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In scena
CORPI, IPERCORPI, ULTRACORPI E ANTICORPI
“La Marche” di Koltès allestita a Palermo da Giancarlo Cauteruccio. Alain Platel
rivisita Monteverdi in chiave psico-coreografica. “Portopalo” con la regia di Barberio
Corsetti, evento e requiem civile per una tragedia dell’emigrazione che continua. Una
rassegna al Kollatino Underground di Roma tra danzateatro, videoscene ‘fetish’ e
performance d’ascolto. Emma Dante: con la sua ossessione per una ‘sicilitudine’
feroce e arcaica è diventata la reginetta ‘cult’ di una generazione culturalmente
regressiva, potenzialmente ‘talebana’.
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di Marco Palladini
1 – NELLA SOLITUDINE DEI CAMPI DELL’AMORE. Ideata e diretta da Anna Barbera e Lina Prosa, la
manifestazione palermitana Progetto Amazzone, articolata attorno ai rapporti tra arte e medicina,
mito e malattia, ha via via acquisito un profilo scientifico e culturale di grande rilevanza e di
assoluto livello. Nell’ambito della VI edizione intitolata “Epica della cellula e dell’eroe”,
l’appuntamento spettacolare di maggior richiamo è stato la ‘prima’ assoluta del testo di BernardMarie Koltès La Marche, per la puntuale traduzione delle stesse Barbera e Prosa, e la regia di
Giancarlo Cauteruccio. La Marche fu scritto da Koltès nel 1970, a soli 22 anni, ispirandosi al
Cantico dei Cantici, ed è palesemente un copione di stampo poetico-dialogico abbastanza
farraginoso e immaturo, privo di una architettura drammaturgica perspicua e convincente. In
Francia Koltès (deceduto a 41 anni nell’89) è celebrato come il loro maggiore scrittore di teatro del
secondo Novecento, personalmente lo reputo un autore ampiamente sopravvalutato, ma riconosco
che nelle sue opere migliori – da Dans la solitude des champs de coton a Combat de nègre et de
chiens, da La nuit juste avant le forêts a Le retour au désert – risulta affascinante o, comunque,
potentemente accalappiante il marchio della sua dismisura, quella sua iper-affabulazione torrenziale
capace di rimodulare i canoni della grande rhétorique transalpina, intrecciandola con una invettività
di matrice artaudiana, ancorché sentimentalizzata.
In ogni caso, il ripescaggio odierno di questa Marcia, dovuto al fratello di Koltès, François, ha un
un senso e un valore eminentemente documentario, e bene ha fatto il regista Cauteruccio a puntare
sui valori visivo-sonori dell’allestimento, magari in ciò aiutato dalle suggestioni ‘environmentali’
del diruto e scorticato Teatro Garibaldi, situato nel cuore della Kalsa, uno dei quartieri popolari
cosiddetti ‘a rischio’ di Palermo. L’ambiente scenico, firmato dal medesimo François Koltès, si
suddivide in due zone, contrapposte da un fin troppo didascalico bianco e nero. L’avanscena
candida e calcinata sta tra un’evocazione strehleriana e un paesaggio post-atomico, in cui si
individuano la carcassa di un’auto semi-sepolta, le cime di piloni di cemento spezzati e con i tondini
d’acciaio penduli come tanti celibi alberelli; e ancora teste di capitello squadrate, testiere di
cancellate in ferro battuto, sagome irregolari di vetuste rovine che fanno perfetto pendant con i muri
fatiscenti del teatro. Qui, in questa veduta da dopo-apocalisse, si muove una coppia malmessa di
giovani fidanzati dropouts, interpretati da Monica Demuru e Enrico Roccaforte, che più si cercano e
meno si trovano, apparendo dei veri naufraghi dell’esistenza, perduti nella ‘solitudine dei campi
dell’amore’. Soprattutto la Demuru ha momenti di efficace recitazione commotiva con picchi di
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vibrante isteria, ma il flusso delle parole corre impetuoso e senza centro, tra echi dei versi biblici del
Cantico e corrive sentenziosità in stile “Baci Perugina”.
Sul piano rialzato, in fondo scena, dietro un velatino, agisce la coppia degli sposi, incarnata da
Fulvio Cauteruccio e Monica Bauco. Una coppia su cui vengono proiettate delle immagini video di
paesaggi naturali, agresti, con irte colline e sgambettanti caprette, ma è una indicazione
ingannevole, surrettizia, perché la regia devia subito altrove, verso una buia atmosfera da sogno o,
forse, da incubo, dove i due coniugi borghesi in abito da sera si piccano di ‘surfeggiare’ sulle
battute e sui vuoti d’amore, con effetti contrastanti. Fulvio Cauteruccio ora ‘gassmaneggia’, ora
ripropone una smaccata e ironica imitazione di Alberto Lupo ‘fine dicitore amoroso’ (con Mina in
“Parole, parole, parole”), ora si atteggia ‘in canotta’ da Marlon Brando dei poveri, a simil-macho
romantico e kitsch. Monica Bauco volteggia come una aerea farfalletta, si dondola sull’altalena, ma
soprattutto sonorizza e gorgheggia il testo. Il suo recitar-cantando sostenuto dalla fluida,
contrappuntistica tessitura elettronico-musicale originale di Raffaele Brancati, conduce la linea
notturna ed onirica dello spettacolo ai suoi esiti più alti.
E mi sembra giusta e illuminante l’intuizione della regia di Giancarlo Cauteruccio, di slittare dalla
messa in scena dei significati alla messa in opera dei significanti. Perché evidenzia la qualità
migliore e più durevole della scrittura di Koltès, che è il suo afflato, la sua enfasi lirica. È un teatro
quello di Koltès che gli attori più che recitare, debbono cantare. La sonorità della sua
magniloquenza produce, infine, un ‘teatro liquido’ per dirla con Zygmunt Baumann, dunque
probabilmente rappresentativo di questi tempi imprendibili, concettualmente inafferrabili.
2 − UNA MADONNINA IN MEZZO AGLI EPILETTICI. Il cinquantenne regista-coreografo belga Alain
Platel appare uno dei pochi, veri punti di riferimento dell’attuale scena europea, capace di rinnovare
costantemente le sue fonti di ispirazione, pur mantenendo una fedeltà di sguardo e di attenzione
verso le forme di umanità che stanno ai margini, sia in senso sociale, sia in senso psicocomportamentale. L’ultima produzione della sua compagnia “Les Ballets C. de la B.” – presentata
all’Auditorium Parco della Musica nell’ambito del RomaEuropa Festival 2006 – si intitola vsprs.
Enigmatico acronimo dietro cui si nasconde il preciso rimando ai Vespri della Beata Vergine di
Claudio Monteverdi. L’opera seicentesca del compositore lombardo è stata qui rivisitata e
rielaborata dal sassofonista Fabrizio Cassol, che la esegue dal vivo con un variegato ensemble di
altri otto musicisti, più il 33enne soprano bolognese Cristina Zavalloni, star emergente in bilico tra
il canto lirico-sperimentale e la nuova vocalità jazz.
La partitura di Cassol impasta con disinvolta padronanza musica barocca e linee jazzistiche,
klezmer ebraico e sonorità tzigane, fungendo da potente vettore per il disegno teatral-coreografico
che si svolge in una scena, firmata da Peter De Blieck, costituita da una sorta di suggestiva, bianca
scogliera di stoffa che include sulla destra il praticabile dove si accomoda l’orchestra.
Lo spettacolo ha un iniziale tono derisorio, con una ‘danzattrice’ che si diverte ad elencare tutti i
super-eroi e pseudo-eroi dell’immaginario fumettistico e cinematografico contemporaneo, intesi
quasi come simulacri-spazzatura e controfigure trash della Madonna Santa. Quindi poi si sviluppa e
si articola in molteplici sequenze coreutiche, spesso anche parallele e dissonanti, in cui gli undici
danzatori guidati da Platel danno vita a spericolate figurazioni, talora esercizi di puro
contorsionismo, che prendono le mosse dalle immagini dei pazienti dello psichiatra Arthur Van
Gehuchten (1861-1914), che filmava i loro movimenti contorti e bistorti, le loro pose schizzate e
deformate e teriomorfe da soggetti in preda a furiosi attacchi isterici, a gravi crisi epilettiche ovvero
catatonizzati durante le sedute di ipnosi – non diversamente da ciò che faceva l’ottocentesco
neurologo Jean-Martin Charcot alla Salpêtrière di Parigi.
Ne risulta una scrittura scenica, fluida e cristallina, da pseudo-musical per suono, canto e corpi
perturbati in movimento. Dentro cui si ritaglia un ruolo preminente anche la Zavalloni che non
soltanto interpreta al meglio le parti canore, grazie alla tersa emissione della sua ugola d’oro, ma
scende direttamente nell’agone, aggirandosi a piedi nudi e con passi leggeri e traiettorie sghembe
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tra i ballerini dementi, sventolando la sua lunga gonna di organza celeste ed esibendo la sua
figuretta agile e trepida, fragile e buffa, come una madonnina moderna ora affascinata ora
spaventata dall’animalesca tribù dei devianti.
Platel, magari, insiste un po’ troppo a dilatare il finale, con sagome che crollano al suolo inanimate,
soggetti in stato di delirium tremens, mezze punk e simil-anoressiche che continuano a volteggiare
inesauste, fino ad un folto gruppo che con slancio plastico-marmoreo si protende in una specie di
accorata invocazione terminale di riscatto alla Beata Vergine, mentre ad uno ad uno i musicisti si
ritirano e la Zavalloni reitera il suo canto di sirena mistica, accompagnata da ultimo soltanto
dall’esile, ma tenace suono di un violinista cieco. Conclusione abbastanza retorica, calligrafica e
compiaciuta per uno spettacolo, in ogni caso, di gran livello e di magnifica resa estetica, nel suo
sofisticato incrocio di antico e contemporaneo. Forse, addirittura, un lavoro capace di indicare una
possibile via d’uscita alla corrente impasse artistica della scena di ricerca.
3 – QUANDO FA NAUFRAGIO LA PIETÀ. Altro appuntamento topico del RomaEuropa Festival 2006,
sempre all’Auditorium Parco della Musica (Sala Sinopoli), è stato Portopalo. Nomi su tombe senza
corpi che non saprei bene come indicare. Potrei dire che è un lavoro video-musicale in ambiente
scenico, ma probabilmente l’approssimazione migliore è quella dei suoi autori che lo definiscono un
“requiem civile”. I padri di questo requiem sono parecchi: Giorgio Barberio Corsetti che firma la
regia complessiva, nonché la drammaturgia assieme a Guido Barbieri e Oscar Pizzo; Riccardo Nova
che è l’autore delle musiche; e Paolo Pisanelli a cui si deve la regia video. Ma forse i veri autori
sono i morti insepolti evocati da Portopalo: 283, per l’esattezza. Perché di questo si parla nel
requiem: di un tremendo naufragio, di una tragedia del mare, della miseria, dell’emigrazione
clandestina, consumatasi dieci anni fa, durante la notte tra il 25 e il 26 dicembre 1996, quando alle 3
del mattino una malandata e maledetta nave-zattera ‘dei disperati’ affondò nel Canale di Sicilia,
poche miglia al largo di Portopalo di Capo Passero. Nella stiva di quella carretta del mare erano
miserabilmente ammassate centinaia di persone provenienti dallo Sri Lanka, dal Pakistan e
dall’India. Pochi si salvarono, i corpi degli affogati non sono mai stati recuperati. Anzi, sappiamo
che per giorni, dopo il naufragio, i pescatori di Portopalo sulle loro paranze tiravano a bordo, con le
reti, decine di cadaveri che ributtavano prontamente in acqua. C’è voluto uno di loro, un piccologrande eroe civile di un’altra Italia, che risponde al nome di Salvatore Lupo, a denunciare la
faccenda, a far scoppiare ‘il caso’. E Salvo Lupo, con una magliettina blu e la sua barba sale e pepe
da, appunto, navigato ‘lupo di mare’, ce lo ritroviamo sul palco a rendere pacatamente e con un
pizzico di emozione la sua testimonianza. Il suo gesto non è stato indolore: la comunità del suo
paese lo ha messo al bando per avere, evidentemente, infranto il muro dell’indifferenza e
dell’omertà; anche il prete di Portopalo lo ha messo sotto accusa e, da ultimo, persino la moglie lo
ha abbandonato. Ma lui, calmo, saggio e risoluto, ribadisce che non si è pentito, che rifarebbe tutto
da capo. Un vero hombre vertical, assai raro da trovare in questo disgraziato e obbrobrioso paese.
Accanto a lui c’è il giornalista di Repubblica, Giovanni Maria Bellu, che per primo raccolse la voce
di Lupo e ne investì la stampa nazionale, e che ha poi scritto il libro I fantasmi di Portopalo che ha
ispirato questo non-spettacolo. Il reporter-testimone Bellu provvede, inoltre, a ricordarci che quella
di Portopalo non è una tragedia isolata. È soltanto un episodio di una tragedia continua, che
continua da almeno tre lustri, in cui si calcola che siano fino ad oggi più di 20mila le persone morte
nel tentativo di sbarcare sulle coste italiane. Una mattanza, quasi un genocidio a puntate che si
svolge sotto i nostri occhi inebetiti, indifferenti, inerti o impotenti.
Bellu ci rammenta pure che nel giugno del 2001 furono fatte delle ricerche sottomarine e fu
individuato e filmato il relitto della nave affondata. Sarebbe bastato un miliardo di vecchie lire a
recuperare quel che restava degli annegati. Nessun governo né di centrodestra né di centrosinistra
ha, finora, voluto fare qualcosa. Adesso, sembra, che qualcosa si smuoverà. Così da rispondere con
i fatti all’appello dolente e pieno di dignità che lanciano in tal senso due degli scampati al naufragio,
anche loro sul palco a rendere testimonianza, visibilmente ancora turbati e scossi da quell’evento
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più grande di loro, che ha travolto tanti loro compagni. Del pari, seguiamo partecipi, nel videodocumentario, il viaggio di ricognizione a ritroso che ci porta in Pakistan presso le famiglie delle
vittime a Tordher, a Gujrat, a Lahore. C’è la moglie di uno di loro tutta velata di nero, attraverso la
feritoia dell’hijab vediamo soltanto i suoi ardenti occhi che, a un certo punto, si sciolgono in un
pianto senza freno; c’è un anziano padre di bianco vestito e inturbantato che ha reagito alla sciagura
creando una specie di comitato per il recupero delle salme; c’è, quindi, una lunga carrellata di altri
genitori, fratelli, sorelle, consorti, con i volti impietriti di dolore, che sollevano e tendono le braccia
a mostrare, quasi in un silenzioso urlo, le immagini incorniciate dei cari scomparsi. Apprendiamo,
tra l’altro, che tra i morti c’era la ‘meglio gioventù’ di Tordher, ragazzi anche istruiti e diplomati
che speravano di fare fortuna in Europa, per poi tornare a casa riportando un po’ di benessere
economico. Su tutto rimane impressa e anche commovente la muta e rabbiosa richiesta di riavere i
corpi per dare loro sepoltura e poterli pregare, ciò che è sotto ogni latitudine geografica e religiosa
un bisogno assoluto, un’esigenza sacra.
A contrappuntare le immagini del video si dipana la colonna musicale di Nova che mixa sonorità
elettroniche anche aspre e stridenti e le linee melodiche del violoncello di Francesco Dillon, delle
tastiere di Oscar Pizzo, mentre il tappeto ritmico delle percussioni di Manjunath B. C. e Pino Basile
supporta le suggestive voci cantanti del pakistano Faheem Mazhar e della cingalese tamil
Thevamanohari Janathas che si accompagna con un piccolo harmonium. Talora la, pur efficace,
regia video di Pisanelli indulge troppo a creare delle immagini di simbolica poeticità che cozzano
con la desolata tragicità dell’ecatombe reale. Molto più eloquente la finale visione subaquea della
nave affondata, quel cimitero marino già incrostato di molluschi, che istiga un senso di liquida
nullificazione, di eterna distruzione, insomma di eternullité. Così, gli applausi che in chiusura si
levano solidali, non possono non tradire un certo imbarazzo. Di che cosa ci stiamo e li stiamo (i
protagonisti) felicitando? Della rappresentazione del trionfo della morte per la morte? O dei nostri
kattivi pensieri, della nostra fella coscienza?
Comunque, vorrei personalmente aggiungere che sono lieto che con questo lavoro, certo extraordinario e non replicabile, Barberio Corsetti abbia interrotto la pluriennale routine dei suoi
spettacoli teatral-circensi, gremiti di bravissimi quanto stucchevoli acrobati francesi, spettacoli
ripetitivi, sempre più superflui e sempre meno ispirati, pressocché la postrema e pessima deriva di
un teatro di ricerca che fu. Speriamo che, con Portopalo, Giorgio possa avere recuperato il senso
attuale di un ‘teatro necessario’.
4 – PER UNA ESTETICA NON COSMETICA. All’insegna della ricerca di altri corpi senza nomi o,
forse, innominabili si è svolta nella capitale, nello spazio occupato del Kollatino Underground
(gestito dalla compagnia Santa Sangre), la rassegna “Ipercorpo” dal titolo di un omonimo (e non
anonimo) libro del critico Paolo Ruffini, importante esplorazione dentro i nuovi territori della
sperimentazione scenica.
Tra gli allestimenti che ho visto due erano sul versante del danzateatro. In primis, l’ensemble
Habillé d’eau, diretto dalla coreografa Silvia Rampelli, che ha presentato un breve studio di
mezz’ora chiamato Sulla percezione di un segmento temporale discrezionalmente definito.
Abbozzo iniziale di un progetto assai più ampio e articolato, qui incentrato sulla icastica fisicità
della rossochiomata danzatrice Alessandra Cristiani, impegnata in alcune sequenze di figurazioni
statiche, di prove di messa in tensione del corpo seminudo, vestito soltanto con un paio di slip. Lo
studio si svolge senza luci, sotto dei neon obitoriali, unici oggetti di scena, enigmatici e femminili,
una sedia rossa e un paio di scarpe bianche con tacchi e zeppe sopraelevati. Gli esercizi in
prolungato surplace della danzatrice ora ricordano certe estenuate, lentissime movenze del Butoh,
ora fanno pensare alle plastiche pose, ginniche e sexy, della body-builder americana Lisa Lyon,
fotografata nei primi anni ’80 da Robert Mapplethorpe in un algido bianco&nero. Mentre una voce
radiofonica scandisce i passaggi orari, i ‘segmenti temporali’ che segnano la discontinuità del
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training scenico, voglio segnalare la intensa, espressiva fissità della maschera facciale della
Cristiani, forte nella sua apparente, minuta fragilità.
Altro studio (“indiano”) di danza quello proposto dal gruppo Offouro. ABQ – Mechanical
extention in four arithmetic operations si situa in un quadrato scenico ricoperto da un sottile velo
di sabbia, con al centro un piccolo cerchio, illuminato inizialmente a piombo. Il danzatorecoreografo Alessandro Carboni, lucido cranio rasato come un monaco zen, tenuta da ‘arancione’
casual, lavora con precisione e agilità su posizionamenti, movimenti e strisciamenti al suolo. Quindi
passa ad attivare, uno dopo l’altro, quattro metronomi che oscillano in dissincrono, mentre lui
compone meccaniche sequenze di spostamento lungo il perimetro del ‘quadrato magico’, con più e
più iterazioni e variazioni aritmetiche. Quindi, dopo un picco di climax anche rumoristico, a
rovescio il ritmo asincrono dei metronomi viene progressivamente stoppato. Nella rarefazione del
silenzio, Carboni spazzola via con il corpo tutta la sabbia del quadrato. Una performance forse
minimale, ma perspicua nel suo scheletro progettuale. Studio per un corpo plastico-mistico che nel
suo celibe evoluire a terra in qualche modo rimanda alle superne e, probabilmente, altrettanto
gratuite rotazioni delle sfere celesti.
Con Superfaust del gruppo Margine Operativo entriamo in un’altra declinazione del tema della
rassegna. Qui la rivisitazione in chiave metropolitana del mito di Faust, si proietta in un ultracorpo
ideale figurato come una sorta di uomo-ombra, di fantasma delle periferie con indosso una giacca
damascata scarlatta e in testa un passamontagna nero stile subcomandante Marcos ovvero da
militante autonomo d’antan (do you remember l’operaista dannunziano Toni Negri?). L’iniziale
video di Riot Generation proiettato direttamente sul muro, incomincia così con una vestizione lenta
ed elaborata che è una chiara o inconscia citazione della vestizione fetish che apriva Scorpio Rising,
il cult-movie underground (1963) di Kenneth Anger. Lì era una questione di ipercorpi di bikersteddy boys in estasi narcisa da leather fashion, con tante pose da machos e durezze esibizioniste
nazi-gay. Qui l’ultracorpo superfaustiano oscilla tra il dandy suburbano e il guerrigliero no-global
colto in transito su fondali video ora di ambienti notturni ed equivoci, ora di squallide arterie
cittadine, come a segnalare un’incertezza ontologica, un’indecisione operativa, un’identità fragile e
ambigua, o bifida. Due sedie di plexiglass, una valigetta 24ore executive messa al centro e un
radiomicrofono ad asta punteggiano lo spazio scenico, là dove il vero lato debole si rivela il testo,
oltretutto recitato assai goffamente, che ha cadenze da bignamino scolastico circa la parabola
dell’eroe eponimo di Marlowe e Goethe, quando non si impanca a sciorinare enfatiche tirate tra il
retorico-profetico e il quasi superomistico. Così, lo spettacolo non lievita e via via si avvita su se
medesimo, gravato dal suo ingenuo linguaggio da ‘poetese’ accusatorio. In explicit, il nostro
Superfaust apre la valigetta, distribuisce agli spettatori il santino della sua icona, richiude la
valigetta, esce di scena e lo vediamo in video allontanarsi, svanire nel buio dedalo della metropoli.
Fin troppo facile concludere che nessuno avvertirà la sua mancanza.
Tutto sommato lo spettacolo o, meglio, anti-spettacolo che più mi ha incuriosito e interessato è stato
Mi spengo in assenza di mezzi proposto dalla compagnia friulana Cosmesi, che è poi in scena una
bizzarra coppia. Lui, Nicola Toffolini, accoglie gli spettatori e fa loro luce e strada, in veste di
barbuto e torvo Caronte che, sopra una tuta gialla con occhialini da lavoro e casco da minatore in
testa, indossa un artigianale pannello multilampadina; lei, Eva Geatti, si mostra in tenuta di
ballerinetta in candido tutù, e insiste a provare incerti passi e goffe movenze, tornando sempre a
sedersi con aria frustrata. Poi l’uomo ‘delle luci’ esce dalla sala e piombiamo in una tenebra senza
kuore, e qui incomincia il vero gioco. Dove sventagliate di sound elettronico-percussivo potente e
martellante (curato da Stefano Pilia) vengono mixate con sonorità concreto-realiste, con grida di
animali inseguiti e battuti, con grugniti di maiali prima piangenti e poi macellati; e ancora si
sentono rumori di traffico urbano, clacson a manetta, strida di uccelli svolazzanti e quindi un
frenetico scalpiccio di passi in fuga. Questa eclettica partitura acustica arreda una pressocché totale
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oscurità in cui, ogni tanto, grazie al puntino rosso di una minitorcia ci sembra, a fatica, di
intravvedere dei profili fantasmatici, spettrali presenze, ectoplasmi in movimento (anche senza la
storica medium Eusapia Palladino), e poi grandi teli che volteggiano spostando masse d’aria viziata.
Torniamo a udire colpi come di possenti legnate e frastuoni varî prodotti dal vivo e il tutto si
prolunga e perdura, sempre più claustrofobico o claustrofilico, che dir piaccia. E allora a poco a
poco capiamo che la performance di Cosmesi punta a creare un mero, cieco teatro d’ascolto, dove lo
spettatore deprivato della visione è sospinto a confrontarsi con le sue medesime capacità
immaginative. La condizione del buio è un test poetico e un volano per l’immaginazione, dove
ciascuno si invagina per proiettarsi il proprio film personale. Il repentino ritorno dell’uomoluminaria ci ferisce quindi gli occhi e ci abbaglia, dopo aver passato oltre mezz’ora nel tenebrore,
così il pubblico indugia, pare non volersene andare e lui allora lo invita con perentori gesti a
sgomberare, sdegnando qualsivoglia ringraziamento finale.
Nonostante il nome del gruppo, direi che si tratta di un teatro non cosmetico e, in fondo, con una
sua etica e una sua apprezzabile estetica per denegazione e ritrosia.
5 – CARNALITÀ E BISESSUALITÀ: DI PADRE IN FIGLIO. Viene indicata come la reginetta cult della
nuova scena nazionale. Tutti la vogliono, tutti la cercano e non capisco bene perché. Il corrente
successo di Emma Dante fa pensare. La ragazza (insomma ragazza, ha quasi quarant’anni)
palermitana ha sicuramente del talento. Ma dopo un paio di notevoli allestimenti − mPalermu
(2001) e Carnezzeria (2003) − o ha sbagliato spettacoli o ha mostrato una pericolosa inclinazione a
ripetersi, a replicare i propri modi e temi e vezzi. Ma come: una ha, in fondo, appena incominciato e
già fa la ‘maniera’ di se stessa?
Forse, rifletto, il tratto saliente del suo precoce automanierismo è il centro stesso della sua essenza
di regista-autrice. Ovvero la sua ossessione per la ‘sicilianità’ o, ancora meglio, per la ‘sicilitudine’,
intesa come un destino e, assieme, una maledizione, come un ‘troppo’ che stroppia, come un
eccesso di umanità mediterranea che si declina in modi arcaici, ferocemente patriarcali, psicogeneticamente ‘ammafiati’, sempre virulenti e brutalmente definitivi, incapaci di riscatto, dunque in
un certo senso metastorici.
Prendiamo il lavoro che ho visto al Teatro Vascello di Roma: Mishelle di sant’oliva (il cui debutto
risale a un paio di anni fa). Qui la Dante inscena il rapporto controverso, cannibalico,
smaccatamente ambiguo tra un padre e un figlio. Che siedono frontali rispetto al pubblico davanti a
due tende ‘mantovane’, una rossa e l’altra gialla. Una situazione teatrica alla Copi, ma con
dinamiche e toni e umori radicalmente diversi. Tanto il franco-argentino Copi si scatenava a
comporre surreali farse omosessuali e camp, bislacche e ironicissime, quanto la siciliana Dante è
irresistibilmente attratta a dar vita a una melodrammatica parabola ribollente e iper-allusiva circa la
bisessualità profonda della mascolinità isolana.
Gaetano è il padre che continua imperterrito e immobile, rancoroso e impotente ad aspettare la
moglie Mishelle, fuggita via da tempo; una bellissima francese che, secondo lui, era una celebrità,
nientemeno che la prima ballerina dell’Olympia di Parigi. Il figlio Salvatore lo accudisce in mezzo a
permanenti e scoppiettanti battibecchi, per lo più in corrusco dialetto siculo, e lo sa bene che la
madre non era una star, ma soltanto una gran ‘buttana’ che passeggiava di notte a Sant’Oliva, la
piazza delle prostitute di Palermo. Lo sa così bene che, ora, è lui col suo corpaccione grasso e
mollemente femmineo che va a battere. Lui che si trucca, si mette il rossetto, gli orecchini, la
collana di perle materna, indossa un vestito nero lungo, elasticizzato e tutto pieno di spacchi, ed
eccolo tramutarsi nel travestito Mishelle, reincarnazione e trasfigurazione assieme della genitrice.
Reincarnazione inaccettabile per il padre il quale, ogni volta che il figlio sta per uscire così
conciato, fa una scenata e/o sceneggiata da ‘pupo’ vivente, infilando la testa in un cappio e
minacciando di impiccarsi, oppure a rovescio semidenudandosi pure lui e lanciandosi ad eseguire
un incredibile balletto, grottesco e persino repellente, come gesto di sfida, ma anche di
competizione col figlio ‘arruso’. La Dante punta molto, se non tutto sulla ‘carnalissima’ bravura
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recitativa dei due attori, Giorgio Li Bassi e Francesco Guida. Sono i loro ‘ipercorpi’ deformi (da
post-Cinico Tv di Ciprì & Maresco), debordanti e desideranti insieme, a riempire la scena, a
catalizzare i momenti di climax dello spettacolo, sottolineati dalla colonna sonora che svaria dai
brani lirici a “Sei bellissima” di Loredana Bertè. Corpi iperbolici che trasudano l’oscenità omoerotica e l’ottusità para-isterica di una maschilità atavica, tutta istinto e visceralità, che attiva picchi
di conflittualità quotidiana, palesemente mimata ed esibizionistica, sino ad un terminale, forte
abbraccio di riconciliazione, pieno di mille sottintesi e sottotesti. Finale su cui scatta al Vascello
l’appassionato applauso di consenso di un pubblico giovane che, evidentemente, riconosce in Emma
Dante la paladina dei propri sentimenti primari e delle proprie pulsioni profonde e, magari,
inconfessabili.
Ed è giusto questo il problema o il nervo scoperto della Dante, che nel suo abile teatreggiare e
manipolare ipercorpi e soggetti freaks, dimostra lei per prima di mancare di anticorpi e di porsi
esplicitamente fuori del moderno. La sua fascinazione per questa animalità antropologica, per
questo grumo impestiato di tradizione etno-razziale, è culturalmente regressiva, è il cedimento al
richiamo della foresta biologica, è la resa alle sirene della ancestralità, del Blut und Boden (di cui
già si beavano i nazisti).
Che tanti giovani spettatori vedano in lei un idolo artistico generazionale, conferma i miei sospetti
che siamo al cospetto di una generazione di venti-trentenni priva di anticorpi kritico-kulturali,
filosofico-razionali, e dunque basicamente reazionaria, intrinsecamente oscurantista, potenzialmente
‘talebana’ o virtualmente ratzingeriana. S’avanza un vecchio-nuovo ‘Corpo-Frankenstein’ e non mi
piace per niente.
(dicembre 2006)
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