popolazioni, di inserirsi nel sistema mondiale partendo, almeno tendenzialmente, da una condizione di parità e di uguaglianza. A oggi l‟Africa è, invece, tenuta in una condizione di subalternità paternalistica dalla Comunità Internazionale, a tutti i livelli. È inevitabile che l‟Africa sia beneficiaria di flussi finanziari perché da sola non è in grado di accumulare capitale e surplus da destinare agli investimenti. Ma, invece di concentrare l‟intervento di sostegno all‟Africa sui cosiddetti aiuti economici - il cui impatto è, come noto, ambiguo e incerto, a volte addirittura dannoso o nullo - a mio avviso sarebbe molto più utile operare sul commercio e riformare tutte quelle regole che ostacolano i paesi svantaggiati, nella libertà degli scambi. In primo luogo, abolendo le sovvenzioni sui beni alimentari, che impediscono l‟accesso ai prodotti africani sul mercato internazionale. Si dovrebbe poi riaprire la strada agli investimenti e a forme di partecipazione economica. Tutto questo, naturalmente, comporta un‟assunzione di responsabilità anche da parte dell‟Africa, che deve garantire un certo grado di stabilità e sicurezza, assenza di corruzione e capacità di ritorno economico, se gli investitori sono soggetti privati. Questo si sta realizzando già con la cosiddetta cooperazione sud-sud. La Cina, l‟India, il Brasile e alcuni paesi del Golfo stanno operando in Africa soprattutto nel settore delle infrastrutture, partendo da un‟impostazione totalmente diversa da quella occidentale. D. - Il mandato di arresto emanato dalla Corte Penale Internazionale nei confronti del Presidente Omar al-Bashir è stato rifiutato dallo stesso Presidente sudanese come episodio di ingerenza delle Potenze straniere nelle questioni nazionali. Cosa pensa al riguardo? 95 R. - In generale, la giustizia ha senso quando è neutrale e uguale per tutti. La giustizia internazionale non è né equa né neutrale. Il fatto che la giustizia internazionale si sia concentrata solo su determinati casi africani, ha fornito le giuste argomentazioni per un‟autodifesa a coloro che sono stati accusati dalla Corte. Una seconda considerazione da tener presente è che la giustizia africana di tipo “tradizionale” tende a riconoscere una maggiore importanza al ripristino della coesione sociale e alla riconciliazione tra diversi villaggi, che non all‟individuazione dei colpevoli e alla punizione individuale. Non è certo che la giustizia formalizzata, su cui si basa il Tribunale dell‟Aja, costituisca lo strumento migliore per la risoluzione delle diverse crisi africane, in quanto tale approccio giuridico romanistico-occidentale rischia di non tenere conto, sufficientemente, delle caratteristiche specifiche del contesto. Tuttavia, non si deve dimenticare che anche le forme improprie, e certamente discutibili, di giustizia internazionale, hanno comunque il merito di cercare di difendere tutti gli africani che sono stati vittime di crimini. Questo dovrebbe essere tenuto maggiormente in considerazione dagli stessi africani. 96 8. Il rapporto tra Chiesa e cultura tradizionale locale, nel caso della famiglia e del celibato dei sacerdoti (cfr. Instr. Laboris: cap. I, p. 6; cap. III, punti 70-74, pp. 27-28) L‟apertura alla comprensione reciproca, promossa dalla Chiesa, favorisce una certa integrazione delle Nazioni, di cui il continente ha ora un bisogno urgente. L‟evangelizzazione ha portato al radicamento delle comunità cristiane nelle società africane e al lievito dei valori cattolici nelle culture locali. Tuttavia, l‟“inculturazione della Chiesa in Africa”, che era già tra i temi trattati nella Prima Assemblea speciale per l‟Africa nel 1994, viene riproposto anche per questo secondo Sinodo, in quanto si ritiene che non siano stati raggiunti risultati del tutto soddisfacenti. Il pensiero comune e la vita quotidiana dei fedeli (veicoli di diffusione della Parola di Dio) risultano ancora oggi solo in minima parte ispirati ai valori cristiani. La sfida è di portare il Vangelo al cuore sia della cultura dominante, sia delle culture minoritarie. D‟altra parte, questo implica anche una certa “africanizzazione” delle tradizioni e prassi cattoliche.7 Intervista con JEAN BAPTISTE SOUROU, autore del libro “Come essere africani e cristiani? Saggio sulla cultura del matrimonio in Africa”. (A cura di Alessandra De Gaetano) D. - Come nasce l‟idea di questo libro? R. - Questo libro risponde ad un‟esigenza anche personale, nel senso che, studiando teologia, vivendo le realtà concrete della Chiesa in Italia, trovo sempre una domanda che io porto dentro di me: tutto questo bagaglio culturale e spirituale che ricevo, come poterlo tradurre nella mia realtà culturale? Perché io vivo in Europa, ma sono africano, prima di tutto. Quindi: come fare affinché tutto quello che sto scoprendo possa entrare davvero a far parte di me, come uomo del Benin, come uomo dell‟Africa, affinché la mia cultura, che porto con me già, possa essere tutt‟uno con la fede che vado approfondendo, tramite gli studi e tramite la ricerca. D. - Come essere cristiani e africani nella realtà Sahoué? 7 Esemplare in questo senso è stata la messa nello stadio Amadou Ahidjo di Yaoundé, il 19 marzo 2009, in occasione della visita di Papa Benedetto XVI che ha consegnato ai vescovi l’Instrumentum Laboris del prossimo Sinodo. Un coro di oltre sessantamila persone ha accompagnato l’evento. 97 R. - Non è altro che cercare di essere, nello stesso momento, fedele a quello che noi abbiamo come ricerca culturale, quello che lo Spirito di Dio ha già seminato nella nostra cultura. Bisogna riconoscere, infatti, che Dio ha dato ad ogni cultura delle cose meravigliose, che già ci aiutano a vivere, ci aiutano ad esprimere il nostro rapporto con Dio, con i nostri fratelli, con la realtà che ci circonda. Come fare, allora, perché tutto quello che c‟è di bello nella nostra cultura sahoué del Benin possa essere illuminata nuovamente dalla fede in Gesù Cristo? È questa la realtà concreta. E, nello stesso tempo, se deve essere illuminata, vuol dire che contiene qualcosa di buono. Ma sappiamo che tutto ciò che noi facciamo e pensiamo, come uomini, non è sempre buono: ci sono delle debolezze, delle ombre. L‟auspicio, quindi, è che queste ombre vengano illuminate dalla luce di Gesù Cristo, dalla sua Risurrezione e dal suo Vangelo per permetterci di andare oltre quello che la cultura, umanamente parlando, non ci può dare per essere degli uomini realmente e completamente realizzati. D. - Quali sono i valori legati al matrimonio nella tradizione sahoué? R. – Ho scelto il tema del matrimonio perché, per noi africani, il matrimonio e la famiglia sono dei valori molto importanti: Giovanni Paolo II, nel documento post-sinodale “Ecclesia in Africa”, lo ha sottolineato fortemente. Un valore è, ad esempio, l‟importanza che il sahoué dà ai figli, al loro ruolo. Esiste tutta una serie di proverbi che dice l‟importanza del figlio. Un altro valore è il rapporto tra marito e moglie e, soprattutto, la preparazione al matrimonio: c‟è tutta una serie di tappe che aiuta davvero i giovani sahoué del matrimonio. Quindi ci si sente aiutati, sostenuti dalla famiglia, dal villaggio. Tutto il contesto sociale aiuta e rinforza in te la convinzione della scelta che stai per fare. Per esempio: presso i sahoué non puoi sposarti se non hai un lavoro, se non sei capace di dare una dote a tua moglie. Non si tratta – come qualcuno potrebbe pensare – di una dote data per comprare la moglie, non è così, ma è perché con questo tu dimostri a te stesso e alla società che sei capace di fare qualcosa. Allora, quando sei capace di fare qualcosa, qualcuno può dire: “Prendi in sposa mia figlia” e tu dimostri, anche davanti alla società, che sei capace di assumerti le tue responsabilità, perché per un sahoué avere una famiglia è assumersi una responsabilità. Un altro valore è anche il rapporto tra le famiglie: il matrimonio diventa, per la famiglia di lui e quella di lei, un momento per creare solidarietà. Cioè: le due famiglie finiscono per vivere una comunione totale nei momenti belli, come nei 98 momenti dolorosi o di sofferenza. Quindi, a tutti i livelli si innesca una comunione totale che è una cosa molto bella perché non soltanto sostiene la coppia, la famiglia che sta nascendo, ma sostiene anche tutte e due le famiglie d‟origine degli sposi. È molto bello vedere che il matrimonio non è soltanto una cosa legata ai due coniugi, ma ha radici profonde. Importante è, anche, il riferimento agli antenati, il che vuol dire, nello stesso tempo, riferimento a Dio, che è la base, la sostanza proprio del matrimonio. Tu non puoi sposarti, nella cultura sahoué, senza questo riferimento agli antenati e a Dio. Ti senti sostenuto da Dio e dagli antenati e capisci che ci sono delle cose che non puoi fare: i divieti e le proibizioni, nella cultura sahoué, hanno radici spirituali. D. – Perché si pone l‟esigenza dell‟inculturazione cristianesimo nella cultura sahoué del Benin? del R. – L‟inculturazione si impone perché le nostre culture sono dei doni che Dio ci ha fatto: lo Spirito di Dio ha messo nel cuore di ogni uomo dei valori. Ma per poter realizzare questi valori, per poterci realizzare come uomini noi, a volte, troviamo delle difficoltà, non riusciamo sempre a fare il “salto di qualità”, le nostre culture non hanno queste possibilità. Allora, cosa fa il Vangelo? Il Vangelo arriva, come una luce, per dire: “Nella vostra cultura, alcune cose sono buone, belle, Dio le ha messe in voi. Ma ci sono anche delle ombre”, come ad esempio: nella cultura sahoué, l‟uomo può prendere più di una moglie, in alcune circostanze? E però la donna non può avere altri mariti? Allora, in questo caso cosa ci direbbe il Vangelo? Il Vangelo ci insegna ad amare la propria moglie e ad avere solo quella. E per quale motivo la Chiesa ci chiede di prendere soltanto una moglie? Non è una cosa “campata per aria”, ma si tratta, prima di tutto, di un‟esigenza umana. I sahoué sanno benissimo che, quando tu ami una donna, vuoi che sia soltanto per te e quando una donna ama un uomo vuole che quell‟uomo sia soltanto per lei, però non rispettano questo principio, contenuto anche nel loro cuore, nella loro cultura. Allora: in questo caso, l‟inculturazione li aiuta ad avere una forza in più, perché credono in Gesù Cristo, per mantenersi fedeli a Cristo. Ma quando uno è fedele a Cristo, alla fine è anche fedele a se stesso e alla sua cultura. D. – L‟inculturazione del cristianesimo provoca un contrasto o una successiva integrazione? 99 R. – Bisogna tener presente che molte di queste popolazioni sono analfabete. Allora non si verifica tanto un contrasto, quanto una misconoscenza di quello che la Chiesa ed il Vangelo richiedono. E questo potrebbe portare qualche contrasto. Le nostre popolazioni in Africa hanno bisogno di gente che le aiuti a capire cos‟è effettivamente il Vangelo, cos‟è il matrimonio secondo la Chiesa, per spiegare bene loro i valori che hanno già, quello che propone la Chiesa, il Vangelo, ed aiutarli a mettere insieme il tutto. Quindi, facendo così, sicuramente – e questo si nota anche parlando con le popolazioni – le popolazioni sono entusiaste perché capiscono quello che la Chiesa sta chiedendo loro. Perché fino a quando la gente non capisce quello che la Chiesa sta chiedendo – in Africa come nelle altre culture – viene vista sempre come un‟imposizione. Ma non è vero, è solo perché non capiscono. Se capiscono, invece, accettano questi valori. Cioè, se tu proponi un cammino inculturato, per esempio, del matrimonio presso i sahoué, prendendo le varie tappe già contenute nella loro cultura, spiegando loro le tappe del matrimonio secondo la Chiesa, li vedi che rimangono a bocca aperta! Allora è lì che può nascere una certa inculturazione, facendo vedere loro le cose importanti e quelle che non lo sono. Il tutto alla luce del Vangelo e della Risurrezione. D. - Quindi, a chi è indirizzato questo libro? R. – Soprattutto ai pastori – sacerdoti, seminaristi, ricercatori – ma anche a quei sahoué che, essendo cristiani, vorrebbero sapere di più come poter vivere la loro fede. Ma oltre a questo, il libro pone il problema dell‟inculturazione in generale in Africa: “come essere africani e cristiani?” è una domanda che dobbiamo continuamente farci se vogliamo essere cristiani convinti e convincenti in Africa. Questo libro, allo stesso tempo, risponde alla domanda, ma la pone anche agli africani. Cioè, teniamo sempre a mente che siamo africani, ma siamo chiamati ad essere discepoli di Cristo. E non discepoli qualsiasi, ma discepoli veri di Cristo, che annunciano oggi che Cristo è la luce, il pane, la speranza per il nostro popolo. Il libro vuole spronare gli africani dicendo loro: “Abbiamo tante belle cose, ma dobbiamo essere vigili e rispondere alla domanda che Cristo ci fa, ovvero „Per te, chi sono io?”. 100 Intervista con DON DARIO VITALI, docente di Ecclesiologia presso la Pontificia Università Gregoriana (A cura di Isabella Piro) D. – Partiamo da una premessa generale: quali sono le origini storiche e teologiche del celibato sacerdotale? R. - Il celibato sacerdotale si afferma nella Chiesa in genere e, soprattutto nella Chiesa latina, nei primi secoli, in relazione proprio con il ministero sacerdotale. Un‟interpretazione del ministero in senso pieno come totale dedicazione di sé e del proprio servizio alla Chiesa, che non sembra poter accettare nessuna divisione del cuore. Quindi, una totale presenza al Signore e una totale presenza al ministero da offrire alla Chiesa. Già nei primi secoli questo diventa una realtà ben consolidata e nella Chiesa latina diventa una modalità piena per l‟esercizio del ministero sacerdotale. D. – Spostiamoci nello specifico e guardiamo all‟Africa: a Suo parere, in questo Continente il non rispetto del celibato sacerdotale rappresenta un problema particolarmente sentito? E per quale motivo? R. – Da quello che io posso cogliere, anche attraverso l‟incontro con i miei studenti che provengono dall‟Africa – io insegno Ecclesiologia alla Pontificia Università Gregoriana – questo problema è sicuramente avvertito. È un problema di carattere, mi pare, fortemente culturale, nel senso che, nella tradizione africana, l‟idea di un‟interruzione della generazione e quindi di quella che, secondo la prospettiva tipica loro, è chiamata “la prospettiva degli antenati o degli avi” è sicuramente di grande peso. Per cui, forse non è tanto il problema del celibato in sé, quanto dell‟impossibilità di generare figli che pone una questione di grande peso e quindi che pone difficoltà, esattamente, all‟accettazione piena di questa tradizione tipica della Chiesa latina. D. - In Occidente, invece, questa prospettiva non c‟è? R. – Non manca la riflessione sulla famiglia, sicuramente. Piuttosto, si è sviluppato un doppio registro di riflessione: quello tipico relativo alla famiglia per quanto riguarda il matrimonio, il matrimonio cristiano, quindi la forma di dedicazione al Signore attraverso questa vocazione, ma contemporaneamente anche una forte riflessione sul ministero ordinato e quindi sulla possibilità e sulla “necessità” che questo sia 101 un ministero totalmente dedicato al Signore e quindi non all‟interno di una famiglia. D. – A livello formativo, nei seminari ad esempio, c‟è sufficiente attenzione a questo problema, secondo Lei? R. – Possiamo dire che questo è uno degli argomenti più guardati con profonda attenzione, anche con quella forma di rispetto e di dovuta problematicità che oggi ha assunto, a causa di una mentalità così poco attenta all‟oblatività nel campo della sessualità e nel campo, quindi, della vita donata totalmente nel ministero sacerdotale. Quindi, su questo fronte di una non comprensione, da parte della cultura contemporanea, di questo valore, mi pare che nei seminari si proceda dovutamente e attentamente a questa riflessione intorno al celibato e intorno, mi pare, alla verginità, tenendo conto che le due realtà, sostanzialmente, non differiscono. Non si tratta, semplicemente, di non procedere alla costruzione della famiglia, ma di mantenere un atteggiamento di totale dedicazione al Signore, di offerta di sé e della propria sessualità. E non solo: di offerta del proprio cuore al Signore e al servizio da rendere a Lui e alla Chiesa. D. – Gli episcopati locali africani, secondo Lei, quali strategie potrebbero mettere in atto per contrastare il fenomeno dei preti sposati? R. – Per contrastare questo fenomeno credo che si debba affermare, con estrema chiarezza, quella che è la tradizione, la forma piena dell‟appartenenza alla Chiesa. Mi pare, però, che il problema non sia tanto quello dei preti sposati, ma di coloro che vivono come se lo fossero, senza porsi il problema, senza riflettere, quasi che fosse una realtà scontata, e quindi producendo un doppio registro di vita: quello pubblico, che si manifesta in un modo, e quello privato che procede su tutt‟altri registri. E allora mi pare che, sotto questo profilo, la prima e fondamentale necessità sia quella di una riflessione attenta e anche di una verifica attenta, a monte, di coloro che accedono al ministero ordinato. Perché troppe volte, come dice il proverbio, “necessità fa virtù” e si ammette all‟ordine gente che, sicuramente, non ha motivazioni profonde, semplicemente perché bisogna coprire dei posti. Allora, la prima strategia, sicuramente, è quella di una verifica attenta della vocazione a monte e poi quella di un‟appartenenza forte, sicura, nella Chiesa locale, con un servizio al popolo di Dio, nella collaborazione con il Vescovo, nell‟appartenenza soprattutto ad un presbiterio dove la fraternità ministeriale, che è una 102 fraternità fondata sul ministero dell‟ordine, permette sicuramente una vita all‟interno del ministero più serena, più motivata e più capace, di conseguenza, di resistere a queste forme di “contaminazione”, potremmo dire, che tanto turbano la Chiesa. D. – Di fronte, invece, ad un caso ormai compiuto di violazione del celibato come si comporta la Chiesa? R. – Mi pare che per questo, ormai, Benedetto XVI e la Chiesa abbiano tracciato un‟indicazione precisa: stante la legislazione della Chiesa di un ministero che sia fondato esattamente su questa prospettiva, la scelta è quella di procedere alla verifica delle intenzioni, degli atteggiamenti, delle motivazioni e, di conseguenza, o richiamare ad una rettitudine di vita, se è ancora possibile, o altrimenti dimettere dal ministero perché la contraddizione, la contro-testimonianza non fanno bene a nessuno. D. - A Suo parere, il prossimo Sinodo dei Vescovi per l‟Africa potrà offrire una risposta a questa problematica? R. – È possibile. In questa prospettiva, è chiaro che dipende dalla sinergia di molte volontà: la volontà dei Vescovi dovrebbe essere quella di un rinnovamento della Chiesa d‟Africa con coraggio, con fermezza, secondo, sicuramente – come diceva il Concilio Vaticano II – le tradizioni delle parti in comunione con la Chiesa universale e quindi in ascolto di quelle che sono le indicazioni che provengono dal Santo Padre. La possibilità è data davvero da questa forma di consenso a cui tutti gli appartenenti a quella Chiesa d‟Africa sono chiamati, quindi: un popolo di Dio che voglia vivere il Vangelo, i suoi Pastori che vogliano testimoniarlo e vogliano rinnovare la forza dell‟obbedienza alla Parola di Dio e i suoi ministri che possano testimoniare, non solo con le parole, ma anche con la vita, una capacità di incarnazione del Vangelo che si rinnova sempre per l‟azione dello Spirito. Quindi, la possibilità c‟è e c‟è chiaramente. Dipende da quanta volontà c‟è, da quanta disponibilità c‟è ad ascoltare il Signore ed il Suo Spirito, ad ascoltare il Vangelo, a metterlo in pratica, di quanta volontà c‟è a camminare come popolo di Dio nella fedeltà alla Parola che il Signore ci ha dato ed alla strada che Lui ci ha tracciato. 103