aspetti teorici - La fabbrica dell`acqua

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aspetti teorici - La fabbrica dell`acqua
aspetti teorici
6.Le macchine ad acqua
Le invenzioni di Leonardo
Risultato
Progettare modelli di semplici macchine
ad acqua, descriverne il funzionamento e i
principi fisici
Attività
1.Predispone rappresentazioni grafiche
applicando norme e regole relative al modello
da costruire
2.Descrive le varie fasi di lavoro in modo
organico e sintetico per costruire una
macchina
3.Utilizzando strumenti adeguati e adottando
un metodo di lavoro corretto e sicuro,
costruisce quanto progettato
Competenze
Progettare macchine semplici ad acqua
Tagliare e i pezzi necessari alla costruzione di
un modello di macchina ad acqua
Descrivere il modello utilizzando schemi e tabelle
Riconoscere in un disegno le parti principali di
una macchina ad acqua
Pre-requisiti
È in grado di descrivere una macchina
Legge un disegno
Taglia il legno o altro materiale utilizzando il
disegno
Contenuti
Definizione di macchina
Evoluzione storica delle macchine ad acqua
Principi fisici alla base del funzionamento di
una macchina
Funzionamento di una macchina ad acqua
Modalità formative
Lezione dialogica
Analisi di laboratorio
Lavoro di gruppo
Attività operativa
Modalità di valutazione
Relazione tecnica delle esercitazioni svolte
Test
Prove strutturate
Competenze certificate
È in grado di progettare, costruire, spiegare
il funzionamento di una macchina ad acqua
utilizzando il modello
Suddivisione in moduli e UD
Mod.
Unità
didattica
Obiettivi
Contenuti
1
Le fonti di
energia
• Esprimere il concetto di energia
• Evidenziare trasformazioni di energia
• Concetto di macchine
1. Le prime macchine
Libri di testo
2. Energia dall’acqua
Diagrammi ad albero
3. Le fonti di energia attuali Aerogrammi
Quaderno di lavoro
Principi di
fisica delle
macchine
• Definire una forza
• Rappresentare una forza
• Definire il principio di inerzia
• Definire il lavoro e l’energia
1.
2.
3.
4.
Le forze
I vettori
Lavoro ed energia
Trasformazioni energia
Lavoro di gruppo
Quaderno di lavoro
Le macchine
semplici
• Tenere una macchina semplice
• Disegnare una leva
• Riconoscere il tipo di leva in oggetti quotidiani
1.
2.
3.
4.
5.
Le macchine semplici
La leva
Tipi di leve
Il piano inclinato
La vite
Libri di testo
Diagrammi ad albero
Aerogrammi
Quaderno di lavoro
2
Metodologia
e strumenti
Storia
• Definire i principali passaggi storici
dell’idraulica • Individuare tipi di energia per il funzionamento di un mulino
6. Storia dell’idraulica
7. Mulino galleggiante
8. Mulino ad acqua
Libri di testo
Diagrammi ad albero
Aerogrammi
Quaderno di lavoro
Mulino per
cereali
9. Mulino per cereali
Individuare le principali
parti di un mulino e il
suo funzionamento
• Individuare le principali parti di un mulino e il suo funzionamento
Attività nel centro di educazione ambientale di Serravalle
Mostra dei modelli delle macchine ad acqua
Schede per l’analisi del funzionamento delle principali macchine
Capitolo 1
Le fonti di energia
Figura 1 - La forza umana fu l’unica
fonte di energia usata per costruire
le piramidi lavoravano 100.000
persone
Prima che l’uomo imparasse ad addomesticare gli animali e a utilizzarne la forza, l’unica sua fonte d’energia
erano i suoi muscoli.
Quando era necessaria una forza maggiore di quella che un individuo poteva fornire, si presentavano
due alternative: riunire l’energia di molti uomini per esercitare una forza su un solo oggetto o servirsi di
congegni meccanici, per trasformare una piccola forza agente per un lungo tratto in una grande forza
operante per un piccolo tratto; si poteva anche ricorrere all’uso di entrambi questi sistemi.
Pur con qualche limitazione, il ricorso all’unione delle forze individuali è stato applicato in ogni fase di
sviluppo sociale: la caccia, l’agricoltura, l’irrigazione e l’edilizia sono esempi di compiti che hanno richiesto
un’accurata organizzazione dell’energia umana per il compimento d’un lavoro in un tempo prestabilito.
Per quel che concerne l’edilizia, la costruzione delle piramidi dimostra che una innumerevole quantità di
uomini poteva sostituire in modo soddisfacente la mancanza di macchinario; in una situazione meno
spettacolare, l’uso della corvée per la costruzione di strade non cessò, in alcune parti d’Europa, prima
della metà del diciannovesimo secolo d.C. Un’istituzione particolarmente caratteristica del mondo antico
era la schiavitù. Facilmente se ne esagera l’importanza: gli schiavi di cui parlano la letteratura classica e
le iscrizioni, lavoravano nella maggior parte in piccoli gruppi, svolgendo la stessa funzione economica
degli uomini liberi. Inoltre, l’impiego di gruppi di schiavi in vaste proprietà agricole, un tempo prevalente
fra i Romani, cessò di esserlo appena diminuì il numero degli schiavi forniti dalle conquiste e aumentò
di conseguenza il loro prezzo. Non ci fu, tuttavia, fino al 1795 una valutazione statistica del danno
economico causato dal fatto che il terrore fosse l’unico incentivo al lavoro: in quell’anno un’indagine
svolta sulle piantagioni dell’India Occidentale appurò che uno schiavo rendeva al massimo la metà d’un
uomo libero.
Le prime macchine
Fra i congegni meccanici ideati per aiutare la forza dell’uomo, la leva è di gran lunga il più importante, e
il suo principio sta alla base di quasi tutte le macchine. La sua origine è sconosciuta, e la sua legge non fu
enunciata fino ai tempi d’Archimede. Tuttavia, gli uomini primitivi scoprirono che si potevano rimuovere i
corpi pesanti collocando sotto di essi un’asta rigida poggiante su un fulcro fisso, situato relativamente
vicino al corpo stesso, ed esercitando una pressione sull’estremità libera dell’asta. Archimede si rese
perfettamente conto dell’enorme forza che una leva può generare: “Datemi un punto d’appoggio e
solleverò il mondo.” Anche altri quattro congegni meccanici, che avevano relazione con la leva, furono
molto sfruttati nell’antichità. Perfettamente descritti nella Meccanica di Erone d’Alessandria, scritta nel
primo secolo d. C. Sono il cuneo, la vite, la puleggia multipla e la carrucola. Tutti si fondano sullo stesso
principio della leva: una piccola forza che agisce a una grande distanza è trasformata in una grande forza
che agisce su una piccola distanza. Detto in altro modo: maggiore è il lavoro che si deve compiere più
grande è la distanza richiesta.
Figura 2 - Schiavi al lavoro per
costruire il palazzo di Sennacherib
(704 a.C.) . È possibile vedere
l’utilizzo della leva
Figura 3 - Arco turco in fase di
lavorazione per tiri a lunga distanza
Dai tempi più antichi la molla, della quale vi sono innumerevoli esempi in natura, è stata il più importante
mezzo per accumulare energia e rilasciarla immediatamente al momento necessario. La sua prima
applicazione conosciuta e d’immutata importanza per molti secoli fu l’arco, usato per lanciare frecce
durante la caccia e in battaglia. La prima inequivocabile rappresentazione dell’arco risale al tardo periodo
paleolitico e proviene dall’Africa settentrionale. Nella sua forma più semplice l’arco consiste in una striscia
di materiale elastico, come legno o corno, che gradatamente si assottiglia dal centro verso gli estremi. Per
le più elaborate forme d’arco si usarono materiali diversi, incollati e legati insieme. Il piccolo “arco turco”
era fatto in modo da poter essere usato per lanciare frecce stando a cavallo, e a questa caratteristica gli
invasori asiatici dell’Europa dovettero molti dei loro importanti successi militari del Medioevo. Si dice che
la sua origine abbia di molto preceduto quella del famoso e mortale arco da guerra inglese, che, realizzato
solitamente in tasso, si ritiene abbia avuto origine nel Galles meridionale.
L’efficacia dell’arco semplice, di qualunque materiale esso sia, è limitata dalla forza delle braccia dell’uomo,
e la violenza d’urto delle frecce può essere largamente contenuta da scudi e armature più pesanti. Per
dare alla freccia una maggior forza di penetrazione, furono sviluppate varie forme di balestre, nelle quali
la tensione era prodotta da alcuni tipi di verricelli o leve. Per tenere carica la molla fino al momento dello
scatto, fu necessario un congegno di bloccaggio; benché questo avesse dato all’arma una potenza di gran
lunga superiore, l’operazione di sbloccaggio, relativamente lenta, ne annullava i vantaggi.
L’energia animale
Per molti secoli ben pochi furono i mutamenti fondamentali a questi ritrovati del mondo antico. Essi
divennero sempre più importanti ed elaborati, ma l’uso del legno come principale materiale di costruzione
ne limitò lo sviluppo. II più importante mutamento avvenne nella fonte d’energia: l’energia umana fu
gradatamente sostituita, prima dall’energia animale e più tardi da quella dell’acqua e del vento. I mulini
azionati da asini, per esempio, erano utilizzati già nel quinto secolo a. C. per frantumare il minerale nelle
miniere d’argento del Laurion, e il loro uso si estese alla macinazione del grano in Grecia verso il 300 a.c.
Ma l’insufficienza dei finimenti e dei ferri da cavallo influiva profondamente sul valore economico del
cavallo stesso. Un cavallo con buoni finimenti può tirare approssimativamente quindici volte di più d’un
uomo, ma con finimenti del tipo di quelli usati per i buoi può tirare solo quattro volte di più. Nello stesso
tempo, un cavallo costa, per l’alimentazione, circa quattro volte di più d’un uomo, che ha sul cavallo il
vantaggio d’essere più adattabile. Per tali cause non vi fu un forte stimolo a sostituire l’uomo con il cavallo
come fonte d’energia.
Figura 4 - Mulino ad asse
verticale
Energia dall’acqua
Il primo mulino ad acqua di cui si abbia notizia, è il cosiddetto mulino greco o norvegese. Questo differiva
dal tipo che ora ci è familiare, per l’asse non orizzontale, ma verticale: nella parte più bassa dell’asse vi era
una serie di pale o palette, che erano immerse nella corrente
d’acqua. Tale tipo di mulino venne usato principalmente per macinare il grano: l’asse passava verso
l’alto, attraverso la macina inferiore, ed era fissato a quella superiore, che faceva girare. Mulini di questa
Figura 5 - Mulino ad acqua di
tipo scandinavo
Figura 6 - Noria
spe­cie richiedevano una corrente d’ac­qua rapida e avevano certamente avuto origine nelle regioni
collinose del Vicino Oriente; non si ha infatti notizia che siano stati usati in Egitto o in Mesopotamia,
dove i fiumi scorrono per la maggior parte lentamente e sono soggetti a grandi rapide e cascate.
Plinio attribuisce l’origine dei mulini ad acqua per la macinazione del grano presumibilmente all’Italia
settentrionale; questi erano probabilmente del tipo scandinavo. Essi furono largamente usati in Europa
durante il Medioevo e in alcune regioni fin quasi alla fine del diciannovesimo secolo. Tali mulini possono
veramente essere considerati come i precursori della turbina idraulica, invenzione del diciannovesimo
secolo, e sotto questo punto di vista si può dire che siano stati usati senza interruzione per ben più
di tremila anni. I mulini scandinavi avevano generalmente piccole dimensioni ed erano piuttosto lenti;
la macina infatti rotava alla stessa velocità della ruota. Essi erano adatti a macinare solamente piccole
quantità di grano, e il loro uso doveva essere puramente locale.
Un tipo di mulino idraulico con asse orizzontale e ruota verticale
fu progettato nel primo secolo a.C. da Vitruvio. L’ispirazione può
essergli venuta dal congegno per sollevare l’acqua conosciuto
come “ruota persiana” o saqiya, che consisteva essenzialmente
in recipienti per attingere l’acqua disposti lungo la circonferenza
d’una ruota, fatta girare da forza umana o animale. Questa
ruota era usata in Egitto nel secondo secolo a.C. e deve essere
stata ben nota a Vitruvio, che ne descrisse una più efficiente
modificazione conosciuta come” ruota a tazze”. La ruota
idraulica vitruviana è essenzialmente una” ruota a tazze” che
funziona in modo contrario. Progettata per la macinazione del
grano, la ruota era collegata alla macina mobile per mezzo di
ingranaggi lignei che, generalmente, davano una riduzione di
giri di circa 5:1. I primitivi mulini di questo tipo furono azionati
dall’acqua che passando sotto la parte inferiore della ruota,
immersa nel corso d’acqua, veniva fatta girare dalla forza della
corrente. Più tardi si trovò che una ruota alimentata dall’alto era
più efficiente; infatti l’acqua, cadendo sulla parte superiore della
ruota, riempie alcune delle tazze poste lungo la circonferenza;
il suo peso fa si che la ruota giri; in questo modo, le tazze
riempite scaricano il loro contenuto, mentre quelle vuote sono
sospinte sotto la sorgente idrica.
Benché più efficienti, tali ruote richiedono generalmente un
considerevole equipaggiamento sussidiario che fornisca il
necessario rifornimento idrico. Comunemente s’arginava il corso
d’acqua in modo da formare un bacino, dal quale un canale di Figura 7 - Mulino idraulico ad asse
orrizontale
scarico portava un flusso d’acqua regolare alla ruota.
Figura 8 - Mulini di Barbegal:
sorgevano su un pendio, al quale un
acquedotto conduceva l’acqua
Figura 9 - Mulino galleggiante
Questo tipo di mulino fornì una sorgente d’energia maggiore di quelle disponibili precedentemente, e non
solo rivoluzionò la macinazione del grano, ma apri la via alla meccanizzazione di molte altre operazioni
industriali.
È difficile calcolare la potenza di tali mulini; essa può, tuttavia, essere approssimativamente dedotta dalla
loro produzione. Un mulino romano , del tipo di quelli alimentati dal di sotto, con ruota del diametro di
circa 2 metri, poteva macinare circa 180 chilogrammi di grano all’ora. Questo lavoro corrisponde, nella
moderna valutazione. a circa tre cavalli-vapore. In confronto, un mulino azionato da un asino o da due
uomini poteva a malapena macinare 4,5 chilogrammi all’ora.
Dal quarto secolo d. C. nell’Impero Romano furono installati mulini ad acqua di notevoli dimensioni. A
Barbegal, vicino ad Arles, per esempio, verso il 310 d. C. venivano usate per la macinazione del grano
sedici ruote alimentate dal di sopra, che avevano un diametro, alcune di circa 1,70 metri, altre di poco
meno di un metro. Ciascuna di esse azionava, attraverso ingranaggi di legno, due macine: la capacità di
macinazione complessiva era di 3 tonnellate all’ora, sufficienti al fabbisogno d’una popolazione di 80000
abitanti, e poiché la popolazione d’Arles a quel tempo non superava i 10000 abitanti circa, è chiaro che
questo mulino serviva una vasta zona.
È sorprendente che il mulino di Vitruvio non fosse comunemente usato nell’Impero Romaro fino al terzo e
quarto secolo d.C., ma forse la spiegazione può essere ricercata nelle condizioni sociali. Essendo disponibili
gli schiavi e altra mano d’opera a poco prezzo, vi era scarso incentivo ad accollarsi il necessario impiego
di capitale; si dice poi che l’imperatore Vespasiano (69-79 d.C.) si sia opposto all’uso dell’energia idraulica
perché questa avrebbe creato disoccupazione. Quando infine la mano d’opera scarseggiò, si trovò più
facile servirsi di asini e di cavalli che costruire mulini ad acqua. Il danno scaturito da questa politica fu
tuttavia dimostrato all’inizio del primo secolo d. c., allorché sia la macinazione del grano sia la panificazione
s’erano già trasformate a Roma in un’industria specializzata. A quel tempo i mulini su cui Roma faceva
assegnamento erano per la maggior parte azionati da cavalli e da asini, ma quando Caligola confiscò i
cavalli, il sistema si rivelò insufficiente. Nel quarto secolo d.C., però, le circostanze erano radicalmente
mutate; data la grande penuria di mano d’opera, la costruzione dei mulini idraulici divenne una questione
di pubblica utilità. Queste circostanze (si può notare incidentalmente) furono analoghe a quelle verificatesi
nel diciannovesimo secolo, quando per la mancanza di mano d’opera si registrò negli Stati Uniti un forte
impulso nell’impiego di macchinari.
Considerazioni d’ordine strategico condussero allo sviluppo d’un tipo di mulino conosciuto come mulino
galleggiante, impiegato da Belisario, quando gli Ostrogoti, durante l’assedio di Roma del 537, tentarono
di bloccare gli acquedotti che fornivano l’acqua sia per bere sia per i mulini; i gravi inconvenienti derivati
dalla cessazione d’esercizio dei mulini dimostrano di quanto essi fossero subordinati all’energia idraulica.
Questi mulini galleggianti erano costituiti da una ruota idraulica posta tra due imbarcazioni, ormeggiate
in una corrente impetuosa, su ciascuna delle quali si trovava un mulino; l’invenzione può essere stata
suggerita da un più antico tipo di nave mossa da una ruota
a pale azionata da buoi. I mulini galleggianti si diffusero largamente in Europa e alcuni resistettero fino ai
tempi moderni. I mulini azionati dalle maree sono stati usati prima dell’undicesimo secolo; un esemplare
di quest’epoca viene menzionato a Dover, ma la maggior parte di essi risale al diciottesimo secolo, benché
non abbiano mai avuto grande importanza come fonti d’energia. .
Sebbene la macinazione del grano fornisse il maggior impulso allo sviluppo della ruota idraulica, questa
fu largamente usata in Europa durante il Medioevo per una grande varietà di usi industriali; L’energia
idraulica venne usata per azionare segherie, follatoi, frantoi di minerali, mulini a pestelli per la lavorazione
dei metalli, mulini per alimentare i mantici delle fornaci, e per una grande varietà di altri congegni,
ed ebbe una grande impor­tanza sulla distribuzione geografica dell’industria. Provocò, per esem­pio, lo
spostamento dei follatoi nelle aree rurali alla ricerca di corsi d’acqua adatti e incoraggiò la formazione di
più vasti gruppi di persone che si dedicavano all’estrazione e alla lavorazione dei metalli. L’imbrigliamento
dell’energia idraulica per molteplici usi diede anche impulso al miglioramento degli ingranaggi e dei
macchinari in generale. L’importanza delle ruote idrauliche per la società si riflette, in quasi tutti i paesi
europei, in complesse leggi relative al controllo dei corsi d’acqua; nel mondo musulmano il loro uso era
strettamente limitato all’irrigazione.
La ruota idraulica conservò la sua immensa importanza industriale anche molto tempo dopo l’invenzione
della macchina a vapore; infatti. all’inizio, l’uso più comune cui fu adibita non fu quello d’azionare
direttamente macchinari, ma di pompare l’acqua per provvedere una sorgente costante alla ruota idraulica
.Dal sedicesimo al diciannovesimo secolo, la ruota ad acqua fu la più importante fonte d’energia per
l’Europa e per l’America settentrionale: Londra, per esempio, dal 1582 al 1822 pompò una riserva d’acqua
dal fiume mediante ruote idrauliche installate al Ponte di Londra (p. 483). La rivoluzione industriale, ben
lungi dal rendere antiquata la ruota ad acqua, portò a considerevoli miglioramenti dopo un lungo periodo
di cambiamenti piuttosto modesti.
Capitolo 2
Principi di fisica applicati alle macchine
I principi della fisica applicati alle macchine
Nel corso della sua storia, l’uomo è riuscito gradualmente a comprendere, prima per caso, poi per
esperienza e molto più tardi in modo scientifico, le leggi che regolano la stabilità ed il movimento dei
corpi. Da questo momento ha iniziato a costruire e ad usare macchine prima molto semplici, poi via via più
complesse, utilizzando come forza motrice inizialmente l’energia umana e animale, poi quella dell’acqua
e del vento, in seguito quella prodotta dal calore e dall’ elettricità.
Tutte queste macchine sfruttano i principi delle forze, dell’attrito, dell’equilibrio e del movimento dei
corpi.
Il moto dei corpi e le cause che lo producono sono studiati da una parte della Fisica chiamata
Meccanica.
Riassumeremo qui i principi fondamentali che regolano il funzionamento delle macchine:
Che cosa è una forza
Si chiama forza qualsiasi causa capace di far muovere un corpo o di deformarlo; anche il peso è
una forza. Non sempre l’effetto di una forza è visibile: se noi proviamo a spingere un blocco di pietra,
applichiamo ad esso una forza (la nostra spinta), ma probabilmente il blocco di pietra non si muove. Se
lo stesso blocco è collocato sopra dei rulli o su di una slitta, spingendolo, esso si sposta. Il blocco di pietra
appoggiato sul terreno non si muove perché il suo peso lo fa aderire così bene al terreno che l’effetto della
nostra forza viene annullato da quello di un’altra forza contraria, la resistenza opposta dalla superficie
del terreno. In questo caso si dice che il terreno esercita un attrito. Se proviamo a spingere un blocco di
polistirolo, questo si sposta facilmente anche senza bisogno di rulli o slitte. In questo caso il minor peso
del materiale determina un minor attrito del terreno
Nella vita quotidiana usiamo spesso i termini spinta, urto, forza. Per essere più esatti avremmo dovuto
sempre parlare di forza.
Vediamo alcuni esempi:prendiamo un carrello, un pezzo di plastilina fresco, e una molla.
1. Mettiamo il carrello su un piano orizzontale. Rispetto al tavolo il carrello è fermo ossia è in quiete. Per
metterlo in moto dobbiamo dargli una certa spinta; questa spinta è una forza che rispetto al carrello
proviene dall’esterno. Senza l’intervento di una forza che proviene dall’esterno, il carrello non si muove.
2. Facciamo muovere il carrello sul piano orizzontale, con moto rettilineo e uniforme; per fermarlo
dobbiamo spingerlo o tirarlo nella direzione contraria al moto. Questa spinta è una forza che proviene
dall’ esterno. Per fargli aumentare la velocità dobbiamo spingerlo o tirarlo nella direzione del moto.
Questa spinta è una forza; e una forza è anche necessaria per fargli cambiare direzione.
Figura 11 - Rappresentazione di una forza
3. Mettiamo sul tavolo la plastilina, pigiamola con un dito, dall’alto in basso contro il piano. La plastilina
non si può muovere perché il tavolo lo impedisce; perciò si deforma. Ciò che produce la deformazione
è una forza; togliendo la forza, la deformazione rimane.
4. Fissiamo un’estremità della molla ad un sostegno rigido; tiriamo l’altra estremità. La molla si deforma
allungandosi; ciò che produce la deformazione, è una forza. Togliendo la forza, la deformazione
scompare.
5. Pigiamo il tavolo in un punto del piano orizzontale; il tavolo non si muove ma le assi di cui è fatto
si flettono. Ciò che produce la deformazione è una forza. Togliendo la forza la deformazione
scompare.
Riassumendo in fisica si definisce che cosa è una forza attraverso i suoi effetti.
1. Una forza è tutto ciò che fa variare la velocità dei corpi liberi di muoversi, che li mette in moto se sono
in quiete, che li frena, li accelera o fa cambiare loro direzione se i corpi si muovono già con moto
rettilineo e uniforme. Ogni variazione di velocità è una accelerazione; la frenata è una accelerazione
negativa. In definitiva una forza è tutto ciò che produce nei corpi una accelerazione. A parità di forza
applicata, l’accelerazione che un corpo acquista è tanto più piccola quanto più grande è la quantità di
materia di cui il corpo è fatto.
2. Una forza è tutto ciò che produce deformazioni nei corpi che non si possono muovere. Le deformazioni
possono essere permanenti e rimangono anche quando è cessata l’applicazione della forza, come
nel caso della plastilina, oppure scompaiono col cessare della forza applicata. In questo caso sono
deformazioni elastiche.
Il peso dei corpi è una forza, infatti:
1. Il peso fa variare la velocità dei corpi, mette in moto un corpo se lasciato libero di cadere, frena il
movimento di un corpo, se questo è stato lanciato verso l’alto. Se il corpo è lanciato orizzontalmente,
la forza­peso gli fa cambiare direzione. In questo caso il corpo ha una traiettoria curva che lo porta
verso terra, la sua velocità cresce nel tempo, e il moto è accelerato.
2. Il peso produce deformazione dei corpi che non si possono muovere .Le deformazioni possono
essere permanenti come lo schiacciamento di un corpo sotto un peso , o lo strappo di un filo
legato ad un peso troppo grande :le deformazioni possono essere elastiche come l’allungamento
di una molla , o la flessione di una tavola sotto l’azione del peso
Una forza è caratterizzata da quattro elementi, tutti indispensabili per riconoscerla ed individuarne gli
effetti:
1. il punto di applicazione: rappresenta il punto teorico dove è applicata una forza nel caso
dell’immagine il punto in cui è legata la corda
2. la direzione: data dalla retta passante per il punto di applicazione (nel nostro caso la corda)
3. il verso: è dato da uno dei possibili sensi in cui può agire(da sinistra a destra)
4. l’intensità:il valore della forza espresso in Newton o kg (1Kg = 9,8 N)(nel nostro caso la forza con
cui il soggetto tira la barca)
Graficamente una forza può essere rappresentata da un segmento, terminante con una freccia, che parte
dal punto di applicazione ed ha la direzione stabilita; il verso è indicato dalla freccia e l’intensità è indicata
dalla lunghezza del segmento usato (si può stabilire, ad esempio, che 1 cm corrisponde al peso di 1 kg
e così via). Se ad un corpo sono applicate più forze, il risultato è ancora una forza (risultante) che è la
somma di tutte.
L’apparecchio usato per misurare le forze è una bilancia a molla chiamata dinamometro
Lo strumento è costituito da una molla che può essere tarato applicando pesi noti e rilevando i corrispondenti
allungamenti .In questo modo si ottiene una scala graduata che permette di misurare direttamente una
qualsiasi forza.
Figura 12 - Composizione di forze
Figura 13 - Dinamometro
L’attrito
Si chiama attrito la resistenza che un oggetto in movimento incontra a contatto con l’aria o con dei corpi.
L’aereo in volo incontra l’attrito dell’aria, la nave l’attrito dell’aria e dell’acqua, l’auto l’attrito dell’aria e del
fondo stradale: in un congegno meccanico l’attrito è dovuto allo sfregamento delle varie parti metalliche.
L’attrito produce un effetto di riscaldamento della superficie dell’oggetto e in certi casi il calore che si
sviluppa può provocare la «fusione» dell’oggetto stesso; per evitare questo inconveniente si ricorre a
lubrificanti per le parti meccaniche e a speciali materiali resistenti ad alte temperature negli altri casi.
L’impiego di cuscinetti a sfere, di olio lubrificante per i motori, la ricerca di forme aerodinamiche per i
mezzi di trasporto sono accorgimenti volti a ridurre l’effetto dell’attrito sui corpi. Riducendo l’attrito si
riduce la quantità di energia motrice e si ottiene di conseguenza un risparmio energetico.
In alcuni casi invece l’attrito è ricercato come condizione di sicurezza, come ad esempio nel caso di un
veicolo che affronta una curva ad elevata ve­locità: se i pneumatici e la forma della carreggiata stradale
non esercitano un attrito sufficiente, il vei­colo sbanda e finisce fuori strada
Il principio di inerzia
La tendenza di un corpo in movimento a mantenere inalterata, in mancanza di attrito, la propria velocità
e la propria direzione prende il nome di principio di inerzia.
Un’applicazione di questo principio avviene nel caso delle astronavi che, superata la forza di gravità
terrestre e l’attrito dell’atmosfera, si trovano a viag­giare nello spazio: esse mantengono velocità e direzione
costanti senza più bisogno di far funzionare i motori dei razzi.
Fin dall’antichità l’uomo conobbe, più per esperienza che in modo scientifico, il principio di inerzia e lo
utilizzò per far funzionare alcune semplici macchine. Una di queste era la ruota del vasaio, che utilizzava
come accumulatore di energia motrice un volano, cioè una grossa ruota di pietra o di legno, che, una
volta azionata, era in grado, grazie al suo peso, di ruotare per lungo tempo prima di fermarsi, superando
agevolmente l’attrito.
Il volano restituisce, sotto forma di moto rotatorio e per un tempo piuttosto lungo, l’energia assorbita per
mettersi in rotazione; in tal caso si dice che il volano ha una inerzia meccanica, mentre, ad esempio, un
oggetto di terracotta che scaldato si mantiene caldo per lungo tempo, ha una inerzia termica.
Una burla, una torre e un ciuco
Una volta, ai tempi di Calandrino, la gente si divertiva molto a fare delle burle, di cui poi tutti ridevano. Un
ricco contadino, che coltivava magnifici ortaggi, li portava ogni giorno in città in due ceste sistemate sulla
schiena di un asino. Per il contadino, il suo ciuco era l’essere più bello e più intelligente di questo mondo,
e ad ogni occasione ne tesseva le lodi. Il ciuco e il suo padrone erano diventati la favola di tutta la città. Fu
allora che un mastro muratore, robusto e buontempone, pensò di fare uno scherzo al proprietario di cosi
meraviglioso animale. Cominciò a dire che il ciuco era degno di essere esposto, alla vista di tutti, sulla cima
della torre più alta della città, e scommetteva che ce lo avrebbe portato da solo, senza l’aiuto di nessuno.
Venutolo a sapere, l’ortolano ne fu lusingato, ma era sicuro che la cosa fosse impossibile. Le scale della
torre erano molto ripide e il ciuco era testardo, pesante e ben pasciuto. Perciò accettò la scommessa, e
tutta la cittadina si preparò alla sfida che il furbo capomastro aveva lanciato.
Giunto il giorno della scommessa e portato il ciuco ai piedi della torre, il capomastro cominciò prima di
tutto con l’imbracare l’animale con delle corde come se volesse caricarselo sulle spalle. Poi cominciò a dire
che effettivamente il ciuco era pesante, e che era necessario allenarsi e farsi i muscoli. Allora il capomastro,
perché non scappasse, legò il ciuco imbracato a una lunga corda che pendeva dalla torre. E chiedendo scusa
ai cittadini, cominciò a fare esercizio portando delle grosse pietre sulla torre, prendendole da un mucchio
che stava Il vicino. Ma invece di rinforzarsi, il capomastro ad ogni viaggio appariva più stanco. La gente
era delusa, l’ortolano si stropicciava le mani, ridendo in cuor suo per il denaro cosi facilmente guadagnato.
Il mucchio di pietre era quasi esaurito quando il capomastro si avviò ancora, quasi barcollando, su per la
scala. Questa volta, arrivato in cima, si affacciò e chiese con voce fioca se tutto era sempre in ordine. La
piccola folla gli rispose con un « si! » di scherno. Un attimo dopo, il ciuco, appeso alla corda, viaggiava
verso la cima della torre fra le risa dei presenti, la disperazione dell’ortolano e ragli di spavento che si
sentirono lontano un miglio. Al posto del ciuco scese fino ai piedi della torre una piattaforma, carica delle
pietre che il capomastro aveva a poco a poco portato su in cima. Il capomastro, in vista della scommessa,
aveva nascosto nella torre una carrucola e con essa si era costruito un rudimentale ascensore. Sistemato
il ciuco sulla torre il capomastro, prima di scendere, buttò anche giù la corda. Cosi fu che l’ortolano non
solo perse la scommessa, ma per riavere il ciuco dovette pagare da bere a tutti.
Figura 13 - Il mulo
Il lavoro e l’energia
Analizziamo questa storiella con gli occhi di uno scienziato. Il capomastro ha dovuto fare molti viaggi, e
ogni viaggio gli è costato un certo sforzo. Naturalmente egli sapeva che, con il sistema dell’ascensore, tutti
i singoli sforzi compiuti nel sollevare le pietre si sarebbero sommati fino a produrre uno sforzo maggiore,
capace di sollevare il peso di qualsiasi ciuco, per quanto grosso.
Chiariamo ora il significato della parola sforzo, parola che abbiamo usato fin qui in maniera provvisoria,
senza mai spiegarla bene. I sassi, cadendo, hanno sollevato il peso del ciuco: ma è giusto dire che. essi
hanno compiuto uno sforzo? Lo sforzo è in effetti la fatica che ognuno di noi prova nel compiere certe
azioni. I sassi, cadendo, compiono anch’essi un’azione, ma non si può dire che facciano fatica. Oltretutto
la fatica, lo sforzo, varia da persona a persona: nel sollevare lo stesso peso un uomo robusto fa poca
Figura 15 - Sollevando la valigia
si compie un lavoro reggendo
la valigia no perché manca lo
spostamento
fatica mentre uno debole ne fa molta. Se però i due uomini, pèr sollevare quel peso, vengono pagati, essi
ricevono la stessa quantità di denaro. Questo perché, fatica o non fatica, il loro lavoro è uguale.
C’è però da fare una precisazione. Per compiere un lavoro bisogna prima di tutto essere in grado di farlo, e
questo vale sia per gli esseri viventi che per i corpi non viventi. Il capomastro può portare i sassi sulla torre
se si è nutrito; un arco può scagliare una freccia se è stato teso; un autocarro può trasportare un carico in
cima a una salita se è stato rifornito di benzina. Un uomo nutrito, un arco teso, un autocarro rifornito di
benzina hanno la possibilità di compiere un lavoro, che si potrà svolgere se si verificano certe condizioni.
L’uomo deve cominciare a muoversi, l’arco deve scattare, l’autocarro deve mettersi in moto.
Quando un corpo ha la possibilità di compiere un lavoro, si dice che possiede energia. Il capomastro
ben nutrito ha energia nei suoi muscoli. L’arco teso ha energia nell’elasticità delle sue fibre. Il motore
dell’autocarro ha energia nella benzina del suo serbatoio.
Se il corpo, vivente o non vivente, che possiede energia, comincia ad adoprarla, diciamo che compie un
lavoro. Tra l’energia e il lavoro che si sta svolgendo c’è una relazione. Quando il capomastro comincia a
trasportare i sassi in cima al campanile, l’energia contenuta nei suoi muscoli si trasforma via via nel lavoro
di sollevamento dei sassi; tanto che, ad ogni viaggio, l’uomo è più affaticato. Il capomastro non può
continuare senza fine a portare sassi sulla torre: ad un certo punto dovrà smettere, riposarsi e nutrirsi di
nuovo.
Quando i sassi sono stati portati in cima alla torre e il capomastro è stanco, la parte di energia che resta
nei suoi muscoli è quasi ridotta a zero. Ma la parte di energia che è stata liberata per compiere il lavoro di
sollevamento, dove è andata a finire?
Per rispondere basta pensare alla differenza che c’è fra un sasso in cima alla torre e un sasso ai piedi
della torre. Quando è in cima alla torre il sasso può cadere, mentre quando è in terra non può. Cadendo
esso può sollevare, per mezzo della carrucola, almeno un peso uguale a uno zoccolo del ciuco, quindi ha
la possibilità di compiere un lavoro, cioè possiede energia. In conclusione, attraverso il lavoro, l’energia
posseduta dal capomastro si è trasferita un po’ per volta nei sassi sulla torre. Trasportando tanti sassi, cioè
sommando tanti piccoli lavori, il capomastro è riuscito ad accumulare in essi una energia sufficiente a
sollevare il ciuco intero. Attraverso la burla del ciuco e del capomastro abbiamo chiarito che:
• l'energia è la capacità di compiere un lavoro;
• l'energia si trasforma in lavoro;
• il lavoro si trasforma in energia.
Riassumendo: Se si solleva un peso ad un determinata altezza si compie un lavoro .Risulta evidente che il
lavoro dipende dalla forza impiegata quindi:il lavoro è dato dalla forza per lo spostamento L= F x S
Figura 16 - Apparato sperimentale
per dimostrare la conservazione
dell’energia
Le trasformazioni dell’energia
1-Si monti una semplice attrezzatura, con una molla, un peso, e una carrucola come indicato nella figura.
All’inizio dell’esperimento la molla, che è ancora scarica, non ha energia, e neanche il peso P che è
appoggiato sul pavimento
• Lo sperimentatore comincia a tendere la molla e in questo modo un po' dell'energia dei suoi
muscoli si trasforma in lavoro. Alla fine di questo lavoro l'energia dei muscoli che è stata adoperata
si è trasferita nella molla sotto forma di energia dovuta all'elasticità.
• Se lo sperimentatore blocca la molla nella posizione di stiramento, con un fermo, l'energia elastica
della molla può essere conservata per molto tempo.
• Se si collega la molla al corpo P, che non deve essere troppo pesante, e si toglie -il fermo, la molla
si contrae e solleva in alto il peso.
Figura 17 - Energia potenziale
e cinetica
L’energia elastica che si libera con lo scatto della molla si trasforma in lavoro di sollevamento del peso P.
Dopo alcune oscillazioni il sistema molla-peso si assesta, ma l’energia perduta dalla molla è stata acquistata
Figura 18 - Conservazione energia
dal peso P che si è fermato a una certa altezza dal suolo. Adesso il peso P ha una energia di posizione che
è dovuta all’attrazione terrestre. Quando la sua posizione era a terra, il peso non poteva cadere; invece
ora che è all’altezza H sul livello del suolo il peso P può cadere e compiere un lavoro.
2-Per “posizione” intendiamo “altezza dal suolo” e l’energia di posizione è chiamata generalmente energia
potenziale. Un corpo sollevato da terra ha energia di posizione, o potenziale, perché c’è 1’attrazione di
gravità che agisce come se ogni peso fosse collegato con il suolo da una invisibile molla. Questa « molla»
si tende quando il peso viene sollevato. Se un peso sollevato viene lasciato libero, la molla si contrarrà
schiacciandosi in basso velocemente. Quanto più in alto solleviamo un corpo, tanto più lavoro muscolare
dobbiamo spendere, tanta più energia di posizione o potenziale esso acquista.
3-Quando un corpo che possiede energia potenziale di posizione cade liberamente, dove va a finire la sua
energia? In altre parole, che ne sarebbe stato dell’energia posseduta dai sassi sulla torre se fossero caduti
senza sollevare il ciuco? Ricorriamo, anche in questo caso, a una semplice attrezzatura costituita da una
tavola posta in bilico su un sostegno, come nella figura 18.
Il corpo A cade, acquista velocità, e batte con violenza sulla tavola. La tavola, per contraccolpo, catapulta
in aria il corpo B. Quando il corpo A è arrivato a battere sulla tavola ha perso energia potenziale di
posizione, ma ha acquistato un’altra forma di energia, dovuta al moto, detta energia cinetica. La catapulta
è un mezzo per trasformare l’energia cinetica di A nel lavoro per sollevare B.
La trasformazione dell’energia di posizione o potenziale in energia di movimento, o cinetica, è resa ancora
più evidente ricorrendo a un pendolo. Si può costruire un pendolo legando una sferetta pesante ad un filo
inestensibile, e sospendendo il tutto a un sostegno. La sospensione deve permettere al pendolo di oscillare,
e il sostegno deve essere rigido per non vibrare.
Solleviamo la massa del pendolo fino al punto A, cioè trasferiamo una piccola quantità dell’energia dei
nostri muscoli nella pallina del pendolo, sotto forma di energia potenziale. Nel punto A la pallina è
ferma: lasciandola libera, la pallina, legata al filo, oscilla. Potremo osservare che nelle oscillazioni la sua
velocità aumenta fino al punto O, poi diminuisce, mentre la pallina risale fino al punto B, dove si ferma un
attimo. Da B la pallina ritorna indietro, riacquista velocità fino al punto O, lo sorpassa,perde velocità fino
a raggiungere di nuovo il punto A e così via.
Figura 19 - Pendolo
Figura 20 - Oscillazioni del
pendolo
In A e in B la pallina ha solo energia potenziale, in O ha solo energia potenziale si trasforma in energia
cinetica poi di nuovo l’energia cinetica si trasforma un energia potenziale
Dagli esempi 1), 2), 3), 4), che abbiamo analizzato, risulta che:
• ci sono varie forme di energia. Per ora abbiamo incontrato: l'energia muscolare, l'energia elastica,
l'energia di posizione o potenziale, e l'energia di moto o cinetica.
• Esse possono produrre lavoro: tendere una molla è un lavoro, sollevare un corpo contro la forza di
gravità è un lavoro.
• Tutte le forme di energia, che in certe condizioni sviluppano lavoro, si consumano. Quando il
lavoro è compiuto, quella parte di energia originaria spesa per realizzarlo si ritrova sotto un' altra
forma. Le varie forme di energia si trasformano l'una nell'altra.
• Nei casi 1, 2, 3, l'energia si trasforma e inoltre si trasferisce da un corpo all'altro; invece, nel caso
del pendolo, le trasformazioni dell' energia avvengono nello stesso corpo.
Si possono studiare altri meccanismi per trasferire l'energia da un corpo
La conservazione dell’energia
Esiste o no un ciclo di trasformazioni di una certa quantità di energia in lavoro, e poi di nuovo del lavoro
in energia, senza perdite e senza fine; esiste, in definitiva, la possibilità di realizzare una macchina che
produca il moto perpetuo? L’esempio più adatto a questo studio è quello delle « montagne russe », un
sistema che, come il pendolo, trasforma l’energia potenziale in energia cinetica, e viceversa.
All’inizio del percorso il carrello sta fermo in cima a una « montagna » ed ha energia potenziale. Poi
comincia ad andare in discesa e acquista velocità fino al punto più basso della « valle ». Quando incontra
una nuova salita il carrello ha ormai energia cinetica sufficiente a produrre il lavoro per superare il dislivello.
Poiché ci sono queste continue trasformazioni, non potrebbe essere studiato un particolare percorso di «
Figura 21 - Il fuoco una delle prime
conquiste tecnologiche dell’uomo
montagne e valli », in cui il carrello, una volta iniziata la corsa, non si fermi più? Sarebbe bello, e molti ci
hanno ingenuamente sperato; ma il moto perpetuo è impossibile!
Il carrello, una volta disceso da una montagna, ne può risalire solo una più bassa, poi una ancora più
bassa, e così via fino a che il moto si arresta. Come il pendolo oscillante, che dopo un certo tempo si
ferma. Dobbiamo riconoscere che in ogni trasformazione di energia da potenziale a cinetica e viceversa,
c’è una perdita irrecuperabile.
Se andiamo a toccare le ruote dei carrelli scopriamo che nella corsa si sono riscaldate, per effetto dell’attrito.
Addirittura se facciamo partire sulle montagne russe due carrelli di egual peso, l’uno con le ruote più
lubrificate dell’altro, ci accorgeremo che il carrello più lubrificato arriva più lontano. Il carrello meno
lubrificato si ferma prima e le sue ruote sono più calde: l’attrito produce calore
Questo fatto non è una novità, e il suo sfruttamento è così antico che l’uomo primitivo accendeva il fuoco
sfregando fra loro due pezzi di legno ben secchi. Ma quando, nel secolo XVIII, si sono costruite macchine
sempre più efficienti ci si è anche resi conto che l’attrito provoca uno spreco di energia, gli scienziati si
sono interessati all’attrito in modo diverso.
L’attrito genera calore, e per vincere l’attrito si consuma una certa quantità di energia. Allora si può
avanzare una ipotesi: il calore non potrebbe essere una nuova forma sotto cui riappare l’energia
perduta?
Una volta avanzata questa ipotesi gli scienziati sono passati a verificarla:
« Se il calore è una forma di energia deve anche essere capace di compiere un lavoro e trasformarsi di
nuovo in altre forme di energia». Ebbene, non è forse vero:
• che il calore prodotto nella caldaia di una locomotiva fa evapo­rare l'acqua;
• che a sua volta il vapore acqueo spinge lo stantuffo;
• che lo stantuffo fa girare le ruote;
• che la locomotiva acquista velocità e cioè energia cinetica?
E inoltre: non è forse vero
• che quando un veicolo veloce frena, l'energia cinetica scompare e al suo posto compare un elevato
calore di attrito nei freni?
Quindi anche il calore è una forma di energia: energia termica.
Capitolo 3
Le macchine semplici
Premessa
Il termine macchina designa un insieme di componenti, di cui almeno uno mobile, collegati tra loro,
dotati di azionatori, circuiti di comando, ecc... e connessi solidalmente per un’applicazione ben
determinata, capace quindi di compiere lavoro con una forza di natura diversa da quella dell’uomo (ad
eccezione della carrucola che pure viene considerata “macchina”).
Esistono macchine di generi molto diversi e costruite per scopi differenti: es. macchine elettriche,
macchine per movimento terra, macchine per trasporto e sollevamento, macchine a fluido, ecc. Nel
linguaggio comune il termine macchina ha anche accezioni specifiche (automobile), da evitare in ambito
scientifico.
Nelle Scienze di Ingegneria la disciplina delle Macchine (senza ulteriore specificazione) studia l’insieme
delle Macchine a fluido e dei Motori primi, ossia dei convertitori di energia primaria in lavoro meccanico.
Le Macchine a fluido presiedono allo scambio di lavoro fra un albero e un fluido, e sono dette
operatrici quando l’energia va dalla macchina al fluido. Si distinguono in:
• pompe
• compressori, ventilatori
• frigoriferi
• motrici quando l'energia va dal fluido alla macchina. Si distinguono in:
• turbine
• motori oleodinamici
• motori pneumatici
• generatori di vapore
• motori a combustione interna
Macchine semplici
L’uso delle macchine ha permesso all’uomo di compiere lavori per cui erano richieste forze superiori alla
sua. Le macchine gli hanno permesso di sfruttare la forza del vento, dei combustibili e dell’acqua. Senza
le macchine l’uomo vivrebbe ancora allo stato primitivo e non si sarebbe potuta ottenere alcuna forma
di progresso. Per macchina si intende quindi qualsiasi apparecchio utilizzato per aumentare il valore della
forza, cambiarne la direzione o aumentare la velocità con cui si esegue un lavoro. Il lavoro viene eseguito
solo producendo moto o vincendo una resistenza; quest’ultima può essere l’attrito o la forza di gravità.
La macchina semplice non ha una fonte di energia in se stessa e quindi non può eseguire del lavoro a
meno che l’energia non le venga somministrata sotto altra forma dall’esterno. Quando l’attrito causa
Figura 22 - leva di primo genere
Figura 23 - Rappresentazione leva di primo
genere
solo una perdita trascurabile di energia, il lavoro prodotto da una macchina corrisponde alla quantità di
energia immessavi. Si può misurare il lavoro delle macchine, il quale rappresenta il prodotto della forza per
lo spostamento. Ad esempio, se una persona solleva una scatola di 10 kg. per un dislivello di 3 metri, ha
fatto un lavoro di 30 kgm. (10 X 3). Il vantaggio meccanico di una macchina è il rapporto fra la resistenza
e la potenza. Ad esempio, un uomo solleva un peso di 50 kg. applicando una potenza di 10 kg. ad una
leva. Quindi il vantaggio meccanico della leva è di cinque a uno.
Attualmente vi sono macchine di tutti i generi e di tutte le dimensioni, ma sebbene possano sembrare
complesse, tutte le macchine non sono altro che una combinazione di macchine semplici o la modificazione
di una macchina semplice. Per macchina semplice si intende una macchina che è mossa da una sola forza.
Vi sono sei tipi di tali macchine:
• la leva,
• la puleggia,
• il piano inclinato,
• la vite,
• l'asse nella ruota,
• il cuneo.
La leva
La leva è una asta rigida appoggiata in un punto , detto fulcro, che consente di vincere una resistenza.
Archimede, il matematico greco, scoprì il principio della leva e disse, con una celebre frase, che se avesse
avuto una leva abbastanza lunga ed un punto d’appoggio, avrebbe potuto sollevare il mondo. Durante
l’azione, la sbarra ruota attorno a un punto fisso detto fulcro. Il punto di applicazione della resistenza è
quello ove si trova la resistenza da vincere. Il punto in cui si applica la forza per muovere il carico è il punto
di applicazione della potenza. Quanto più vicino sarà il fulcro al carico, tanto minore sarà lo sforzo per
sollevare il carico stesso.
Nel nostro disegno il masso è rappresentato dal vettore R mentre la forza che applica l’uomo è rappresentata
dal vettore P. b e a rappresentano le distanza dal punto di applicazione della forza al fulcro. La sua legge
quantitativa è espressa dalla seguente formula P . R = b: a
Generi di leva
Vi sono tre generi di leve col fulcro, la potenza e la resistenza in posizioni diverse rappresentate nella
seguente tabella
Leva di primo genere
Raffigurazione
Rappresentazione
Figura 25 - - Rappresentazione
leva primo genere
Figura 24 - leva primo genere
Figura 26 - Le forbici esempio di
leva di primo genere
Descrizione
Il fulcro si trova tra la potenza
applicata e la resistenza. Sono
leve di primo genere l’altalena,
i palanchini e le forbici.
Essa può essere vantaggiosa
, indifferente, o svantaggiosa
secondo che il braccio
della potenza (a) sia più
lungo,uguale,più corto di
quello della resistenza (b)
Leva di secondo genere
Leve di secondo genere.
Hanno sempre la resistenza
posta tra la potenza ed il fulcro.
Le carriole e gli schiaccianoci
sono leve di questo tipo.
Essa è sempre vantaggiosa
perché il braccio della
potenza è sempre maggiore
del braccio della resistenza e
la potenza è sempre minore
della resistenza
Figura 27 - leva di secondo
genere
Figura 29 - rappresentazione
leva di secondo genere
Figura 28 - Il remo è un esempio
di leva di secondo genere
Leva di terzo genere
Figura 30 - Leva di terzo genere
Figura 32 - Rappresentazione
leva di terzo genere
La potenza si trova tra la
resistenza (carico) ed il fulcro.
Queste leve non aumentano il
lavoro, ma rendono possibile
il trasporto di oggetti in
maniera più comoda, a
maggiori distanze e più o
meno rapidamente. La scopa,
le pinzette e le molle per
afferrare i tizzoni sul focolare
rappresentano esempi di leve
di terzo genere
Essa è sempre svantaggiosa
ma consente lo spostamento
di oggetti che altrimenti
sarebbe difficoltoso
Figura 31 - Molla per il fuoco
esempio di leva di terzo genere
Figura 33 - Asse della ruota
L’asse nella ruota
L’asse della ruota è un sistema di due cilindri coassiali (aventi lo stesso asse) di raggio diverso girevoli
attorno all’asse comune . L’asse vero e proprio è costituito da un cilindro rigido il cui asse coincide con
l’asse del cilindro maggiore. La ruota e l’asse formano un unico corpo quando sono vincolate l’una all’altra
in modo fisso e funzionano insieme. Sull’asse e nella scanalatura della ruota si fanno passare due corde
avvolte in senso contrario. Questa macchina funziona come una leva continua di primo genere.
La potenza P agisce su una fune avvolta sul cilindro maggiore (la ruota )la resistenza R su una fune avvolta
in senso contrario sul cilindro minore (asse)
La condizione di equilibrio è:
P:R = d:D
Vi sono diversi tipi di ruote per diversi generi di lavoro. Le ruote delle automobili e dei treni sono esempi
noti a tutti: esse permettono all’uomo di muoversi più rapidamente su maggiori distanze. Se si cercasse
di spingere una cassetta di sabbia lungo una strada, l’attrito che si verificherebbe tra cassetta e strada
sarebbe così forte da rendere difficile l’operazione. Ma se alla parte inferiore della cassetta si applicano
delle ruote, essa si muoverà più facilmente essendo diminuito l’attrito.
Alcune ruote fanno girare altre ruote, come le ruote dentate della bicicletta oppure quelle di un frullino o
degli orologi, grandi e piccoli. Alcune ruote fanno girare l’asse sul quale sono montate in modo da ruotare
insieme, come si verifica nelle maniglie delle porte, nelle manopole degli apparecchi radiotelevisivi e nel
volantino che controlla il vapore in un radiatore.
Figura 34 - Carrucola fissa
Carrucola
La carrucola non è altro che una ruota scanalata. Si inserisce un cavo nella scanalatura della puleggia, il
quale sottoposto a trazione fa girare la carrucola. La carrucola fissa ha l’asse solidale ad un supporto e se
si fissa un carico ad una estremità del cavo lo si può sollevare con maggiore facilità. Non si è aumentata
la forza, ma se ne è cambiata la direzione; una persona può collocarsi in un dato posto ed usufruire del
peso del proprio corpo per aiutarsi a sollevare il carico invece di trasportarlo.
Sostanzialmente è una leva rotante di primo genere per cui occorre una forza pari al peso da sollevare
Una carrucola può essere fissa o mobile :
Carrucola fissa (fig. 34-37) una staffa è fissa a un sostegno :ad un’estremità una fune è applicata la
resistenza R , all’altra estremità la potenza P . La condizione di equilibrio si ha quando P=R
La carrucola mobile (fig 35-38) :un estremo della fune è fisso in A ;all’altro estremo è applicata la potenza
P , alla staffa la resistenza R Condizione di equilibrio :la potenza è metà della resistenza
Figura 36 - carrucole
Figura 35 - Carrucola mobile
Figura 37 - Carrucola fissa
Figura 38 - Carrucola
mobile
Figura 39 - Piano inclinato
Figura 40 - La vite particolare e principio su
cui si basa la vite
Figura 41 - Avvolgendo un piano inclinato
su se stesso otteniamo la vite
Il piano inclinato
Il piano inclinato è una macchina assai semplice: si tratta, in effetti, di una superficie inclinata che rende più
facile tirare, spingere o far rotolare carichi pesanti. In luogo di sollevare un pianoforte su di un autocarro,
si può collocare un robusto asse rigido che va dal suolo alla superficie portante dell’autocarro e spingere
il pianoforte su tale superficie inclinata per farlo salire sull’autocarro. Si impiegherà uno sforzo minore,
ma si dovrà esercitare questo sforzo sulla maggiore distanza che percorre il carico, costituendo il piano
inclinato l’ipotenusa di un triangolo rettangolo. Le scale possono essere ricondotte ad un piano inclinato.
In alcuni casi, come avviene negli stadi sportivi, ci si muove da un livello all’altro a mezzo di rampe, che
sono in effetti piani inclinati.
Se poniamo un corpo pesante sul piano inclinato esso scivola in basso per cui per mantenere il corpo nella
sua posizione necessità equilibrare la forza F2 con la potenza P, il peso del corpo stesso è la resistenza (R).
la resistenza si compone di due forze F2 e F1 .La forza F1 non produce alcun effetto essendo il piano rigido
mentre F2 produce la discesa.
Il piano inclinato costituisce sempre una macchina vantaggiosa perché
la P è sempre inferiore alla F1 . La differenza tra le due forze è sempre
proporzionale all’angolo dato tra il piano inclinato e la verticale F2.
La vite
La vite è un piano inclinato avvolto a spirale lungo il suo bordo su di un
cilindro od un cono. Si dice che la vite sia stata inventata da Archimede.
La vite sviluppa grandi forze per sollevare pesi notevoli e per produrre
grandi pressioni: basti pensare a come una vite tiene insieme strettamente
due pezzi di legno o come una serie di martinetti può sollevare dalle sue
fondamenta una casa prefabbricata,oppure come un argano solleva un’automobile o ancora quanto
strettamente una morsa tiene insieme metallo e legno per poterlo tagliare o sagomare.
Ha forma ellittica allungata , con un risalto laterale che gli gira intorno ad elica secondo l’asse maggiore:
il risalto prende il nome di filetto o verme
La filettatura può avere molti tipi di sezione (quadrata, rettangolare ,tonda). La vite si serra, girando in
una cavità detta madrevite, filettata agisce pertanto come un piano inclinato. In questo tipo di macchina
la forza motrice (r) da una leva laterale quando si desidera ottenere una grande forza verticale (a) . La vite
è sempre una macchina vantaggiosa.
Le applicazioni pratiche della vite nell’uso domestico sono numerosissime: nei rubinetti, nelle lampadine,
coperchietti di bottiglie, qualsiasi congiunzione dei tubi dell’acqua, ecc.
Figura 42 - Piano inclinato sempre
vantaggioso
Figura 43 - Il cuneo può
considerarsi formato dall’unione di
due piani inclinati
Il cuneo
Il cuneo è essenzialmente un piano inclinato. Quanto più lungo sarà il cuneo in rapporto al suo spessore,
tanto più facile sarà forzarlo all’interno degli oggetti. Gli spaccalegna adoperano un cuneo che battono
con una mazza spingendolo nelle fibre del legno da tagliare. Quanto più penetra, tanto più profondamente
si divideranno le due sezioni del ceppo.
I cunei aumentano la forza e stanno alla base dell’idea di tutti gli attrezzi da taglio e per perforare, come
i coltelli, gli aghi, gli scalpelli, i chiodi, i bulloni e gli spilli. Tutte cose che dividono la carta, il legno o il
tessuto penetrando negli stessi in seguito a pressione o spinta.
Quando sulla parte piatta del cuneo (testa) si applica una forza motrice (Fm), questa si scompone in due
forze normali alle facce laterali del cuneo, di intensità maggiore alla Fm, queste forze tendono ad allargare
la sezione in cui il cuneo è inserito.
Questo principio era noto ai popoli antichi: un esempio è costituito dalle punte delle lance e frecce, veri e
propri cunei applicati all’estremità di un’asta alla quale viene applicata la Fm mediante il lancio dell’arma.
Il principio del cuneo inoltre è alla base di tutti gli utensili da punta e da taglio .Il cuneo è una macchina
sempre vantaggiosa.
Nella costruzione delle piramidi i blocchi di pietra venivano estratti dalla roccia in due modi :
1. in alcuni fori praticati seguendo la venatura della roccia, erano inseriti dei cunei di legno bagnati
che si dilatavano provocando la spaccatura della roccia
2. un secondo metodo usato, consisteva nell’incendiare i cunei e bagnare successivamente la roccia
con acqua fredda .L’improvviso sbalzo termico provocava un rapido restringimento provocando la
spaccatura della roccia .
Capitolo 4
Le macchine idrauliche
L’ idraulica è la scienza che studia l’utilizzazione dei liquidi, in particolare dell’ acqua. Le materie connesse
a questi studi si dividono in due categorie:
1. Idraulica interna se il dominio di studio del fluido è “piccolo” e impermeabile (ex: l’analisi del
deflusso dell’acqua in un canale con pareti rigide o il calcolo delle perdite di carico nelle condotte
irrigue) (non oggetto di questo lavoro)
2. Idraulica esterna se c’è un’ampia massa fluida confinata e gli effetti delle “pareti” del contenitore sono
trascurabili (ex: il mare), ovvero se il dominio rispetto al corpo in analisi è praticamente illimitato.
Storia dell’idraulica
Sino dalla più remota antichità l’uomo si è trovato davanti a problemi pratici di idraulica, intimamente
connessi con le esigenze della vita.
Le più antiche civiltà si svilupparono lungo i principali fiumi della terra quali il Tigri e l’Eufrate, il Nilo,
l’Indo. L’esperienza e l’intuizione furono di guida nella soluzione di problemi relativi alle numerose opere
idrauliche relative alla difesa del suolo, alla bonifica, all’approvvigionamento idrico, alla navigabilità.
Nelle civiltà antiche tale bagaglio di conoscenze divenne appannaggio di una casta di sacerdoti. Ad
esempio nell’ antico Egitto i sacerdoti si tramandavano da generazioni le osservazioni tenute segrete circa
le piene del fiume ed erano in grado di azzardare previsioni facilmente scambiate per divinazioni. Sempre
in Egitto nacque la più antica delle scienze esatte: la geometria, che, secondo lo storico greco Erodoto,
sorse per esigenze catastali legate alle piene del Nilo.
Con i greci la scienza e la tecnica subiscono un processo di laicizzazione, anche se talvolta vengono
relegate nell’ambito del mito. Talete di Mileto, di padre greco e madre fenicia, pone nell’acqua il principio
di tutte le cose. La teoria di Talete e le teorie dei successivi filosofi del periodo ionico troveranno una
sistemazione nella Fisica di Aristotele. Fisica che, come ben noto, è basata sui quattro elementi naturali,
sui loro luoghi, sul moto naturale, cioè quello verso le proprie sfere, distinto dal moto violento; la Fisica
antica è basata sul senso comune, ed è capace di dare una descrizione qualitativa dei principali fenomeni,
ma è assolutamente inadeguata per una descrizione quantitativa degli stessi.
Le prime basi per una conoscenza fisica quantitativa furono poste nel terzo secolo a.C. nei regni in cui
fu diviso l’impero di Alessandro Magno ed epicentro del sapere scientifico e tecnologico fu Alessandria
d’Egitto. Qui Euclide raccolse negli Elementi le precedenti conoscenze geometriche in un’opera unitaria in
cui da poche definizioni ed assiomi si ricavano una miriade di teoremi; gli Elementi di Euclide costituiranno
per più di duemila anni un modello di scienza deduttiva insuperato per rigore logico. Legato epistolarmente
agli scienziati di Alessandria fu Archimede di Siracusa.
Figura 44 - Acquedotto Romano
Figura 45 - Mulino ad asse
verticale
“Archimede ha fatto una quantità di scoperte straordinarie ed eccezionalmente geniali. Fra esse voglio
parlare soprattutto di una che porta i segni di una grande intelligenza. Quando Gerone regnava in
Siracusa, per le sue fortunate imprese volle offrire ad un certo santuario una corona d’oro che aveva
ammirato. Decise il prezzo dell’opera con un artista e gli consegnò la quantità di oro necessaria. A suo
tempo la corona finita fu consegnata, con piena soddisfazione del re, ed anche il peso della corona risultò
coincidere con quello dell’oro. Più tardi, però, Cerone ebbe motivo di sospettare che l’artista avesse
sottratto una parte dell’oro e l’avesse sostituita con un ugual peso di argento. Indignato per l’inganno,
ma non riuscendo a trovare il modo di dimostrarlo, pregò Archimede dì studiare la questione. Un giorno
che, tutto preso da questo pensiero, Archimede era entrato in un bagno, si accorse che mano a mano che
il suo corpo si immergeva, l’acqua traboccava. Questa osservazione gli diede la soluzione del problema. Si
slanciò fuori dal bagno e tutto emozionato si precipitò nudo verso casa, gridando con tutte le forze che
aveva trovato quel che cercava: “Eureka! Eureka!”.”
Archimede fu il fondatore dell’ Idrostatica, ed anche un precursore del calcolo differenziale: si pensi alla sua
celebre dimostrazione del volume della sfera, ed insieme agli scienziati alessandrini, non disdegnò le applicazioni
ingegneristiche delle scoperte scientifiche cercando di colmare quella scissione tra Scienza e Tecnica che è
tipica della società dell’ antichità classica, società che, come ben noto, era basata sulla schiavitù.
In campo idraulico egli fu l’inventore della coclea una vite senza fine fatta girare all’interno un cilindro,
entrambi in legno, ancora oggi utilizzata nelle saline siciliane per sollevare l’acqua. È emblematico il fatto
che lo stesso Archimede morì durante la presa di Siracusa da parte del console romano Marcello.
I romani, che diffusero la vita cittadina in tutto il Mar Mediterraneo, basarono il vivere piacevole
specialmente sull’abbondanza dell’acqua. Si ritiene che la Roma imperiale ricevesse oltre un milione di
metri cubi d’acqua al giorno che per la maggior parte rifornivano le case private per mezzo di tubi di
piombo. A Roma confluivano almeno una dozzina di acquedotti a superficie libera, con una vasta rete
sotterranea, eccettuati gli ultimi 16 km attraverso la pianura dove si preferirono gli acquedotti sopraelevati
che, con la loro maggiore pressione, facilitavano la distribuzione. Per costruire l’acquedotto Claudio fu
necessario trasportare per ben 14 anni quarantamila carri di tufo all’anno.
Nelle province gli acquedotti attraversavano spesso profonde vallate come a Nîmes dove il Pont du Gard
lungo 175 m ha un’altezza massima di 49 m, e a Segovia in Spagna dove il ponte-acquedotto di ben 805
m è ancora in funzione.
I romani scavarono anche dei canali per migliorare il drenaggio dei fiumi in tutta Europa e, meno
frequentemente, per la navigazione, come nel caso del canale Reno - Mosa lungo 37 km, che eliminava
un passaggio per mare.
Ma in questo campo la loro opera più straordinaria rimase il prosciugamento del lago Fucino, costruendo
in mezzo alla montagna una galleria di 5,5 km, un primato questo che rimase insuperato fino al 1870 con
la galleria ferroviaria del Moncenisio.
Il Portus Romanus, completamente artificiale, fu costruito dopo quello di Ostia al tempo dei primi
imperatori. Il suo bacino interno esagonale aveva un fondale di 4 - 5 m, una larghezza di 800 m, banchine
di mattoni e calcestruzzo e un fondo di blocchi di pietra per facilitarne il drenaggio.
Figura 46 - Schema mulino di Vitruvio
Figura 47 Mulino galleggiante
La generazione di energia
La principale fonte inanimata di energia dell’antichità fu il cosiddetto mulino
greco, costituito da un asse di legno verticale nella cui parte bassa vi era una serie
di palette immerse nell’acqua. Tale tipo di mulino venne usato principalmente
per macinare il grano: l’asse passava attraverso la macina inferiore e faceva
ruotare quella superiore a cui era solidale. Mulini di questa specie richiedevano
una corrente di acqua rapida ed avevano certamente avuto origine nelle regioni
collinose del Vicino Oriente, anche se Plinio attribuisce l’origine dei mulini ad
acqua per la macinazione del grano all’Italia Settentrionale. Tali mulini avevano in
genere dimensioni contenute ed erano piuttosto lenti, la macina infatti girava alla
stessa velocità della ruota, essi erano quindi adatti a macinare piccole quantità di
grano ed il loro uso era puramente locale. Tuttavia essi possono essere considerati
i precursori della turbina idraulica ed il loro uso è durato ininterrottamente per
più di tremila anni.
Un tipo di mulino idraulico ad asse orizzontale e ruota verticale fu progettato nel
1° secolo a.C. dall’ingegnere militare Vitruvio. L’ispirazione può essergli venuta
dalla ruota persiana o saqìya, (figura 6) un congegno per sollevare l’acqua
consistente in una serie di recipienti disposti lungo la circonferenza di una ruota
fatta girare da forza umana od animale. Questa ruota era usata in Egitto nel IV
secolo a. C. e Vitruvio ne descrisse una più efficiente modificazione conosciuta
come ruota a tazze, la ruota idraulica vitruviana è sostanzialmente una ruota a
tazze funzionante in modo contrario.
Figura 48 - Ingranaggio mulino
natante
Mulino galleggiante
Progettata per la macinazione del grano, la ruota era collegata alla
macina mobile per mezzo di ingranaggi lignei che davano una
riduzione di circa 5:1. I primi mulini di questo tipo erano del tipo
“con l’acqua che passa sotto”.
La ruota a pale era posta fra due imbarcazioni saldamente ancorate
nella corrente di un fiume. Il mulino del Po (ricostruito presso Ro)
dell’omonimo romanzo era un mulino galleggiante
I mulini natanti sono strutture relativamente semplici che,
ancorate e fermate con opportuni ormeggi sfruttano l’acqua in
movimento naturale. I mulini natanti presenti sul nostro territorio
nazionale dal medioevo fino alla fine del XIX secolo nelle
regioni dove il Po e i suoi affluenti maggiori scorrono con portata
regolare e abbondante attraversando zone dove i mulini sono
importanti principalmente per il trattamento dei prodotti
Figura 49 - Mulino ad acqua
Figura 50 - Ruota idraulica
dell’agricoltura: la zona che va dalla Provincia di Mantova fino al delta del Po. Si sa comunque da
documenti che risalgono al medioevo, che questi mulini erano presenti sul corso del fiume Po fino a
monte della città di Torino.
L’impianto è costituito da due galleggianti (scafi) di diversa dimensione in larghezza mentre sono uguali
in lunghezza, sul galleggiante più largo è sistemato tutto il gruppo ingranaggi-macina , protetto da un
casotto adibito anche ad abitazione. I due scafi sono tenuti assieme e allineati da due ponteggi che
ne stabiliscono la larghezza complessiva tenendo conto del dimensionamento della girante (diametrolunghezza). La dissimmetria degli scafi è simile a quella del “sandon”: mulino galleggiante tipico del
mantovano; comunque questa conformazione non è pregiudizievole per la stabilità considerato il diverso
pescaggio degli scafi. Si sa che nel medioevo, nel rinascimento e nel XVIII secolo esistevano mulini natanti
a un solo scafo con due giranti poste sui fianchi e mulini a tre scafi con le giranti ai lati dello scafo centrale
supportate sui due scafi esterni.
Girante e ingegni venivano costruiti in legno come principale materia prima, pur sapendo che anche in
epoca medioevale qualche ingegno era costruito con ingranaggi a struttura metallica, come anche gli assi
di trasmissione del moto; anche in seguito, fino a epoche recenti, gli ingranaggi dei mulini sia natanti che
fissi erano costruiti con sistema ibrido ferro-legno.
Mulini ad acqua
I mulini con l’acqua che passava da sotto furono modificati più tardi e si provò che una ruota alimentata
dall’alto era più efficiente, in quanto sfruttava anche la differenza di peso tra le tazze piene e quelle vuote.
Tali ruote, benché più efficienti, richiedevano un considerevole impianto aggiuntivo per assicurare il
regolare rifornimento idrico: comunemente si arginava il corso d’acqua in modo da formare un bacino,
dal quale un canale di scarico portava un flusso regolare alla ruota.
Questo tipo di mulino fornì una sorgente di energia maggiore di quelle disponibili precedentemente,
e non solo rivoluzionò la macinazione, ma aprì la via alla meccanizzazione di molte altre operazioni
industriali. Un mulino romano a Venafro del tipo di quelli alimentati di sotto, con ruota di circa 2 m di
diametro, poteva macinare circa 180 kg di grano in un’ora, il che corrisponderebbe ad una potenza di
circa tre cavalli vapore; in confronto un mulino azionato da un asino o da due uomini poteva a malapena
macinare 4,5 kg all’ora.
Dal IV° secolo d.C. nell’ Impero Romano furono istallati mulini di notevoli dimensioni. A Barbegal, vicino
ad Arles, nel 310 venivano usate per la macinazione del grano 16 ruote alimentate per disopra, che
avevano un diametro fino a 2,7 m, ciascuna di esse azionava, attraverso ingranaggi lignei, due macine: la
capacità di macinazione complessiva era di 3 tonnellate l’ora sufficienti al fabbisogno di una popolazione
di 80.000 abitanti, e la popolazione di Arles a quel tempo non superava i 10.000 abitanti, è chiaro che il
mulino serviva una vasta zona.
È sorprendente che il mulino di Vitruvio non venisse comunemente usato nell’Impero Romano fino al
terzo e quarto secolo. Essendo disponibili gli schiavi ed altra mano d’opera a basso prezzo, vi era uno
scarso incentivo ad accollarsi il necessario impiego di capitale; si dice poi che l’imperatore Vespasiano (69-
79 dC.) si sia opposto all’uso dell’energia idraulica perché questa avrebbe recato disoccupazione.
I mulini ad acqua potevano sorgere lungo le sponde di un fiume dalla notevole portata di acqua come
l’Arno, ed in questo caso venivano costruiti all’estremità delle pescaie sfruttando l’energia prodotta per
la caduta dell’acqua dagli sbarramenti, oppure lungo il corso di fiumi minori o fossi di minor portata
utilizzando, per fare arrivare l’acqua al mulino, dei canali di derivazione più o meno lunghi che andavano
poi ad allargarsi per formare un’ampia riserva d’acqua. I canali che conducevano l’acqua al mulino, alcuni
lunghi anche alcuni chilometri, hanno generalmente il nome di gora ma abbiamo riscontrato che la
grande vasca, o cisterna, formata dall’allargamento della gora stessa, assume in luoghi diversi nomi diversi
: «colta» o «ricolta» nella zona di Greve, «margone» o «bottaccio» nel Mugello, ancora semplicemente
«gora» nel Valdarno. All’interno della grande vasca di raccolta dell’acqua veniva posto a stagionare il
legno di quercia che serviva a costruire le pale del ritrecine e l’albero verticale anche se la destinazione
più ricorrente della vasca era quella di peschiera dove si allevava del pesce, solitamente trote. La vasca di
raccolta dell’acqua era anche dotata di un semplice ma ingegnoso meccanismo che permetteva all’acqua
in eccesso, in caso di piena, di defluire lateralmente : questo meccanismo che abbiamo potuto vedere
nella forma di una piccola chiusa composta da pietre viene chiamato «sovrappiù», altrove, come nella
valle dei Mulini nel comune di Rio d’Elba , «rifinito». I mulini potevano essere dotati di due tipi di ruote:
orizzontale, detta «ritrecine» o verticale. Nei mulini prevale di gran lunga la ruota orizzontale. Questa
era posizionata nella cosiddetta «stanza del ritrecine» (chiamata «carceraio» nella valle dei mulini di Rio
d’Elba), un ambiente con il soffitto a volta posto al livello inferiore rispetto al piano della vasca di raccolta
delle acque dalla quale attraverso un’apertura dotata di una chiusa, l’acqua andava a colpire velocemente
le pale a forma di cucchiaio del ritrecine che a loro volta facevano girare l’albero verticale che metteva
in movimento la macina soprastante. Questa era infatti posizionata nella stanza superiore e formava il
cosiddetto «palmento», cioè il gruppo molitore formato da una macina fissa inferiore, opportunamente
lavorata e scanalata, e una macina girevole superiore che svolgeva la vera e propria funzione di macinare
il grano che scendeva tra le due macine in un’apertura centrale detta »occhio», per mezzo di una sorta di
imbuto di legno, dalla forma di tronco di piramide rovesciata, chiamato «tramoggia». I palmenti potevano
essere anche uno solo per i mulini più piccoli, destinati a servire una zona poco vasta, erano generalmente
due nei mulini un po’ più grandi, ed in questo caso anche i ritrecini erano due, fino ad arrivare ad un
massimo di sette o otto palmenti. Nella stanza delle macine i palmenti erano posizionati su di un piano
rialzato chiamato anche «palco delle macine», al quale si accedeva per mezzo di alcuni piccoli gradini.
Le pietre con le quali venivano fatte le macine risultano essere di vari tipi : l’ «anconese» per macinare il
grano , la «pratese» (Figline di Prato) per il granoturco, la «carpineta» per le castagne, l’ »alberese» per le
biade ed anche una pietra francese chiamata «verocano» o «verrucano» sempre per le biade.
Figura 51 - Ruota idraulica
La ruota idraulica
Fin dall’antichità l’uomo ha capito che l’energia idraulica poteva essere utilizzata con minimo dispendio e
con grande vantaggio. Per questo ha sviluppato una varietà incredibile di congegni e di macchine di ogni
genere. Molte sono le fantasiose macchine idrauliche del passato, come la tromba idroeolica per pompare
Figura 52 - Schema ruota
idraulica verticale
aria nelle fucine, negli altiforni e nelle fonderie, o l’elevatore di Thierry e il più noto ariete idraulico, che,
come la noria, ancora usata nei paesi arabi, serviva per pompare o prelevare acqua dal basso alla superficie.
È fuor di ogni dubbio che, dal medioevo fino all’avvento della macchina a vapore, la ruota idraulica
costituì la base dello sviluppo tecnologico e produttivo del mondo occidentale e per molto tempo mantenne
un ruolo importante anche dopo la prima rivoluzione industriale. È anche interessante notare che nel
medioevo il personaggio del «mugnaio» rappresentò una figura di controllo sociale al servizio del
feudatario, perché tutti i contadini erano costretti a passare da lui per macinare il grano. Infatti i contadini
colti a macinarsi il grano da sè in casa venivano puniti. Non a caso solo i feudatari avevano diritto di
macinazione, così come solo i feudatari avevano diritto di costruire mulini ad acqua sulle loro proprietà e
diritto di regolare l’uso delle acque. Quando infatti qualcuno di loro ereditava un appezzamento di terra,
poteva ereditare anche il diritto di regolare l’uso delle acque. Per secoli la ruota idraulica servì per azionare
macchine per segherie, mantici, magli per le fucine, frantoi per olio, per minerali e per polvere da sparo,
verricelli idraulici, gualchiere, ossia macchine per la follatura dei tessuti di lana, mulini per la concia, per la
canapa, per la carta, torni da falegname, pompe per sollevare l’acqua, soffianti per altiforni, alesatrici per
cannoni, ecc ... o addirittura furono impiegate per alimentare fontane, come a Versailles, o per rifornire di
acqua la città di Londra. Oggi l’utilizzazione dell’energia idraulica è limitata alle grandi turbine moderne.
Eppure i principi a cui si rifanno sono tuttora validi e potrebbero essere ancora perfezionati. Comunque,
fino all’avvento dell’elettricità il mulino ad energia idraulica ha costituito l’unica energia applicabile agli
opifici.
Le ruote idrauliche sono delle macchine che trasformano l’energia cinetica, o potenziale, dell’acqua in
lavoro meccanico. Esse rappresentano un tipo di energia pulita e rinnovabile, quindi non inquinante. Si
suddividono in ruote orizzontali ad asse verticale e in ruote verticali ad asse orizzontale.
Le prime sono le più antiche e derivano dalle macine ad azionamento animale. Sono semplici e robuste,
ma poco potenti. Quelle verticali invece hanno un rendimento decisamente superiore; possono funzionare
in corsi d’acqua con piccole portate a bassissima caduta, mentre il tipo precedente necessitava di un salto
d’acqua maggiore; possono azionare più macine alla volta perchè raggiungono potenze molto elevate.
Queste ruote si suddividono in ruote a cassette e ruote a palette. A loro volta le ruote a cassette si
dividono in colpite al vertice e colpite alle reni, mentre le ruote a palette si suddividono in colpite sul fianco
e colpite da sotto.
Le ruote a cassette colpite al vertice (anche dette «per di sopra») sono impiegate per cadute alte dai
tre ai dieci metri e per portate relativamente piccole. Le cassette ricevono l’acqua dal punto più alto
riempiendosi circa per un terzo. Il peso dell’acqua fa girare la ruota che svuota le cassette per mezzo giro;
poi riprende il ciclo. Queste ruote sfruttano l’energia e il peso dell’acqua anche grazie alle sagomature
fatte sulle cassette.
Le ruote a cassette colpite alle reni (anche dette «ferite alle reni») ricevono l’acqua tra il vertice e il
centro. Sono impiegate per medie cadute e la loro caratteristica è di ruotare nello stesso senso del moto
dell’acqua. In questo modo si evita la perdita di caduta come invece accadeva nel primo tipo di ruota.
L’energia dell’acqua non viene utilizzata in forma cinetica, ma solo per gravità.
Le ruote a palette colpite sul fianco vengono impiegate per cadute molto ridotte e portate grandi ma
lente. Ricevono l’acqua sotto il centro, attraverso una luce «a stramazzo». Questa è la differenza rispetto
ai tipi precedenti che avevano una luce «a battente». Anche in questo caso viene persa una parte di
energia cinetica, quindi viene sfruttata maggiormente la gravità che perdeva forze al momento di arrivare
allo scarico.
Le ruote a palette colpite per di sotto sono le uniche a sfruttare l’energia cinetica senza perderne. Sono
impiegate per limitate portate d’acqua e hanno un discreto rendimento. Ruotano molto lentamente e non
hanno bisogno di salti o di grandi portate. Sono anche semplicissime da costruire.
Nel Medio Evo la ruota idraulica tu largamente usata in Europa per una grande varietà di usi industriali. Il
Domesday book, il catasto inglese compilato nel 1086, ad esempio cita ben 5624 mulini ad acqua quasi
tutti del tipo vitruviano. Tali mulini vennero usati per azionare segherie, follatoi, frantoi di minerali oltre
che di cereali, mulini a pestelli per la lavorazione dei metalli, per alimentare i mantici delle fornaci e per
una varietà di altri congegni. Ebbero in questo modo una grande importanza anche sulla redistribuzione
geografica delle attività industriali.
Figura 53 - Mulino per cereali
Il mulino per cereali
Il termine mulino deriva dal latino “molinum” e dal termine più classico “pistrum-pestare” cosi inteso:
mulino fornito di mola quindi di macina per pestare non solo i cereali ma anche altri materiali. Sicuramente
i primi rudimentali mulini derivano dalle macine per cereali ad uso domestico, fatte girare dalla forza dell’
uomo.
L’idea di imbrigliare la forza dell’acqua per azionare macchinari ed utensili risale a tempi remotissimi e la
sua applicazione pratica, i mulini, utilizzata per almeno 2000 anni, fino all’era industriale, all’avvento dei
motori a combustione e l’energia elettrica e, per applicazioni artigianali, anche fino a qualche decennio
fa.
Nell’area mediterranea, per la scarsità d’acqua, erano preferiti macchinari nei quali la forza motrice erano
gli animali e anche l’uomo, ma nell’area alpina e nel nord Europa, per la disponibilità di corsi d’acqua
regolari e con molta portata, si diffuse lentamente la tecnologia che sfruttava la forza motrice delle pale
azionate dall’acqua.
La tecnologia più antica, utilizzata per macinare, è a ruota orizzontale a palette o semicucchiaie, dove la
trasmissione del moto attraverso l’albero verticale era diretta: dalla ruota alla macina.
Ad ogni giro di ruota motrice corrisponde quindi un giro della mola superiore.
Nel mulino a ruota verticale, che successivamente soppianterà la tecnologia a ruota orizzontale in quanto
maggiormente performante, per mezzo di un ingranaggio detto ruota dentata o anche lanterna, vi è
la moltiplicazione dei giri ed anche il passaggio del movimento di rotazione da verticale nella ruota ad
orizzontale nella mola.
Tra i primi documenti riguardanti i mulini ed il loro funzionamento vi sono quelli di Vitruvio, nel trattato
De Architettura (25 a.C.), che descrisse un mulino che lavorava con una ruota verticale nell’ultimo secolo
a.C., ma egli conosceva anche le ruote orizzontali. Ci sono poi gli scritti del poeta greco Antipatro di
Figura 54 - Mulino “per di sotto “
Figura 55 - Mulino “ per di sopra”
Tessalonica, contemporaneo di Vitruvio, dove nell’Antologia Greca descrive il funzionamento di un mulino
a ruota verticale.
La diffusione della ruota ad acqua per le attività pre-industriali si estese molto lentamente, con periodi di
regressione dovuti alle invasioni barbariche del V e del IX secolo.
Fu però solamente a partire dall’XI secolo che la stabilità politica, la relativa prosperità economica e la
notevole crescita demografica, posero le condizioni per un rapido imporsi delle attività artigianali e la
crescita prepotente della produttività, con conseguente necessità di forza motrice per i primi, rudimentali
ma efficaci, macchinari.
Questo fattore portò a ripercussioni politiche di non poco conto. Nell’economia feudale, il signore era
proprietario dei terreni e di tutto quello che sopra di essi poggiava, intendendo con questo non solo tutti
i manufatti produttivi, ma anche gli animali e gli stessi uomini, nonché l’uso di tutte le risorse naturali.
Quindi anche l’acqua.
È con l’economia comunale che prese corpo il concetto di uso pubblico delle risorse e divenne attività
artigianale il lavoro che un addetto, nel nostro caso parlando di mulini, il ‘mugnaio’, svolgeva da libero
professionista svincolato dalla proprietà del feudo.
Conseguenza di questo fu il maturare l’idea che l’acqua, nel nostro caso, fosse materia strumentale al
lavoro. Ecco quindi che per forza di cose dovesse essere rigidamente regolamentata e il suo uso soggetto a
tassazione in quanto, dal suo utilizzo, se ne poteva ricavare un guadagno. Concetto che verrà sempre più
esteso e rafforzato, fino ad arrivare alle estreme conseguenze ancora oggi in vigore. Si pensi, ad esempio,
al monopolio idrico per la produzione idroelettrica o i rigidissimi vincoli per l’installazione anche di una
semplice ruota ad acqua per far girare una giostrina improduttiva.
I mulini, pur mantenendo caratteristiche tecnologiche comuni, erano strumenti studiati di volta in volta
alla destinazione d’uso funzionale ai compiti che dovevano svolgere e perfettamente integrati all’ambiente
da cui prelevavano la forza motrice.
In montagna si sfruttava il salto d’acqua, quindi la forza d’urto di una maggiore pressione ma con minore
portata, privilegiando la spinta ‘per di sotto’ (vedi più avanti) con ruote piccole, molto robuste e tecnologia
rudimentale.
Nella foto un mulino di montagna, ‘per di sotto’, dalla tecnologia rudimentale, ma che sfruttava la velocità
d’impatto dell’acqua. La ruota è relativamente piccola, la corona e l’albero molto robusti e pesanti anche
per conservare una maggiore inerzia, le palette innestate direttamente sulla corona per permettere una
facile sostituzione.
In pianura, non disponendo di adeguati dislivelli nel salto d’acqua, si optava giocoforza ancora per
la tecnologia ‘per di sotto’, ma data la grande e costante portata d’acqua disponibile nel canale di
alimentazione e la bassissima pressione e velocità, la ruota doveva essere molto grande, a volte anche
gigantesca raggiungendo perfino i 10 metri, e la tecnologia molto sofisticata con le pale molto curate al
fine di catturare la maggior spinta possibile
Tipicamente vi erano due soluzioni strutturali. Una casetta fissa in muratura o in legno con le ruote
poggianti su solide fondamenta, particolarmente adatta alle roggie di risorgiva con portate d’acqua
costanti pressoché tutto l’anno. Una flottante, praticamente dei grandi barconi completamente in legno
ancorati alla terraferma con cordame e ponticelli, tipica dei grandi fiumi di pianura dove vi era disponibilità
di una grandissima massa d’acqua, ma a bassissima velocità e con il problema di una forte variazione
stagionale del livello del fiume. Questo genere di mulini natanti era utilizzato esclusivamente per le macine
di granaglie.
Un’altra soluzione prevede ruote con alimentazione ‘dal di sopra’, molto più efficiente e performante delle
soluzioni precedenti, ma richiede un dislivello nel salto d’acqua pari almeno al diametro della ruota stessa.
È la tecnologia più sofisticata in questo settore e necessita un accuratissimo sistema di alimentazione,
ruota e pale costruite con molta precisione. Era diffusa soprattutto nelle aree collinari e pedemontane
dove vi era una discreta e costante disponibilità d’acqua, anche se non con masse paragonabili a quelle
ricavabili dai grandi fiumi di pianura.
Nella foto 54 una ruota di mulino alimentata ‘per di sopra’ di concezione ottocentesca molto sofisticata,
parzialmente in ferro. Da notare la disposizione delle sedi delle assi delle cassette (ora mancanti),
probabilmente in legno.
L’energia ricavata e disponibile sull’albero rotante all’interno dell’officina, fu per molti secoli sfruttata
esclusivamente per le macine da grano e frantoi, cioè la rotazione costante di una grossa mola. Fu solamente
nel XII secolo che venne inventato l’albero a camme, sostanzialmente dei grossi cunei innestati nell’albero
rotante (o albero motore), che permisero l’utilizzo di macchinari a movimento discontinuo o alternato.
Ecco comparire i magli, grossi martelloni con la testa in ferro e come manico una trave di legno, sollevati
dal cuneo della camma e lasciati cadere. E poi meccanismi per azionare i mantici. Con questa tecnologia
si diffusero enormemente le fucine e la lavorazione del ferro battuto.
Il moto alternato permise l’invenzione delle segherie, di pestelli usati anche per triturare panni e scarti di
segheria per produrre la carta, di folli per le lane.
Per trovare delle significative innovazioni bisogna giungere già in epoca industriale, alla fine del XIX secolo.
Per la molitura dei cereali venne inventata la mola a cilindri, mentre tutta una serie di accorgimenti tecnici
modificò significativamente le strutture meccaniche: ruote, pale e ruote dentate fatte in ferro, cinghie
per la trasmissione della forza motrice, turbine idrauliche ad altissimo rendimento collegate a generatori
elettrici.
Con quest’ultima tecnologia, per la prima volta nella storia, fu possibile disgiungere il luogo di produzione
dell’energia dal luogo di sfruttamento della forza motrice.
Nella foto una grande ruota alimentata ‘per di sopra’, da notare l’accurata struttura della ‘doccia’ di
alimentazione.
Splendido il ‘design’ delle quattro coppie per parte di razze che sostengono all’albero motore le due
corone, perfettamente circolari, che supportano le cassette. Bellissimo ed ingegnoso anche il ponte, a due
travi in legno, che sostiene dalla parte esterna l’albero della ruota. La piccola finestrella direzionata sulla
‘doccia’, la parte più delicata e critica, permetteva al mugnaio di tenere sotto controllo il funzionamento
della ruota mentre era intento al lavoro nelle macine.
Tipi e tecnologie delle ruote idrauliche verticali
Modelli di ruota
1. Per di sotto: ruota detta ‘a palette’, dove l’acqua spinge le pale immerse nella corrente. Adatta a
grandi volumi d’acqua con bassa velocità.
2. Per di sopra: ruota detta ‘a cassetta’, viene sfruttato il peso dell’acqua e non la sua velocità o spinta.
L’acqua viene temporaneamente immagazzinata in piccoli contenitori, le cassette per l’appunto,
sulla parte superiore della ruota e svuotate al compimento del semigiro inferiore. Questo sistema
ha un rendimento maggiore rispetto agli altri tipi, non sono necessari grandi volumi d’acqua, ma
necessita un dislivello almeno di poco superiore al diametro della ruota che deve essere di grandi
dimensioni, richiede inoltre una tecnologia più raffinata nella regolazione e convogliamento
dell’acqua, come pure nella costruzione della ruota.
3. A metà: detta anche ‘di petto’. Rendimento intermedio rispetto alle precedenti, utilizzata quando
il dislivello del salto d’acqua non era sufficiente per alimentare dal ‘di sopra’ la ruota. Si sfruttava
quindi la velocità della piccola quantità d’acqua, dovuta al salto che veniva coperto negli ultimi
metri prima di colpire le pale. Necessitava di un sofisticato sistema di canalette che dovevano
colpire con precisione le pale, parzialmente strutturate ‘a cassetta’.
Elementi costruttivi delle ruote e degli assi
1. Albero: è l’asse di rotazione orizzontale, è detto anche albero motore in quanto, oltre a fare da
perno per la ruota di forza, trasmette il movimento agli ingranaggi di distribuzione oppure, nei tipi
più semplici, è provvisto di camme per trasformare il movimento rotatorio in discontinuo.
2. Razze e bracci della ruota. Sono gli assi di collegamento e trasmissione della forza dalle corone
delle pale all’albero fulcro della ruota. I raggi della ruota insomma.
3. Corone: innestate nelle razze, sono la base di appoggio e sostegno delle pale. Come minimo
troviamo quattro assi tagliate a quarto di cerchio a formare un cerchio intero, ma più spesso si
tratta di una serie di tavolette a formare il cerchio tramite un sofisticato sistema di incastri ed
innesti.
4. Pale: le assicelle trasversali innestate sulle corone adatte a sopportare la spinta dell’acqua.
5. Cassette: nelle ruote alimentate ‘dal di sopra’ sono delle assicelle opportunamente sagomate
e a tenuta d’acqua, atte a raccogliere l’acqua dall’alimentazione nella parte sopra della ruota e
scaricarla nella parte sotto.
Derivazione e regolazione del flusso d’acqua
1. Presa: è l’opera muraria a monte di tutti manufatti costruiti per far funzionare il mulino, e serve
ad innestare e ad alimentare la canaletta artificiale di trasporto dell’acqua verso le ruote. Si tratta
in genere di una diga di sassi, muretti a secco oppure ancora di tronchi di legno, edificata allo
scopo di innalzare il livello d’acqua e allo stesso tempo catturare la quantità d’acqua giusta e il più
possibile con portata costante e scolmare l’acqua in sovrappiù.
2. Paratoia o saracinesca :valvola, spesso in legno, in epoche più recenti in ferro, che tramite un
meccanismo a leva o a vite, permette di regolare la quantità d’acqua da far convogliare nella
canaletta.
3. Canale o canaletta: detto anche roggia, è il canale artificiale che trasporta l’acqua dalle prese al
sistema di distribuzione verso le ruote. Poteva essere una trincea scavata sul terreno, una canaletta
di mattoni o muratura, oppure ancora in legno.
4. Serranda: altro tipo di valvola, con funzione di regolazione dell’acqua, ma in questo caso è
posta sopra la doccia finale di alimentazione della singola ruota e tipicamente era azionata da
un meccanismo a leva manovrabile direttamente dall’interno dell’opificio. L’acqua in più, o nel
caso che si dovesse fermare e non alimentare la ruota, viene scaricata direttamente nel canale di
scarico, baypassando la doccia di alimentazione.
5. Doccia: dopo la suddivisione e la regolazione tramite le serrande, è il tratto finale di canaletta
indirizzato a colpire in modo adeguato le pale o ad alimentare le cassette.
6. Particolare delle serrande di regolazione dell’acqua da far scorrere nelle ‘docce’ di alimentazione
delle ruote. Il meccanismo in questo caso è a leve, ma poteva anche essere azionato con corde e
tiranti. Generalmente la regolazione avveniva direttamente dall’interno dell’officina in modo da
modulare con precisione le necessità del lavoro.
7. Canale di carico: è il manufatto, praticamente il proseguimento della roggia, che permetteva lo
sfogo dell’acqua dalle pale al torrente o fiume di alimentazione, restituendogli l’acqua prelevata
per il lavoro.
Meccanismi interni nel mulino o nei magli
1. Castello: nei mulini di macina per granaglie, è l’impalcatura della struttura interna, prevalentemente
in legno, che sostiene tutti i meccanismi rotanti.
2. Nella parte inferiore si trovano gli ingranaggi e le ruote dentate; spesso la struttura è chiusa a
protezione dei lavoratori.
3. Nella parte superiore, o sopra a formare un vero e proprio pavimento rialzato, sostiene le macine
e gli strumenti di alimentazione della macina e la raccolta delle farine.
4. Tramite i vari meccanismi e ruote dentate, una singola ruota poteva muovere più macine, mentre
nel caso vi fosse installato anche un pilaorzo erano necessarie due ruote esterne, in quanto il
pilaorzo richede una velocità di rotazione notevolmente diversa dalle macine.
5. Ruote dentate o lubecchi: è un meccanismo a ruota, posto tipicamente sotto il palco, che permette
la variazione del moto da verticale della ruota a pale ad orizzontale sugli assi delle macine. Serve
anche, a seconda del diametro e del numero di denti, alla variazione di velocità tra i vari elementi.
Il disco della ruota presenta una serie di denti, anticamente in legno poi in ferro, di particolare
forma e sezione adatti ad innestarsi alla corrispondente ruota che riceve il moto.
6. Lanterna o rocchetto: altro tipo di meccanismo per il passaggio del moto da un albero rotante
ad un altro. A differenza del lubecchio, la lanterna anziché presentare dei denti assomiglia molto
di più, ma molto più piccola, ad una ruota a pale. Anziché pale sulla corona della ruota, sono
innestate delle traversine cilindriche, dette fusoli, in legno atte a ricevere l’innesto dei denti della
ruota dentata accoppiata. L’accoppiamento di queste due ruote di diverso diametro permette
quindi di variare in maniera prefissata la velocità di rotazione dei due alberi.
7. Nottola: lastra in ferro sagomato a farfalla, con in centro un foro che va ad incastrarsi sull’asse
dell’albero proveniente dalla lanterna. Si trovava sul pavimento del castello ed aveva la funzione
di sostenere il grosso peso delle mole ed evitare gli attriti tra le parti in legno.
8. Temperatoia: meccanismo a leve che serve a modificare la distanza, l’aria, tra le due macine,
permettendo, entro certi limiti, di variare il tipo e la grossezza del macinato.
9. Macine: la macina è formata da due mole dette anche palmenti fatte di grosse pietre (originariamente
monolitiche) di forma circolare, di notevole diametro e conseguentemente di grande peso. La
mola inferiore era fissa e poggiava sulla nottola del pavimento, quella superiore girava azionata
dall’albero di forza, aveva inoltre un foro centrale attraverso il quale veniva fatto scendere il grano,
regolato dalla tramoggia. Le macine erano fittamente incise con canalette dall’interno all’esterno,
che andavano periodicamente revisionate, e a seconda della profondità, la forma, il numero delle
razze e la finezza del taglio, erano adatte ai vari tipi di granaglia e alla grossezza delle farine che
si volevano ottenere.
10.Tramoggia: cassetta quadrangolare in legno, che si restringe ad imbuto verso il basso, e racchiude
il grano da macinare. È posizionata sopra la mola in corrispondenza del foro di alimentazione.
La quantità da far scendere è regolata da una piccola valvola in legno. Un ingegnoso sistema
collegato alle mole, permetteva di trasmettere le vibrazioni del moto delle ruote alla tramoggia,
con lo scopo di favorire la discesa uniforme del grano.
11.Pilaorzo: mola in porfido o granito di forma particolare e con innestato un raschiatoio in ferro,
lo sbattimento tra le superfici ed il rimescolamento del raschiatoio lo rende adatto alla brillatura
(sbucciatura) dell’orzo e del miglio.
12.Pestello: anziché lavorare con moto circolare e sfruttare il peso delle mole per schiacciare i chicchi,
il pestello lavora per moto alterno dato da un albero a camme ed opera una specie di pestaggio del
materiale posto sulla coppa della macina tramite la testa cilindrica in ferro del pestello, regolabile
in altezza a seconda delle diverse necessità. Permetteva quindi la brillatura (sbucciatura) dell’orzo,
miglio e riso.
13.Maglio: grosso martellone con il manico formato da un trave di legno e la testa in ferro. Veniva
sollevato da una camma dell’albero motore ed era usato nelle officine dove si lavorava il ferro
battuto.
14.Mantice: aveva lo scopo di soffiare sul fuoco, prevalentemente di carbone, che serviva ad
arroventare il ferro da battere. È formato da un grosso otre, generalmente a soffietto in pelle, e
da una boccola di uscita dell’aria puntata sul fuoco. Viene azionato dal movimento alternativo di
una camma dell’albero motore, che permette la gonfiatura ed il rilascio forzato della parte mobile
del macchinario. L’ingresso e l’uscita forzata dell’aria era regolato da valvole in pelle.
15.Arganello: paranco, tipicamente con sistema a vite, agganciato al soffitto dell’officina adatto a
sollevare la parte superiore, mobile, delle macine. Con il lavoro le mole si usuravano rapidamente e
non macinavano più con cura il grano, il mugnaio doveva periodicamente revisionarle, anche ogni
paio di settimane nei periodi di intenso lavoro. L’operazione era detta battere mola e consisteva
nel riscolpire le incisioni, scalpellatura, sulla superficie di pietra della mola
L’idraulica araba
Nel Medio Evo importante fu il contributo dato all’idraulica dall’Islam. Nell’area geografica interessata al
primo sviluppo della civiltà islamica, furono realizzate importanti opere di canalizzazione per la bonifica e
per la distribuzione dell’acqua, con largo impiego del sifone, pressoché sconosciuto precedentemente, ma
ciò che più conta, l’Islam assicurò la continuità della conoscenza con le civiltà antiche in particolar modo
con la cultura alessandrina. Quando nel Rinascimento si riscopri la civiltà classica e la sua scienza, in realtà
si disponeva di tecniche molto più evolute che nell’antichità e di strumenti matematici molto più versatili
quali la numerazione araba e l’algebra, anch’essa di derivazione araba.
Dei numerosi “architetti” che operarono nel Rinascimento il più significativo e più versatile fu Leonardo da
Vinci (1452-1519). A Leonardo è dovuta una prima versione della conservazione della massa in un corso
d’acqua in cui il prodotto tra la velocità media dell’acqua in una sezione e l’area della sezione medesima
è costante, mentre, sempre Leonardo osserva, che la velocità dell’acqua è massima al centro del fiume, e
minima sui bordi. In tempi recenti si è ricondotto lo studio della turbolenza a quello dei sistemi dinamici
che conducono al caos deterministico. A tutt’oggi la vera natura dei moti turbolenti non è del tutto chiara
e l’approccio probabilistico sembrerebbe non dovuto alla nostra ignoranza, ma insito nella essenza stessa
del fenomeno, come in altri rami della Fisica. Si può concludere affermando che è più facile studiare il
moto di corpi celesti infinitamente lontani che quello del ruscello che scorre ai nostri piedi.(Galileo Galilei:
“Discorso intorno a due Scienze nuove”.)
Le fonti di energia attuali
Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti nell’antichità e per molto altro tempo,le sole fonti di
energia erano la potenza muscolare dell’uomo e quella degli animali,la forza del vento e delle acque che
scorrevano nei fiumi;il legno fu per millenni l’unica fonte di energia termica. A partire dal XVII secolo,a
queste fonti energetiche si aggiunsero il carbone,poi,dal XIX secolo,il petrolio,il gas naturale e gli impianti
idroelettrici;invece nella seconda metà del XX secolo nacquero le prime centrali nucleari. La produzione di
carbone è aumentata nell’arco degli anni così come quella del petrolio,che ha raggiunto velocemente il
primo posto come principale fonte energetica mondiale (circa il 50%),mentre il carbone fornisce appena
un quarto dell’energia mondiale;più distaccati troviamo il gas naturale (20%),l’energia idroelettrica e
termonucleare (oltre il 5%).Oggi il petrolio è direttamente o indirettamente (come combustibile che
alimenta le centrali termoelettriche)la principale fonte di energia utilizzata nella maggior parte dei
Paesi;questo rende particolarmente gravi le crisi connesse all’aumento massiccio del prezzo di vendita del
greggio,deciso nel 1973 dai grandi produttori.
Quando le condizioni economiche e sociali sono insoddisfacenti,i grandi giacimenti carboniferi e le
notevoli risorse idroelettriche rimangono inutilizzati in molti Paesi. I grandi produttori di petrolio (Medio
Oriente,Africa del Nord) hanno un consumo molto limitato della materia;al contrario molti Paesi le cui
fonti di energie sono minime possono importare e utilizzare considerevoli quantità di energia (ad esempio
la Danimarca).In passato il progresso tecnico si è sempre evoluto in base all’utilizzo dei combustibili non
rinnovabili,come il petrolio,le cui riserve si erano accumulate in circa 70 milioni di anni.
L’energia idroelettrica
Nell’attuale dibattito sull’energia quella idrica rappresenta un’energia rinnovabile Questo tipo di energia
è molto antico,infatti possiamo tranquillamente dire che le prime ruote idrauliche sono le “progenitrici”
delle grandi turbine delle centrali idroelettriche moderne, che azionate dall’acqua,rappresentano il sistema
più economico per produrre elettricità.
Queste turbine idroelettriche sono alimentate dall’acqua di enormi bacini artificiali delimitate da
dighe;l’acqua cade dall’alto e precipita nelle condotte della centrale,provocando così la rotazione delle
turbine e dunque la produzione di energia. Questo tipo di energia,in alcuni Paesi come la Norvegia,viene
molto sfruttata,infatti quasi tutta la loro elettricità è ricavata da questa fonte naturale;questo perché
l’energia idroelettrica è pulita,economica e abbastanza sicura.
Oggi ci si orienta a riattivare quelle piccole centrali idroelettriche che erano state disattivate in passato.
Il funzionamento consiste nel raccogliere acqua in un bacino , farla defluire attraverso una condotta a valle,
sfruttare l’energia posseduta dall’acqua nella caduta con una turbina accoppiata ad un alternatore.
La quantità di energia che si produce è legata al salto e alla quantità di acqua
Figura 56 - Schema di centrale termoelettrica