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RASSEGNA STAMPA
martedì 24 novembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DONNE E DIRITTI
BENI COMUNI/AMBIENTE
CULTURA E SPETTACOLO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 24/11/15, pag. 9
«No ai muri, apriamo le porte dell’Europa»
Appello. Una mobilitazione il prossimo 18 dicembre contro
l’oscurantismo delle destre
Raffaella Bolini
Dopo Parigi, l’Europa blinda le frontiere. I volontari della rotta balcanica dei migranti invece
propongono una giornata europea di azione il 18 dicembre per «aprire le porte».
Una mobilitazione unitaria per dimostrare che c’è un modo diverso per sconfiggere la
paura: togliere muri e barriere. Ai confini, nelle comunità, nelle nostre teste. Come hanno
fatto i parigini la notte dell’attacco, accogliendo in casa chi scappava. E chi questa estate
ha aperto le case e le auto ai migranti.
Parigi ha dato all’Europa la scusa per completare la blindatura delle frontiere, attuando
decisioni prese ben prima dell’attacco. E per chiudere l’eccezione della rotta nei Balcani.
La rotta balcanica non è stata un regalo della Merkel. E’ stata conquistata dalla marcia dei
migranti, la più grande azione di disobbedienza civile nonviolenta in Europa da decenni. E’
stata sostenuta da un movimento nuovo e davvero europeo, capace di stare per mesi sul
campo e di trarre dal volontariato forza e credibilità per l’azione politica.
Da questo movimento arriva il grido di allarme: reagire all’attacco di Parigi con la guerra, la
militarizzazione, la chiusura delle frontiere, la limitazione delle libertà civili e democratiche
è un regalo alla destra estrema. Che è in testa ai sondaggi in Francia, ha conquistato
anche la Polonia, e si sente più forte — mentre ogni notte nell’Europa del nord viene dato
alle fiamme un alloggio di migranti.
Non è tema per gli addetti antirazzisti, dicono i volontari dei Balcani. Riguarda tutti e tutte.
Il rischio di una Europa che reagisce agli attacchi oscurantisti divenTando sempre più nera
e forte. Il lusso della frammentazione non è più permesso, bisogna provare a unificare le
lotte.
I diritti dei migranti, la pace e la giustizia sociale sono facce della stessa medaglia, visto
che l’insicurezza sociale e l’ingiustizia globale alimentano l’ostilità verso lo straniero.
Il testo dell’appello per la proposta di giornata di mobilitazione in tutta Europa è molto
breve.
«Attivisti greci, turchi, dei Balcani occidentali e di tutta Europa impegnati sulle rotte dei
migranti si sono incontrati a Salonicco. E propongono a tutte le persone, i movimenti, le
organizzazioni sociali, i sindacati che non vogliono vivere in un’Europa e in un mondo
oscuro, ingiusto e antidemocratico di mobilitarsi e agire il 18 dicembre. “No ai muri.
apriamo le porte”. Pace, democrazia, giustizia sociale, dignità per tutti e tutte».
L’appello arriva da Salonicco, dove si è appena concluso un incontro organizzato per
mettere in comunicazione i volontari della rotta balcanica, il movimento dei convogli da
Austria e Germania con attivisti su altre rotte, organizzazioni di diversi paesi e numerose
reti europee.
Doveva essere un momento di interscambio sui temi della accoglienza, fra movimenti
nuovi e organizzazioni attive da tanti anni. Si è svolto nei giorni in cui a Idomeni la
Macedonia ha iniziato a bloccare migliaia di persone, mentre agli abitanti di Bruxelles era
vietato uscire di casa.
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Quando per Madrid venne il tempo del terrore, in una sola notte un grande movimento
rese chiaro che sulle risposte al terrorismo non ci sono larghe intese securitarie ma due
campi opposti, quello della pace e quello della guerra. Anche oggi c’è bisogno di una
risposta forte e popolare, visibile abbastanza da strappare le persone dalle lusinghe della
destra e di dare coraggio agli europei buoni.
In questi giorni le manifestazioni previste per la giustizia climatica, aggiornate ai drammi di
oggi, possono fare la differenza. Poi, insieme, confidiamo di riuscire a fare un 18 dicembre
all’altezza della sfida. Le porte sono aperte.
* Arci
del 24/11/15, pag. 9
Abbandonati nella terra di nessuno
Frontiera greco-macedone. Più di 2000 migranti bloccati al freddo dalle
autorità di Skopje
Sara Prestianni*
IDOMENI
Sono più di 2000 i migranti in attesa alla frontiera greco-macedone, in una terra di
nessuno, perduta nelle lande sconfinate del nord della Grecia, di fianco al villaggio di
Idomeni. E’ uno dei tanti snodi del «corridoio balcanico» che ha visto passare da inizio
gennaio 600.000 uomini, donne e bambini. Sbarcati sulle isole i migranti sono obbligati a
registrarsi nei centri di identificazione che si stanno trasformando in «hotspot», per poter
comprare un biglietto per la nave che li porterà ad Atene. Dalla capitale greca, in autobus,
raggiungono Idomeni, per poi continuare verso la Macedonia, in Serbia, Croazia ed
Austria.
Negli ultimi mesi quello di Idomeni era un posto di frontiera come gli altri sulla rotta
balcanica, dove i migranti sostavano qualche ora, per rifocillarsi e poi ripartire.
Ma il 17 novembre il meccanismo è cambiato e le porte del corridoio balcanico hanno
cominciato a chiudersi. Per un effetto domino, Serbia, Croazia e quindi Macedonia hanno
annunciato che dalle loro frontiere sarebbero passati solo iracheni, afghani e siriani. Gli
altri – iraniani, bengalesi, marocchini, subshariani, algerini ma anche somali ed eritrei –
sulla base discriminante della nazionalità, sono bloccati, senza una reale spiegazione se
non il fatto di non essere iracheni, siriani o afgani. Nessuno dice loro il motivo di questo
cambio né per quanto la frontiera resterà chiusa e se mai riaprirà. Chi prova a passare per
altri punti del confine, comunque impervio tra foreste e fiumi, viene respinto se trovato
senza il timbro di ingresso della Macedonia.
L’ingiustizia e la discriminazione si materializzano fisicamente in due file: da un lato quelli
che possono passare, dall’altro quelli indesiderati, in mezzo la polizia.
Un gruppo può vedere l’altro ed il senso di ingiustizia e l’incomprensione diventa ancora
più forte. A chiudere la frontiera, un cordone di polizia greco e uno, molto più massiccio,
dell’esercito macedone. Sullo sfondo una fila di carri armati ed una barriera. In cielo si
aggira un drone che filma tutto ciò che succede.
24est2 migranti profughi confine macedonia FOTO SARA PRESTIANNI f0AA26
Frontiera greco-macedone — Foto Sara Prestianni
Ad ogni passaggio di siriani, afgani ed iracheni, i migranti bloccati gridano all’ingiustizia.
Tutti dovrebbero passare. Ripetendo «fateci passare non siamo dei terroristi», sventolano
cartelli che inneggiano all’apertura delle frontiere e al diritto di circolare liberamente. Negli
ultimi due giorni le manifestazioni sono state tranquille, ma i volontari ci avvisano che
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basta poco perché partano tiri di lacrimogeni. La rabbia è palpabile, causata dal senso di
ingiustizia di una discriminazione arbitraria su base nazionale che si produce proprio
davanti ai loro occhi.
Il professore
A.R é iraniano, in perfetto inglese mi dice di essere professore universitario, di avere una
casa e uno status di vita agiato a Teheran «Se sono partito un motivo ci sarà. Se ho
rischiato la vita in un gommone nel mare Egeo portando con me mia moglie incinta ed i
miei figli non è perché voglio venire a lavorare in Europa. Non posso tornare in Iran, là
rischio la vita». Difficile spiegare loro che la Macedonia ha deciso di violare la
Convenzione di Ginevra, che prevede un’analisi personale delle storie di asilo, per
applicare il principio discriminante della nazionalità basandosi su un documento fornito su
un’isola greca.
Nessuno chiede a A.R. di raccontare perché è in pericolo. La polizia si limita a
considerarlo un migrante economico e a farlo attendere in un limbo di freddo ed ignoranza,
aspettando di conoscere quale sarà la sua sorte. A.R. continua arrabbiato «mi hanno detto
che o decido di aspettare o torno ad Atene. Ma indietro non posso tornare». Da sabato
mattina un gruppo d’iraniani ha cominciato uno sciopero della fame per chiedere che le
frontiere siano aperte.
Le condizioni di vita, nonostante lo sforzo di vari volontari, restano difficili. Dormono in
tende o in tendoni in totale promiscuità. Dentro una si sono riuniti tutti gli africani, di varia
nazionalità, camerunensi, maliani, togolesi. In fondo scorgo un gruppo di eritrei. Hanno
deciso di non prendere la via della Libia perché avevano troppa paura del mare. Hanno
saputo di troppi loro connazionali che sono stati inghiottiti dal Mediterraneo. Poco importa
se, essendo eritrei, c’è una fortissima probabilità che fuggano persecuzioni e abbiano
diritto di chiedere l’asilo, ai macedoni basta sapere che non sono né siriani, né afghani né
iracheni per bloccarli. Sembra che comincino ad essere anche a rischio gli afghani:
saranno i prossimi ad essere bloccati, entrando anche loro a far parte della lista degli
indesiderati.
Durante il giorno, se non sono a manifestare di fronte alla frontiera, i migranti si aggirano –
avvolti da coperte — tra i binari del treno ed i fuochi che hanno acceso per resistere ad un
clima che diventa sempre più rigido. Chiedono a chiunque quando la frontiera si aprirà,
come una litania, anche se sanno che nessuno può dare loro una risposta sicura.
Un nutrito gruppo di giovani del Bangladesh si riscalda attorno ad un fuoco, che serve
anche ad illuminare l’oscurità che cala su Idomeni di notte. Mi raccontano di come hanno
rischiato di morire nel mare Egeo. Il loro gommone si è sgonfiato e sono finiti in acqua. I
trafficanti avevano dato loro un gommone difettoso. Hanno venduto tutto per partire. Più di
2000 euro per andare dall’India all’Iran, poi in Turchia, ed ora sono bloccati. Uno di loro,
con voce concitata mi dice che se lo rimandano indietro si ucciderà. Ha perso tutto, non
può tornare indietro. E come una litania mi continua a chiedere «Quando la frontiera
aprirà? I miei amici del Bangladesh il mese scorso sono passati senza problemi». Difficile
spiegare i meccanismi geopolitici dello scacchiere europeo, dove i migranti sono pedine su
un tavolo del risiko, dove le frontiere si aprono e chiudono senza preavviso, dove la vita di
centinaia di persone può essere messa in sospeso il tempo di una trattativa o rispedita al
mittente, in violazione delle Convenzioni Internazionali.
Stop agli arrivi
Il numero dei migranti bloccati alla frontiera resta pero costante. Stranamente nessuna
barca è arrivata nell’ultimo giorno da Atene. È la prima volta da mesi. Nessun barcone né
gommone ha raggiunto le isole dalle coste turche. Se il numero degli arrivi era
leggermente diminuito nelle ultime due settimane, non si era mai registrata questa
assenza di partenze. Questa «calma» può essere legata al clima, vista la tempesta che
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sta invadendo la regione, ed in quel caso appena il vento smetterà di soffiare altre barche
arriveranno ed il numero dei migranti bloccati nel limbo di Idomeni sarà destinato ad
aumentare. Ma può essere anche la conseguenza della decisione della Turchia di
collaborare a fermare i migranti, come richiestogli dall’Ue. Le recenti denunce di Human
rights watch che parlavano di retate lungo le coste turche potrebbero essere strettamente
legate a questa calma nel mare. Se fosse così la situazione sarebbe ancora più tragica,
migliaia di persone sarebbero costrette in un paese, la Turchia, già al collasso
dell’accoglienza, dove lo stato non riconosce diritti ai rifugiati e la sopravvivenza —
considerando i due milioni di rifugiati già presenti — è quasi impossibile.
Intanto ad Idomeni si preparano a che il numero di migranti aumenti e l’Unhcr ha costruito
un altro campo, vicino a quello già esistente. Le tende si espandono attorno alla frontiera.
Passando tra le tende si sentono i canti in decine di lingue diverse. La frustrazione e
l’attesa. Mostrano il documento che è stato rilasciato loro sull’isola greca in cui sta scritto
che hanno 30 giorni per lasciare il paese. Scaduto quel tempo possono essere detenuti ed
espulsi ad ogni momento. Contano i giorni e sperano che l’indomani sia quello in cui gli
stati decidano di aprire la frontiera e di lasciarli passare.
*ufficio immigrazione Arci
Da Redattore Sociale del 24/11/15
"Napolislam" torna in programmazione nelle
sale. Arci: una vittoria
Dopo gli attentati di Parigi la decisione di posticipare al 2016 la
programmazione del film di Ernesto Pagano. Ma l'Uci ci ripensa e
annuncia che dal 2 dicembre il film sarà nelle sale. E' uno dei film delle
rassegna "L’Italia che non si vede"
ROMA - L’Uci, grande circuito di sale cinematografiche, che dopo gli attentati di Parigi
aveva deciso di posticipare al 2016 la programmazione di Napolislam di Ernesto Pagano,
ci ripensa e annuncia che dal 2 dicembre il film sarà nelle sale.
Lo rende noto l'Arci che commenta: "è una vittoria per chi, come noi, era intervenuto per
denunciare il rinvio deciso dall’UCI, e le motivazioni che lo giustificavano (“meglio
aspettare un momento più sereno”). Una decisione che avevamo trovato assai discutibile,
sia perché le censure non ci piacciono mai, sia perché veniva travisato il significato del
film, che racconta, senza strumentalizzazioni, storie di quotidiana integrazione, di una
società che rifiuta una separatezza artificiosa che non corrisponde alla realtà che si vive
tutti i giorni".
Napolislam è uno dei film che fanno parte de ‘L’Italia che non si vede’, la rassegna
itinerante di cinema del reale organizzata da Ucca. "Lo diciamo con orgoglio, perché
proprio ciò che sta succedendo intorno a noi, oltre al valore formale dell’opera, ci conferma
quanto la scelta di proiettarlo in giro per l’Italia, insieme agli altri film della rassegna, sia
stata lungimirante".
Da l’Unione Sarda del 23/11/15
Giornate del cinema Mediterraneo:
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fino al 30 novembre al centro culturale di
Iglesias
Ha preso il via venerdì scorso a Iglesias l'ottava edizione delle Giornate del cinema
mediterraneo organizzate al centro culturale di via Cattaneo dal circolo cittadino Arci.
Già il titolo "Oltre i muri, identità e trasformazioni" mette a fuoco l'obiettivo della rassegna:
spingere lo spettatore oltre i confini dello spazio e del tempo con una carrellata di film che
testimoniano la migrazione dei popoli nel terzo millennio,
Il festival porta la firma del regista cagliaritano Enrico Pau: «Quest'anno invita a riflettere
su temi che sono diventati dolorosi e universali - spiega - documentando gli esclusi che
finalmente stanno bussando con forza alle porte di coloro che la storia e la geografia
hanno sempre tenuto ai margini».
In primo piano dunque gli sguardi colmi di speranza di chi lascia la propria terra per
trovare fortuna e solidarietà altrove.
Un po' come il documentario che andrà in onda stasera alle 18: Zingarò di Nicola Contini
racconta i momenti formativi più importanti che hanno portato cinque giovani ragazze rom
a diventare sarte in Sardegna, rappresentando l’occasione per conoscere da vicino il loro
mondo e la loro cultura.
Alle 21, Lei disse sì, un documentario ambientato in Svezia e diretto da Maria Pecchioli.
L'idea del film nasce dal seguitissimo blog di Ingrid e Lorenza (www.leidissesi.net) che
racconta l'avventura di due ragazze fiorentine in viaggio per convolare a giuste nozze. Un
frammento di Italia, insomma, dove sposarsi con una persona dello stesso sesso non è
consentito.
Da segnalare, fra gli altri, domani alle 18: Intro e Fora (11 storie di emigrati sardi),
mercoledì 25 novembre alle 21: il film documentario Faber del regista sardo Gianfranco
Cabiddu. Ma fino al 30 novembre, attraverso la programmazione giornaliera di pellicole e
documentari, la rassegna coinvolgerà anche gli studenti con diversi appuntamenti previsti
la mattina.
Fra questi, il 27 novembre alle 9.30, lezione sul cinema di Ken Loach, mentre alle 11.30
l'attore irlandese Barry Ward, protagonista di “S'Accabadora di Enrico Pau incontrerà i
ragazzi del Liceo Artistico e Scientifico di Iglesias. Da corollario al festival due mostre
fotografiche, una delle quali sulla Palestina curata dalla Caritas. L'altra è Ancora non son
tempi, la mostra fotografica di Antonello Casu.
di Ilenia Mura
Da Articolo21 del 23/11/15
Carovana della pace Mombasa-Nairobi. Il 24 e
25 novembre in occasione della visita in
Kenya di Papa Francesco
Parte domattina 24 novembre 2015 Mombasa (Kenya) la Carovana della pace organizzata
in occasione della visita di Papa Francesco per sostenere processi di pace in tutta la
regione, per la difesa e la promozione dei diritti umani, per una economia di giustizia, per il
dialogo interculturale e interreligioso, per la convivenza dei popoli. La Carovana della pace
arriverà a Nairobi mercoledì 25 novembre 2015.
La Carovana della pace nasce da una proposta dell’associazione “Cremona for Kenya”,
attiva da anni nei progetti di cooperazione nella costruzione in Kenya di scuole aperte a
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tutti, bambini e ragazzi cristiani e musulmani, con l’adesione convinta del Comune di
Cremona e delle associazioni locali che costituiscono la Tavola della pace di Cremona e
provincia, è stata lanciata la proposta di organizzare tra Mombasa e Nairobi una Carovana
della pace che si richiama nelle modalità e nei fini alla Marcia Perugia-Assisi.
Dopo i morti di Parigi, ancor più significativa a livello locale è l’adesione del Centro
islamico “ La Speranza” che ha scritto un messaggio da portare in Kenya e rivolto a tutte le
fedi religiose di quel Paese perchè convivano pacificamente. In queste ore è arrivata
anche l’adesione della Rete della pace nazionale, della Tavola della pace di Perugia,
quella del Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace, quella dell’Arci regionale
e nazionale.
Il Kenya vive da anni una tensione crescente dovuta in parte a guerre non superate nei
Paesi confinanti, in Somalia prima di tutto, in parte a situazioni interne allo stesso Kenya
dove il conflitto sociale, economico e politico viene trasformato in conflitto interetnico e
religioso. E’ in questo quadro che si inseriscono le violenze dei miliziani di al Shabaab che
non operano più nella sola Somalia e si sono resi responsabili della terribile strage di 147
studenti a Garissa.
L’idea della carovana, che unisse in Kenya esponenti di fedi diverse, è stata avanzata dal
cremonese Licio D’Avossa nei suoi incontri con padre Lagho, responsabile del dialogo
interreligioso per la diocesi cattolica di Mombasa. E’ stata poi sviluppata, sempre da Licio
D’Avossa, in uno scambio di lettere con lo stesso Papa Francesco.
Adesso la Carovana della Pace in Kenya sta diventando realtà. E’ stata fatta propria in
modo ufficiale dall’arcivescovo di Mombasa Martin Musonde e dagli Imam di fede islamica.
Ha già ricevuto il sostegno di centinaia di organizzazioni della società civile keniota che
non si rassegnano al terrorismo, alle violenze e alle discriminazioni tra appartenenze
etniche e religiose diverse.
La partenza da Mombasa è prevista per la mattina del 24 novembre e, in tre tappe, la
Carovana della pace arriverà a Nairobi il 25 novembre, in tempo per salutare e ricevere il
saluto di Papa Francesco.
Considerando la rilevanza internazionale della Carovana Mombasa- Nairobi, le
associazioni pacifiste cremonesi non solo sostengono convintamente questa proposta di
“Cremona for Kenya” ma hanno invitato tutte le associazioni italiane che si riconoscono
nelle ragioni della pace e della nonviolenza ad aderire, sostenere, promuovere questa
iniziativa, anche contattando i volontari e i cooperanti italiani impegnati in quell’area.
Un primo sostegno da parte di chi solidarizza con questa iniziativa, ma rimane in Italia, è il
finanziamento di pasti per chi parteciperà alla Carovana versando 20 centesimi per un
pasto con la causale: Carovana della Pace Kenya IBAN IT 95 Z 03500 11403 0000 0000
3333 (Caritas cremonese).
http://www.articolo21.org/2015/11/carovana-della-pace-mombasa-nairobi-il-24-e-25novembre-in-occasione-della-visita-in-kenya-di-papa-francesco/
Da IVG.IT del 23/11/2015
Circolo Arci e Fratellanza Quilianese dicono
“No alla violenza sulle donne”,
Prima una cena per raccogliere fondi per l'Associazione Telefono Donna
e poi uno spettacolo a cura del Circolo Arci Chapeau
Savona. Mercoledì 25 novembre, dalle ore 20, presso la A.M.S. Fratellanza Quilianese di
Via Porcile 2 a Quiliano, in occasione della giornata internazionale contro la violenza alle
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donne, il Comitato Territoriale Arci Savona in collaborazione con l’A.M.S. F. Quilianese ed
il Circolo ARCI Chapeau organizza una serata per sostenere una realtà impegnata
quotidianamente nella lotta contro ogni forma di violenza alle donne e per riflettere sulle
cause culturali e sociali di queste forme di violenza.
Alle ore 20 i volontari della A.M.S. proporranno una cena il cui ricavato sarà interamente
devoluto a favore dell’Associazione Telefono donna – Centro Antiviolenza della Provincia
di Savona. Nel corso della serata sarà possibile conoscere l’attività e le azioni svolte
dall’Associazione.
Dalle ore 21,30 il Circolo ARCI Chapeau proporrà lo spettacolo teatrale “Proposta di
Matrimonio 2.0”. Per partecipare è necessaria la prenotazione entro martedì 24/11
telefonando al numero: 019/887180.
“La prevenzione dei gravissimi episodi di violenza e di femminicidio che, purtroppo, si
ripetono sempre più spesso anche a Savona e provincia, è possibile solo attraverso la
consapevolezza che la violenza debba essere combattuta quotidianamente, attraverso
un’azione sociale e culturale collettiva” affermano Valentina Pesce, Presidente
dell’A.M.S.F. Quilianese e Alessio Artico, Presidente Provinciale Arci Savona.
“Questa serata rappresenta un tangibile contributo per favorire questa azione collettiva. Da
un lato, sostenendo finanziariamente l’azione dell’Associazione Telefono Donna, dall’altro
sfruttando il teatro per far riflettere e per condividere dei valori sociali fondamentali.
Speriamo che in molti decidano, con un piccolo gesto come quello della partecipazione a
questa serata, di adoperarsi concretamente per combattere ogni forma di violenza contro
le donne” concludono Pesce e Artico.
Da Estense.com del 23/11/15
Danza, musica e teatro contro la violenza
sulle donne
Al via "La trilogia delle vesti" con uno spettacolo al circolo Bolognesi
Mercoledì 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle
donne, si terrà al circolo Arci Bolognesi di piazzetta S. Nicolò 6, lo spettacolo organizzato
dal Centro Donna Giustizia e Unione Donne in Italia.
Lo spettacolo sarà un mix tra danza, musica e teatro, con la partecipazione di Michele Poli
(Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti), Kitty Vinciguerra (poetessa e scrittrice), Federica
Raminelli e le sue allieve di danza classica (Soul Ballet), con le musiche suonate dal vivo
di Moreau (al secolo Eugenio Squarcia), Eleonora Telloli nell’organizzazione e parte
attoriale, assieme a Giacomo Marighelli col quale ha coordinato l’evento.
Questo sarà il primo dei tre spettacoli in programma, infatti la rassegna prende il nome de
“La trilogia delle vesti” e prevede il secondo spettacolo mercoledì 2 dicembre (riguardo alla
Giornata europea contro la tratta) e mercoledì 16 dicembre (riguardo alla Giornata
mondiale contro la violenza alle sex workers.
Lo spettacolo sarà accompagnato da un buffet etnico. L’inizio è previsto alle 19 e
l’ingresso, ad offerta libera, è riservato ai soci Arci.
http://www.estense.com/?p=496680
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Da BergamoNews del 23/11/15
Il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale contro la violenza
sulle donne. Il maltrattamento delle donne è diventato un problema
sempre più importante da affrontare nel discorso pubblico.
Eliminazione della violenza
contro le donne
Spettacoli, stand e convegni
Il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, una
data importante visti i recenti sviluppi nella società. Sempre più al centro della cronaca, il
maltrattamento delle donne è diventato un problema sempre più importante da affrontare
nel discorso pubblico. Dall'inizio dell'anno sono già 269 le donne che si sono rivolte al
Pronto soccorso perché vittime di violenza, maltrattamenti e percosse.
Si tratta solitamente di giovani donne, tra i 35 e i 48 anni, per il 70% di nazionalità italiana.
Questi e altri dati sono fondamentali per capire la situazione della donna nella società
italiana. Rispetto a questo tema, sul territorio bergamasco si terranno diverse iniziative
volte a sensibilizzare e far riflettere i cittadini di Bergamo.
All'Ipercoop di Treviglio, il Centro Antiviolenza Sportello Donna della Cooperativa Sirio di
Treviglio ha organizzato, per mercoledì 25 novembre, una iniziativa di sensibilizzazione.
Per l'occasione, la panetteria dell'Ipercoop venderà il pane in una confezione speciale con
scritto un messaggio forte: “Per molte donne la violenza è il pane quotidiano. Non
distorgliere lo sguardo” e i riferimenti del Centro Antiviolenza da contattare in caso di
bisogno.
Da venerdì 20 a sabato 28 novembre si terrà invece una mostra, allestita per l'occasione a
Palazzo Frizzoni, chiamata "Donne per le Donne ...tante opere da scoprire e ammirare...",
organizzata dal Consiglio delle Donne del Comune di Bergamo e dell'Arci Bergamo.
La mostra, che presenterà opere realizzate da oltre 20 artiste lombarde, ha l'obiettivo di
contrastare culturalmente la violenza. Dopo il grande successo del primo running flashmob benefico organizzato lo scorso gennaio in 40 città italiane con più di 3.000
partecipanti e quasi 4.000 euro raccolti a favore di più di 20 Onlus che si occupano di
violenza sulle donne, domenica 29 novembre si terrà a Bergamo e a Lecco il “Women in
Run”, un progetto ideato dall'atleta Jennifer Isella con l'obiettivo di creare gruppi di
allenamento gratuiti per consentire alle donne di correre all’aperto in totale sicurezza e
libertà, senza aver più paura.
Quest’anno la raccolta fondi sarà a sostegno del progetto “Nei Panni dell’Altra” di
ActionAid, Charity Partner di Women In Run. Si tratta di un kit ludico-didattico per le scuole
che vuole far riflettere i ragazzi tra i 12 e 15 anni sui diritti delle donne e l’uguaglianza di
genere, in maniera interattiva e stimolante. Le iniziative non si fermano di certo qui: anche
l'Ospedale Papa Giovanni scende in campo con l'Associazione Aiuto Donna nella Giornata
internazionale per l'eliminazione della violenza. Per far riflettere i cittadini bergamaschi su
questo tema e aiutare le vittime, l’Ospedale di Bergamo organizza martedì 24, mercoledì
25 e giovedì 26 novembre in collaborazione con l'Associazione Aiuto Donna, uno stand
informativo che verrà allestito tra torre 1 e torre 2.
A presidiare lo stand dalle 9 alle 15 ci saranno operatori del Pronto soccorso e del
Dipartimento materno-infantile e pediatrico, le studentesse dei Corsi di laurea in ostetricia
e scienze infermieristiche, le tirocinanti in Psicologia clinica e le volontarie
dell’associazione bergamasca che da anni è in prima linea per offrire aiuto alle donne
vittime di molestie, maltrattamenti e violenze di ogni tipo, da quella fisica a quella
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psicologica, fino a quella economica e allo stalking, problema sempre più diffuso. Altre
importanti iniziative hanno avuto luogo nel week-end appena trascorso.
Domenica 22 novembre la zona Contrada di Sarnico è diventata un teatro all'aperto,
grazie all'installazione fotografica contro la violenza sulle donne. Trenta cavalletti con
trenta fotografie di uomini e donne, che uniti, hanno testimoniato il loro no alla violenza di
genere. Proprio nella cittadina lacustre si è dato il via alla settimana contro la violenza
sulle donne. L'associazione @Italia Racconta, insieme alla Pro Loco Sarnico,
all'associazione Sebinia, associazione il Bel Paese, fondazione Conti Calepio, fondazione
Mazzoleni, e con il patrocinio dei Comuni di Azzano San Paolo e Orio al Serio hanno
tagliato il nastro di partenza, rigorosamente rosso per l'occasione, per la mostra itinerante.
Presenti anche volti noti come Micaela Carrara e Ol vava, che hanno prestato il proprio
volto per la campagna, insieme ad altri colleghi. Un messaggio , il loro, che ha sposato
all'unisono gli intenti degli organizzatori.
"Tutte le persone che hanno aderito a questo progetto, e alle quali va il nostro più grande
ringraziamento, - spiega Federica Belotti, vicepresidente dell'associazione
@ItaliaRacconta - hanno messo il cuore oltre che la faccia. Abbiamo cercato di realizzare
ogni singolo scatto con il massimo garbo, grazie alla sensibilità della nostra fotografa
Luana Archetti e all'art director Alfio Martinelli, pensando a chi, sfortunatamente quei lividi
li ha portati sul proprio corpo. Ma la scelta di realizzare un simile percorso è nata proprio
da una mail che abbiamo ricevuto, di una ragazza bergamasca, che ha subito violenza
psicologica e fisica, e che ci scrisse "vedere altre donne, più fortunate di me, mettersi in
prima linea, portando anche solo per poco i segni della violenza, mi avrebbe fatto sentire
meno sola".
Martedì 24 novembre alle 17.30 si terrà lo spettacolo teatrale proposto dall’Associazione
Aiuto Donna–Uscire Dalla Violenza e da Alilò Futuro Anteriore con la compagniaLuna e
L’altra Teatro, che porta sulla scena “Questa casa non è un’azienda” (Teatro alle Grazie
Viale Papa Giovanni XXIII a Bergamo).
"Il 25 novembre è il momento in cui, come Associazione Aiuto Donna, facciamo il punto
delle politiche di contrasto alla violenza di genere che comprendono, oltre alle azioni a
favore e sostegno delle donne vittime di violenza, tutti quei progetti di prevenzione che
favoriscono l’acquisizione di una consapevolezza volta al cambiamento culturale” si legge
in una nota degli organizzatori. “Riteniamo che la denuncia sociale del fenomeno debba
accompagnarsi a un dibattito per comprenderne le origini profonde e le complicità culturali
(…). Questo spettacolo di Luna e l’altra Teatro è particolarmente adatto alle finalità che
perseguiamo perché mette al centro le contraddizioni del presente riletto attraverso un
punto di vista radicato nella vita delle donne”.
Lo spettacolo è organizzato col Patrocinio di Asl di Bergamo/Cgil -Cisl-Uil
Bergamo/Comune di Bergamo–Assessorato alla coesione sociale/Provincia di Bergamo–
Settore Istruzione Formazione Lavoro e Politiche Sociali.
Per venerdì 27 novembre, invece, il Dipartimento Scienze Umane E Sociali dell’Università
di Bergamo, Alilò Futuro Anteriore e Associazione Aiuto Donna–Uscire Dalla Violenza
propongono un convegno dal titolo “Violenza di genere e bullismo omofobico” (Università
di Bergamo, Teatro di Via Tassis, dalle ore 14 alle 19). In questo caso il patrocinio è di Asl
di Bergamo/Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXXIII/Cgil-Cisl-Uil Bergamo/Comune di
Bergamo – Assessorato alla coesione sociale/Provincia di Bergamo – Settore Istruzione
Formazione Lavoro e Politiche Sociali/Rete Lenford – Avvocatura per i Diritti LGBT /
Coordinamento Teologhe Italiane.
Ecco di seguito il programma nel dettaglio:
alle 14.00 - Saluti di Stefano Tomelleri (presidente di corso di laurea in Scienze
Pedagogiche, Università di Bergamo);
10
alle 14.15-15 spettacolo teatrale “Componimento sui generi[s]” (a cura di Alilò futuro
anteriore) (liberamente ispirato alla ricerca pubblicata in Ottaviano, Mentasti Oltre i destini.
Attraversamenti del femminile e del maschile, Ediesse, Roma 2015);
Introduce e coordina Tommaso Giartosio (scrittore e saggista).
Alle 15-15.30 Sara Bonfanti (antropologa, Università di Bergamo) “Che genere di
violenza? Approcci antropologici alla produzione culturale della violenza di genere”;
Alle 15.30-16 Stefano Ciccone (Associazione Maschileplurale) “Violenza e maschile: una
questione di libertà”;
Alle 16.15-16.45 Vittorio Lingiardi (psichiatra e psicoanalista, Sapienza Università di
Roma) “Bullismo omofobico: conoscerlo per combatterlo”;
Alle 16.45-17-15 Stefania Girelli (formatrice e presidente Associazione l’Ombelico) “Le
parole e le idee dei bambini e delle bambine hanno le gambe lunghe - progetti di
prevenzione delle violenze nelle relazioni”;
Alle 17.15-17.45 dibattito con il pubblico;
Alle 17.45-18.15 intervento conclusivo di Tommaso Giartosio.
Durante il pomeriggio verrà presentato il corso di perfezionamento “Violenza di genere e
bullismo: conoscere per agire, educare per prevenire” previsto per i mesi di marzo-giugno
2016 all'Università di Bergamo (direzione scientifica professoressa Cristiana Ottaviano).
La partecipazione all’evento è valevole ai fini delle ore di formazione per i tirocini
curricolari dei corsi di studio in Scienze dell’educazione e Scienze pedagogiche presso
l’Università degli Studi di Bergamo.
Ad entrambe le iniziative aderiscono: ADI-dimensione illudica, Agedo, AIED Bergamo,
Amnesty Bergamo, ARCI Bergamo, Arcigay Bergamo Cives, ArcilesbicaxxBergamo,
Bergamo contro l’Omofobia, Associazione Carcere e Territorio, Isabelle Il capriolo,
Associazione InNOVA, Confcooperative, Consiglio delle Donne, Consorzio RIBES
Bergamo, Cooperativa Impresa sociale Ruah, Coordinamento Enti Locali per la Pace,
Donne in nero, Donne per Bergamo Bergamo per le donne, Emergency, Famiglie
Arcobaleno, Fondazione Serughetti La Porta, Fondazione Zaninoni, La Melarancia onlus,
La mimosa-Associazione culturale onlus, Lab 80, Se non ora quando? Bergamo,
Soroptimist International Club Bergamo, Tavola della Pace Bergamo, Tavolo permanente
contro l’omofobia del Comune di Bergamo, UISP-Unione Italiana Sport per Tutti Comitato
territoriale di Bergamo.
Luca Bonaiti
http://www.bergamonews.it/cronaca/eliminazione-della-violenza-contro-le-donne-conspettacoli-e-convegni-210302
Da Popolis del 23/11/15
No alla violenza: La triologia dell’AmorTe
Verona – Mercoledì 25 novembre, alle ore 21, Casa Shakespeare ospita la
contemporanea internazionale contro la violenza sulle donne: “La triologia dell’AmorTe”.
Trilogia dell'AmorTe Lo spettacolo, scritto da Francesco Olivieri per la giornata
internazionale contro la violenza sulle donne, è una produzione MAMAdanzateatro con
Maria Giuliana Gardoni e la regia di Massimo Totola.
La Trilogia dell’AmorTe è un progetto contro la violenza sulle donne a cui Francesco
Olivieri tiene in modo particolare. Ha scritto tre testi teatrali contro la violenza sulle donne,
perché vuole affrontare questa tematica a tutto tondo, evitando per quanto possibile la
retorica. Ha scelto di realizzare questi reading sparsi su tutto il territorio nazionale,
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soprattutto nelle carceri e nei centri antiviolenza, perché crede che sia lì che ci sia maggior
bisogno.
Usando il sarcasmo, l’ironia, ne escono comunque tre quadri tragici, in cui nessuno è
vincente e nessuno è realmente colpevole o innocente. Siamo umani, siamo fatti di
relazioni umane. Quello che serve è dialogare, confrontarsi, interagire, senza la
presunzione del “Io ho capito tutto dalla vita, io non sono un violento e assassino”, ma
appunto, cercare di comprendere che questo fenomeno che si manifesta ogni giorno a
pochi metri da noi, fa parte di noi.
Lo spettacolo inizia alle ore 21 nello Spazio Off CANTINA SHAKESPEARE, alle 20.15 per
chi lo desidera è disponibile la degustazione, al costo di 7 €, di specialità del Panificio De
Rossi abbinate ai vini delle Cantine veronesi.
Il costo dell’ingresso è di € 5 e comprende il contributo per lo spettacolo e € 2 per la
tessera associativa di Casa Shakespeare.
_____________________________
L’Associazione Culturale MAMAdanzateatro nasce nel 1999, con lo scopo di divulgare,
attraverso Corsi, Stage, Rappresentazioni… un atteggiamento rispetto al fare arte di critica
e di ricerca, in rapporto principalmente con il proprio sentire, lontano da schemi
precostituiti e più vicino al gesto puro, semplice. Partendo dal nostro vissuto, le emozioni,
sottoforma di gesto, parola e immagine, vengono filtrati attraverso la tecnica ed espressi
così nell’atto creativo. Non che cosa fare, ma come e perché nasce l’esigenza, il bisogno
di esprimersi per raccontare a noi stessi e agli altri ciò che siamo, che vogliamo.
Dal 2012 l’adesione all’ARCI vuol essere un modo per allargare gli orizzonti e le mete del
nostro continuo viaggiare, permettendoci un riconoscimento a livello nazionale più ampio,
di avere utili strumenti burocratici tecnici e legali, di crescere insieme a nuove realtà dal
punto di vista umano, sociale, culturale e artistico. Per questo l’associazione NUOVO
MAMAdanzateatro si riconosce nell’identità e nello statuto dell’ARCI, soprattutto nella
volontà di costruire, attraverso appunto una partecipazione allargata e democratica, un
luogo fisico, ma soprattutto mentale libero, indipendente, di condivisione, crescita e
solidarietà.
http://www.popolis.it/no-alla-violenza-la-triologia-dellamorte/
Da Pescara News del 23/11/15
Sabato 28 novembre serata contro la
violenza di genere: "Universo Donna Voci dall'Anima Femminile"
| di Doriana Roio
Sabato 28 novembre, in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle
donne, con il patrocinio dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Pescara, verrà
proposta "Universo Donna - Voci dall'Anima Femminile", una serata di sensibilizzazione al
fenomeno della violenza di genere attraverso la molteplicità delle espressioni dell'animo
femminile.
L'iniziativa è nata dall'incontro della poetessa Maria Grazia Di Biagio, della scrittrice Lucia
Guida e della psicologa/psicoterapeuta Chiara Mastrantonio che hanno deciso di
coinvolgere la pittrice Vilma Maiocco e Ludovica Lufino, maestra di danze orientali, al fine
di BASTA alla violenza sulle donne attraverso l'arte e la conoscenza: un viaggio tra poesie
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e racconti, tra i colori dell'arte pittorica, la musica e la danza orientale con una lettura
psicologica di quel che accade nell'anima della donna vittima di violenza.
La serata inizierà alle 21.00 e si svolgerà nell'accogliente cornice del Babilonia Circolo
Arci, Via Campobasso 13 - Pescara.
http://www.pescaranews.net/notizie/varie/10811/sabato-28-novembre-serata-contro-laviolenza-di-genere-universo-donna---voci-dallanima-femminile
Da Genova Today del 23/11/15
Terre di musica: viaggio tra i beni confiscati
alla mafia
Martedì 24 novembre alle 17,30, presso la Biblioteca Universitaria di Genova di via Balbi
40, si presenterà il libro e film "Terre di musica. Viaggio tra i beni confiscati alla mafia", un
progetto realizzato dal gruppo musicale "Il Parto delle Nuvole Pesanti" per la regia di
Salvatore De Siena e Massimo Falsetta, con la collaborazione di Libera e Arci, pubblicato
da Editrice Zona.
Con lo slogan "fuori la mafia, dentro la musica", Salvatore De Siena e Il Parto delle Nuvole
Pesanti hanno raccolto in questo progetto sociale, culturale e musicale la loro voglia di
conoscere i beni confiscati alle mafie e restituiti alla collettività, attraversando le tante
realtà che in Italia sono attive e che lavorano nei campi e nelle aziende che sono nate
dalla riassegnazione di questi beni.
La presentazione si svolge all'interno delle iniziative organizzate dall'Associazione Genova
Voci, con la presenza di Salvatore De Siena, che illustrerà il progetto musicale del gruppo
del quale è leader, appunto Il Parto delle Nuvole Pesanti. Ne parlerà con Piero
Cademartori di Editrice Zona e tra i fondatori di Genova Voci e durante la presentazione
verranno proiettati alcuni stralci del film in dvd che correda il libro e del quale Salvatore De
Siena è regista.
http://www.genovatoday.it/eventi/cultura/beni-confiscati-mafia.html
Da JobsNews del 23/11/15
Il lavoro può dare un colpo alle mafie.
Convegno a Palermo della Camera del Lavoro
“È la prima volta da quindici anni che una legge di iniziativa popolare viene discussa e
approvata da un ramo del Parlamento, riconoscendo il ruolo e il valore
dell’associazionismo democratico”. La legge in questione è la 1138, “impropriamente
definita da alcuni ‘norma Saguto’ – come sottolinea il segretario della Cgil di Palermo,
Enzo Campo – ma che nasce in realtà da una proposta di legge di iniziativa popolare per
la quale la Cgil ha raccolto le firme in tutta Italia assieme ad Acli, Arci, Avviso pubblico,
Centro studi Pio La Torre, Legacoop, Libera e Sos impresa”. E proprio a Palermo, la
Camera del Lavoro ha organizzato, un’iniziativa dal titolo: “Contro le mafie riattiviamo il
lavoro. Dalla proposta popolare alla legge nazionale”. La discussione sul provvedimento,
che riforma il Codice antimafia, è stata presieduta da Mimma Argurio, della segreteria Cgil
Sicilia, mentre l’introduzione è stata affidata al segretario della Cgil di Palermo, Enzo
Campo. Ai lavori hanno partecipato Pietro Grillo, presidente della sezione misure di
prevenzione del Tribunale di Trapani, Davide Mattiello, relatore della legge d’iniziativa
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popolare “Io riattivo il lavoro”, il segretario Cgil Sicilia Michele Pagliaro, delegati e delegate
di aziende confiscate. Conclude Gianna Fracassi, segretaria confederale Cgil.
“Questa legge è frutto dell’azione del sindacato e della comunità di associazioni che ha
partecipato alla campagna – ha detto Enzo Campo –. Le motivazioni che ci hanno portato
a raccogliere nel giugno 2013 120mila firme in Italia, delle quali 12 mila a Palermo e 25
mila in tutta la Sicilia, sono diventate evidenti, anche alla luce delle note vicende che
hanno interessato il Tribunale misure di prevenzione di Palermo. In tal senso, l’iniziativa
del sindacato vuole costituire un momento di riflessione e dibattito a più voci. Saranno
presenti magistrati, il relatore del disegno di legge, i lavoratori di alcune aziende
confiscate. Poi abbiamo invitato le associazioni promotrici e don Francesco Michele
Stabile, simbolo della Chiesa impegnata contro la mafia, che ha dato voce alla voglia di
riscatto della gente di Bagheria, ed è stato vicino alle nostre iniziative, a sostegno di
“Gelato in”. Per questo, abbiamo scelto Bagheria, in quanto è un luogo simbolo, dove c’è
anche Ati Group, l’azienda confiscata a Michele Aiello”.
“La Cgil, nella sua lunga storia – ha detto ancora Campo – ha pagato un prezzo di sangue
altissimo nel contrastare la mafia e il suo sistema di potere, a partire dalle battaglie fatte
per l’assegnazione delle terre e per il lavoro a quelle per conquistare più diritti e
democrazia, dentro e fuori le fabbriche. Noi siamo figli e prosecutori di quelle lotte, che
hanno avuto come protagonisti Orcel, Verro, Carnevale, Rizzotto, La Torre e tanti altri.
Questa storia diventa legge proprio con Pio La Torre, sindacalista e uomo politico,
consentendo a magistrati, poliziotti e carabinieri di ottenere finalmente risultati positivi nella
guerra ai clan con la sottrazione dei patrimoni mafiosi”.
“Auspichiamo che questa norma riceva al più presto il via libera anche dal Senato –
aggiungono il segretario della Cgil Sicilia, Michele Pagliaro e Mimma Argurio, della
segreteria regionale Cgil –. La riforma fa propri molti contenuti della nostra proposta, che
la qualificano come un importante passo avanti nella gestione dei beni sequestrati e
confiscati e nella lotta contro la mafia. Tra questi, c’è la creazione del fondo di garanzia,
che consente alle aziende di restare sul mercato e di tutelare i lavoratori. E poi la norma
che vieta il cumulo degli incarichi; quella che vieta la nomina ad amministratori giudiziari di
parenti e amici dei giudici; la creazione dell’albo degli amministratori, e il passaggio
dell’Agenzia dei beni confiscati sotto il diretto controllo della Presidenza del Consiglio.
Sono risposte alla battaglia che portiamo avanti da anni – proseguono i due sindacalisti –
per la trasparenza, il rilancio delle aziende nella legalità e la tutela dei lavoratori coinvolti.
Non è certo stata l’esplosione della vicenda Saguto a farci accorgere che le cose non
funzionavano: da tempo, c’erano tutti gli elementi affinché si giungesse prima a questo
risultato, che auspichiamo abbia al più presto anche il suggello del Senato”.
http://www.jobsnews.it/2015/11/il-lavoro-puo-dare-un-colpo-alle-mafie-convegno-apalermo-della-camera-del-lavoro/
Da Newz.it del 23/11/15
Due eventi contro le mafie: “Da Casal di
Principe a Reggio Calabria, un nuovo patto
per la Rinascita”
Reggio Calabria. Il 26 novembre alle ore 11.00 presso il Consiglio Regionale della
Calabria Sala “Federica Monteleone” (Via Cardinale Portanova, Reggio Calabria) si
svolgerà un incontro pubblico che avrà come tema: “La testimonianza e la narrazione di
una rivoluzione pacifica: vincere Gomorra con la cultura e il recupero della reputazione,
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Casal di Principe ospita gli Uffizi”. Fino al prossimo 13 dicembre inoltre sarà possibile
visitare la mostra “La luce vince l’ombra. Gli Uffizi a Casal di Principe”, curata da Antonio
Natali, Fabrizio Vona e Marta Onali. L’esposizione è prodotta e organizzata da First Social
Life e rappresenta il primo caso in Europa di start up culturale in un bene confiscato alla
camorra, la villa di un boss, Egidio Coppola, è diventata un museo all’avanguardia. In
collaborazione con l’amministrazione di Casal di Principe e con il Comitato don Peppe
Diana, First Social Life ha realizzato il primo caso di “lobby etica” a sostegno del progetto
R_Rinascita, cooperazione, fondazioni, imprese, insieme per dimostrare che al Sud è
possibile vincere la sfida culturale di promozione della fiducia economica. A Reggio
Calabria saranno presenti i protagonisti di questa avventura sociale vincente, disponibili a
chiedere alle diverse realtà calabresi il sostegno per proseguire insieme il percorso di
liberazione dalle mafie. “La comunità calabrese è stanca di ‘ndrangheta e sopratutto non
vuole più accettare l’economia del ricatto. In questi anni la magistratura, le forze
dell’ordine, il mondo del lavoro, hanno operato per liberare la Calabria, associazioni e
imprese perbene quotidianamente reagiscono al sistema clientelare dei clan. Da tempo
siamo impegnati nella lotta alle mafie, ma al contempo siamo convinti che occorra voltare
pagina e proibire i proclami vuoti delle dichiarazioni di circostanza: serve un nuovo patto
sociale per la cultura e il lavoro, un accordo di produzione e di azione verso una nuova
stagione di fiducia economica nei confronti delle comunità più impegnate. Reggio Calabria
è un simbolo, come lo è Casal di Principe, per ragioni ovviamente molto simili, ma occorre
andare più un profondità e recuperare insieme la radice di libertà e testardaggine tipica del
popolo di Calabria, magari attraverso la cultura e la promozione della responsabilità
sociale”, così i responsabili di First Social Life curatori del progetto complessivo, Giacinto
Palladino e Alessandro de Lisi. Altro aspetto importante è l’impegno di oltre ottanta giovani
casalesi “gli Ambasciatori e le Ambasciatrici della Rinascita”, che in questi mesi accolgono
i visitatori e narrano da protagonisti la rivoluzione della reputazione che stanno
costruendo. All’incontro pubblico saranno presenti Davide Grilletto, Presidente Arci Reggio
Calabria, Romina Arena, Stop ‘ndrangheta, Giuseppe Toscano, Presidente Associazione
Pro Pentedattilo, Tina Ascanelli, First Social Life / Calabria, con Antonella Caterino,
Ambasciatrice della Rinascita, Marta Onali, curatrice (con Antonio Natali e Fabrizio Vona)
dell’esposizione “La luce vince l’ombra – gli Uffizi a Casal di Principe” e Alessandro de
Lisi, direttore cultura First Social Life / R_Rinascita. Condurrà gli interventi Giuseppe
Toscano, giornalista de La Gazzetta del Sud.
http://www.newz.it/2015/11/23/due-eventi-contro-le-mafie-da-casal-di-principe-a-reggiocalabria-un-nuovo-patto-per-la-rinascita/242697/
Da CinemaItaliano.info del 24/11/15
TFF OFF 5 - Incontro con Peter Marcias
Martedì 24 novembre dalle 17:00 alle 18:00, presso ARCI Torino, il regista Peter Marcias
racconterà il suo debutto cinematografico: "Un Attimo Sospesi".
Girato a Roma e uscito nelle sale italiane nel 2008 con grande accoglienza da parte della
critica, la pellicola vede tra gli interpreti Paolo Bonacelli, Nino Frassica, Rosario Lisma e
Fiorenza Tessari. Partendo dall’omonimo corto (che verrà proiettato) sarà presentata
l’uscita dvd di febbraio 2016 con Cecchi Gori Home Video, ricca di contenuti speciali.
Nel corso dell’incontro verrà proiettato il trailer del nuovo corto d’animazione Il mio cane si
chiama Vento realizzato nell’ambito del progetto Heroes 20.20.20 curato dalla Fondazione
Sardegna Film Commission.
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Si proseguirà, insieme all’attore protagonista Moisè Curia, illustrando i nuovi eventi
nazionali e internazionali del film "La Nostra Quarantena" uscito nelle sale distribuito da
Cinecittà Luce lo scorso 1 ottobre.
Interverranno: Jacopo Chessa (Direttore del Centro Nazionale del Cortometraggio), Moisè
Curia (attore), Cosimo Santoro (CEO The Open Reel, World Sales), Peter Marcias
(regista)
http://www.cinemaitaliano.info/news/33324/tff-off-5-incontro-con-peter-marcias.html
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ESTERI
del 24/11/15, pag. 1/5
No a un regime di «semi-libertà»
Massimo Villone
Dopo Parigi, le strade deserte di Bruxelles ci pongono con drammatica evidenza la
domanda se la libertà sia un giusto prezzo per la sicurezza.
La Francia ha affrontato la questione con la legge 2015–1501 del 20 novembre, che ha
approvato la proroga dello stato di emergenza dichiarato dal governo il 14 novembre, con
modifiche e integrazioni («renforçant l’efficacité») della legge 55–385 del 1955 che
disciplina lo stato di emergenza.
Per tre mesi si applicano pesanti limitazioni ai diritti e alle libertà, con provvedimenti
adottati dalle autorità amministrative e senza intervento del giudice. Fa impressione che in
forza di generici richiami all’ordine pubblico e alla sicurezza ministro dell’interno e prefetti
possano disporre domicili coatti, arresti domiciliari, accompagnamenti, divieti di contatto
con persone individuate, ritiro del passaporto, divieti di circolazione, di assemblea, di
riunione, scioglimenti di associazioni (misura che sopravvive alla cessazione
dell’emergenza).
Si può dubitare che un arsenale così imponente sia conforme alla Costituzione. Ma era già
presente nella originaria legge del 1955, e nel 1985 fu portato al vaglio del Conseil
constitutionnel dai parlamentari dell’opposizione, con la legge di proroga dello stato di
emergenza dichiarato per la Nuova Caledonia. Si eccepiva la mancanza di un fondamento
costituzionale, richiamando la Costituzione solo lo stato d’assedio. Con la decisione 85–
187 DC del 25.01.1985 il Conseil diede disco verde con ampia formula.
Oggi si aggiunge la possibilità di perquisizioni a qualunque ora del giorno o della notte in
ogni luogo, incluso il domicilio, quando esistono «ragioni serie di pensare che il luogo sia
frequentato da persona il cui comportamento costituisce una minaccia per la sicurezza e
l’ordine pubblico» (art. 11, come modificato).
Per vedersi invasi, potrebbe bastare un amico di famiglia in contatto epistolare o sui social
con persona sospetta. Rimangono esclusi solo i luoghi «affecté à l’exercice» di un
mandato parlamentare, o dell’attività professionale di avvocati, magistrati e giornalisti. La
perquisizione consente la copia integrale delle memorie di cellulari, computer e apparecchi
connessi, anche in remoto.
È una previsione da grande fratello. Ma è improbabile che ne venga rovesciato il giudizio
di conformità dato dal Conseil nel 1985, se vi si giungerà.
In apparente controtendenza è la soppressione dei controlli sulla stampa e l’informazione
previsti nella legge 55–385.
Ma si cancella uno strumento perché non serve. La voce dei terroristi passa oggi non per i
tradizionali mezzi di comunicazione ma per i più sofisticati strumenti tecnologici e del
mondo virtuale. E la Francia del dopo Charlie Hebdo ha già adottato sull’informazione la
legge 912 del 24 luglio 2015, fortemente restrittiva. Si va dai dispositivi di ascolto, alla
vigilanza e chiusura di siti Internet, alla installazione presso i gestori di «scatole nere» che
filtrano ogni comunicazione.
Anche qui, senza intervento del giudice.
Una legge volta non solo a combattere il terrorismo, ma a tutelare un ampio spettro di
interessi strategici (v. art. 2). Solo per pochi limitati profili il Conseil constitutionnel ne ha
dichiarato l’incostituzionalità (dec. 2015–713 DC del 23.07.2015). Mentre sono risuonate
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dure accuse di spionaggio di massa sul modello «Patriot Act» e NSA, e di radicale
incostituzionalità.
Deve far riflettere che invece la legge sull’emergenza passi oggi nel sostanziale silenzio di
critiche e dissensi e con ampio favore dell’opinione pubblica.
Su tutto vince la domanda di sicurezza.
Un vento analogo soffia in Italia.
Nei sondaggi cresce il numero di chi accetterebbe uno scambio tra diritti e sicurezza. È
una tendenza comprensibile, ma pericolosa. Tutti affermano di voler mantenere il nostro
modello di vita. Ma la garanzia di diritti e libertà è la rete invisibile che rende quel modello
possibile e vitale.
Sappiamo che nessuno è a rischio zero.
Ma dobbiamo dire con forza che in Italia una legge come quella francese sull’emergenza
sarebbe incostituzionale. Ne verrebbero violate la riserva di legge e la riserva di
giurisdizione. Garanzie essenziali per cui i poteri del governo e delle autorità
amministrative rimangono in ogni caso precisamente limitati, sia nel formulare le regole,
sia nell’applicarle.
Deve essere l’assemblea elettiva a consentire alle limitazioni di libertà e diritti; dev’essere
il giudice – autonomo, indipendente, imparziale — a valutare i concreti provvedimenti
limitativi.
Questo discrimine costituzionale tra legalità e arbitrio va mantenuto. Si può – e dunque si
deve — rispettarlo senza affatto sminuire l’efficacia dell’intelligence.
La storia del nostro paese ha già conosciuto tensioni su diritti e libertà. Per le leggi sul
terrorismo interno, sulle misure di prevenzione, sulla violenza negli stadi. La Corte
costituzionale ha complessivamente assolto la legislazione, e si può dire che ha tenuto
ferma la barra del timone. Dobbiamo rimanere in rotta.
Per tre mesi la Francia è un paese sotto tutela. Un paese di sospettati. Poi si vedrà. In
Assemblea Nazionale è stato suggerito che il régime d’exception diventi un droit commun:
un diritto ordinario dell’emergenza, perché la minaccia durerà oltre il termine della proroga
concessa. È molto probabile.
Ma non dimentichiamo che può essere facile assuefarsi a un regime di semilibertà.
del 24/11/15, pag. 4
Scuole chiuse e trasporti fermi
Bruxelles resta una città blindata
Almeno fino a lunedì continua il coprifuoco per minacce “serie e
immediate” Rilasciati 17 dei 21 fermati durante i blitz. Ma c’è un arresto
per gli attacchi di Parigi
Marco Zatterin
Sarà un’altra pesante giornata di sospensione, senza scuole e senza trasporti veloci.
L’Ocam, l’agenzia nazionale della sicurezza belga, ritiene che la minaccia di attentati
terroristici a Bruxelles continui a essere «seria e immediata», pertanto l’allerta deve
restare al massimo, al «livello 4». La grande retata di domenica notte non pare aver dato i
frutti attesi, ben 17 dei 21 fermati sono stati rilasciati, uno solo è stato incriminato in
relazione agli attacchi di Parigi. Vuol dire che, oltre al super ricercato Salah Abdeslam, c’è
ancora in circolazione un numero rilevante di attentatori pronti a colpire.
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«Non sono decisioni che si prendono a cuor leggero», ha ammesso il premier Charles
Michel. Però, data la situazione, il governo non ha avuto scelta se non confermare nella
capitale europea il coprifuoco in corso da sabato.
Lo stato di emergenza continuerà sino a lunedì, «con verifiche quotidiane», fa sapere
l’esecutivo. È un modo per creare una prospettiva temporale e tentare, nel frattempo, di
ricondurre «gradualmente» la città verso una normalità che sembra già lontanissima. Il
liberale Michel ribadisce che, come accaduto a Parigi, sono nel mirino gli spazi affollati, i
centri commerciali, i cinema, in generale gli eventi pubblici. Annuncia comunque che da
domani le scuole e la metropolitana potranno aprire le porte «in modo progressivo». Le
ventiquattro ore in più serviranno alle autorità per organizzare la difesa degli istituti, e per
mettere in campo nuove forze oltre i mille soldati schierati con la polizia a proteggere il
«Forte Bruxelles».
Tra presidi e raid
Ci ha messo tre ore per decidere, l’Ocam. L’attesa è stata il manifesto di una giornata
complessa, di voci e di smentite. Si sono riuniti anche i sindaci dei diciannove Comuni che
formano la regione di Bruxelles Capitale. A un certo punto è stato detto stamane che gli
asili e alcune scuole avrebbero potuto ospitare nuovamente gli allievi. «Comunicazione
errata», si sono affrettate a dire le autorità. I sindaci invocano altri 288 poliziotti per
sorvegliare 745 «crèche», scuole e licei. È a questo che lavora il governo. Più «scarponi»
nel nome di una vita più ordinaria.
I raid delle forze dell’ordine sono continuati. Da domenica sono state perquisite 29
abitazioni, 24 nella regione Bruxelles, 3 vicino a Charleroi, 2 nei pressi di Liegi. Non sono
state trovate armi o esplosivi. Poco per rincuorare una popolazione messa alla prova
dall’incertezza, costretta a riscrivere la vita senza cinema e Ikea, a vedersela con un
traffico bestiale, a fare meno della metro e a tenere i figli a casa.
Sabato i negozi del centro hanno registrato oltre il 50% di viste in meno. «La gente non ha
paura - ha detto il sindaco di Molenbeek, Françoise Schepmans -, la gente è inquieta». E
confusa, a questo, viene da aggiungere.
Del 24/11/2015, pag. 7
L’ossessione della guerra in casa: “Mamma,
ora è peggio di Charlie”
Compassione, tristezza. Dieci giorni dopo gli attentati, l’emozione non passa. Vivo con
l’uomo che dirige gli ospedali di Parigi. E non riesco a levarmi dalla testa quel week end di
orrore, in cui vedevo arrivare messaggi atroci. Mio figlio, mia sorella… sono per caso in
una delle vostre strutture? Quanti no per un sì? Quanta disperazione dietro ogni sms. E
poi, ore dopo, ne arriva uno nuovo. Hanno trovato il corpo di Valentin, ucciso al Bataclan.
Aveva 17 anni. È insopportabile. Voi non siete liberi di essere liberi, ci dicono gli assassini.
Avevano scelto i loro bersagli. Caffè, sala da concerto, stadio. Perché bere, cantare,
suonare, godere il tepore della notte, all’aperto, in un caffè… tutto questo per loro è
insopportabile. Perché pensare e credere (o non credere) liberamente, è per loro
insopportabile.
L’ironia è che questa settimana dovevo essere in Bangladesh, al festival letterario di
Dhaka. Lì, alcuni giovani coraggiosi si battono perché possa sopravvivere un festival
19
cosmolpolita, aperto. Da quando sono stati assassinati dei bloggers, molti occidentali
hanno rinunciato. “Non andare. Dhaka è pericolosa”, mi hanno detto. Alla fine, è a Parigi
che il sangue si è sparso. Un’amica bengalese mi scrive stamattina: “Il cancro del
fanatismo si espande. Ed è lo stesso ovunque. E non pensate che noi musulmani
soffriamo meno di voi. L’Is ha ucciso nel mondo più musulmani che non musulmani”.
Faccio leggere questa mail a mia figlia Mathilde. Aggrotta le sopracciglia. “Comunque in
questo caso non sono mica loro le vittime”. Le dico che bisogna stare attenti a non
confondere i piani. Le ricordo quello che la civiltà araba ha portato alla filosofia, alla
trigonometria e alla matematica. Sento che l’imam di Bordeaux sta facendo la stessa cosa
alla radio. Ma ho l’impressione che questi discorsi siano sempre più difficili da tenere. “Ce
l’avevate già detto per Charlie”, mi risponde. “Ma come vedete i buoni sentimenti non
risolvono niente”. Dopo gennaio, diverse moschee sono state incendiate. E c’è da temere
che arrivino altre violenze. L’esasperazione si sta estendendo. E non solo fra gli elettori
del Front National. Ma anche all’interno della nuova generazione.
Dei giovani che si identificano con le vittime e che hanno già cominciato a chiamare “la
generazione Bataclan”. Questo sentimento cresce ancora di più perché affonda le sue
radici in una solida tradizione francese di islamofobia. Come se ogni periodo avesse
bisogno dei suoi capri espiatori e questo – dopo protestanti e ebrei – è il turno dei
musulmani per essere discriminati.
Mathilde è la prima ad ammetterlo. Nella classe in cui lei si preparava a entrare nelle
grandes écoles non c’era nessuno studente di origine musulmana. A lezione, sentiva
parlare di Spinoza o di Verlaine, ma quasi mai di Averroès o di Mahmoud Darwich. E
chissà come sono stati reticenti, come sempre in Francia, sulla guerra in Algeria.
Nousheen dice: “Obama ha ragione a dire che questo attacco contro la Francia è un
attacco contro l’umanità e i suoi valori. Ma i civili morti in Libano, in Pakistan o in Palestina
non rappresentano anche loro un attacco contro l’umanità? Quest’anno, Al Shabab ha
bombardato un’università in Kenya. 147 morti. Musulmani. E la stampa francese ne ha
parlato?”. Questa idea che si usano pesi e misure diverse è molto sentita fra i musulmani
francesi e in tutto il mondo arabo. Ma chi la prende in considerazione? Chi se ne
preoccupa davvero? Una nuova pericolosa confusione sta nascendo fra terroristi e
migranti. Ci ripetono che siamo in guerra. Come se la Francia – quella che voleva ridere e
cantare – fosse trascinata sempre più in una spirale di intolleranza bellicosa. Quindi resa
sempre meno democratica. Secondo un sondaggio pubblicato dal Figaro, il 67% dei
francesi si dice pronto ad accettare un governo non democratico se capace di far partire le
riforme necessarie. Il 40% si dichiara disposto addirittura a sostenere un regime autoritario
non eletto. E la cosa inquietante di questo sondaggio è che è stato pubblicato prima degli
attentati. “Mamma, anche tu vedi che siamo entrati in una nuova fase”, dice Mathilde. “È
la prima volta che dei kamikaze agiscono in Francia. Non erano degli isolati, c’è
un’organizzazione complessa dietro. Non hanno mirato a un simbolo, ma alla gente. È un
modus operandi tipico in una situazione di guerra”. È vero. È probabilmente questa la cosa
che turba di più. Questi fanatici sono oltre rispetto a quelli che miravano a Charlie.
Sembrano in preda a una pulsione omicida ormai staccata da qualsiasi causa.
Un’ossessione che gira su se stessa e si autoalimenta.
In settembre, ho pubblicato un romanzo sull’ossessione. Volevo capire quali meccanismi
cerebrali sono all’opera quando un individuo è sotto l’influenza di qualcosa – di una
patologia, di un’ideologia, di un fanatismo religioso. Dei neuroscienziati mi hanno spiegato
che il processo mentale è paragonabile a quello dei disturbi ossessivi compulsivi. Un
pensiero che va in loop nella testa del malato. È un pensiero spesso assurdo da un punto
di vista razionale ma che per lui è la verità. E di questa “verità” il malato ha bisogno. Dà
senso alla sua vita. Ci si aggrappa. Lui non vuole assolutamente guarire.
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La sera degli attentati, Mathilde ha visto in rue de Rivoli, quattro giovani magrebini in
macchina che cantavano e si dirigevano verso gli Champs-Elysées per brindare a
champagne. Questa immagine l’ha profondamente scossa. Aveva di fianco a lei, al
semaforo, dei ragazzi della sua età, una “anti-generazione Bataclan” che si rallegrava.
E che le bombe, senza dubbio, renderanno ancora più determinata. Perché porteranno
immancabilmente al meccanismo fin troppo conosciuto della rappresaglia e della
rappresaglia della rappresaglia. Una trappola – voluta dall’Is (Daech)? – che, lo sappiamo,
per noi rischia di diventare una palude in cui sprofondare.
* Florence Noiville è scrittrice e giornalista di Le Monde. Fra i suoi ultimi romanzi “La
donazione” e “Questa sottile affinità” (Garzanti). “L’Illusion délirante d’être aimée” uscirà,
sempre per Garzanti, nel 2016
Del 24/11/2015, pag. 14
Giorgio Agamben.
Il filosofo critica la decisione di Hollande di modificare la Costituzione
“È pericoloso accettare qualsiasi limitazione
della libertà in nome della sicurezza”
“Perché lo stato di emergenza non può
essere permanente”
MARIE RICHEUX
Questo testo è un estratto dell’intervista rilasciata da Giorgio Agamben a France Culture,
la radio pubblica francese, che ha mandato in onda uno speciale sulla strage del 13
novembre e sulla rezione del governo invitando il filosofo a riflettere su questo tema in
particolare: “ Francois Hollande ha proposto di modificare la Costituzione cambiando
durata e modalità dello “ stato di emergenza” per rispondere al meglio al “ terrorismo di
guerra”.
«Lo stato di emergenza non è un scudo per lo stato di diritto come ha detto qualcuno. La
storia insegna che è vero esattamente il contrario. Tutti dovrebbero sapere che è proprio
lo stato di emergenza previsto dall’articolo 48 della Repubblica di Weimar che ha
permesso ad Hitler di stabilire e mantenere il regime nazista, dichiarando immediatamente
dopo la sua nomina a Cancelliere uno stato di eccezione che non fu mai revocato. Quando
oggi ci si stupisce che si siano potuto commettere in Germania tali crimini, si dimentica
che non si trattava di crimini, che era tutto perfettamente legale, perché la Germania era in
stato di eccezione e le libertà individuali erano sospese. Perché lo stesso scenario non
potrebbe ripetersi in Francia? Quello che voglio dire è che, com’ è avvenuto in Germania,
un partito di estrema destra potrebbe domani servirsi dello stato di emergenza introdotto
dalla socialdemocrazia.
Bisognerebbe riflettere sulla nozione di sicurezza, che oggi si sta sostituendo a ogni altro
concetto politico... La gente deve capire che la sicurezza di cui si parla tanto non serve a
prevenire le cause, ma a governare gli effetti. E’ quel che avviene col terrorismo.
I dispositivi biometrici di sicurezza, che sono state inventati in Francia da Bertillon nel XIX
secolo, erano pensati per i “recidivisti”, servivano cioè a impedire un secondo colpo. Ma il
terrorismo è una serie di primi colpi, che è impossibile prevenire. Ciò che dobbiamo capire
è che le ragioni di sicurezza non sono rivolte alla prevenzione dei delitti, ma a stabilire un
nuovo modello di governo degli uomini, un nuovo modello di Stato, che i politologi
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americani chiamano appunto “security State”, stato di sicurezza. Di questo Stato, che sta
prendendo ovunque il posto delle democrazie parlamentari, sappiamo poco, ma
sicuramente non è uno Stato di diritto, è piuttosto uno stato di controlli sempre più
generalizzati. È uno Stato in cui, come avviene oggi, la partecipazione dei cittadini alla
politica si riduce drasticamente e il cittadino, di cui si pretende di garantire la sicurezza, è
trattato nello stesso tempo come un terrorista in potenza...
Lo stato di emergenza è qualcosa che esiste da molto tempo, ma è sempre stato pensato
come una misura provvisoria, per fronteggiare un evento specifico limitato nel tempo al
quale si rispondeva con misure limitate nel tempo... Nello Stato di sicurezza, il patto
sociale cambia di natura e degli uomini che vengono mantenuti sotto la pressione della
paura sono pronti ad accettare qualunque limitazione delle libertà».
«Hollande ha detto che la Francia è in guerra, ma il terrorismo non è esattamente la
stessa cosa della guerra. Siamo in guerra, ma contro chi? Perché vi sia una guerra, è
necessario che vi sia un nemico chiaramente identificabile. Nel terrorismo, la figura del
nemico si indetermina e diventa fluida, il terrorismo è per definizione una nebulosa, dentro
la quale agiscono attori di ogni genere, compresi in prima fila i servizi segreti di stati con
cui si intrattengono relazioni amichevoli.
Dire che la Francia è in guerra contro il terrorismo equivale a dire che è in guerra contro
un nemico che non si conosce e che potrebbe essere chiunque. Non è con lo stato di
eccezione e con i dispositivi di sicurezza che si può combattere il terrorismo, ma con un
cambiamento radicale della politica estera, per esempio, cessando di vendere armi e di
avere rapporti privilegiati con gli stati che direttamente o indirettamente alimentano il
terrorismo».
del 24/11/15, pag. 5
E in un cestino a Parigi trovata la cintura
esplosiva del fuggitivo Abdeslam
Per gli 007 l’uomo più ricercato d’Europa sarebbe a Molenbeek È stata
intercettata una sua chiamata agli amici su Skype
Niccolò Zancan
La televisione al primo piano è accesa, Place Communale Gemeente numero 30.
Mohamed Abdeslam, il fratello dell’uomo più ricercato del mondo, sorride per sfinimento
alla porta: «Salah deve arrendersi. L’ho già detto e lo ripeto ancora. Ma adesso basta, mio
padre e mia madre sono molto malati. Stiamo soffrendo tantissimo».
Vedere le cose da vicino fa sempre un effetto diverso. Questo è Molenbeek, cioè questa è
Bruxelles, la capitale d’Europa. Dalla stazione a casa Abdeslam servono dieci minuti di
taxi. Negozi di vestiti arabi, mandorle e datteri, tutto dentro a un ordine perfetto. C’è il
commissariato di polizia dalla parte opposta della piazza. I cameramen si dividono su due
fronti: la casa e la caserma. Un mezzo pesante dell’esercito, parcheggiato proprio
all’angolo, rende chiaro cosa significhi massima allerta. E fra i soldati in mimetica con il
mitra a tracolla, nel primo vento freddo dell’inverno, tutti sperano di veder comparire
proprio lui, il terrorista del 13 novembre che non si è fatto saltare in aria.
Svanito nel nulla
Salah Abdeslam potrebbe essere qui. Domenica è stato intercettato in questa zona mentre
parlava su Skype con degli amici, chiedendo aiuto per scappare in Siria. La conferma
arriva anche dal fatto che sono state smentite le altre segnalazioni. Ne arrivano più di 60 al
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giorno. Una sembrava particolarmente attendibile e lo collocava a Liegi, su una Bmw nera
in direzione Germania. Ma l’auto è stata fermata ieri mattina. Nessuna traccia del terrorista
che sta paralizzando Bruxelles. In compenso è stata ritrovata la sua cintura esplosiva,
identica alle altre: bulloni e perossido di azoto. Ed è comunque una buona notizia. Era in
un cestino dell’immondizia a Montrouge, periferia sud di Parigi. Proprio da quel quartiere,
le notte dell’attentato, Salah Abdeslam ha chiamato due amici di Bruxelles per farsi venire
a prendere. Insieme hanno passato la frontiera, esibendo i documenti durante un controllo.
Belgio, dunque. Belgio fino a prova contraria. Qui c’è un altro posto importante per capire.
È un bar chiuso. Si chiama Les Beguines, è sempre nel quartiere Molenbeek. Salah
Abdeslam e il fratello Brahim lavoravano dietro al bancone, erano i proprietari. Ma Brahim
deteneva il 96% delle quote, come ha ricostruito «Libération». Mentre Salah solo il 2%.
Percentuali che raccontano bene i fratelli kamikaze. A gennaio Brahim aveva cercato di
andare a combattere in Siria, ma era stato bloccato in Turchia e riportato in Belgio. Di lui,
erano note le intenzioni. Salah, invece, era sempre in secondo piano. Ritenuto un piccolo
delinquente, invischiato in storie di droga. Lo definiscono un «bling-bling», cioè uno pieno
di braccialetti che tintinnano come certi rapper americani. «Passava le ore a giocare alla
playstation e a fumare canne», dicono adesso nel quartiere.
Droga e «affari»
Il 17 agosto il locale dei fratelli Abdeslam è stato controllato dalla polizia su segnalazione
dei vicini, perché si sentiva un forte odore di stupefacenti. Il locale è stato chiuso il 5
novembre 2015 in conseguenza di quel controllo. La cosa particolare è che i due fratelli,
che stavano per andare a seminare morte a Parigi, si sono premurati di chiudere anche la
partita societaria. Il 30 settembre, in anticipo sulla decisione dei giudice, hanno intestato
tutte le quote a tal Batis Rida e trasferito la sede a Quievrain, un comune al confine con la
Francia. Ma la signora Rida non ne sa niente di questa storia. È stata vittima di un furto di
identità. I fratelli Abdeslam stavano preparando il loro piano da molto tempo.
Brahim si è fatto saltare in aria dopo aver sparato sulla gente seduta nei locali nel centro di
Parigi. Salah è in fuga da quella notte. La cintura esplosiva ritrovata sembra funzionante.
«Due cariche, una davanti e una dietro», dice un investigatore. È stato il fratello
Mohammed, l’unico che non c’entra - è un impiegato comunale con un alibi confermato da
diversi testimoni - il primo a far ipotizzare un suo ravvedimento: «Salah non voleva essere
lì». Lo ha detto anche un investigatore francese: «Potrebbe essersi fatto prendere dal
panico oppure la cintura non si è innescata». C’è il video di una telecamera di sicurezza
pubblicato dal «Daily Mail» che mostra pochi istanti della notte del 13 novembre.
Ristorante «Casa Nostra», Rue de la Fointaine au Roi, Parigi. I fratelli Abdeslam scendono
da una Seat nera e sparano all’impazzata. Per primo falciano un uomo con una pizza nel
cartone. Uccideranno in tutto ventinove persone.
Del 24/11/2015, pag. 4
La strategia. Il 38enne addetto alla comunicazione dell’Is è un
fedelissimo del Califfo. Ha addestrato il capo del commando di Parigi e
coordinato le operazioni
“Ora uccidete i civili” la voce di Al Adnani
guida dal suo covo gli attentati in Europa
ERIC SCHMITT
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WASHINGTON.
I recenti attentati a Parigi e Beirut e l’abbattimento dell’aereo di linea russo in Egitto sono i
primi risultati di una campagna terroristica pianificata a livello centrale da un’ala della
leadership dello Stato Islamico che si occupa di obbiettivi “esterni”: lo affermano fonti delle
intelligence americane ed europee. La cellula che pianifica operazioni dell’Is oltremare
offre guida strategica, addestramento e finanziamento per azioni finalizzate a provocare il
maggior numero possibile di vittime civili, ma per lo più affida il compito di scegliere tempi,
luogo e modalità degli attentati ad agenti di fiducia sparsi sul territorio. Portare a segno
attentati lontano dalle basi in Iraq e in Siria dello Stato Islamico rappresenta un passo
avanti rispetto al precedente modello usato dal gruppo, consistente nell’esortare i seguaci
a imbracciare le armi ovunque vivano ed entrare quindi in azione, senza contare però su
un aiuto significativo da parte del gruppo. Oltretutto, questa evoluzione ribalta
completamente l’idea degli Stati Uniti e dei suoi alleati di uno Stato Islamico inteso come
minaccia regionale, e rende necessaria una valutazione dei rischi del tutto nuovi.
Una delle possibili ragioni all’origine del cambiamento di strategia da parte dello Stato
Islamico è l’intenzione di strappare la leadership della jihad globale ad Al Qaeda, dal quale
l’Is si è scisso nel 2013. L’attentato al Radisson Blu Hotel in Mali venerdì probabilmente è
stato perpetrato da due gruppi collegati ad Al Qaeda e ciò, secondo fonti
dell’antiterrorismo europeo, lascerebbe intuire l’inizio di «una sorta di competizione tra Is e
Al Qaeda per vedere chi di loro aggredisce meglio l’Occidente».
Gli inquirenti lavorano sulla base di intercettazioni e analisi dei video di propaganda dell’Is
e stanno ancora cercando di mettere insieme i pezzi per avere un quadro più chiaro degli
attentati di Parigi e per comprendere come siano avvenute le comunicazioni tra gli
attentatori, ma due fonti dell’antiterrorismo occidentale hanno rivelato che tra gli esponenti
di spicco dello Stato Islamico in Siria e Abdelhamid Abaaoud, l’uomo sospettato di essere
il regista degli attentati, nelle settimane precedenti gli attentati ci sono stati contatti per via
elettronica. Testimonianze analoghe analizzate dopo gli attentati di Beirut suggeriscono
che in quel caso gli ordini sono stati impartiti direttamente dalla Siria. L’abbattimento
dell’aereo di linea russo doveva essere funzionale a un piano più ambizioso dello Stato
Islamico, finalizzato a colpire gli interessi dei russi, ma secondo le fonti quasi certamente è
stato effettuato in maniera autonoma da un affiliato del gruppo in Egitto.
Secondo fonti americane ed europee, l’uomo che ha coordinato gli attentati fuori da Iraq e
Siria è Abu Muhammad Al Adnani, un siriano di 38 anni che funge da portavoce ufficiale
dell’Is ed è uno dei luogotenenti più fidati di Abu Bakr Al Baghdadi, il leader supremo del
gruppo. Ma è nelle sue vesti di capo delle operazioni all’estero che Adnani ha attirato su di
sé l’interesse dei funzionari occidentali. Adnani è famoso per la sua dichiarazione audio di
42 minuti trasmessa dai social media nel settembre 2014 durante la quale incita i singoli
musulmani che vivono in Occidente a uccidere i civili nei loro paesi ricorrendo a ogni
mezzo possibile, e a farlo senza bisogno di attendere disposizioni più precise dai leader
del gruppo terroristico. «Se potete, uccidete un infedele americano o europeo —
soprattutto i maligni e sporchi francesi — o un australiano o un canadese», diceva nel
video. A causa di quel video sulla testa di Adnani pende ora una taglia di cinque milioni di
dollari, offerti dagli Stati Uniti, e il suo nome compare nell’elenco degli obbiettivi della
campagna di bombardamenti in Iraq e in Siria guidata dagli Usa. Gli agenti dell’intelligence
francese credono che Abaaoud, ucciso nel corso del blitz della polizia a Saint-Denis, abbia
lavorato ai comandi di Adnani in Siria, facendo poi buona impressione su di lui per come
riusciva a reclutare jihadisti francofoni.
Secondo gli attivisti della provincia di Aleppo in Siria, Abaaoud all’inizio del 2014 è stato
per qualche tempo ad Azaz, vicino alla frontiera con la Turchia: all’epoca Azaz era una
città jihadista in piena espansione per i nuovi arrivati dall’estero carichi di entusiasmo.
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Secondo gli attivisti, Abaaoud ha prestato servizio come emiro o capo dei foreign fighters
finché lo Stato Islamico non è stato respinto da quella zona e si è spostato più a est.
Secondo una fonte dell’antiterrorismo belga, l’Is gestiva cellule come quella di Abaaoud,
composte da membri che parlavano una stessa lingua come il gruppo francofono. Le
cellule sono state appaiate in seguito per agevolare la pianificazione di attentati nelle aree
che conoscevano meglio. Per esempio, gli attentatori francesi che conoscevano i luoghi da
colpire sono stati affiancati dai belgi, più abili nell’organizzazione e nel procurarsi armi.
Queste cellule hanno lavorato seguendo quella che l’intelligence definisce struttura a
“bambù”: si entra in azione separatamente e in parallelo per garantire che se un membro è
ucciso o un piano è sventato, il fallimento non si ripercuota sul resto delle operazioni.
del 24/11/15, pag. 1/15
Gli strateghi della guerra inutile
Daesh. In guerra, ma senza sapere come combatterla
Marco Bascetta
Muoviamo da una ipotesi non nuova e piuttosto diffusa: Daesh è uno stato e non lo è.
Potremmo definirlo un centro di irradiazione, piuttosto o, per così dire, una Mecca
ideologico-militare del Jihad. Lo stato islamico interpreta a suo modo, e cioè in una forma
violenta e totalitaria, la vocazione antinazionalista dell’Islam, quella che si rivolge alla
comunità dei credenti aldilà da qualsiasi frontiera nazionale. Per questa ragione il suo
insediamento a macchia di leopardo, dal Medio oriente all’Africa settentrionale e sub
sahariana, fino alle periferie delle grandi metropoli europee non costituisce una debolezza,
ma una forza.
Una realtà del tutto coerente con i principi a cui si ispira, un elemento di coesione e non di
frammentazione. Del resto l’islamismo radicale contemporaneo, quello in armi, nasce nella
fase conclusiva della guerra fredda come un’arma rivolta contro i nazionalismi
“progressisti” e laici, cresciuti nella stagione delle lotte anticoloniali e presto degenerati in
sistemi autoritari e corrotti di governo. Su questo terreno convergeranno, ma per poco, la
strategia antisovietica americana e diffusi sentimenti popolari contro le caste burocraticomilitari subentrate al dominio coloniale. Per principio, dunque, Daesh non può scendere a
patti con nessuno stato nazionale, e nemmeno, fino in fondo, con quelli ideologicamente
affini da cui riceve aiuto e sostegno, che può al massimo considerare come utili assetti di
potere transitori nell’inarrestabile espansione della comunità islamica combattente. Anche
l’Arabia saudita gioca dunque con il fuoco nel momento in cui si illude di poter ridurre
l’entità jihadista a uno strumento docilmente asservito ai propri interessi nazionali e
dinastici di egemonia regionale.
Questi brevi cenni, che non rendono certo giustizia alla estrema complessità della
questione, solo allo scopo di chiarire come in nessun modo, per via diretta o indiretta,
Daesh possa rappresentare un soggetto di interlocuzione diplomatica, neanche sul piano
elementare dello scambio di prigionieri (fatta salva la vendita di ostaggi). La stessa
ideologia e pratica del martirio lo impedirebbero. Solo ai bordi dell’Is, in un contesto
allargato, la pressione delle cancellerie potrebbe forse conseguire qualche risultato, a
patto di rinunciare però a voler salvare capra e cavoli, affari e diritti umani.
Dunque, la guerra. Che questa sia in atto è una circostanza innegabile, che non sia
semplicemente interpretabile in termini teologici è altrettanto evidente, ma anche che
senza il richiamo allo spazio potenzialmente illimitato della comunità dei credenti, intesa
come esercito potenziale, non potrebbe mai raggiungere l’intensità e le ramificazioni che la
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contraddistinguono. Resta il fatto che la Mecca jihadista di Raqqa e Mosul, dove i giovani
musulmani radicalizzati d’Occidente si recano in una sorta di pellegrinaggio, qualcosa di
più di un semplice addestramento militare, prima di tornare ad agire nei rispettivi paesi,
non si sgretolerà più senza un’azione di forza. C’è un punto oltre il quale la dimensione
della guerra non è più revocabile. Così le sue retoriche risuonano da ogni parte. Chi
invoca la “guerra totale”, come Goebbels nel celebre discorso del febbraio 1943, chi la
civiltà contro la barbarie, chi la guerra identitaria, chi la guerra globale di lunga durata
contro il terrorismo sulla scia della dottrina Bush. Converrà, tuttavia, mettere da parte
proclami e rullar di tamburi, ma anche, per vederci un poco più chiaro, disertare il terreno
dell’etica, le dispute su quanto valgono i “valori” e cioè il tema scivoloso della “guerra
giusta”, per rivolgere l’attenzione a quello, assai più banale, della “guerra utile”. Una
“guerra giusta” la si può anche perdere, ma una “guerra utile”, va da sé, non può che
essere vincente, pena trasformarsi nel suo contrario.
Ma che cosa significa esattamente vincente? Un tempo le cose erano molto più chiare:
vincere significava annettere o assoggettare un territorio imponendo alla sua popolazione
le leggi (e le imposte) dei vincitori. Poi è venuto il tempo dei “governi fantoccio” e delle
forme sempre più indirette, ma non per questo poco efficaci, di dominio. Oggi, per
semplificare all’estremo, significa stabilizzare un’area attraversata da conflitti e turbolenze,
imponendo un compromesso tra gli interessi che vi insistono (compresi naturalmente i
propri), garantito da strutture politiche il più possibile solide e affidabili. E a questo scopo è
necessario cancellare senza residui e con ogni mezzo necessario, i fattori irriducibili a una
qualsiasi condizione di equilibrio. Nel nostro caso Daesh.
Se ci atteniamo a questo banale schema, nessuna delle guerre condotte in Medio oriente
o in Africa dagli Stati uniti e dalle diverse coalizioni internazionali che si sono succedute
nel tempo regge alla prova della “guerra utile”. Né la guerra in Afghanistan, né le due
guerre irachene, per non parlare degli interventi in Somalia e Mali o dell’impresa di Libia
possono definirsi in alcun modo vincenti. E il conflitto in Siria è ben avviato su questa
stessa strada. Le innumerevoli vittime che hanno mietuto e i molteplici, incontrollati focolai
di conflitto che hanno alimentato rappresentano il risvolto sanguinoso di questa inutilità. Gli
strateghi geopolitici, imperversano da decenni come dilettanti allo sbaraglio, incassando
una sequela interminabile di scommesse perse. Resta il fatto che lo Stato islamico con le
sue mostruose manifestazioni deve essere spazzato via in tutte le sue articolazioni, al
centro come alla periferia. Non si può certo attendere che la sua forza propulsiva si
esaurisca e i suoi adepti si convincano col tempo ad abbandonarne i costumi e le
insostenibili forme di vita. Le vittime non possono essere lasciate al loro destino.
La “guerra giusta” contro questa forma di fascismo confessionale deve però dimostrarsi
anche utile. Alla qual cosa non gioveranno né spirito di vendetta, né esibizioni patriottiche
ad uso interno dei governanti europei, né il revanscismo russo. Quale sia la strada, giunti
a questo punto, è difficile a dirsi, se non che non sarà in nessun modo pacifica. Di certo, la
situazione non consente più di manovrare le popolazioni della regione come marionette
secondo logiche di potenza peraltro disorientate e governate dall’improvvisazione. Sarà
una Yalta tra Iran e Arabia saudita e una guerra fredda tra sciiti e sunniti, l’esito del
conflitto? Con i kurdi nella parte dei non allineati? Non abbiamo che fantasie e vecchi
parametri, in fondo, saperi storici recenti o remoti, per leggere gli eventi. Saremo anche in
guerra, ma certo è che non sappiamo come combatterla. Un criterio però si dovrebbe
adottare.
Se Daesh punta a stringere il legame tra il fascismo islamista con la sua Mecca
mesopotamica e l’emarginazione metropolitana in Europa, noi dovremmo puntare a
reciderlo. Non in chiave nazionalpatriottica, ma sul terreno dei desideri di libertà e di
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benessere che attraversano le periferie metropolitane e non solo i frequentatori del
Bataclan.
L’ennesima “guerra inutile” e perdente sarebbe quella contro le cosiddette “classi
pericolose”. Possiamo solo sperare che i ragazzi di Saint Denis e dei grandi ghetti della
cintura metropolitana parigina gettino via le cinture esplosive per tornare a incendiare le
banlieues contro i loro colonizzatori, islamisti o repubblicani che siano. Poliziotti razzisti o
predicatori barbuti. Ogni sovversivo in più sarà un terrorista di meno.
Del 24/11/2015, pag. 2
Lo scenario. Cameron offre una base a Cipro. Incontro con Hollande.
Oggi il presidente da Obama, pressing per rinforzare l’offensiva
Bombardieri dalla Charles de Gaulle La
Francia martella l’Is in Siria e Iraq
ANAIS GINORI
L’offensiva francese contro l’Is passa a un livello superiore. Dieci giorni dopo gli attentati di
Parigi, la Francia ha condotto nuovi raid sulle basi dell’Is in Iraq e Siria. I caccia Rafale e
Super- Etendard sono decollati dal ponte della portaerei Charles de Gaulle, salpata cinque
giorni fa da Tolone e appena arrivata nel Mediterraneo orientale. E’ il segnale militare di un
cambio di passo del governo francese, in una settimana che si annuncia decisiva sul piano
diplomatico per la coalizione internazionale che deve combattere l’Is. Oggi François
Hollande vola a Washington per incontrare Barack Obama, domani vedrà Angela Merkel a
Parigi, mentre giovedì sono previsti gli incontri con Matteo Renzi e poi un nuovo viaggio a
Mosca per un colloquio con Vladimir Putin.
Già ieri il presidente francese ha accolto David Cameron all’Eliseo. Il premier britannico, in
attesa del via libera del suo parlamento, ha offerto a Hollande l’uso di una base aerea
britannica a Cipro per le operazioni francesi contro l’Is in Siria. Il ministero della Difesa ha
parlato di due obiettivi distrutti durante i raid di ieri, durati circa sette ore e condotti in
appoggio alle forze irachene impegnate sul terreno contro i jihadisti. A Ramadi, un
centinaio di chilometri di distanza da Bagdad, «i raid hanno neutralizzato un gruppo di
terroristi ». «È stata distrutta a Mosul una postazione dell’artiglieria dell’Is che stava
sparando contro le truppe irachene» continua la nota della Difesa. Nelle intenzioni
francesi, il dispiegamento della Charles de Gaulle triplicherà la capacità di colpire le
postazioni dei jihadisti portando a 38 il numero di aerei impegnati nell’operazione
“Chammal” contro lo Stato islamico. «L’obiettivo - ha detto il ministro della Difesa, JeanYves Le Drian - è annientare l’Is». Hollande ha parlato in mattinata di volontà di «colpire
duro» l’Is e di mirare a «obiettivi che possano fare il massimo dei danni possibili a questo
esercito terrorista». Sul fronte dell’offensiva diplomatica, sarà decisivo l’incontro di oggi
con Obama. Parigi martella l’Is in Iraq dal settembre 2014 ma sul fronte siriano è attiva
soltanto da settembre, un anno dopo l’inizio delle operazioni americane. Dopo il 13
novembre, gli Stati Uniti hanno appoggiato l’intervento francese, fornendo in particolare le
informazioni necessarie per il massiccio bombardamento di Raqqa, ma ora Parigi vuole un
ulteriore salto di qualità, soprattutto dal punto di vista dell’impegno diretto degli Usa nei
bombardamenti. In visita a Kuala Lumpur, Obama ha promesso che gli Stati Uniti
andranno «fino in fondo» al compito che prevede la «distruzione» dello Stato islamico.
Fonti di stampa arabe intanto riferiscono che la Russia ha già dispiegato truppe di terra in
Siria, oltre ai già presenti “consiglieri” militari a sostegno della campagna aerea iniziata il
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30 settembre. In un articolo del giornale kuwaitiano Arrai - che non è stato confermato da
altre fonti - si sostiene che le forze militari russe hanno fornito copertura ai tank T-90, con
supporto aereo, che hanno attaccato diversi obiettivi strategici in mano alle forze ribelli a
Idlib e Latakia. Nei giorni scorsi, la stampa libanese filo-iraniana scriveva che Mosca
intende raddoppiare la sua presenza militare in Siria, aumentando da quattro a ottomila le
unità sul terreno.
Del 24/11/2015, pag. 6
La Ue ci pensa, gli Usa si preparano
Ognuno per conto suo. Washington rafforza già intelligence e impegno di terra
Mentre in Europa si sta vivendo l’isterismo della guerra alle porte o addirittura in casa,
l’America si prepara con efficienza a garantire la propria sicurezza. Uno stimato analista
militare, il colonnello in pensione Keith Nightingale, ha individuato alcuni provvedimenti da
assumere con immediatezza per affrontare l’emergenza: strangolare le finanze dell’Isis;
filtrare i rifugiati e gli emigrati; imporre a Iraq, Siria e Giordania la costituzione di
contingenti di terra che combattano; affiancare consiglieri militari americani ai contingenti;
costituire in Europa un Centro internazionale d’Intelligence con sostanziale partecipazione
di personale e supervisori statunitensi più esperti e preparati dei colleghi europei;
incrementare i controlli ai confini statunitensi su immigrati ispanici; aumentare le risorse
per i team di collegamento di Pentagono e Cia presso nazioni amiche per il controllo nei
Paesi d’origine; incrementare il controllo sui turisti, gli studenti e i lavoratori; costituire un
Centro Operativo Antiterrorismo interforze (americane) in grado di intervenire in tutto il
mondo. Sono raccomandazioni ragionevoli. Meraviglia però che gli Usa dopo decenni di
migrazione ispanica la considerino ancora un problema di sicurezza antiterroristica, che
non abbiano stabilito procedure e strutture per scambiare informazioni con gli europei, che
ci considerino ancora inaffidabili su questo piano e che dopo 15 anni di operazioni militari
e coperte della Cia nella guerra globale al terrorismo debbano ancora costituire un centro
operativo interforze.
È strano che si raccomandi il ricorso ai consiglieri militari e ai contingenti locali quando le
stesse iniziative del Pentagono e della Cia avviate proprio in Iraq, Giordania e Siria
all’inizio di quest’anno sono miseramente fallite. Gli unici a essere ritenuti affidabili sono
rimasti i curdi (a torto, dicono i turchi) che gradiscono tutto meno che essere guidati dagli
americani. Ma soprattutto nelle proposte non c’è traccia di una visione strategica a mediolungo termine di cosa si vuole ottenere e con quale tipo di Medio Oriente possiamo
convivere. Qualcosa ci sfugge.
Del 24/11/2015, pag. 2
Con la “fanteria” curda all’attacco del
Califfato “Siamo vicini a Raqqa”
GIAMPAOLO CADALANU
IL REPORTAGE
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ERBIL (KURDISTAN IRACHENO)
SULLA strada di montagna che porta a Sinjar, la fede è proclamata sui serbatoi d’acqua
dei villaggi curdi e yazidi: «Il nostro sangue per difendere la nostra terra», dice la scritta
con la vernice rossa. Davanti alla minaccia di Daesh, il sedicente Stato Islamico, i curdi
vanno all’attacco. Nel punto più alto della strada, compare la bandiera gialla con la stella
rossa dell’Ypg, le Unità di protezione popolare, basate in Siria. È sul tetto di una grande
base militare, quasi sommersa dalle bandiere sorelle rettangolari, rosse con un cerchio
giallo, del Pkk, il Partito dei lavoratori curdi, radicato in Turchia. A guardare con aria
severa l’alleanza fra gli eroi di Kobane e i guerriglieri odiati da Ankara c’è un grande ritratto
di Abdullah Ocalan, leader del Pkk, detenuto nelle carceri turche. Curdi siriani e curdi della
Turchia si sono affiancati ai curdi iracheni nell’offensiva contro i jihadisti a Sinjar, spianata
dai bombardamenti della coalizione occidentale.
La conquista della città simbolo degli yazidi e la fuga degli uomini di Daesh permette un
momento di tregua sul fronte iracheno, intanto che gli strateghi preparano la nuova
avanzata verso Tal Afar, ancora in mano dei fondamentalisti. Su Mosul, i curdi
preferiscono non pronunciarsi: dopo tutto, la città è abitata soprattutto da sunniti, e non fa
parte del Kurdistan immaginato dai leader. Dovrà essere l’esercito di Bagdad a prendere
l’offensiva, noi aspettiamo ordini, dice da Sinjar il colonnello dell’intelligence curda Marwan
Sabri. In altre parole: per il momento, peshmerga e combattenti curdi filo-comunisti hanno
fatto la loro parte, riconquistando la zona degli yazidi.
Ma ieri erano le notizie sul fronte siriano a sottolineare che la marcia trionfale dell’Is si è
definitivamente interrotta: proprio le milizie dell’Ypg, racconta la Cnn, sono arrivate ad
appena una trentina di chilometri da Raqqa. Ad aprire la strada verso la capitale di
Abubakr al-Baghdadi sono stati i bombardamenti francesi, moltiplicati da François
Hollande dopo gli attacchi terroristici di Parigi. A essi si sono affiancate azioni americane e
russe. E secondo testimonianze dei blogger siriani, proprio su Raqqa sono caduti i missili
da crociera lanciati dalla flotta russa del mar Caspio, tanto da spingere l’Iraq a chiudere lo
spazio aereo ai voli civili. Parigi ha aumentato la pressione anche sulle basi dell’Is in Iraq: i
primi cacciabombardieri Rafale sono decollati dalla portaerei Charles de Gaulle, che
incrocia nel Mediterraneo orientale. Secondo Pierre de Villiers, capo di Stato maggiore
interforze francese, le bombe dei Rafale hanno colpito e distrutto due obiettivi dell’Is. Ma
l’offensiva contro Daesh è articolata: ieri sera il bilancio era di 33 attacchi della coalizione
(19 in territorio iracheno e 14 in Siria), con obiettivi a Ramadi e Falluja nel “triangolo
sunnita” a nord di Bagdad, e in Siria contro Ayn Issa, una trentina di chilometri a nord di
Raqqa, e nella provincia di al-Hasakah. In questa località, sottolinea il comando unificato
della missione a Washington, il bombardamento ha distrutto un complesso di silos
petroliferi per la conservazione del greggio. Ancora più attiva l’aviazione russa: secondo
Igor Konashenkov, portavoce della Difesa di Mosca, fra ieri e domenica i bombardieri
Sukhoi e Tupolev hanno completato 141 missioni, colpendo 472 obiettivi terroristici fra
Aleppo, Damasco, Idlib, Latakia, Hama, Homs, Raqqa e Dayr az-Zor. Fra i soldati curdi i
sorrisi sono diffusi. Non ci sono dubbi: è l’inizio della fine di Daesh. A Erbil, fra i
pershmerga in addestramento, l’entusiasmo è alle stelle. «Non siamo soli contro il
terrore», dice il generale Tawfiq Dosky, comandante della brigata di artiglieria Katyusha.
Dei suoi uomini si occupano gli istruttori italiani, ben 120 sui 200 militari del nostro
contingente di Erbil. La preparazione di base, sulle tecniche di combattimento, è
apprezzata, ma ancora più preziosa è quella contro le bombe: i miliziani del Califfato non
si fanno scrupoli a “trappolare” ogni cosa, consapevoli che l’entusiasmo di molti militari
curdi può diventare imprudenza. «Mettono cariche esplosive persino dentro il Corano,
dentro lattine di Coca-Cola, dentro i cassetti delle case abbandonate », racconta il
capitano che guida l’addestramento degli artificieri. Per motivi di sicurezza, i militari italiani
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non rivelano i nomi e davanti alle tv staccano le targhette di identificazione e si coprono il
volto. «Ma i curdi sono straordinari», aggiunge l’ufficiale: «Seguono con attenzione le
nostre simulazioni e assorbono in fretta. C’è stato pure chi mi ha fatto notare la traccia di
una finta mina che avevo deposto per farli esercitare, due giorni prima. Ed erano stati due
giorni di pioggia, avevano cancellato tutto, mi ero persino dimenticato dov’era la bomba da
esercitazione ». Guldamir, 29enne caposquadra degli artificieri, è un veterano di Sinjar:
«Questo training è prezioso, ci salva la vita. Abbiamo perso tanti compagni per le bombe,
persino quando abbiamo vinto le battaglie, a Rabiyah, a Zumar. Anche se agli uomini di
Daesh non importa perdere i compagni, noi non siamo come loro. Ma combatteremo
comunque fino alla fine, fino a quando il nostro Paese sarà libero».
del 24/11/15, pag. 3
L’appuntamento «Nuovo ordine per il
Mediterraneo»
Kerry e Lavrov si vedranno a Roma
Noi e la Francia Gentiloni: «Ai francesi possiamo dare risposte positive,
ma l’Italia non deve sentirsi in guerra»
L’evento il 10 dicembre. Renzi giovedì da Hollande: no a un intervento
come in Libia
ROMA Mettete insieme il massimo della diplomazia mondiale, a cominciare da Kerry e
Lavrov, aggiungete una dozzina di ministri degli Esteri occidentali e arabi (dalla Gran
Bretagna al Marocco), invitate il re di Giordania Abdullah II ad aprire i lavori, più i massimi
esperti internazionali di antiterrorismo, i vertici economici del sistema Paese, da Eni a
Finmeccanica, i negoziatori del processo di pace palestinesi e israeliani, imprenditori,
banchieri e accademici di entrambe le sponde del Mediterraneo, e avrete quelli che forse
saranno definiti come «Roma Talks» (sulla scia dei colloqui diplomatici di Vienna): un
Forum di altissimo livello internazionale che Matteo Renzi ha voluto e che il governo sta
preparando in queste ore nel massimo riserbo.
Il nome dell’evento è «Med, Mediterranean Dialogues», e sia a Palazzo Chigi che alla
Farnesina preferiscono ancora non dare risposte ufficiali. Organizza l’Ispi di Milano, uno
dei più antichi think tank europei. John Kerry, segretario di Stato Usa, dovrebbe chiudere
l’ultima sessione, insieme al ministro Paolo Gentiloni, anche se una conferma ufficiale da
Washington è ancora attesa. Da Mosca invece Sergej Lavrov ha assicurato la sua
presenza, nello stesso giorno in cui interverranno il ministro degli Esteri saudita, gli esperti
di antiterrorismo (dal nostro capo del Dis, Giampiero Massolo al capo dell’antiterrorismo
europeo Gilles De Kerchove), in cui si discuterà del futuro della Libia, di come rinnovare le
fonti energetiche nel mondo arabo, del rapporto fra Islam, linguaggio e sviluppo
economico.
Spicca la data d’inizio del forum, il 10 dicembre, due giorni dopo l’apertura dell’Anno
Santo: Roma come città di pace e preghiera, ma anche come epicentro internazionale di
dialogo politico e diplomazia. Un’immagine fortemente voluta, che riflette il taglio che il
nostro premier ha dato in questi mesi alla politica estera. «Costruire un ordine diverso nel
Mediterraneo» sarà uno dei capitoli del confronto, così come quello sulle politiche di
cooperazione, o ancora quello su un «approccio globale» nelle politiche di antiterrorismo.
Distruggere l’Isis è un obiettivo che tutti condividono, costruire condizioni di convivenza e
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prevenzione delle crisi migliori delle attuali è quello su cui Palazzo Chigi insiste e che il
Forum di Roma, diviso in ben 20 tavoli su due giorni, dovrebbe rilanciare secondo un
approccio che fornisca risposte diverse rispetto alla mera reazione bellica. Renzi ha poi
annunciato che oggi, in Campidoglio, proporrà alle forze politiche di rispondere al terrore
lavorando assieme sui temi cruciali della sicurezza e della risposta culturale al fanatismo.
L’Eliseo ha reso noto che Hollande vedrà anche il nostro premier, giovedì, alle otto del
mattino. E nel corso della riunione del Pd, dedicata alla politica estera, Gentiloni ha
affermato: «Capisco perché Hollande ha usato la parola guerra, e perché gli altri leader
non lo hanno fatto. Alle domande che ci vengono rivolte dalla Francia possiamo dare
risposte positive, ma siccome le parole hanno un peso questo non vuol dire che l’Italia
deve sentirsi in guerra». Renzi ha invece riaffermato una linea di prudenza: «L’Italia non è
un Paese che si tira indietro, ma lo fa in uno scenario in cui non ci possiamo permettere
una Libia bis perché le conseguenze sarebbero superiori a quelle che è lecito attendersi».
Marco Galluzzo
del 24/11/15, pag. 12
Putin rinsalda l’asse con l’Iran
Il presidente russo e Khamenei: saremo noi a decidere il destino di
Assad
Le guerre, quando serve, avvicinano gli opposti. Come cambia il mondo e soprattutto il
modo di vederlo lo si capisce molto bene dall’incontro che hanno avuto ieri a Teheran
Vladimir Putin e la Guida Suprema Alì Khamenei. Certo di mezzo c’è l’alleanza tra Mosca
e Teheran nel sostegno al presidente siriano Bashar Assad, una sorta di “asse della
resistenza”, tra due potenze ancora sotto sanzioni in cui l’universo musulmano sciita,
dall’Iran al Libano, ha fatto causa comune con la Russia ortodossa. Tutte cose che
François Hollande, alla ricerca di alleati nella battaglia contro il Califfato, misurerà giovedì
a Mosca nell’incontro con Putin, preceduto da quello con Obama.
Ma il tweet lanciato ieri da Khamenei fa epoca e forse anche storia. «Putin è una figura di
grande rilievo nel mondo attuale e ha saputo neutralizzare la politica americana che cerca
sempre di ridurre i suoi rivali in uno stato di passività», si legge in un tweet della Guida
suprema. Gli Usa inoltre, sottolinea Khamenei, «cercano il dominio in Siria per dominare
l’intera regione, minacciando così tutti, in particolare Russia e Iran».
A parte l’uso di twitter - censurato in Iran - da parte di questa figura severa e ieratica,
Khamenei elargisce una glorificazione del leader russo che sembra archiviare in scaffali
polverosi la lettera inviata nel 1989 a Gorbaciov dall’Imam Khomeini, fondatore della
rivoluzione islamica iraniana. Convinto, a ragione, che la caduta del comunismo fosse
imminente, il vecchio ayatollah lanciava un monito: «Dopo il tramonto del materialismo
ideologico il suo popolo non dovrà volgersi verso il “nulla” dell’Occidente ma alla
“spiritualità” dell’Islam». E dice a Gorbaciov che se l’Urss non avesse saputo cogliere
questa verità, sarebbe stata la repubblica islamica a riempire il vuoto.
In realtà se è vero che l’Unione Sovietica è crollata da un pezzo, la Russia di Putin sta
tenendo in piedi Bashar Assad, il principale alleato di Teheran. Rispondendo all’ennesima
richiesta di Barack Obama per una rapida uscita di scena dell’autocrate di Damasco,
Khamenei e Putin hanno concordato su un punto fondamentale: la sorte del capo del
regime di Damasco non la decideranno da fuori ma gli stessi siriani. Questo significa che
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dopo l’intervento militare russo, saranno Mosca e Teheran in base alle loro considerazioni
militari e strategiche a decidere la parabola di Bashar.
Mentre Putin sta decidendo come continuare la campagna contro l’Isis, magari
aumentando il coinvolgimento di forze speciali sul terreno, l’Iran con gli Hezbollah libanesi
ha schierato migliaia di militari sia in Siria che in Iraq e diversi generali dei Pasdaran sono
già stati uccisi sui due fronti. È stato l’intervento iraniano che nel 2014 ha fermato
l’avanzata del Califfato verso Baghdad dopo che l’esercito iracheno, sotto gli occhi degli
Usa, era stato sbaragliato a Mosul dai jihadisti.
Anche per questo è stato duro l’attacco di Putin e Khamenei agli Usa che tengono ancora
sotto scacco delle sanzioni la Russia per la questione ucraina mentre l’Iran dovrebbe
liberarsene a metà gennaio, se sarà positivo il rapporto dell’Aiea sullo smantellamento
degli impianti nucleari.
Se l’Occidente intende allearsi con Putin e l’Iran nella battaglia contro l’Isis il prezzo sarà
salato. Lo si è intuito quando ieri è stato annunciato che la Russia ha iniziato la procedura
per fornire a Teheran i sistemi anti-missile S-300, che Mosca si era impegnata a vendere
agli iraniani nel 2007. L’intesa è stata resa nota a Mosca dall’ambasciatore iraniano in
Russia Mehdi Sanai. L’accordo del 2007 prevedeva la vendita di cinque sistemi S-300, il
contratto era poi stato annullato nel 2010 a causa delle sanzioni internazionali che
impedivano all’Iran di acquistare questi sistemi militari. Questo è l’asse della resistenza cui
l’Occidente e la Francia chiedono aiuto per punire i jihadisti.
Alberto Negri
del 24/11/15, pag. 2
Stoccolma, Copenaghen e Sarajevo linee del
fronte dei foreign fighters
Statistiche. I dati dell'istituto Statista di Amburgo
Sebastiano Canetta, Ernesto Milanesi
Statistica del terrorismo: l’unica matematica disponibile per capire la guerra di Daesh e
quella dell’Occidente. Contiene l’identikit scientifico degli attentatori che massacrano
Europa, Africa e Medio Oriente, e la carta d’identità aggiornata degli estremisti sunniti che
rientrano a pieno titolo nell’album di famiglia.
E indica — soprattutto — che dopo Parigi e Bruxelles forse è meglio cominciare ad
«attenzionare» Stoccolma, Copenhagen, Sarajevo e Tirana, perché che la linea del fronte
passa proprio di lì. C’è da precisare, che queste liste di personaggi in viaggio dall’Europa
alle zone di guerre non risultano, come abbiamo avuto modo di scoprire, propriamente
sconosciute alle polizie europee.
È chiaro che in un determinato momento questi viaggi così semplici da un paese europeo
a una zona di guerra sono stati monitorati, se non addirittura «sostenuti» dai servizi di
intelligence che avevano la loro convenienza a utilizzare i foreign fighters. Venendo poi ai
numeri, l’istogramma dell’Istituto Statista di Amburgo sugli «extimated foreign fighter pro
capite» si rivela decisamente sintomatico. Mostra che subito dopo il verminaio del Belgio
(40 «jihadisti» ogni milione di abitanti) ci sono quelli di Svezia (32) e Danimarca (27) ben
più esposte della Francia (18) che pure è già in stato di guerra.
Di peggio solo il «cancro» nei Balcani con Bosnia-Erzegovina (92) Kosovo (83) e Albania
(46) fucine conclamate e impossibili da liquidare. Gli analisti tedeschi hanno elaborato la
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provenienza dei volontari arruolati nella galassia dell’Isis, con i risultati tutt’altro che
rassicuranti.
Cinquemila sono partiti dalla Tunisia, 2.275 dall’Arabia Saudita, altri 2.000 dalla Giordania,
1.700 dalla Russia e 1.550 dalla Francia. Si aggiungono ai 1.400 miliziani giunti dalla
Turchia, altrettanti dal Marocco insieme ai 900 che si attivati dal Libano, ai 700 con il
passaporto della Bundesrepublik tedesca e all’equivalente partiti dal Regno Unito. Una
«marmellata» spaventosa, spalmata su una fetta dell’Europa troppo vasta per
circoscrivere l’infezione. L’Istituto Statista rileva anche il numero esatto degli attentati e
rivela i target di droni e caccia delle aviazioni di Usa, Russia, Francia, Giordania, Turchia.
Nell’ultimo anno si sono registrati 3.370 attacchi in Iraq, 1.821 in Pakistan, 1.591 in
Afghanistan, 763 in India, 662 in Nigeria e «appena» 232 in Siria. I morti nell’arco degli
stessi dodici mesi hanno superato quota 32.000.
Una lista nera, proprio come l’analisi degli air-strike della coalizione che ha sganciato
decine di migliaia bombe senza scalfire granché la capacità operativa dei terroristi. Il conto
ufficiale a fine giugno 2015 risulta pari di 7.655 missioni di guerra, 1.859 posizioni nemiche
distrutte, 2.045 edifici rasi al suolo, 472 accampamenti bombardati e 325 Health and
usage monitoring systems per lo più made in Usa annientate.
Le tabelle con i dati Centom dimostrano anche e inequivocabilmente che senza l’embargo
del petrolio agli Stati canaglia — nell’Opec come nel G20 — distruggere le pompe dell’oro
nero serve a poco. Le infrastrutture danneggiate o messe fuori uso sono 154, un po’ più
dei 98 carri armati annientati finora e molto meno degli altri 2.702 obiettivi non meglio
classificati.
Le cifre statistiche sono altrettanto illuminanti, quando si focalizza l’attenzione sul numero
delle vittime provocate dal terrorismo a livello planetario. Nel 2006, i morti erano 20.487 e
l’anno successivo diventano 22.719. Ma poi scendono costantemente: dai 15.708 del 2008
fino agli 11.098 del 2012. È lì che si registra plasticamente la svolta dell’effetto terrorismo
nel mondo, perché i morti salgono a 18.066 nel 2013 e addirittura a 32.727 durante l’anno
scorso
Il gruppo decisamente protagonista era Al-Qaeda che in 14 attacchi in altrettanti paesi ha
da solo provocato oltre 4 mila vittime. Dal punto di vista geografico, poi, le azioni del
terrorismo si concentrano nel Medio Oriente e nella zona meridionale dell’Asia: nel 2011
numericamente il triplo rispetto a Europa, Africa, Asia orientale e zona del Pacifico.
Infine, una «curiosità» contabile che tuttavia appare come spia dell’effetto collaterale alle
stragi. Il 24 aprile 1993 l’esplosione del furgone imbottito di esplosivo a Bishopgate nella
City di Londra – «firmata» dall’Ira – provocò un morto e 44 feriti. I danni materiali
ammontavano a 350 milioni di sterline, ma alla fine fu quasi un miliardo di dollari la somma
dei risarcimenti pagati dalle assicurazioni.
del 24/11/15, pag. 15
L’intervento
IO MI RIBELLO MA VOI AIUTATECI
Yasmin Choudhury
Imprenditrice britannica
Sadiq Khan vuole che le musulmane come me combattano contro l’estremismo, ma per le
donne dire la propria è pericoloso. Sono una musulmana da sempre, fin da quando ero
una bambina di cinque anni che leggeva il Corano vestita con l’hijab, seduta a imparare a
memoria brani enormi, il tutto per arrivare ad avere quel paradiso al quale mi veniva detto
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di dover ambire. Ero una bambina, non avevo la minima idea che quanto mi veniva
impartito non fosse l’Islam, bensì un sistema di credenze culturali ortodosso e malvagio,
pesantemente miscelato con misoginia, usanze e rituali.
Io lo chiamo «Tribalismo empio» ed è un qualcosa di ributtante e malvagio, ampiamente
praticato all’interno di una minoranza di comunità della diaspora, culturalmente
ossessionate come la mia, sparse in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Bangladesh.
Questo insieme di credenze continua a essere tramandato e guai a chiunque osi opporsi e
a chiunque osi obiettare. Questo è il motivo per cui, nonostante quanto vada dicendo il
laburista Sadiq Khan (candidato alla poltrona di sindaco di Londra, ndr ), non è così
semplice per i musulmani britannici — e in modo particolare per la donne musulmane —
sfidare il tribalismo, anche quando va a distorcere il vero volto dell’Islam.
Come donna musulmana, obiettare gli insegnamenti dei musulmani vuol dire dover
affrontare immediatamente la derisione, l’odio, la paura e l’espulsione. Mi è stato
insegnato che i ragazzi sono migliori delle ragazze. Mi hanno insegnato che sono gli
uomini a ereditare tutti i beni. Tutto ciò mi è stato insegnato nonostante sia assolutamente
contrario al Corano.
Non mi hanno però mai insegnato il chiaro messaggio esistente all’interno dell’Islam,
ovvero questo: nella religione non esiste la costrizione. L’Islam prevede specificamente
che le donne debbano avere accesso a vari tipi di ricchezze, tutte di loro esclusiva
proprietà e che nessun altro possa andare a metterci le mani sopra. Il nostro libro sacro
parla addirittura di parità di genere. Per esempio, nella Sura Al-Imran (3:195) si afferma:
«Io non manco mai di premiare qualsiasi lavoratore tra voi, per qualsiasi lavoro, sia questi
uomo o donna — voi siete uguali l’uno all’altro / l’uno viene dall’altro». Questi diritti
economici per le donne vengono negati dalla istruita comunità musulmana britannica al cui
interno sono nata. Mi sono stati nascosti alla vista per puntare invece il dito sulla mia
modestia e sulla mancanza dell’hijab ed è per questo che ora voglio dire la mia. Al giorno
d’oggi solo l’uno per cento delle donne a livello globale ha accesso all’intitolazione delle
proprietà. Io mi sto dando da fare per cambiare tutto ciò reclamando le mie quote di
terreno, reclamando i beni lasciati da mio padre in Bangladesh e in Gran Bretagna.
È stato dopo la tragica e improvvisa morte di mio padre nel 2004 che ho iniziato
lentamente a risvegliarmi, ma è stato soltanto nel 2012 che ho iniziato a sfidare la mia
famiglia e la mia comunità sulla loro versione dell’Islam. Ho chiesto per qual motivo solo gli
uomini potessero ereditare, quando in realtà il Corano fornisce per le donne espliciti diritti
economici e, secondo me, è la prima vera ideologia femminista. Non ho mai ricevuto
risposta. Ho cercato di resistere di fronte alla mia comunità tanto in Gran Bretagna che in
Bangladesh, dicendo loro di tornare al vero Corano, quello femminista, filantropicamente
umanitario e pacifico. È stato allora che sono iniziati gli orrori. La mia vita personale e
lavorativa è stata distrutta. Sono stata additata come puttana e sono stata minacciata.
Ecco perché dico questo alle donne musulmane: non opponetevi, perché non c’è alcun
sostegno per donne come noi. Se Sadiq Khan vuole che parliamo francamente, bisogna
che sia lui a finanziarci e proteggerci, poiché altrimenti non c’è nessuna rete di protezione
per noi. Il vero Islam porta i musulmani a essere brave persone. Questo è il motivo per cui
sospetto che la maggior parte dei buoni musulmani siano traumatizzati come lo sono io,
per l’orribile modo in cui la nostra religione è stata infiltrata da fazioni maligne come l’Isis e
da una malvagia ideologia culturale. Ma essere islamico è qualcosa di assolutamente
diverso dall’essere musulmano.
Vorrei solo che quelli come il signor Khan ascoltassero e proteggessero i musulmani
britannici, uomini e donne, che già stanno lottando per il cambiamento.
(Intervento pubblicato sul quotidiano The Independent. Traduzione di Luca Calvi)
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del 24/11/15, pag. 4
«Puntiamo all’indipendenza»
Siria/Iraq. In un'intervista al manifesto il portavoce del governo kurdo
iracheno spiega le divisioni interne e l'obiettivo di Erbil: l'indipendenza.
Le due superpotenze proseguono per la propria strada, mentre le
opposizioni moderate aprono ad al Nusra
Chiara Cruciati
ERBIL
«Il nostro obiettivo è chiaro, non ne facciamo mistero: puntiamo all’indipendenza del
Kurdistan all’interno dei confini iracheni». Va dritto al punto Safin Dezaee, portavoce del
governo regionale kurdo (Krg). Questo potrebbe essere il momento buono per premere
sull’acceleratore dell’indipendenza, ulteriore terremoto per un Iraq in pezzi, ormai gestito
da milizie e eserciti separati.
Ciò non significa che l’obiettivo sarà ampliato: l’autonomia dell’intero Kurdistan è
impensabile. «Dobbiamo essere realistici – spiega al manifesto Dezaee – Il Kurdistan è
stato diviso, il popolo kurdo è stato diviso. Una realtà triste ma in Iraq vogliamo vivere nel
presente. I kurdi vivono in condizioni geografiche e demografiche diverse nei paesi in cui
si trovano: in Turchia buona parte dei kurdi vive in Anatolia; in Siria è lo stesso, sacche di
kurdi in tutto il territorio. Una soluzione come quella del Kurdistan iracheno non è detto che
sia applicabile».
A monte le diverse visioni politiche e reti di alleanze che caratterizzano le altre realtà,
quella di Rojava e quella turca, inspirata dagli ideali del Pkk. Che Erbil si stia operando per
ottenere una maggiore autonomia da Baghdad non è un mistero e l’ultimo anno ne ha
palesato le strategie: «L’Iraq è già diviso. Per questo nel 2003 i nostri leader andarono a
Baghdad per proporre un Iraq federale, democratico e pluralista. Ma le cose non sono
andate così».
Né stanno migliorando: gli scontri a Kirkuk tra peshmerga e milizie sciite sono quotidiani.
Erbil rivendica la città come propria, seppure imputi al governo di Baghdad la
responsabilità dell’attuale situazione: «L’art. 140 della Costituzione irachena disegna una
road map per discutere lo status di Kirkuk – continua Dezaee – ma dal 2004 non è stato
implementato. Sembra che Baghdad deliberatamente ritardi questo processo. Quando
Mosul cadde in mano all’Isis, fu Baghdad a chiedere ai peshmerga di entrare a Kirkuk per
difenderla. Lo abbiamo fatto e ora restiamo».
Una situazione simile il Krg non la immagina per Mosul: si moltiplicano le dichiarazioni
sull’intenzione di non marciare sulla seconda città irachena. Lo ripete anche Dezaee:
«Mosul deve essere liberata da Baghdad, con l’eventuale sostegno dei peshmerga. Non è
un’operazione di per sé impossibile, ma è irrealizzaibile senza un piano di inclusione della
comunità sunnita, che ha appoggiato Daesh in risposta alle discriminazioni del governo
centrale. Se questo non accade, se la gente di Mosul e le tribù locali non vedranno la fine
del tunnel, probabilmente non parteciperanno alla liberazione della città».
L’ennesima divisione, insuperabile con gli attuali equilibri e i raid internazionali che si
concentrano sulla Siria e tengono in un angolo Mosul: ieri il governo iracheno ha sospeso i
voli sopra il Kurdistan a causa dell’intensità delle manovre aeree russe dal Mar Caspio.
Missili, però, diretti in Siria.
Putin a Teheran, Kerry ad Abu Dhabi
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Qui l’operazione russa copre la controffensiva dell’esercito governativo. Domenica
Damasco ha preso il controllo sia della superstrada nordorientale tra Latakia e Aleppo che
le colline di Zahia, lungo il confine turco, zona strategica che riaccende i timori di Ankara
per il sostegno indifesso di Mosca ad Assad. Un avversario condiviso con il Golfo e che,
nonostante tenga un profilo basso per garantirsi impunità nelle operazioni contro lo
Yemen, non disdegna di ritagliarsi un ruolo. Nel fine settimana Riyadh ha annunciato un
meeting il 15 dicembre delle opposizioni moderate siriane, per riunificare forze spezzettate
e poco rappresentative. Ieri a dare a re Salman una pacca sulla spalla è stato il segretario
di Stato Usa Kerry che è volato ad Abu Dhabi per incontrare le delegazioni emiratina e
saudita e dare il suo contributo ai negoziati.
Chissà se il segretario di Stato sarà stato inquietato dall’ultima uscita della Coalizione
Nazionale, alleato principe dell’Occidente: ieri il suo capo, Khaled Khoja, ha fatto appello
ad al Nusra e a chi al suo interno è «un rivoluzionario onorevole» perché prendano le
distanze da al Qaeda e si pongano sotto l’ombrello delle opposizioni moderate. Una
richiesta già mossa in passato e figlia degli obiettivi comuni: al Nusra ha fini nazionali e
non trasnazionali come il “califfato” di al-Baghdadi. Ma una simile apertura mostra la
legittimità che i moderati riconoscono ad un gruppo dichiarato terrorista dagli Usa e che
probabilmente vorrebbero parte dei futuri negoziati, visto che controlla la provincia di Idlib
e parte di Aleppo.
Nelle stesse ore, mentre il premier britannico Cameron annunciava per giovedì una nuova
richiesta al parlamento per un intervento in Siria, l’inviato speciale Usa faceva sapere che
«molto presto» nel paese arriveranno truppe speciali che organizzino le forze locali antiIsis. È probabile che saranno dispiegate a nord, dove sono attivi i combattenti kurdi, nuovo
riferimento della Casa Bianca, ma dove soprattutto è tornato attivo l’esercito governativo.
Si tratta del primo dispiegamento ufficiale di truppe Usa sul suolo siriano.
L’accelerazione è frutto del protagonismo russo. Mosca non perde tempo e ribatte: mentre
Kerry volava nel Golfo, Putin sbarcava a Teheran. Al centro della discussione con il
presidente iraniano Rowhani e l’Ayatollah Khamenei c’è stata la Siria e il piano di pace di
Mosca, molto simile a quello che Teheran ha tentato per mesi di far passare.
del 24/11/15, pag. 4
Il leader dell’Hdp Demirtas scampato ad un
attentato
Turchia. Spari contro la sua vettura, opposizioni sotto tiro di Erdogan
Giuseppe Acconcia
Il leader del partito democratico dei Popoli (Hdp), Salahettin Demirtas, è scampato ad un
tentato omicidio nella notte tra domenica e lunedì. La sua vettura è stata raggiunta da un
proiettile mentre si trovava a Diyarbakir, il capoluogo del Kurdistan turco. Secondo quanto
raccontato dallo stesso Demirtas, il colpo, sparato all’altezza della testa, è stato notato
dalle sue guardie del corpo solo quando sono scesi dall’auto. «La morte è nella volontà di
Dio», ha twittato con non poco fatalismo il leader kurdo dopo l’attentato. La polizia turca ha
smentito la ricostruzione dei fatti. Non è la prima volta che Demirtas subisce un tentativo di
omicidio. Sono numerose le denunce di bombe in sedi di Hdp a pochi minuti dai suoi
interventi. Lo stesso attacco di Diyarbakir del 4 giugno scorso era avvenuto a due passi
dal palco dove il politico avrebbe dovuto prendere la parola.
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Le violenze contro i kurdi non si sono placate dopo il voto del 1 novembre scorso che ha
sancito il definitivo ingresso in parlamento della sinistra filo-kurda. Per alcuni si è trattato di
un ridimensionamento del risultato elettorale del 7 giugno scorso ma in realtà Hdp ha
dimostrato di avere una base elettorale ben radicata sul territorio e molto motivata. A tal
punto che la grande attivista kurda, Leyla Zana, per giorni in sciopero della fame dopo
l’annuncio della campagna anti-Pkk, mascherata da azioni anti-Is, avviata dal presidente
turco Recep Tayyip Erdogan a luglio, ha voluto giurare in lingua kurda il giorno
dell’insediamento del nuovo parlamento, attirandosi le contestazioni di islamisti, kemalisti e
nazionalisti.
Ad appena tre settimane dal voto, sono 26 i morti nelle province kurde di Hakkari, Silvan,
Silopi e Nusaybin in scontri tra cittadini comuni e polizia. In molte di queste città vige il
coprifuoco ormai da giorni. Gli scontri più violenti si sono svolti a Nusaybin dopo undici
giorni di coprifuoco. Hasan Dag, 45 anni, è morto dissanguato perché non ha ricevuto cure
tempestive. Il co-sindaco di Cizre, roccaforte Hdp, Leyla Imret, è stata arrestata a
Diyarbakir. Come effetto del coprifuoco, decine di case a Nusaybin sono rimaste senza
acqua corrente e corrente elettrica, mentre gli ospedali locali risultano chiusi al pubblico.
Stessa sorte tocca anche ai combattenti kurdi delle Unità di protezione maschili e femminili
(Ypg-Ypj) che hanno subito un nuovo attacco dello Stato islamico nella città di Tel Abyad,
liberata lo scorso giugno. Un kamikaze su una moto-bomba si è fatto saltare in aria nel
centro urbano uccidendo due persone e ferendone venti. L’azione è una rappresaglia
lanciata in seguito all’avanzata dei combattenti kurdi siriani, insieme a militanti del Partito
dei lavoratori kurdi (Pkk) e peshmerga iracheni, che avevano ripreso la città di Sinjar da
oltre un anno nelle mani dei jihadisti.
È la politica di Giustizia e sviluppo (Akp), il partito del presidente, ad essere ambigua nei
confronti di Is e durissima verso i kurdi. I confini tra Turchia e Siria sono stati porosi al
passaggio di armi e uomini dei jihadisti e sigillati per i profughi kurdi e siriani. Erdogan ha
chiesto regole restrittive per la sua safe-zone in territorio siriano, l’invio di dieci mila soldati
turchi e la costruzione di un muro, in via di completamento, nel cantone di Efrine. Unione
europea e Nato non hanno mai criticato l’operato dell’esercito turco, anzi hanno promosso
la Turchia come paese sicuro per stabilire qui gli hotspot che altro non sono che punti di
detenzione per i profughi siriani che così non potranno raggiungere la Grecia e il resto
d’Europa.
Ma la Turchia sta subendo anche attacchi duri da parte di Is, che ormai è sfuggito di mano
anche alle autorità turche per diretta ammissione del premier Ahmet Davutoglu. Dopo
l’attentato di Ankara, costato la vita a 102 persone lo scorso 10 ottobre, un volo della
Turkish Airlines è stato dirottato due giorni fa in Canada in seguito ad un allarme bomba.
Per l’intelligence di Ankara, sarebbe stato sventato un attentato di Is al G20 di Antalya
della scorsa settimana. Il piano è stato rinvenuto sul computer di Yunus Durmaz, ritenuto il
capo della cellula di Is a Gaziantep, sud-est turco. Il computer era stato sequestrato a
ottobre in un’operazione sulle indagini sulla strage di Ankara.
del 24/11/15, pag. 5
Coloni e destra israeliana
“Una Barriera di difesa 2”
Israele/Territori occupati. I ministri della destra radicale e i coloni
invocano una operazione militare in Cisgiordania ampia e distruttiva
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come quella del 2002 per piegare i palestinesi e per impedire che sia
preso in considerazione un nuovo ritiro unilaterale di Israele.
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Una nuova “Muraglia di Difesa 2″. Ad invocare una seconda vasta operazione militare
come quella del 2002, all’interno dei centri abitati palestinesi, in particolare nel sud della
Cisgiordania, sono i coloni, i ministri della destra più estrema e anche qualche esponente
del centrosinistra, in risposta all’intensificarsi degli attacchi individuali compiuti da
palestinesi, spesso appena adolescenti. La nuova fiammata dell’Intifada di Gerusalemme
registrata in questi ultimi giorni dice che le misure punitive adottate dal governo israeliano
non fermano la nuova rivolta palestinese contro l’occupazione. E a poco serviranno, si
prevede, gli ulteriori provvedimenti annunciati ieri da Benyamin Netanyahu: saranno negati
i permessi di lavoro in Israele per i congiunti degli attentatori e gli autoveicoli palestinesi
saranno perquisiti prima del loro ingresso nelle maggiori strade della Cisgiordania dove
circolano anche gli automezzi dei coloni. Il primo ministro ha anche dato il via libera a raid
dell’Esercito in villaggi e città palestinesi. La soluzione però è politica, non repressiva, ma
il governo in carica continua ad escluderla, per salvaguardare la colonizzazione, capitolo
centrale del suo programma.
Negli ultimi giorni sono morti quattro israeliani in attacchi quasi sempre all’arma bianca.
Ieri e domenica, in particolare, sono stati uccisi un soldato, Zvi Mizrachi, 19 anni, a una
stazione di rifornimento sulla superstrada 443, e domenica una giovane, Hadar Buchris,
21 anni, nei pressi delle colonie di Etzion. Il palestinese, responsabile dell’uccisione del
militare è stato ucciso sul posto dagli spari di altri soldati. Si chiamava Jamal Taha, di
Qutna (Ramallah) ed aveva appena 16 anni. Giovanissime sono anche le due cugine del
campo profughi di Qalandiya, Hadeel Awad, 16 anni, e Norhan Awad, 14 anni, che ieri,
nella zona del mercato ebraico di Mahane Yehuda, hanno accoltellato un palestinese
70enne di Betlemme evidentamente scambiato per un israeliano. La prima è stata uccisa
da agenti di polizia. La seconda è stata ferita.
«Non c’è alternativa a una nuova operazione Muraglia di Difesa. Nel 2002 siamo andati
nelle città e nei villaggi palestinesi e li abbiamo ripuliti. Poi il terrore è sceso del 80%», ha
esortato il ministro Naftali Bennett, leader di Casa ebraica (il partito dei coloni). A distanza
di 13 anni nessun adulto palestinese ha dimenticato “Muraglia di Difesa”, quando, nel
pieno della seconda Intifada, il primo ministro Ariel Sharon ordinò di rioccupare le città
autonome palestinesi lasciate dall’esercito israeliano nel biennio 1994–95, dopo la firma
degli accordi di Oslo. Gli uccisi, non pochi dei quali durante combattimenti, furono diverse
centinaia, quasi tutti palestinesi. I carri armati Merkava israeliani si lasciarono dietro una
scia di morti, feriti e distruzioni immense evacuando, dopo settimane, Ramallah, Nablus e
Betlemme. A Jenin fu distrutto in buona parte il campo profughi da dove, secondo
l’intelligence israeliana, partivano i kamikaze palestinesi.
Per Bennett una nuova “Muraglia di difesa” serve anche ad impedire che Netanyahu
prenda in considerazione l’eventualità di un “Ridispiegamento 2″, ossia di un ritiro
unilaterale di Israele (da porzioni, ovviamente) della Cisgiordania sull’esempio di quanto
fece nel 2005 Ariel Sharon che evacuò da Gaza soldati e coloni. Il premier in pubblico ha
sempre escluso questa opzione ma sembra avere avuto un ripensamento. Bennett, con
una metafora piuttosto forte, criticata anche a destra, sostiene di aver «sparato un
proiettile in mezzo agli occhi» di Netanyahu. Dice di aver bloccato l’intenzione, espressa
due settimane fa dal premier al Center for American Progress di Washington, di poter
valutare una nuova mossa unilaterale di Israele. «Intorno a questa ipotesi si è fatto molto
rumore ma la verità è che Netanyahu non ha alcuna volontà di compiere un passo del
genere», ha detto al manifesto Shlomo Brom, un analista dell’Istituto per la sicurezza
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nazionale di Tel Aviv (Inss). «Una buona fetta di israeliani — ha aggiunto Brom — si rende
conto che non si può continuare con l’occupazione (dei Territori) e che occorre separarci
dai palestinesi. Tuttavia i vertici della politica e il governo si oppongono al ritiro. Forse sul
lungo periodo Netanyahu e i suoi ministri capiranno che non è possibile andare avanti su
questa strada, oggi però vanno nella direzione opposta».
del 24/11/15, pag. 8
Argentina, la vittoria del miliardario Macrì
Argentina. Primo presidente eletto che non appartiene né al peronismo
né ai radicali
Geraldina Colotti
«È cambiata un’epoca». Così il candidato delle destre argentine, Mauricio Macri, ha
salutato la sua piazza dopo la vittoria. Alle presidenziali di domenica — a cui ha
partecipato l’80,89% degli oltre 32 milioni di aventi diritto — il miliardario ha battuto
l’avversario kirchnerista Daniel Scioli (anch’egli imprenditore), guidando la coalizione
Cambiemos. Scioli, proposto dal Frente para la Victoria (Fpv) ha perso per pochi punti,
totalizzando il 48,60% contro il 51,40% di Macri. Quest’ultimo ha confermato una forte
presenza in tutti i distretti del centro del paese. Schiacciante la vittoria a Cordoba (71,6%
contro 28,4%).
Nella provincia di Buenos Aires, di cui Scioli è stato governatore per otto anni, il Frente
para la Victoria si è imposto per un pugno di voti: 4.833.680 contro 4.626.326 ( il 51,10%
contro il 48,90%). Un risultato insufficiente per indirizzare il corso nazionale, ma che
riconferma «la maledizione» di chi governa quella provincia determinante (pari al 37%
dell’elettorato nazionale), sempre perdente nella corsa alla presidenza del paese. Nel suo
tradizionale bastione, il Frente ha finito per mostrare la sua principale debolezza. In
compenso, è tornato a governare le province del Noa e della Patagonia. I risultati più
importanti di Scioli sono stati quelli di Santiago del Estero (72% contro 28%) e di Formosa
(63,7% contro 36,2%). Vittoria ampia anche a Tucuman, ma sconfitta inattesa nelle zone
di La Rioja o La Pampa.
Domenica sera, Scioli ha raggiunto i suoi sostenitori della Campora, del Movimiento Evita
e di Nuevo Encuentro, concentrati nella storica Plaza de Mayo. Ha dichiarato di aver fatto
«tutto il possibile» e ha ribadito i temi della campagna elettorale, basata sui meriti del
governo Kirchner: dalla lotta alla povertà e alla disoccupazione, a quella sul debito estero
nella battaglia contro i fondi avvoltoio. Conquiste – ha aggiunto – che occorrerà difendere
a partire dal 10 dicembre, quando Macri assumerà l’incarico.
Mauricio Macri ha condotto una campagna scimmiottando lo slogan usata negli Usa da
Obama nel 2008: «Sí, se puede», riadattato su «Yes, we can». Un indirizzo che sveste di
retorica i suoi discorsi rassicuranti con cui intende chiudere 12 anni di peronismo
kirchnerista (di Nestor Kirchner – dal 2003 al 2007 e della moglie Cristina, eletta per due
mandati dopo la sua morte dal 2007 al 2015).
«Impiegherò tutta la mia energia per costruire l’Argentina che sognamo, con una povertà
zero», ha promesso il miliardario. Poi ha tenuto a rassicurare i suoi referenti internazionali:
«Lo dico ai fratelli dell’America Latina, del mondo, vogliamo avere buone relazioni con tutti
i paesi, vogliamo lavorare con tutti», ha affermato. Quali siano i paesi a cui si riferisce è
apparso chiaro durante la campagna elettorale: prima di tutto voltare le spalle alle alleanze
solidali di Cuba e Venezuela e volgersi al campo subalterno agli Usa.
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Nel Mercosur cercherà di spostare gli equilibri fidando sull’omologo di centro-destra, il
paraguayano Horacio Cartes: un po’ indebolito dalla sconfitta alle recenti municipali, ma
sempre incarognito contro l’Alba e il Venezuela, e deciso a pesare sulle decisioni della
brasiliana Dilma Rousseff e della cilena Michelle Bachelet, pressate dalle destre nei loro
paesi. Il presidente boliviano Evo Morales, altro componente del Mercosur, ha preso
posizione per Scioli durante la campagna elettorale. Morales e Maduro sono stati però i
soli a opporti al trattato di libero commercio del Mercosur con l’Europa.
Il miliardario argentino, ex capo di governo della città di Buenos Aires e presidente del club
calcistico Boca Juniors tra gli anni ’90 e 2000, ha ricevuto le congratulazioni dei presidenti
del Messico, della Colombia e del Paraguay — bastioni del neoliberismo e del ricorso alle
armi contro l’opposizione sociale -, e delle destre cilene, uruguayane, ecuadoriane e
venezuelane. A esultare con lui a Buenos Aires c’era infatti anche Lilian Tintori, moglie del
golpista Leopoldo Lopez, il leader di Voluntad Popular: condannato per le violenze di
piazza contro Maduro che, l’anno scorso, hanno provocato 43 morti e oltre 800 feriti.
Dal ritorno alla democrazia (1983), Macri è il primo presidente eletto che non appartenga
né al peronismo né ai radicali, le due grandi correnti politiche del paese.
Tuttavia, è riuscito a coagulare un vasto arco di forze conservatrici decise a battere il
kirchnerismo. E a festeggiare la vittoria, domenica, erano con lui i leader della storica
Union Civica Radical e della Coalicion Civica. Il suo discorso conciliatore mira a
conquistare il sostegno di governatori e sindacati d’impronta peronista per far digerire al
paese le sue politiche neoliberiste. Insieme alla vicepresidente, l’ultraconservatrice
Gabriela Michetti, Macri promesso un indirzzo mefitico in tema di aborto, depenalizzazione
della marijuana, privatizzazioni delle imprese statali e dei beni comuni. E le forze popolari
sono pronte a dare battaglia. Finora, nessun presidente non peronista ha potuto terminare
il mandato in Argentina.
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INTERNI
Del 24/11/2015, pag. 10
La sicurezza
Il premier da Hollande Padoan: valutare spese extra. A Bologna espulsi
4 marocchini “Erano propagandisti della jihad”
Renzi: no a una Libia bis la pace inizia in
periferia. Il piano cyber-sicurezza scheda i
volti dei sospetti
ALBERTO D’ARGENIO
L’appuntamento è per oggi pomeriggio, ai Musei capitolini. Dalla sala dove nel 1957 venne
firmato il Trattato di Roma, atto di nascita dell’Unione, Matteo Renzi annuncerà una
proposta a tutte le forze politiche per la lotta al terrorismo. Sarà concentrata su due
direttrici: «La prima - ha spiegato lo stesso premier - è una risposta di sicurezza, che
riguarda le forze dell’ordine e l’intelligence. La seconda è di tipo culturale».
Sul fronte sicurezza, la proposta che il premier esporrà dalla sala degli Orazi e Curiazi
guarderà alla cybersicurezza, tecnologia per il riconoscimento facciale dei ricercati
mettendo in rete tutti i sistemi delle telecamere di sorveglianza, anche quelle private, con
un sistema che Renzi vorrebbe estendere a tutta Europa in modo da far dialogare le
diverse forze dell’ordine ed evitare una infinita caccia all’uomo come quella alla quale si
sta assistendo dagli attacchi di Parigi. Ma ci saranno anche provvedimenti legati alla
sicurezza nelle periferie, con un aumento delle forze dell’ordine. Proprio per rispondere
alla minaccia jihadista alla Camera verranno inseriti in Legge di Stabilità 3-400 milioni di
fondi aggiuntivi. E non è un caso che ieri il ministro Pier Carlo Padoan al termine
dell’Eurogruppo di Bruxelles abbia annunciato che anche l’Italia, come Francia e Belgio,
chiederà di sfilare dal calcolo del deficit le spese legate alla sicurezza.
Sul fronte culturale il premier parlerà di «un nuovo umanesimo » con proposte legate
alla cultura, all’identità e all’educazione anche in questo caso con un occhio (e fondi) alle
periferie.
Guardando alla Siria, invece, il capo del governo ribadisce che nella lotta all’Is «l’Italia non
si tira indietro, ma lo fa in uno scenario in cui non ci possiamo permettere una Libia bis
perché le conseguenze sarebbero superiori a quelle che è lecito attendersi ». Renzi
continua a chiedere una strategia complessiva, non solo militare, per sconfiggere Daesh e
nella direzione del Pd dedicata alla lotta al terrorismo incassa la compattezza del partito
sulla linea del governo. Intanto si prepara alla visita di domani all’Eliseo dove incontrerà
Hollande. Attraverso i canali diplomatici è stata anticipata la richiesta del presidente
francese, alleggerire l’impegno di Parigi in Libano e Iraq per permettergli di concentrarsi
sulla Siria. L’Italia è pronta ad rinforzare l’operato nella missione anti Daesh con l’aumento
di addestratori e munizioni, ma non è ancora certa la linea su una maggiore presenza
militare. Sempre alla direzione del Pd, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha spiegato
che contro il terrorismo «facciamo già molto, ma possiamo fare di più: alle domande che ci
rivolgerà la Francia possiamo dare risposte positive ma questo non vuol dire che l’Italia
deve sentirsi in guerra».
Ieri intanto il Viminale ha espulso quattro marocchini «per motivi di sicurezza dello Stato».
Ritenuti dei reclutatori, sono stati trovati in possesso di materiale di propaganda jihadista,
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un libretto tecnico per la guerriglia in città e la fabbricazione di bombe e una sorta di
manuale scaricato da Internet su come compiere un attentato alla sede della Bce.
del 24/11/15, pag. 9
Telecamere, agenti, perquisizioni
Roma si blinda per il Giubileo
Al via il piano straordinario. Più controlli nelle periferie multietniche
Giacomo Galeazzi
Sembra Gerusalemme, la città più blindata del mondo, ma in realtà è Roma. Non sono
diretti al Muro del pianto ma i pellegrini in marcia verso piazza San Pietro sono passati al
setaccio come se via della Conciliazione fosse la Spianata delle Moschee. Camionette in
strada, presidi moltiplicati davanti a scuole e basiliche, ma anche grandi magazzini, militari
nelle stazioni delle metropolitane e più controlli a campione.
Militari sul sagrato
La prova generale del primo Giubileo ai tempi dell’Isis è nelle tremila telecamere e nei
mille sensori anti-intrusione sui mezzi pubblici, nelle camionette militari davanti alle chiese
e anche nel vuoto di ambulanti abusivi sui sagrati e chiostri che fino a poche ore fa erano
bazar di immaginette sacre e rosari. Pattuglie sugli autobus, stazioni metro presidiate,
posti di blocco nel santo miglio che dal Tevere porta alla basilica vaticana.
«Stamattina in strada hanno chiesto i documenti anche a me», racconta un cardinale
all’uscita del palazzo delle congregazioni. «Meglio un falso allarme in più che una
segnalazione utile in meno», aggiunge con curiale saggezza. Mentre il Viminale annuncia
il decreto che stanzia fondi straordinari per l’Anno Santo, 2 mila uomini in campo per il
piano sicurezza cambiano ritmi e consuetudine secolari.
Via i dei souvenir
«La mia famiglia vende souvenir qui da generazioni, adesso ci hanno fatto spostare dal
colonnato», protesta a mezza voce un «urtista», cioè uno di quei commercianti del sacro a
buon mercato che nell’Urbe spuntano in mezzo ad ogni comitiva di turisti. Germano Dottori
insegna Studi strategici alla Luiss. Mostra la cartina: Colosseo, Pantheon, ambasciate
(francese, americana, inglese), Laterano, Parlamento. «Roma può essere difesa, non
snaturata - osserva -. L’obiettivo della mobilitazione in corso è rassicurare l’opinione
pubblica». Insomma è «la dimostrazione di una presenza massiccia per rendere visibile
che in caso di emergenza la risposta sarebbe tempestiva nei soccorsi e nella caccia ai
terroristi». Riflettori puntati su oltre mille obiettivi considerati sensibili, eventi a rischio,
autobus, metrò, luoghi di ritrovo, cinema, acquedotto.
Più agenti, tra il Pigneto e Torpignattara, aree ad alto tasso di immigrazione. Sorvegliati
speciali i principali monumenti da Fontana di Trevi alla Sinagoga. Nel quartiere Esquilino,
uno dei più multietnici della capitale, la rete di sorveglianza è palese: scuole, parchi, uffici
pubblici. Ma il Giubileo, avverte Dottori, «non riguarda solo Roma».
Periferie da monitorare
Dunque nel mirino jihadista, «possono finire articolazioni della Chiesa italiana», ossia
«Bologna dove in cattedrale un affresco raffigura Maometto condannato all’inferno,
Ancona e Perugia i cui cardinali sono vicinissimi a Francesco, diocesi d’arte come Venezia
o Firenze».
Anzi «più il dispositivo d’allerta è focalizzato sulla capitale, più restano scoperte le periferie
cattoliche ad elevata valenza simbolica, come Torino per la Sacra Sindone o Loreto che è
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sede del principale santuario mariano». Un anno fa a San Pietro «è spuntato indisturbato
Ali Agca, l’attentatore turco di Wojtyla che fu armato da quella Russia che oggi è la spada
della cristianità», segnala Dottori.
Quasi una segnalazione di come «l’incolumità di Francesco vada rafforzata». A un gruppo
scout lombardo alla stazione Termini la polizia ispeziona sacchi a pelo, zaini, sacche delle
chitarre e delle tende. «Va bene così - sorride il prete che li accompagna -. Dopo gli
attentati a Parigi nessuno si lamenta per una fila in più e poi all’Expo ci siamo già abituati
all’attesa»
del 24/11/15, pag. 7
Dalla sharia alla libertà di culto
Islamici a scuola di Costituzione
L’esperimento nel carcere di Bologna diventa un film
Giuseppe Salvaggiulo
Nessun talk show potrebbe ospitare dibattiti come quelli documentati nel film Dustur, in
concorso al Torino Film Festival. Per otto mesi il regista Marco Santarelli ha filmato nella
biblioteca del carcere di Bologna gli incontri di un gruppo di detenuti. Si tratta di uno
speciale corso scolastico, che superficialmente si potrebbe definire di educazione civica,
se non fosse che i detenuti-studenti sono tutti musulmani. Gli argomenti sono le regole, la
libertà, l’uguaglianza, la sharia, il rapporto tra istituzioni civili e religiose, la concezione del
reato e della pena, la differenza tra giustizia secolarizzata e amministrata in nome di una
divinità. Reazioni spesso spigolose, talvolta apertamente conflittuali.
Dustur in arabo significa Costituzione. E dai principi sanciti da quella italiana prendono le
mosse le discussioni coordinate da Ignazio De Francesco, un frate dossettiano della
comunità «Piccola Famiglia dell’Annunziata» che ha studiato diritto islamico e vissuto a
lungo in Medio Oriente. Ogni incontro ha un ospite esterno: professori universitari, imam,
islamologi, mediatori culturali. Il diritto al lavoro, la libertà di espressione, la libertà di culto
nella duplice declinazione confessionale e di proselitismo: gli articoli della Costituzione
sono analizzati e paragonati a quelli delle Costituzioni tunisina, egiziana e marocchina.
Così frate Ignazio introduce l’articolo 21: «Leggetelo. Anche in Italia, come in Tunisia,
abbiamo avuto una dittatura...». Un ragazzo chiosa: «Mussolini». Poi si passa all’articolo
della Carta tunisina che disciplina la neutralità delle moschee, il divieto di scomunica e di
uso partitico dei luoghi di culto. «Come mai la Costituzione italiana non deve usare le
stesse parole, “moderazione e tolleranza”?».
Non sempre le lezioni filano via lisce. Sulla sharia si accende il dibattito. «Attenzione: se
rubo in Italia finisco in prigione; in Arabia Saudita mi tagliano la mano». Un giovane
detenuto difende l’efficacia deterrente della legge sharidica: «Ecco perché in Arabia
Saudita nessuno ruba nemmeno un pezzo di pane. È giusto vivere così». Così sulla libertà
religiosa. Il frate pone una domanda: «Che cosa pensate di un cattolico che si converte
all’islam?». Tutti approvano. «E se un musulmano diventa cattolico?». «E’ libero, mica io
sono Dio per giudicarlo», dice uno. Ma ci sono anche mugugni e prospettive opposte.
«Come posso accettarlo io, se Dio non lo accetta?». «Io non starei in cella con lui». «È un
apostata, dovrebbe essere condannato a morte». Si apre la discussione, si richiamano i
testi sacri, si criticano le fonti, si mettono in discussione le prime risposte. Qualcuno alla
fine cambierà idea.
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L’ultimo incontro del ciclo è propositivo, una specie di gioco: come scrivereste la vostra
Costituzione ideale «in questo maledetto mondo»? Partecipa anche Samad. Ha 25 anni e
quando ne aveva 11 scappò dal Marocco per venire in Italia. È stato in carcere quattro
anni per traffico di droga, lì ha conosciuto frate Ignazio. Ora ha scontato la pena, lavora in
un’azienda metalmeccanica, di sera studia giurisprudenza.
Dai verbali di questi incontri è nato anche un libro intitolato «Diritti, doveri, solidarietà». «Il
bello di questi dialoghi - racconta Samad - è che insegnano a ragionare con la propria
testa». Vale per tutti. Te ne rendi conto sui titoli di coda di «Dustur».
Del 24/11/2015, pag. 20
Vatileaks, via al processo scontro sul no del
tribunale agli avvocati dei due corvi
Nominati i difensori d’ufficio. La Bongiorno: scelta incomprensibile
L’Osce: sbagliato accusare Nuzzi e Fittipaldi. La Fnsi: bavaglio alla
stampa
CITTÀ DEL VATICANO.
Giornalisti e presunti “corvi” alla sbarra stamane in Vaticano, nel processo sul caso delle
carte segrete pubblicate nei due libri-inchiesta di Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi. Ma
seri dubbi sono sorti ieri sulla possibilità per gli imputati di potersi difendere. L’avvocato
Giulia Bongiorno, legale dell’ex commissaria della Prefettura degli Affari economici
vaticani, Francesca Chaouqui, all’ultimo momento non è infatti stata ammessa come
difensore. «Mi sembra incomprensibile — ha detto — considerata la natura di questo
processo in cui si affrontano tematiche di grande rilevanza. È vero che non ho
l’abilitazione per patrocinare in Vaticano ma qualche mese fa me lo hanno permesso
senza problemi». E così avverrà per l’avvocato Antonia Zaccaria, difensore di Lucio
Vallejo Balda, il monsignore accusato con Chaouqui di avere diffuso i documenti. Entrambi
saranno assistiti da difensori di ufficio. Ma la questione riguarda anche i due giornalisti.
«Mi presenterò al Tribunale del Vaticano — afferma Fittipaldi — vedremo se ci sarà
l’opportunità di difenderci con le possibilità che una difesa deve avere. Al momento io non
ho ancora avuto in mano tutte le carte, i miei avvocati rotali se le stanno procurando». E
Nuzzi si presenterà all’udienza portando sul banco degli imputati il suo libro «come corpo
del reato». Ci sarà anche il quinto imputato: Nicola Maio, collaboratore del monsignore
spagnolo, accusato di aver fatto parte di una «organizzazione» con l’obiettivo di
raccogliere notizie e documenti riservati per divulgarli all’esterno.
Ma si è sollevata un’ondata di opinione contraria al Vaticano, sulla gestione della difesa
degli imputati. La rappresentante per la libertà dei media dell’Osce (l’Organizzazione per la
sicurezza e la cooperazione in Europa), Dunja Mijatovic, ha chiesto alle autorità vaticane
di ritirare le accuse penali nei confronti dei due cronisti: «Devono essere liberi di riferire su
questioni di interesse pubblico e di proteggere le loro fonti confidenziali». Raffaele
Lorusso, segretario generale della Federazione nazionale della Stampa italiana: «Bavagli
e censure non ci piacciono.
L’accusa di pubblicazione di notizie riservate non è degna di un Paese civile». I cinque
imputati compariranno stamane alle 10,30 nella stessa aula dove nel 2012 fu processato
Paolo Gabriele, il maggiordomo di Benedetto XVI, condannato e poi graziato dall’allora
Papa. Rischiano dai quattro agli otto anni di carcere.
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Del 24/11/2015, pag. 20
“Così la Santa Sede si sta mettendo fuori dal
diritto europeo”
VLADIMIRO POLCHI
ROMA.
«La legge della Santa Sede non si applica ai cronisti italiani ». Gaetano Azzariti,
costituzionalista alla Sapienza di Roma, ha letto le norme con le quali i giudici pontifici
vogliono incriminare Emiliano Fittipaldi e Gianluca Nuzzi. Il giurista va giù duro:
«Processando i due giornalisti, il Vaticano rischia di porsi fuori dall’Europa e dal suo
diritto».
Il nuovo codice penale vaticano non vale per gli italiani?
«Siamo davanti a un equivoco. Il nuovo articolo 10 del codice penale Vaticano punisce
“chiunque si procura illegittimamente o rivela notizie di cui è vietata la divulgazione”.
Letteralmente dunque si applica a “chiunque”. Ma così non è. Basta leggere la lettera
apostolica di accompagno delle nuove norme scritta da papa Francesco: le modifiche si
applicano solo ai dipendenti della curia romana. E i due giornalisti in questione non mi
paiono esserlo. Chiaro, no?».
Non è stata messa in pericolo la sicurezza di uno Stato estero?
«No, e anche questo conta. Le norme in discussione mirano a garantire la sicurezza dello
Stato della Città del Vaticano. A leggere i libri, non mi pare che sia la questione. Che
c’entra per esempio l’appartamento del cardinal Bertone con la sicurezza vaticana? Ma c’è
soprattutto altro».
Cos’altro?
«Il sistema di fonti del diritto canonico afferma che si recepisce la legislazione italiana
laddove non modificata o contraddetta da una legge vaticana.
Si applicano allora i principi fondamentali della nostra Costituzione e l’articolo 21 che
garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero e che sottrae la stampa da
autorizzazioni o censure».
E le norme internazionali?
«Il sistema giuridico vaticano si conforma anche alle norme internazionali. Tra queste,
ricordo l’articolo 11 della Carta di Nizza, che tutela “la libertà di opinione e di ricevere o
comunicare informazioni senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità
pubbliche e senza limiti di frontiera”. Ecco, le autorità della Santa Sede rischiano ora di
cozzare contro questa norma».
Nessun altro Paese occidentale si sarebbe comportato così?
«Diciamo che il Vaticano rischia di entrare in contrasto con la cultura giuridica europea».
Del 24/11/2015, pag. 13
Trattative, promesse e numeri in bilico
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Guerra sulla Consulta
Si scrive voto per la Corte Costituzionale, si legge gioco del cerino. E una soluzione pare
complicata. Perché il Pd e i Cinque Stelle prima si fiutano e poi duellano di mossa e
contromossa, con i dem a proporre ufficialmente Augusto Barbera e il M5S che risponde
Franco Modugno. Mentre Forza Italia cerca il varco per nominare il suo togato e magari
celebrare una Consulta da Patto del Nazareno bis. Ma al loro nome, Francesco Paolo
Sisto, credono poco pure i forzisti. Domani il Parlamento in seduta comune si riunirà per
eleggere i tre giudici mancanti alla Corte Costituzionale, che da luglio lavora con 12 togati
(uno sopra il limite legale). O meglio, per cercare di eleggerli. Il Quirinale ricorda da mesi
che non si può andare avanti così. Ufficiosamente, con telefonate e segnali vari, e
ufficialmente.
“Procedere alle nomine con la massima urgenza”, monitava il 2 ottobre scorso l’ex giudice
della Consulta Sergio Mattarella, ora presidente della Repubblica. Ieri mattina circolavano
voci e stime ottimistiche sulla votazione: pesante come uno snodo, perché presto alla
Consulta arriveranno i ricorsi a pioggia sulle riforme renzianissime, da quella del Senato al
Jobs Act. Ma la serata si è tinta di scontri e sospetti. Sembrano distanti, i 571 voti per
afferrare il quorum necessario dei 3/5 dei parlamentari.
Da qualunque lato la si tiri, la coperta è sempre corta. Sembra insufficiente anche per il
nome calato ieri dal Pd, Barbera: professore emerito di Diritto costituzionale all’università d
Bologna, già ministro con Ciampi, democratico, renziano. L’obiettivo, giurano i dem, era ed
è eleggerlo innanzitutto assieme al M5S, in una riedizione del metodo Sciarra. Era il 6
novembre 2014, e Pd e Movimento elessero alla Consulta la docente di diritto del Lavoro
proposta dai Democratici. In cambio, i 5Stelle ottennero l’elezione di Alessio Zaccaria al
Csm. Un anno dopo, il copione pare un altro. Perché i Cinque Stelle non vogliono Barbera.
Così emerge dalla partita a scacchi di ieri, con Ettore Rosato, capogruppo dem alla
Camera, che nel pomeriggio comunica ufficialmente il nome del costituzionalista a Danilo
Toninelli, lo sherpa del M5S. Ma Barbera è una carta che i 5Stelle non vogliono giocare. Il
no non arriva nero su bianco. Ma lo raccontano per filo e per segno dalla pancia del
Movimento: “Il professore è stato coinvolto in un’inchiesta della Procura di Bari su
presunte pressioni su un concorso universitario (per cui Barbera è stato denunciato dalla
Guardia di Finanza, ma non risulta indagato, ndr). Non possiamo rischiare di votare una
persona che in futuro potrebbe essere indagata”. E aggiungono: “Il Pd sapeva che non
avremmo potuto votarlo, stavamo discutendo di altri nomi”. Sulle agenzie però non
compaiono no formali. Lo stesso Toninelli all’Ansa butta un generico “su Barbare vedremo
domani (oggi, ndr) ”. La certezza è che una semivuota assemblea congiunta in serata vota
all’unanimità come candidato Franco Modugno, professore emerito di Diritto
costituzionale. Oggi potrebbe essere ratificato dagli iscritti sul blog di Beppe Grillo, ma non
è detto (“i tempi sono strettissimi” spiegano). Dal Pd ribaltano il discorso: “Il M5S si attacca
a pretesti, la vicenda di Barbera è inesistente. E noi voteremmo Modugno senza
problemi”. Poi pungono: “Se il no non è ancora nero su bianco, vuol dire che vogliono
ancora trattare”. Dal Movimento negano. La domanda successiva è: se il M5S non ci sta,
che succede? “Non possiamo che provare con gli altri” replicano dal Pd. E gli altri sono
innanzitutto i forzisti, che ripropongono Francesco Paolo Sisto. Ma senza i 127 voti dei
5Stelle è durissima. Quasi un’impresa, chiudere un accordo sulla coppia Barbera-Sisto.
La minoranza dem di votarlo non vuole saperne. “Ha sostenuto tutte le riforme, infierendo
pubblicamente su di noi: non è un nome di mediazione” è la sintesi dei borbottii fuori
microfono. E senza i malpancisti il Pd perde 50-60 voti. Dall’altra parte, Sisto non verrebbe
mai votato dai fittiani (lo ritengono un “traditore”, per aver aderito alla loro insurrezione e
poi fare marcia indietro). E dentro Fi il deputato non gode di consensi unanimi. Trovare la
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quadra pare complicato. A meno che il Quirinale non intervenga in modo pesante. E il
partito della Nazione regga con insospettabili risorse. Tra cui ovviamente ci sarà Denis
Verdini, ormai alleato costante. “Ce la possiamo fare” assicura un veterano dem. Ma
provarci e riuscirci sono due verbi lontanissimi.
Del 24/11/2015, pag. 14
Effetto Di Maio: Cinque Stelle cresce e sfonda
al Sud
Grillo non è più in prima linea, presto sparirà dal simbolo E per il
Movimento, dicono i sondaggi, non è una cattiva notizia
Una settimana fa gli iscritti certificati del Movimento 5 Stelle hanno deciso di togliere dal
simbolo il riferimento al sito di Beppe Grillo, sostituendolo con l’indirizzo della piattaforma
online del partito. Questa decisione ha marcato un’ulteriore evoluzione nel rapporto fra il
fondatore e il Movimento.
All’inizio l’identificazione era totale: telegiornali e talk show parlavano dei “grillini” quasi
solo attraverso spezzoni dei comizi del leader, con una presenza complessiva nei notiziari
delle principali reti nazionali pari al 5 per cento circa (dati AgCom). Visto il successo
ottenuto alle politiche, la strategia fu replicata per le europee del 2014 con il “VinciamoNoi
Tour” di Grillo. Ma nonostante uno spazio sui tg triplicato, i consensi nelle urne
registrarono un’inaspettata battuta d’arresto, scendendo dal 25 al 21 per cento. Ciò
indusse il vertice a rivedere le regole interne al Movimento sul rapporto con i media,
consentendo a numerosi esponenti di partecipare attivamente alle trasmissioni televisive.
Il cambiamento è stato messo alla prova in una campagna “quasi nazionale” come quella
delle Regionali dello scorso maggio, dove ad ereditare il palcoscenico sono stati gli
esponenti del cosiddetto “direttorio”. Nonostante il risultato non eclatante di quelle elezioni
(il 17 per cento), l’approccio viene confermato nei mesi successivi al voto, che vedono un
ruolo ancor più di secondo piano per Grillo e una maggiore presenza di Alessandro Di
Battista e Luigi Di Maio.
La “successione” e i nuovi volti
In molti, dentro e fuori il Movimento, pensano che il candidato ideale alla “successione” sia
proprio Di Maio, il volto istituzionale del M5S. Al punto che sono molti gli istituti
demoscopici che hanno iniziato a sondare l’indice di fiducia verso il giovane vicepresidente
della Camera. Osservando tali dati, si notano due cose: in primis, il consenso a Beppe
Grillo è in netta risalita rispetto ai minimi toccati a inizio 2015 (14,3 per cento di fiducia a
marzo), da quando cioè l’ex comico ha deciso quasi di scomparire dai principali mezzi
d’informazione, lasciando spazio ad altri. A questa risalita si accompagna un aumento di
consensi proprio al M5S, ormai in continua crescita da mesi, che lo posiziona sempre più
come principale antagonista del Pd – in attesa della riorganizzazione del centrodestra.
Molto significativo è anche il fatto che i consensi verso Di Maio siano superiori a quelli
dello stesso Beppe Grillo, e ne facciano il leader con il maggiore apprezzamento, ad
eccezione di Matteo Renzi.
L’elettorato che cambia
Questo nuovo clima di opinione porta quindi i cinque stelle a registrare un 27 per cento
nella media mensile delle intenzioni di voto, oltre 7,5 punti in più rispetto a gennaio: un
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record storico per il Movimento, persino superiore al risultato del 2013. Tuttavia, non è
mutata solo la composizione della leadership negli ultimi due anni. Anche l’elettorato ha
subito un’evoluzione.
Nel 2013 il M5S si presentava come un partito con le sue roccaforti sociali fra i lavoratori
autonomi (44,3 per cento), i disoccupati (40 per cento) e gli operai (38,4 per cento, dati
Demos), e particolarmente votato tra i più giovani. Inoltre, era diffuso su tutto il territorio
nazionale, capace di raccogliere voti nella campagna veneta come nelle città del Sud. Ora,
secondo i dati del CISE, il Movimento avrebbe perso il supporto di numerosi piccoli
imprenditori, ricevendo invece ulteriori consensi fra impiegati e tecnici privati. L’elettorato
si sarebbe spostato verso classi di età più mature (45-64 anni) e parallelamente ci sarebbe
stata una forte meridionalizzazione del voto. Ciò si era visto già nel 2014, quando 19 delle
20 province con il miglior risultato per il M5S erano situate al Sud (con l’unica eccezione di
Genova). Ora questo fenomeno si sarebbe accentuato, facendo del partito di Grillo il vero
polo anti-PD in tutte le regioni meridionali.
La “Lega” meridionale
Con i dati dei sondaggi odierni si può stimare che il Movimento sarebbe primo partito in
tutte le regioni a sud del Lazio, tranne la Basilicata. Questo fenomeno è il frutto di una
serie di flussi incrociati: da una parte settori importanti dell’elettorato settentrionale sono
tornati a votare la Lega Nord, e ciò ha causato una vistosa diminuzione dei M5S in tutto il
Nordest; dall’altra, il M5S è stato capace di intercettare al sud il voto di numerosi ex elettori
PD, e in quota minore di ex elettori di Forza Italia. Ciò ha rafforzato il ruolo dei Cinque
stelle come avversari di Renzi. Restano due nodi da sciogliere nel prossimo futuro, e che
potrebbero causare delle difficoltà a Di Maio e soci: riuscirà il M5S a rimanere attrattivo per
elettori con un’identità politica così eterogenea? E quando si arriverà a dover scegliere un
nome per un candidato premier, chi sarà il leader?
del 24/11/15, pag. 13
Rissa su Bassolino, Renzi stoppa il caos
“Moratoria fino a gennaio sulle primarie”
Ma sulla norma ad personam contro l’ex sindaco frenano anche i
renziani
Carlo Bertini
Dopo il caso De Luca, scoppia un’altra grana di prima grandezza a Napoli, dove l’auto
candidatura di Antonio Bassolino manda in tilt le fila del Pd locale e nazionale: lo stop di
Renzi, per bocca dei due vicesegretari, scatena il fuoco alle polveri: la motivazi one che un
sindaco con due mandati alle spalle, anche se lontani nel tempo, non deve più
ripresentarsi, con la minaccia della Serracchiani di una norma ad hoc nelle nuove regole
per le primarie, scatena un fuoco di reazioni. «Non si può cercare la soluzione con un
raggiro burocratico», attacca il bersaniano Stumpo, seguito a ruota dalla minoranza antirenziana di Cuperlo e Speranza. «Trasformare Bassolino in un martire civico di vecchi e
nuovi apparati agevolerebbe la nascita di una sua lista civica, che condannerebbe il partito
a una sconfitta», chiosa Gotor. Non solo: anche la proposta lanciata ieri da Renzi di
primarie il 20 marzo in tutte le città scatena i malumori locali, dopo che a Milano e Napoli i
tavoli di coalizione aveva già deciso di tenerle il 7 febbraio. Il premier in Direzione chiede
«una moratoria al dibattito sulle primarie fino a gennaio»; e più tardi con i suoi commenta
caustico le reazioni della minoranza che si sta schiacciando su Bassolino. Una
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candidatura che il Pd valuta negativamente e non accetta. Ma liberarsene non sarà cosa
facile.
Don Antonio tira dritto
Tanto per cominciare il diretto interessato tira dritto, convinto che questa norma «non ci
sarà» e cita i casi analoghi, «Bianco sta lì, Orlando sta lì. Si è detto gli ex sindaci, ma
quali?». Comincia la sua campagna elettorale con una visita significativa ad una onlus per
famiglie disagiate in un quartiere problematico, San Giovanni a Teduccio, della periferia.
Cita Troisi con un «ricomincio da tre». E rinfaccia a Renzi una dichiarazione in cui il
premier sosteneva che non si cambiano le regole delle primarie. «Sono d’accordo con lui»,
lo provoca. Usando argomenti tipicamente renziani, perché «sono giuste le regole che
tengono a includere e ad aumentare la partecipazione, non ad escludere». E perché
«Renzi stesso è figlio delle primarie». Con l’ultimo colpo che taglia ogni dubbio che si
faccia da parte: «Se le primarie le vince un altro, chiunque sia, avrà il mio sostegno. Se
dovessi vincere, vorrei lo stesso trattamento». Dunque, sfida lanciata e scontro aperto col
premier.
La ricerca del nome
Lo stato maggiore del Pd dunque cerca un candidato, si parla di una personalità della
cultura napoletana, mentre sfumano i nomi finora circolati, come Ranieri, Migliore o
Cozzolino. «Matteo vorrebbe evitare che tutta la campagna elettorale sia oscurata dal
binomio De Luca-Bassolino come esempi dell’incapacità del Pd di rinnovare la sua classe
dirigente», racconta uno degli uomini del premier per spiegare la genesi dello stop ad
un’altra candidatura ingombrante di colui che ai tempi d’oro veniva chiamato “O Vicerè”.
Ma che questo stop si traduca poi in una norma ad hoc per impedirgli di correre alle
primarie è da vedere, perfino i renziani sono consapevoli che potrebbe trasformarsi in
boomerang. Sarebbe un problema fare una norma stringente, ad personam, andrebbe
inserita nello statuto con un voto dell’assemblea nazionale a gennaio, mentre altra cosa
sarebbe una mozione di indirizzo, qualcosa di più di un auspicio e di meno di una norma
statutaria. Alla Direzione sulle amministrative, in gennaio, prima dell’assemblea per votare
le nuove regole delle primarie, verrà affrontato il problema. In quella sede, la segreteria
potrebbe proporre una norma di indirizzo più che un divieto che tra l’altro andrebbe oltre il
dettato della legge che non vieta un terzo mandato quando è trascorsa nel frattempo
almeno un’altra legislatura.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 24/11/15, pag. 20
La bimba morta come Aylan
«Nell’Egeo 70 piccoli cadaveri»
Il viaggio Faceva parte di un gruppo di siriani scomparsi durante la fuga
verso la Grecia
Aylan, nell’immagine che a settembre ha commosso e indignato tutti, era tenuto in braccio
dal poliziotto turco con delicatezza, come se fosse solo addormentato. E invece era
annegato davanti alle coste turche nell’illusorio tentativo di raggiungere l’isola greca di
Kos. Due mesi dopo, ci sono un’altra foto e un altro bambino, anzi una bambina di 4 anni,
di nome Sena. Anche questa volta è stata scattata nel mare di Bodrum, e c’è sempre un
militare che la raccoglie senza vita tra gli scogli. Sembra afferrarla come se fosse uno
straccio, e tale sembrerebbe davvero se non fosse per quei due piedi, uno dei quali ha
perso la scarpina rossa. In primo piano, un altro militare filma il recupero per l’indagine, e
per un attimo ci distrae dall’orrore.
Dopo due mesi la stessa scena negli stessi luoghi, e non è una coincidenza. Migliaia di
migranti, moltissimi siriani come Aylan e Sena, ogni giorno cercano una porta per l’Europa
e i trafficanti di uomini spesso li accompagnano qui, a Bodrum, la capitale del turismo
estivo e dei caicchi. I barconi dei disperati non sono né lussuosi né sicuri, l’isola di Kos si
vede a occhio nudo ma la traversata è incerta. L’organizzazione Medici senza frontiere ha
stimato che negli ultimi due mesi 300 persone sono morte nel tentativo di attraversare
l’Egeo, e 70 erano bambini.
Come Aylan e come Sena. Sappiamo che si chiamava così perché nel naufragio avvenuto
mercoledì scorso si sono salvati in cinque. Uno di questi, Mirvan Hassan, l’ha riconosciuta
dai pantaloni blu e dalla maglietta rossa (gli stessi colori di Aylan), e ha raccontato che
viaggiava con la madre. In quindici erano scomparsi tra le onde. Nove corpi sono stati
recuperati, quello di Sena è stato restituito dal mare domenica scorsa. Era incastrato tra le
rocce dell’isola di Catalada, cinque chilometri al largo della cittadina di Turgutreis. Tutti i
cadaveri sono stati trasferiti a Mugla, il capoluogo della provincia, per l’autopsia.
Il fotografo che ha scattato la foto si chiama Gokay Karadut e lavora per l’agenzia turca
Anadolu. Probabilmente avrà meno notorietà della collega Nilüfer Demir, l’autrice dello
scatto di Aylan. Anche questa volta l’immagine ha fatto il giro di giornali e tv, è stata
postata e rilanciata sui social network, ha provocato commozione e indignazione. E ha
ricordato, dopo i fatti di Parigi, che la stragrande maggioranza della popolazione fugge
dalla Siria sognando una nuova vita, non per uccidere.
Ma probabilmente farà un po’ meno effetto di due mesi fa. Perché ci si abitua a tutto.
Anche a una bimba senza vita che sognava soltanto di crescere nel nostro mondo.
Riccardo Bruno
Da Avvenire del 24/11/15, pag. 12
Scuola: alunni 'stranieri' stabili
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Sempre 800mila i non italiani, ma il 51% è nato qui
ENRICO LENZI
MILANO
Rallenta, stabilizzandosi, il numero degli alunni di cittadinanza non italiana iscritti nella
scuola del nostro Paese. Anzi, nelle materne e nelle medie la loro presenza,
complessivamente, si riduce rispetto all’anno precedente, mentre aumenta negli altri due
gradi del percorso d’istruzione (elementari e superiori). Sono alcuni dei dati che emergono
dall’annuale fotografia che il ministero dell’Istruzione scatta sulla propria popolazione
studentesca. L’anno di riferimento è quello scolastico 2014/2015 (dunque lo scorso) e
qualche elemento significativo lo evidenzia.
Il numero complessivo. Gli studenti con cittadinanza non italiana sono 805.800, che
rappresentano il 9,2% dell’intera popolazione studentesca. Di fatto rispetto all’anno
precedente ci sono soltanto tremila nuovi ingressi, che spostano di pochi decimali le
percentuali in tutti gli ordini di scuola: alla materna sono il 10,2% (+0,2), alle elementari il
10,3% (+0,3), alle medie il 9,6% (invariato) e alle superiori il 7% (+0,2%). Ma in termini
assoluti - ed è qui la novità -, assistiamo per la prima volta da quando vengono effettuate
queste rilevazioni, abbiamo un calo di alunni alle materne (quasi duemila), e per il secondo
anno consecutivo alle medie (4.300 in meno). Aumentano, invece alle elementari (+5.400)
e alle superiori (+3.700). Altro dato interessante il numero degli studenti «stranieri» nati in
Italia: sono il 51,7% del totale dei bambini con nazionalità non italiana. Un dato che
diventa più consistente nelle materne (84%) e nelle elementari (64,4%), mentre nelle
medie e nelle superiori prevale ancora il numero degli studenti non italiani nati all’estero.
I gruppi nazionali. Viene confermata in blocco la classifica dei dieci Paesi più presenti nelle
scuole italiane: Romania, Albania, Marocco, Cina, Filippine, Moldavia, India, Ucraina, Perù
e Tunisia. Analogo discorso per quanto riguarda la loro distribuzione tra le 20 Regioni
italiane: quella che ospita nelle proprie aule più alunni con cittadinanza non italiana resta
la Lombardia, con 201.633 studenti (pari a un quarto del totale nazionale). Ma se
raffrontata con le altre Regioni in termini percentuali, scende al secondo posto superata
dall’Emilia Romagna che registra un’incidenza maggiore di studenti con cittadinanza non
italiana sul totale, pari al 15,5% contro il 14,3% della Lombardia, che precede l’Umbria con
il 14,2% (che ha complessivamente 17.463 studenti non italiani).
Il percorso post diploma. Il rapporto del Servizio statistico del ministero offre anche uno
spaccato di cosa accade dopo il conseguimento del diploma di scuola superiore. Solo il
33,1% degli studenti non italiani si immatricola all’università nello stesso anno in cui
termina le superiori, contro il 50,3% degli italiani. Ma il «sorpasso» avviene se si guarda
l’indirizzo di studio dal quale provengono. In questo caso gli italiani vengono superati dai
loro compagni non italiani nel percorso tecnico (32 contro il 30,9%) e in quello degli istituti
professionali (13,7 contro l’11,3%) Dati che in parte sembrano ridimensionare la scelta
dell’area tecnico-professionale da parte degli alunni con cittadinanza straniera soltanto per
approdare in fretta nel mondo del lavoro. E se si guarda le macroaree didattiche scelte da
chi si immatricola all’università si vede che le percentuali maggiori degli studenti non
italiani predilige quelle sociale e umanistica, rispetto ai loro compagni italiani.
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WELFARE E SOCIETA’
del 24/11/15, pag. 7
Povertà, deprivazione, esclusione: ritratto
sgomento dell’Italia nel 2014
Istat. Uno su quattro a rischio povertà: il 28% dei residenti. Il presidente
dell’Inps Boeri: «Se trovassimo le risorse guarderei con favore a un
reddito minimo senza alcun requisito anagrafico»
Roberto Ciccarelli
ROMA
Non c’è tregua per chi vive di annunci sulla crescita, mentre l’ottimismo non riduce le
diseguaglianze galoppanti. In Italia la povertà non cala, oltre una persona su quattro, il
28,3% della popolazione, era a rischio povertà o esclusione sociale nel 2014. Il report
dell’Istat sul reddito e le condizioni di vita degli italiani conferma un dato stabile nella crisi:
il 19,4% è a rischio povertà, l’11,6% vive in famiglie gravemente deprivate e il 12,1% in
famiglie a bassa intensità lavorativa. Il dato complessivo (28,3%) è supaeriore di quattro
punti percentuali rispetto alla media dell’Unione Europea: il 24,4%. La povertà in Italia è
inferiore solo alla Romania (40,2%), alla Bulgaria (40,1%), alla Grecia (36,0%), alla
Lettonia (32,7%) e all’Ungheria (31,1%) ed è superato di poco da Spagna (29,2%),
Croazia e Portogallo.
Rispetto al 2013 l’indicatore del rischio povertà o esclusione sociale è rimasto stabile. Per
il secondo anno consecutivo diminuiscono le persone gravemente deprivate (dal 12,3%
del 2013 all’11,6% del 2014, il minimo dal 2011), ma l’istituto nazionale di statistica
sostiene che la diminuzione è stata compensata dall’aumento della quota di chi vive in
famiglie a bassa intensità lavorativa (dall’11,3% al 12,1%). In altre parole di chi non può
permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni (dal 13,9% al 12,6%), una
settimana di ferie all’anno lontano da casa (dal 51,0% al 49,5%), una spesa imprevista da
800 euro (dal 40,2% al 38,8%) e aumenta la quota di chi vive di lavoro povero. Il lavoro —
quando esiste — è scarsamente produttivo e, soprattutto, non migliora affatto la
condizione sociale ed economica dei nuovi poveri.
Le famiglie dove componenti tra i 18 e i 59 anni hanno lavorato meno di un quinto del
tempo salgono infatti dall’11,3% del 2013 al 12,1% nel 2014. L’aumento del lavoro povero
a bassa intensità produttiva è una realtà che ha interessato nel 2013–4 le famiglie
meridionali: l’Istat stima l’aumento dal 18,9% al 20,9%. Si tratta di famiglie numerose,
coppie con figli (dall’8,3% al 9,7%) e figli minori (dal 7,5% all’8,9%); famiglie con membri
aggregati (dal 17,8% al 20,5%). Il Mezzogiorno è un paese a parte. Al Sud, infatti, il rischio
«povertà-esclusione sociale» è calato leggermente al 46,4% del 2014 dal 48% del 2013.
Ma la distanza con il Nord e il Centro è abissale. Qui il rischio cala al 17,3% e al 22,8%. I
valori sono praticamente doppi Inoltre il reddito mediano al Sud si attesta a un livello
inferiore del 17% al dato nazionale: 20.188 euro l’anno (circa 1.682 euro al mese), mentre
esiste una maggiore disuguaglianza perché l’indice di Gini si è attesta a 0,305.
I dati Istat sul rischio di povertà ed esclusione mostrano una situazione «estremamente
allarmante», secondo Federconsumatori e Adusbef, che chiedono un piano straordinario
per il lavoro. «Peggiora il dato di chi ha arretrati per il mutuo, l’affitto e le bollette, salendo
al 14,3%, un record — afferma il segretario dell’Unione nazionale dei consumatori
Massimiliano Dona — Il 49,5% non può permettersi di andare in ferie per una settimana,
per quanto nel 2013 la percentuale fosse al 51%, vuol dire, comunque, che stiamo peggio
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rispetto al Dopoguerra, quando anche le famiglie di operai, in agosto, con la chiusura delle
fabbriche, potevano tornare nel loro paese d’origine e passare le vacanze con i parenti».
«È necessario — ha sostenuto il capigruppo di Sinistra Italiana Arturo Scotto — introdurre
la misura del reddito minimo. Una misura contro la povertà e contro la precarietà è oramai
indispensabile per garantire una vita dignitosa a oltre 10 milioni di poveri». Il governo
Renzi sta lavorando all’ipotesi, riduttiva, di un sussidio contro le povertà assolute, non un
reddito di inclusione sociale o un vero reddito minimo — cioè una misura universalistica
rivolta sia ai poveri che non lavorano sia ai lavoratori poveri. Questo dibattito si svolge in
un’estrema penuria di risorse, spostate sul taglio delle tasse sulla prima casa, gli 80 euro
per i dipendenti e altre misure per i consumi che non ripartono.
“Se esistessero — ha riconosciuto ieri il presidente dell’Inps Tito Boeri — guarderei con
favore alla possibilità che il reddito minimo». Per il momento c’è solo la proposta di un
sussidio per gli over 55 che hanno perso il lavoro da finanziare con il taglio delle pensioni
medio-alte e i vitalizi. Proposta respinta dal governo.
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DONNE E DIRITTI
Del 20/11/2015, pag. 1-23
Donne, il giorno è più corto un’ora in meno
per il relax
I dati Istat sul tempo libero: gli uomini ne hanno 60 minuti in più La cura
della casa resta al femminile, Italia fanalino di coda in Europa
IRENE MARIA SCALISE
Super donne, super mamme e super mogli. Le donne italiane hanno un orologio che,
paragonato a quello degli uomini, sembra segnare meno minuti. Tempo libero? Poco. Ogni
giorno, calcola l’Istat, esattamente un’ora in meno dei maschi. In ufficio? Il necessario, ma
nelle pause si fa la spesa. Tv e sport? È forse un atavico senso di colpa ad autorizzare
solo svaghi brevi e poco rilassati. Solo per una cosa le donne il tempo lo trovano sempre:
la cura della famiglia e della casa, cui dedicano il triplo del tempo rispetto agli uomini. Che
siano proprio loro le “fondamentaliste riluttanti” del cambiamento, che se non strafanno,
non dormono serene? Va detto però che i signori mariti, che alla vita familiare dedicano
un’ora e mezzo al giorno, non aiutano la rivoluzione.
E c’è di più: i dati Eurostat provano che la mania di perfezionismo non è comune a tutta
l’altra metà del cielo. Nel nord Europa, le wonder woman il maledetto gusto del martirio
sembrano averlo accantonato da un pezzo. In Norvegia si rilassano appena 12 minuti in
meno dei maschi, in Svezia 20, in Germania 28 e in Belgio 30. Per essere in buona
compagnia bisogna guardare alla Spagna, quasi che il clima mediterraneo inciti al
sacrificio.
Certo, qualcosa è cambiato anche da noi. «I paragoni con 25 anni fa rivelano — spiega
Maria Laura Sabbadini, direttore del dipartimento statistiche sociali dell’Istat — come il
carico di lavoro familiare delle donne sia diminuito di 49 minuti al giorno,mentre è
aumentato quello retribuito ». Non solo. «È lievitato di 36 minuti il periodo che gli uomini
dedicano alla casa. Ma lo fanno a modo loro: stanno di più con i figli ma di stirare, lavare e
far la spesa quasi non se ne parla». Se si guarda nel dettaglio, l’orologio della coppia si
deforma ancora: «Se lui legge o guarda la tv per 2 ore e mezzo al giorno, lei lo fa appena
per due. Se lui passa in ufficio 8 ore lei poco più di 6 e mezzo. Gli uomini si dedicano allo
sport quasi il doppio delle compagne e socializzano 10 minuti in più».
Un’interpretazione arriva da Chiara Saraceno, sociologa della famiglia: «La giornata
femminile è “diversamente piena”. Le ricerche dimostrano che se una donna è impiegata,
la sua media di occupazione complessiva, pagata e non, è molto più lunga. In pratica,
sommando il lavoro stipendiato e quello familiare, le donne lavorano una media di 9 ore in
più a settimana. Una sorta di “mese di febbraio lavorativo” in più l’anno». Ma non ovunque
è così. «In Italia la differenza è più marcata — aggiunge Saraceno — e le donne sono
penalizzate da un fatto di mentalità perché gli standard di ordine della casa sono
altissimi». Neppure la generazione Millennial ha saputo reinventarsi: «Sono abbastanza
organizzati per il periodo, di solito breve, in cui vivono soli e sono single. Con il matrimonio
tornano indietro ». Aggiunge Sonia Bertolini, sociologa dei Processi economici e del lavoro
dell’università di Torino: «Le differenze di genere quando si parla di tempo libero
persistono. Le donne se ne concedono poco, da giovani studiano di più e da adulte si
dedicano alla famiglia e all’ufficio». Ma c’è qualcosa di più sottile: «Un recente studio sulla
carriera dimostra come le donne, anche se guadagnano di più e hanno un ruolo di
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responsabilità, siano soddisfatte del sovraccarico di lavoro domestico — precisa Bertolini
— Gioca a loro sfavore un fattore culturale e andrebbe rilegittimato un nuovo modello di
riferimento». Come fare un salto di mentalità? «Spesso una costrizione come la nascita di
un figlio o il licenziamento del marito può cambiare le cose perché si ristrutturano le
preferenze e le famiglie rivedono le tradizioni. Il telelavoro può aiutare, ma solo se pensato
con effetti benefici su entrambi, altrimenti ghettizza la donna».
del 24/11/15, pag. 22
SALVATE DAL LAVORO
Paternità Mi fa tristezza vedere un uomo che prende solo un giorno di
congedo quando nasce il figlio Signor presidente Se mi chiamano
“signor presidente”, io non mi sento più stimata, mi arrabbio
L’appello della presidente della Camera Boldrini: l’occupazione
femminile è un’arma antiviolenza, ma il Jobs act non sta aiutando le
donne
Alla vigilia della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Laura Boldrini
lancia l’allarme: «Dalla crisi economica non si esce, se non rilanciando l’occupazione
femminile». Per la presidente della Camera è priorità assoluta realizzare il dettato
dell’articolo 3 della Costituzione, «il più bello di tutti», declinandolo al femminile: «Compito
della Repubblica è rimuovere gli ostacoli che limitano dignità, libertà e uguaglianza della
donna, impedendole di trovare il suo posto nella società».
Di ritorno dalla camera ardente di Valeria Solesin, la terza carica dello Stato aprirà domani
il convegno «La ripresa è donna», nella Sala della Regina. E la scelta di dedicare
l’incontro alla ricercatrice veneziana uccisa dai terroristi a Parigi, ha per lei un forte valore
simbolico. «La sua eredità di donna consapevole che aveva fatto esperienze nel sociale è
un esempio positivo per tante ragazze», riflette Boldrini citando passi dell’articolo Allez les
filles, au travail , firmato nel 2013 dalla giovane dottoranda alla Sorbona: «Il 76% degli
italiani ritiene che un bambino soffre quando la madre lavora fuori casa, mentre in Francia
quel dato è al 41%... È un problema culturale, il nostro».
Cosa si può fare per accelerare il cammino verso la parità?
«Il Fmi dice che, se non rilanciamo l’occupazione femminile, l’Italia perde potenzialmente
15 punti di Pil. Una donna che lavora è più libera dalle violenze domestiche, perché
indipendente e conomicamente e rispettata socialmente. In Italia solo il 46,8% delle donne
lavora ed è una delle percentuali più basse in Europa, un grave svantaggio per il Paese.
Vogliamo continuare a penalizzarle, o dar loro un ruolo sociale? Serve, tra le altre cose,
una più equa distribuzione degli oneri familiari e quindi anche un congedo parentale più
equilibrato tra i genitori».
La legge secondo lei non basta?
«La legge attuale concede agli uomini un congedo irrisorio e per di più sono pochissimi
quelli che se ne avvalgono. Mi fa tristezza quando un uomo si vanta di aver preso un solo
giorno di congedo per la nascita del figlio. Condividere le responsabilità fa bene al
bambino, ai genitori e fa evolvere la società».
In concreto, lei cosa propone?
«Servono più servizi per l’infanzia e per gli anziani. Lo Stato non può pensare che le
carenze del welfare si risolvano gravando sulle donne».
Il suo bilancio, a metà legislatura?
55
«Questo Parlamento, composto per il 30% da donne, ha approvato la convenzione di
Istanbul, il decreto sul femminicidio e, da ultimo, alla Camera abbiamo anche istituito
l’Intergruppo delle deputate per le Pari opportunità».
Non c’è da lavorare anche sul linguaggio?
«Certo, lo dico da tempo. La segretaria generale della Camera, che per la prima volta è
una donna, ha inviato una circolare agli uffici affinché nei resoconti venga correttamente
usata la declinazione di genere. Io stessa ho scritto alle deputate e ai deputati chiedendo
di adottare un linguaggio rispettoso del genere. Ma il problema non esiste solo in
Parlamento. Dovremmo riflettere sul perché si dice operaia, infermiera, o contadina e c’è
invece resistenza quando si deve dire avvocata, sindaca, o ministra».
Boschi e Pinotti preferiscono farsi chiamare ministro e non ministra.
«È una loro scelta, che va rispettata. Ma in generale mi preoccupa quando le donne
ritengono che declinare la loro professione al maschile le renda più autorevoli. Se un
deputato mi chiama “signor presidente” io non mi sento più stimata, penso che sta facendo
un errore. Usare solo il maschile per i ruoli di vertice significa non voler riconoscere alle
donne tali posizioni».
Il Parlamento non è sempre un modello.
«Gli insulti sessisti in Parlamento sono deprecabili, anche per il riflesso che hanno nella
società. Per una corretta percezione delle donne, però, tutte noi dobbiamo impegnarci,
ognuna nel suo ambito. Non si può abbozzare. Se si lascia correre, sia nel linguaggio che
nelle discriminazioni, ci si rende complici».
I fondi sono esigui, ci sono ancora margini di azione nella legge di Stabilità?
«Ho voluto organizzare questo convegno anche per fornire degli input che, mi auguro,
potranno essere considerati nella legge di Stabilità e, più avanti, nel Def».
Il Jobs act non funziona?
«Tante giovani continuano a essere penalizzate ed è sempre più difficile per loro andare a
vivere da sole e programmare un figlio. Temo che per molte il Jobs act non abbia
sbloccato la situazione. Una donna su quattro lascia il lavoro quando resta incinta. È un
dato allarmante. Bisogna anche aumentare incentivi e sgravi fiscali per chi assume le
donne. C’è un enorme capitale umano femminile che viene trascurato, ma la ripresa
economica passa da qui».
Le cronache sono piene di fatti di sangue: su dieci donne uccise, sette avevano
denunciato l’assassino.
«Per riconoscere la violenza ci vuole personale formato, capace di cogliere il campanello
d’allarme. E bisogna lavorare di più su prevenzione e istruzione. Mi ha colpito un dato
allarmante contenuto nella ricerca della onlus We World: il 32% dei giovani ritiene che la
violenza domestica debba restare in famiglia, quando invece la convenzione di Istanbul la
definisce violazione dei diritti umani».
I dati dei delitti contro le donne mettono i brividi.
«È importante educare i bambini alla parità da subito, introducendo il tema del rispetto di
genere e della condivisione degli oneri sin dai primi anni di età, in famiglia e sui banchi di
scuola. Ma tutto questo non si può fare senza coinvolgere gli uomini».
Monica Guerzoni
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del 24/11/15, pag. 22
Piani regionali e finanziamenti. I conti che
non tornano
Lo stallo Mancanza di trasparenza e criteri non omogenei: le critiche dai
centri Dire
A che punto sono i programmi di aiuto. Come abbiamo imparato a
chiudere prima le storie «tossiche»
Ancora un 25 novembre che per molti, e molte, potrà sembrare ridondante di convegni,
rassegne, appelli, simboli. C’è chi si chiede se la parola femminicidio abbia allontanato più
che sensibilizzato sui temi che riguardano il rispetto, la parità e le relazioni tra uomini e
donne; se la parola femminista chiuda l’attenzione a circoli ristretti. In dieci anni il riflettore
che accende il 25 novembre ha comunque portato nelle case l’idea che botte in famiglia,
molestie, stupri non appartengono alle normali relazioni tra donne e uomini. Dal 2005, il 25
novembre ha obbligato la politica italiana, la società, i media, le persone a prendere atto
che non sono fatti privati. Non riguardano l’intimo di chi li fa e chi li subisce, non sono una
questione femminile. Qualcuno pensa sia ancora troppo poco. È una consapevolezza. I
cambiamenti sociali sono lenti, ma hanno spinto il governo a legiferare, non senza
polemiche, per rispondere all’emergenza .
Un 25 novembre, allora, in cui tirare le fila. Meno silenziose, meno isolate, meno disposte
a subire sono le donne secondo l’ultimo rapporto Istat. L’informazione più attenta e il clima
di condanna hanno dato qualche risultato. Sottile, ma c’è: raddoppiano quasi le denunce e
le richieste di aiuto, le donne mostrano maggiore consapevolezza e capacità di chiudere i
rapporti violenti o prevenirli. Le violenze fisiche e psichiche hanno una leggera flessione
ma sono quasi raddoppiate le aggressioni che causano ferite, mentre il calo di quelle
psicologiche può far pensare che anche tra gli uomini ci sia una nuova presa di coscienza.
I numeri restano, però, impressionanti: quasi 7 milioni di ragazze e donne mature sono
state oggetto di violenza fisica o sessuale.
Le donne uccise sono solo l’ultimo atto di uno schiaffo, un whatsapp troppo invadente, un
ordine (a non lavorare, a non vedere certi amici, a non portare quella gonna), che a volte
sembra ancora amore. Non è amore, e il concetto va ripetuto. Sconcerta il numero delle
sopravvissute per un filo, 101 nel 2014, secondo la Casa delle donne per non subire
violenza di Bologna. Per una donna aggredita e malmenata, e per i suoi figli, uscire da
quelle dinamiche può prevedere tempi lunghi, intraprendere un percorso che ha bisogno di
rifugio in case «protette», di sostegno economico, in alcune situazioni di formazione
professionale e inserimento a un lavoro. Deve cambiare la loro vita. Consulenze
psicologiche e legali, ascolto e sostegno per chi sta vivendo situazioni difficili sono il primo
passo. Centri antiviolenza, medici di famiglia, ospedali e pronto soccorso, avvocati,
psicologi, operatori sociali, polizia e carabinieri sono in prima fila. Ma fanno anche i conti
con finanze ristrette. La legge nazionale era una «soluzione d’urgenza» per portare
ossigeno ai fondi esigui, segnalati soprattutto dai centri, dando alle Regioni il compito di
distribuire le risorse, 16 milioni di euro. La questione dei fondi, del coordinamento e del
monitoraggio sono diventati cruciali. E terreno di scontro tra le associazioni che gestiscono
centri e case e le istituzioni.
Il dipartimento Pari Opportunità ha pubblicato questa settimana una mappa che sintetizza
l’entità e l’uso dei fondi nazionali arrivati alle Regioni. Piani antiviolenza e leggi regionali
hanno programmato nuovi centri e nuove case rifugio, prevedendo di integrare i fondi
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nazionali con altre risorse. Ovunque si stanno organizzando incontri di formazione per
medici, avvocati, operatori sociali e forze dell’ordine. Fiori all’occhiello sono le Reti
multidisciplinari che coinvolgono quelle stesse persone e strutture a cui si rivolgono mogli,
ex mogli e compagne nel momento dell’emergenza o quando decidono di chiedere aiuto
per allontanare il partner o l’ex. Ne conoscono i bisogni. Quegli stessi servizi sono
rappresentati ai tavoli di consultazione per impostare criteri, azioni e percorsi. Presenti, in
alcune regioni da diversi anni, gli Osservatori che dovrebbero rilevare i dati per contribuire
al monitoraggio nazionale. Alcune Regioni tentano strumenti innovativi. La Lombardia, per
esempio, che ha appena varato un piano da 14 milioni in 4 anni, prevede un organismo
tecnico che dovrà identificare le prassi migliori e nei casi di femminicido individuare i
«buchi» del sistema. Previsti interventi nelle scuole perché le nuove generazioni crescano
rispettandosi e considerandosi pari e politiche per la presenza femminile al lavoro e nei
luoghi decisionali.
Siamo sulla buona strada? Le leggi e l’attenzione dei media hanno portato gli enti a
interrogarsi e intraprendere azioni politiche. Nella pratica, però, diverse sono le
contestazioni da parte di associazioni.
Dire, che riunisce molti dei centri antiviolenza e case rifugio di formazione femminile,
denuncia poca chiarezza nella distribuzione e frammentazione di finanziamenti, peraltro
esigui. I centri non hanno ricevuto il denaro, in molte situazioni fanno sì parte dei «tavoli»,
ma inascoltati. Funzionano grazie al volontariato, a sostegni dei comuni, a donazioni
raccolte con iniziative di autofinanziamento. L’impegno delle Regioni sembra disperdersi in
rivoli non solo economici. Due le accuse più forti: manca trasparenza e gli Osservatori
regionali hanno criteri diversi e difficilmente potranno confluire nell’atteso monitoraggio
nazionale, che ha appena nominato i suoi membri e non ha ancora fissato i criteri.
Il panorama è ancora confuso. Come per l’8 marzo o il 14 febbraio, anche per il 25
novembre un giorno da solo non basta.
Luisa Pronzato
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 24/11/15, pag. 7
Il governo si vende le ferrovie
Treni. Delrio: cederemo il 40%. Incertezza sul futuro dei pendolari e
sulla rete Rfi. L’azienda negli ultimi anni ha investito sull’alta velocità,
sacrificando i trasporti regionali: ora si teme che l’operazione aggravi le
condizioni del già disastrato servizio universale. Contrarie Cgil, Cisl e
Uil, i Cinquestelle e Sinistra italiana
Antonio Sciotto
ROMA
Il governo mette in vendita il 40% delle Ferrovie: la privatizzazione, che segue quella di
Poste e precede quella di Enav, è stata decisa ieri dal consiglio dei ministri, che ha varato
un Dpcm ora atteso alle camere. Il provvedimento è stato illustrato dal ministro dei
Trasporti Graziano Delrio, e ha subito suscitato le preoccupazioni dei sindacati e dei partiti
di opposizione, con alcune perplessità espresse anche da componenti del Pd. Non è
ancora pienamente chiaro — nonostante le rassicurazioni offerte da Delrio — il destino di
Rfi (la rete), che il governo punta comunque a scorporare (e quindi almeno in parte a
quotare?), mentre l’indebolimento del pubblico fa temere per i già disastratissimi servizi
pendolari.
«Viene avviata la procedura che tiene presente la complessità della gestione delle Fs e la
necessità di aumentare gli obblighi di servizio pubblico», ha esordito Delrio. Va detto però
che con i tagli degli ultimi anni, il servizio pubblico ha al contrario sofferto: sacrificati i
pendolari e le lunghe percorrenze (basti pensare ai treni notte), la gran parte degli
investimenti si sono diretti invece verso i convogli ad alta velocità e con biglietti piuttosto
cari per i viaggiatori.
«L’alienazione di Ferrovie non potrà andare oltre il 40% — ha spiegato Delrio — È un
avvio di percorso che tiene presenti alcune questioni: l’infrastruttura ferroviaria dovrà
rimanere pubblica, dovrà essere garantito l’accesso a tutti in maniera uguale». «Nel
processo parziale di privatizzazione di Fs si manterrà un’attenzione particolare
all’azionariato diffuso e alla partecipazione dei dipendenti del gruppo Ferrovie dello Stato,
gruppo che produrrà anche quest’anno ottimi risultati».
Il valore stimato dell’azienda è di 45 miliardi di euro, e i proventi della privatizzazione
dovrebbero andare a coprire il debito pubblico. Non è ancora chiaro, però, quanto punti a
incassare il governo: Palazzo Chigi in una nota ha spiegato infatti che la privatizzazione
«potrà procedere in più fasi» e alla richiesta di una cifra attesa, Delrio ha risposto con un
ermetico: «Adesso ci penseremo».
I conti dell’azienda, d’altro canto, ultimamente vanno piuttosto bene: nel 2014, il gruppo
Ferrovie dello Stato ha realizzato quasi 8,4 miliardi di ricavi operativi (303 milioni il risultato
netto). Il 2015 appare promettente: nel primo semestre i ricavi hanno sfiorato i 4,2 miliardi
di euro, mentre l’utile è aumentato del 2,5% rispetto allo stesso periodo del 2014,
raggiungendo i 292 milioni.
Un’azienda “risanata” dopo svariati anni di debito, che però adesso, almeno a sentire i più
critici, potrebbe esporsi a un pericolo di «svendita» delle proprie azioni. È ad esempio il
timore di Franco Nasso, segretario della Filt Cgil: «Da quanto si può capire dagli annunci
— dice — la privatizzazione non darà risorse al trasporto regionale, anzi finirà per limitare
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fortemente la capacità industriale di Trenitalia, limitandosi a fare un incasso dalla vendita
che, viste le condizioni e la fretta, potrebbe sostanzialmente consistere in una svendita».
Secondo la Cgil c’è «un problema di mancata corrispondenza tra le aspettative degli utenti
del trasporto regionale e il servizio offerto. Le ragioni sono dovute principalmente ai tagli
operati da tutti gli ultimi governi su questo fondamentale servizio universale che, per
essere erogato, ha bisogno del contributo pubblico». E abbiamo tutti sotto gli occhi le
immagini (alcuni lo vivono sulla propria pelle) di treni congelati in inverno e simili a saune
in estate; la folla e i ritardi, i bagni in condizioni pietose.
«Questa privatizzazione acefala è una stupidaggine gigantesca che farà solo danni al
Paese, ai cittadini italiani e ai lavoratori delle Ferrovie. Non abbiamo elementi di chiarezza
e il ministro non ha ritenuto di spiegarci nulla nonostante le reiterate richieste di incontro»,
rincara il segretario Fit Cisl Giovanni Luciano. «Siamo d’accordo su massimo il 40% delle
quote e l’azionariato diffuso compresi i dipendenti. Per il resto pensiamo che, laddove non
vi siano chiarimenti, occorrerà mobilitarsi».
«Privatizzazione sbagliata, mera operazione di cassa», taglia netto anche la Uiltrasporti.
Nel Pd è Marco Filippi, capogruppo in Commissione Lavori pubblici del Senato, a chiedere
che «si eviti che la vendita sia solo un’operazione economico/finanziaria».
Contro «la svendita del patrimonio dello Stato per tappare i buchi del bilancio» si
pronuncia il M5S, che chiede al contrario di «potenziare il trasporto pubblico locale».
Disco rosso anche da Stefano Fassina, di Sinistra italiana: «La privatizzazione di Fs vuol
dire ulteriore drammatico disinvestimento e peggioramento per i servizi di trasporto per i
pendolari. Noi ci opporremo».
In uscita, infine, gli attuali vertici, divisi proprio sulla privatizzazione: l’amministratore
delegato Michele Mario Elia difende l’unicità del gruppo, mentre il presidente Marcello
Messori è favorevole allo scorporo di Rfi. Tra i successori in pole, Renato Mazzoncini, ad
di Busitalia.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 24/11/15, pag. 23
La relazione semestrale. Ottimista il commissario Pinelli, incaricato dal
governo
Le Fondazioni in crisi sulla via del
risanamento
C’è un passaggio nella seconda relazione semestrale del Commissario straordinario del
governo per la lirica, che dà il senso di una fase nuova avviata dal sistema delle fondazioni
lirico-sinfoniche italiane, che inizia finalmente a dare i suoi frutti. Il conseguimento del
risanamento «rimane un obiettivo alla portata di tutte le fondazioni», scrive infatti
Pierfrancesco Pinelli nel monitoraggio effettuato sui bilanci preventivi 2015 e sui risultati al
primo semestre di quest’anno di cinque delle otto Fondazioni che hanno aderito alla legge
112 del 2013, in base alla quale si impegnano a raggiungere l’equilibrio finanziario entro il
2016 in cambio dell’erogazione, da parte dello Stato, di fondi aggiuntivi per 148,1 milioni di
euro sotto forma di prestito agevolato da restituire in 30 anni, utili per ripianare i debiti
pregressi e risanare i bilanci.
I problemi restano tanti, ammette Pinelli, e i risultati sono molto diversi a seconda delle
fondazioni, con l’Opera di Roma, il San Carlo di Napoli e il Verdi di Trieste che già
quest’anno dovrebbero raggiungere il pareggio di bilancio, mentre la situazione è ancora
difficile per Maggio Fiorentino e Comunale di Bologna, che stimano un margine operativo
lordo negativo a fine anno, non previsto dai piani di risanamento approvati dal governo.
Ma nessuna situazione è drammatica o senza ritorno. Sebbene più lentamente delle
intenzioni, il percorso di ristrutturazione è avviato e il sistema di sostegno e controllo
messo in piedi dal governo per assicurarlo dimostra di funzionare. Alla fine di ottobre,
spiega il commissario, risultano approvati sette degli otto piani presentati (solo quello del
Carlo Felice di Genova è ancora in attesa di approvazione da parte della Corte dei conti).
Dei 148,1 milioni complessivi, 130 sono già stati assegnati e 116,8 erogati.
Il ritardo nell’approvazione dei piani (e di conseguenza nello stanziamento dei fondi) ha in
parte rallentato il percorso di risanamento, come ha più volte sottolineato l’Associazone
nazionale delle fondazioni liriche (Anfols), che chiede infatti al ministero dei Beni culturali
una proroga di un anno per il raggiungimento dell’equilibrio finanziario. Proroga su cui il
ministro Dario Franceschini avrebbe già dato il suo assenso.
Ma molti progressi sono già stati fatti. La relazione di Pinelli riconosce lo sforzo di tutti i
teatri per ridurre i costi e migliorare efficienza e ricavi. Aumenta l’offerta complessiva di
spettacoli delle cinque fondazioni monitorate: 875 le alzate di sipario nel 2015 contro le
810 del 2014, con aumenti in particolare a Roma, Firenze e Trieste. Il che si traduce
anche in un aumento dei ricavi da botteghino complessivi (21,3 milioni nel 2015 contro i
18,4 del 2014) e, in due casi (Roma e Firenze), anche dei contributi da parte di privati, che
complessivamente salgono dai 6,7 del 204 ai 7,6 del 2015. Tuttavia, i ricavi totali
scendono di quasi 13 milioni, a fronte di costi di produzione maggiori. Scendono invece
rispetto al 2014, sebbene di poco, i costi di gestione, in linea con i piani di risanamento,
mentre il margine operativo lordo risulta in tutti i casi (con l’eccezione di Napoli) inferiore
alle attese: in tre casi è positivo, mentre resta negativo per Firenze e Bologna.
«Il tema fondamentale, in questo momento, è la gestione dei costi – commenta Pinelli –.
Molto è stato fatto da tutti i teatri, anche da quelli che, come Bologna e Firenze, sono
ancora in una situazione difficile. Ma molto di più si potrebbe fare anche solo
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programmando meglio le stagioni, magari cercando meno lustro nell’offerta, in questa
prima fase, e dando priorità al risanamento». Il dato da monitorare in questo senso è
quello sul “margine di produzione” (la differenza tra ricavi da botteghino e costi di
produzione), che in tutti i casi è non solo negativo, ma anche inferiore al 2014 e alle
previsioni dei piani di risanamento sebbene, anche in questo caso, è importante notare le
significative differenze tra i teatri.
«Si tratta di un percorso lungo e difficile – conclude Pinelli – che sta in piedi soltanto se
tutte le componenti faranno la loro parte». Molte azioni intraprese quest’anno daranno i
loro frutti solo a partire dal prossimo esercizio. L’obiettivo, dunque, è «a portata», ma guai
ad abbassare la guardia perché, avverte Pinelli, «non abbiamo ancora vinto».
Gi.M.
Del 20/11/2015, pag. 1-32
Umberto Eco, Sandro Veronesi, Hanif Kureishi, Tahar Ben Jelloun: sono
tra il meglio della scuderia Bompiani Non hanno accettato di pubblicare
per il nuovo colosso controllato da Segrate. E hanno deciso, insieme ad
altri autori, di seguire Elisabetta Sgarbi in una nuova avventura,“La
nave di Teseo”. Perché? “Siamo pazzi”
Mondazzoli addio
FRANCESCO MERLO
MILANO
Il punto della massima chiarezza è stato anche quello della massima oscurità, quando,
racconta Umberto Eco, «si sono incontrate per non capirsi Elisabetta Sgarbi e Marina
Berlusconi », non donne incompatibili e incomunicabili per ideologia, ma per antropologia.
È da quell’incontro che è nata “La Nave di Teseo”, due legni arcuati e all’insù come
simbolo, la nuova casa editrice finanziata dagli scrittori, a partire dai due milioni di
Umberto Eco che a 83 anni fa progetti con l’entusiasmo e i rischi di un ragazzo: «Perché il
progetto è l’unica alternativa alla Settimana Enigmistica, il vero rimedio contro
l’Alzheimer». Velleitari? «Peggio, siamo pazzi» . Ci mettono soldi anche un finanzierescrittore, il dottor Brera («sì, sono un parente alla lontana ») e Jean Claude Fasquelle, un
altro giovanotto di 85 anni, l’enigmatico “grande vecchio” dell’editoria francese, noto per i
suoi interminabili silenzi e per l’abilità nello schivare le interviste: lo chiamano “l’homme de
l’ombre”. E infatti anche adesso, qui in casa di Elisabetta Sgarbi non c’è né lui né sua
moglie «perché stanno perfezionando l’uscita dal vecchio lavoro» dice Eco in tono
protettivo. La casa di Elisabetta è ricca di cose belle ma non preziose, è il lusso che non
luccica. E l’intervista è il contrario di una conferenza stampa: con un unico giornalista,
povero e solo, e una bella folla di conferenzieri, colti e famosi.
Capitale totale della nuova casa editrice? «Dai cinque ai sei milioni ». Dice Elisabetta:
«Entro l’anno prevediamo 51 titoli». Precisa la direttrice amministrativa: «Il peggio è
previsto fra tre anni». La sede sarà in via Jacini 6 «generosamente messa a disposizione
da Francesco Micheli». La distribuzione e i servizi commerciali? «Gruppo Feltrinelli e
Messaggerie, grazie a Carlo Feltrinelli e a Stefano Mauri».
Di fronte a Eco ci sono Sandro Veronesi ed Edoardo Nesi. Accanto a Eco, come sempre,
c’è Furio Colombo, un altro vecchio con i calzoni corti: «È una vita che io e Umberto ci
dimettiamo, sin dagli anni Cinquanta. Io per esempio quando arrivò Berlusconi al governo
lasciai l’Istituto di cultura italiana di New York». E poi c’è Sergio Claudio Perroni, il Cellini
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degli editor, lo scrittore appartato che non è certo un magnate. Dice Veronesi: «Io lo faccio
perché tengo famiglia. Ai miei cinque figli voglio lasciare un’eredità importante, una case
editrice infatti è molto più dei miei libri e può davvero cambiare il paese. Rischio i soldi,
certo, ma ne vale la pena». Interviene ancora Eco: «Mio nipotino mi ha chiesto: “Nonno,
perché lo fai?”. Gli ho risposto: “Perché si deve”» .
Ma non temete “l’effetto cooperativa”, quell’angustia di orizzonti culturali da mensa dei
poveri, da “alternativi” all’ultima cena? «Non siamo improvvisatori », dice Eugenio Lio, che
è un altro azionista, il tecnico giovane, l’editore-talpa. Spiega: «Abbiamo una struttura
professionale, mestieri, competenze, un presidente che è un commercialista, direttori e
marketing. Siamo una società srl. Altro che cooperativa » .
Eco ammette che sanno di rischiare il magnifico fallimento. L’editoria infatti è il modo più
elegante per dissipare i propri risparmi, magari in modo lento, ma sicuro. Inoltre in
un’epoca non creativa, l’editore può essere destinato all’impotenza. Forse – osservo – un
momento più brutto non potevate sceglierlo. Risponde Mario Andreose, che del catalogo
della Bompiani è la storia, il Mendel di Zweig, l’artista che ha messo in opera le opere, da
Brancati a Sciascia, da Campanile a Bufalino… Andreose crede nella catastrofe come
risorsa e racconta che «Valentino Bompiani fondò la casa editrice nell’anno del crollo di
Wall Street, nel terribile 1929». E viene fuori che “Zio Vale” era il nome alternativo a “La
nave di Teseo”. Racconta Eco, che con Valentino ha lavorato: «Ci davamo del lei. Tutti lo
chiamavano “il dottore”. Ma dottore ero anche io. Per ovvie ragioni non potevo chiamarlo
“conte”, come faceva la sua segretaria. Dunque gli dissi: “Io, in tutti questi anni, non l’ho
chiamata mai e ora che vuoi il tu, ti chiamerò come i tuoi nipoti: zio Vale». Tra i nomi
bocciati ci sono anche Cyrano, Caratteri Mobili, Renzo e Lucia, Garamond… Vasa «che è
il nome – spiega Eco – di un galeone svedese, ma non è stato accettato perché la casa
editrice sarebbe diventata ”il Vasa da notte”» .
Azionisti sono anche Elisabetta Sgarbi, Mario Andreose ed Eugenio Lio, tre campioni di
«un mestiere che non si impara» come spiegava bene Kurt Wolff ( Memorie di un Editore,
Giometti& Antonello) al quale Kafka diceva: «La ringrazierò sempre di più per i libri che mi
boccia che per quelli che mi pubblica». Dice Edoardo Nesi: «L’editore è una persona, non
un’azienda. È un amico che ti segue e ti coccola, non un amministratore che firma contratti
e stacca assegni. È il pastore delle tue opere: per 15 anni Elisabetta ha pubblicato libri
miei che non avevano neppure l’ombra del successo, e senza mai rimproverarmelo. Non
mi ha mai abbondonato. Come potrei non stare qui con lei, adesso? Come potrei non
salire sulla Nave di Teseo?» .
Guardando Elisabetta, dico allora ad Eco: «Chi è Arianna?». E qui il semiologo prevale sul
maestro di ironia: «Teseo è solo un pretesto, un nome come un altro. L’importante è la
nave, non Teseo». Ed Elisabetta legge, come a teatro, il passo di Plutarco dove la nave di
Teseo è quella che perde e sostituisce pezzi. Adesso nella bella stanza di casa Sgarbi è
tutto un discutere di identità, che è il grande tema dell’architettura e delle città, è l’imbroglio
delle religioni, e il rifugio delle migrazioni… A un tratto però Eugenio Lio dice pure che
«Magris definisce Teseo “colui che si alza e se ne va”» . E a Eco piace: «C’è anche
Magris tra gli autori Bompiani che sono pronti a seguire Elisabetta» . E Tahar Ben Jelloun
racconta di un profumiere che aveva comprato la casa editrice che pubblicava i suoi libri:
«Mi sono trovato senza un vero editore. Di che parlavo? Di fragranze, di nasi, di muschi?
Elisabetta è un editore, la Mondadori–Rizzoli non è nemmeno un profumiere». Ma ecco
che, in collegamento Skype, interviene in casa Sgarbi, nientemeno che… Michael
Cunningham. Anche lui seguirà il filo di Arianna. E così Nuccio Ordine, con tutte le sue
traduzioni di Giordano Bruno, il don Quijote e il Montaigne che ha venduto 15000 copie:
«Un’enormità per un classico». E poi ci sono il triestino di Roma Mauro Covacich, la
giovane e speciale neo-nevrotica Viola Di Grado, e Hanif Kureishi, che ha scoperto le
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periferie ben prima di Renzo Piano, e Lidia Ravera che sta volando ancora, e
“l’abbandonologa” Carmen Pellegrino, la longseller Susanna Tamaro e, ça va sans dire,
Vittorio Sgarbi, capra-capra-capra. Chiedo dei bestseller Paulo Coelho, Houellebecq e
Piketty: «Mi sono dimessa stamattina, dammi il tempo di tessere il mio filo» . Ecco dunque
che Teseo è anche un filo da seguire. Ed è labirinto la libreria, come insegna Borges. E in
Teseo c’è l’idea dell’amicizia che è la vecchia Einaudi, la Sellerio di Sciascia… lo statuto
morale di ogni casa editrice. Infine c’è il mare che è l’avventura, il pericolo ma anche il
porto che mescola le identità. Domando: siete tutti di sinistra? Eco si gira e prende la
mano di Pietrangelo Buttafuoco: «In questo momento, tu sei di destra o di sinistra?». E
Buttafuoco: «Quando governa la destra sono di sinistra, quando governa la sinistra sono
di destra». E racconta: «Il mio primo lavoro è stato il libraio. So dunque quanto fanno male
le super concentrazioni alla diffusione dei libri».
Marina Berlusconi ha tentato di trattenervi? «Non ha capito – racconta Elisabetta – perché
ce ne andiamo. E soprattutto non ha accettato la possibilità di una nostra autonomia
editoriale e gestionale. Neppure comprende a cosa possa servirci. Eppure le abbiamo
offerto in cambio l’opera omnia di Eco, di cui Mondadori vorrebbe fare il Meridiano». Eco
racconta che rimarranno in mani nemiche Il nome della Rosa sino al 2020, e il Pendolo
sino al 2018. Dice Veronesi: «Invece il mio Caos calmo è libero». E Buttafuoco: «Anche il
mio Le uova del drago è libero». Dicono in coro Umberto Eco ed Elisabetta Sgarbi: «Non è
contro Berlusconi che ce ne andiamo. Ed Elisabetta l’ha detto chiaro a Marina. Se il mega
proprietario fosse Nichi Vendola o Fausto Bertinotti per noi non cambierebbe nulla».
Elisabetta ha spiegato a Marina che cosa significa «l’appiattimento dell’identità per un
editore » e perché «i libri dei grandi autori raramente sono usciti da imprese gigantesche e
perché i movimenti letterari più importanti della storia sono stati sostenuti e sviluppati da
piccole realtà editoriali… » . Dice Eco: «Qualsiasi cosa avesse detto, Marina non avrebbe
capito». E torna la contrapposizione dei tipi, che sono opposti per stile e per educazione,
due donne- capitano che non possono stare sulla stessa barca, anzi sulla stessa nave,
Elisabetta su quella di Teseo, il fragile e felice legno degli scrittori, e Marina sulla barca
dell’industria culturale più grande e più decaduta d’Italia. E infatti l’una parlava di
umanesimo cosmopolita e l’altra di azienda, l’una di autori da allevare e l’altra di vendite
che non aumentano. Ed Elisabetta fa imbizzarrire Umberto Eco mentre Marina si consulta
con Alfonso Signorini.
La libertà di Elisabetta significava l’autonomia della Bompiani, dalla quale non voleva
proprio staccarsi, «perché sono monogamica, non mi separo se non quando sono
abbandonata». Crede nell’editore come lingua di un’epoca: tradurre e ristampare ma
soprattutto scovare e covare. Inizierete presto a litigare? «Abbiamo smesso solo per te.
Speriamo di ricominciare presto ».
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