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Tavola rotonda
L’insegnamento per l’Italia
MASSIMO D’ALEMA
Io risponderò ai quesiti relativi all’interesse per l’Italia, anche se
non nascondo che mi è spiaciuto non seguire i lavori di un Convegno
che considero interessante anche per capire l’evoluzione in Francia,
dove indubbiamente il modello della V repubblica appare ormai oggetto di revisioni, in parte di aggiustamenti, e sicuramente di una
evoluzione rispetto alla peculiare esperienza semipresidenziale.
Credo, tutto sommato, che anche nel sistema francese si sia avvertito il bisogno di un equilibrio maggiore fra Assemblee elettive,
ruolo del Parlamento, poteri del Presidente, tanto più che questi tendono a scivolare verso un modello americano, di Presidente, di fatto,
Capo del Governo almeno quando, come avviene più normalmente
nel sistema francese, egli è anche, di fatto, il Capo della maggioranza
parlamentare.
Penso anche che l’esperienza francese consigli – dal punto di vista delle regole elettorali – un sistema, che pure favorendo la formazione di una maggioranza coesa, non porti alla drastica esclusione
dal Parlamento di forze rappresentative; in questo senso, da tempo,
è in atto in Francia un certo dibattito circa la possibilità di attenuare
l’effetto drastico di esclusione di quella legge elettorale, le cui virtù
io non voglio sottacere (fra l’altro non è mistero che verso quel modello si inclinino le preferenze, non solo mie personali, ma anche
quelle politiche del Partito cui appartengo).
Questa riflessione, che è poi utile anche per capire come certi
modelli istituzionali, elettorali, costituzionali, sono comunque oggetto dell’usura del tempo e necessitino di un lavoro di manutenzione, di uno sforzo di mantenimento di equilibri fra poteri, che è
comunque una necessità del costituzionalismo, almeno nell’esperienza europea.
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Io non mi sottraggo al tema. Noi abbiamo avuto una evoluzione
assai più affaticata, complessa, meno ordinata nella vicenda italiana
della c.d. «Seconda Repubblica», ed io devo dire, francamente, che
considero abbastanza preoccupante il modo in cui è venuto assestandosi il sistema politico-costituzionale nel nostro Paese. Non
penso però, allo stato dei fatti, che una rivoluzione costituzionale nel
segno del presidenzialismo sia attuabile e neppure ormai auspicabile
nel contesto italiano.
Una finestra di opportunità, indubbiamente, vi era stata con la
Bicamerale.
Naturalmente, il risultato della Bicamerale fu abbastanza casuale, nel senso che l’elezione popolare diretta del Presidente della
Repubblica scaturì da una vicenda politica, da un formarsi di una
maggioranza abbastanza casuale.Tuttavia noi decidemmo, intorno a
quel voto, di cercare di costruire una soluzione che fosse sostenibile
per il nostro Paese. Forse più simile ad un modello di elezione diretta del Capo dello Stato come si realizza in Finlandia o in Austria
che non ad un vero e proprio modello francese, e tuttavia nella consapevolezza del grande valore simbolico istituzionale che avrebbe
avuto, per il nostro Paese, una elezione diretta del Capo dello Stato.
La figura del Capo dello Stato è, nel nostro Paese, forte, e lo è
stata, particolarmente, nella esperienza tormentata della Seconda Repubblica. Di fronte alle fragilità politico-istituzionali scaturite dai
cambiamenti degli anni Novanta, il Presidente della Repubblica è venuto assumendo, nelle diverse esperienze, un ruolo molto forte di garanzia istituzionale e di rappresentanza dello Stato democratico nel
rapporto con l’opinione pubblica, con i cittadini. Ora, è evidente
che, sia pure senza dotare un Capo dello Stato di poteri ulteriori e di
Governo, la elezione popolare diretta di un Presidente della Repubblica ne accrescerebbe la legittimazione, la forza, persino con un rischio di conflitto oggettivo con il Governo ed il Capo del Governo.
Ora, un sistema di questo tipo, indubbiamente, rischia di compromettere la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica,
tanto più in un bipolarismo, come il nostro, caratterizzato da una
contrapposizione che rimane aspra e venata di aspetti di carattere
ideologico. Direi che, in qualche modo, il fallimento della Bicamerale è testimonianza della impossibilità di andare verso questo modello, non soltanto perché lo si è fatto cadere, ma anche perché ha
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dimostrato la mancanza di quel clima costituente, di quel clima di
comune riconoscimento nei valori repubblicani, che consentirebbe
l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica senza
produrre una lacerazione del sistema politico-istituzionale.
Io non credo che l’Italia sia in condizione di andare verso una
Riforma di questo tipo, e, d’altro canto, il cuore del sistema francese
è il sistema elettorale a doppio turno, che conferisce non soltanto al
Presidente della Repubblica la legittimazione di un voto a maggioranza dei cittadini, ma che nella similitudine (sia pure con le note
differenze fra sistema elettorale presidenziale e parlamentare) – favorisce quel naturale formarsi di una maggioranza parlamentare presidenziale che è il modo naturale di funzionamento del sistema. Naturalmente, è un sistema che ammette l’eccezione – e l’ha conosciuta –,
ma ha una sua logica naturale.
Ora, è noto che il sistema a doppio turno incontra in Italia una
resistenza pressoché insormontabile nelle posizioni del centrodestra,
che lo ha sempre considerato un sistema impraticabile.
Io non credo, dunque, che l’esperienza francese possa, in questo
momento, rappresentare per noi un punto di riferimento; quella
della Bicamerale era un’altra stagione, un momento in cui l’esperienza della seconda Repubblica era più fresca, e si poteva sperare
che evolvesse verso un quadro di legittimazione reciproca e di bipolarismo di tipo europeo. Ci si provò anche, ma devo dire che, sinceramente, tuttavia questo non è stato possibile, e mi pare molto difficile perché, nel frattempo, è radicalmente mutato lo scenario ed anche dal punto politico-istituzionale sono altri i problemi che il Paese
ha di fronte a sé.
Sono altre le esigenze prioritarie a cui – a mio giudizio – si deve
dare una risposta.
L’evoluzione del sistema istituzionale nel nostro Paese è andata
nel senso di una sorta di presidenzialismo de facto, perché, sostanzialmente, attraverso modificazioni della legge elettorale si è determinato un sistema nel quale i cittadini sono persuasi di eleggere il
Capo del Governo (cosa che in realtà non avviene dal punto di vista
legale-costituzionale), il che – a mio giudizio – ha innescato una situazione piuttosto pericolosa dal punto di vista del funzionamento
della democrazia, in cui il Capo del Governo viene designato in
quanto se ne scrive il nome sulla scheda (il che è piuttosto strano in
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sistemi politici democratici, perché si scrive sulla scheda il nome di
una persona che tecnicamente non viene eletta).
Si determina, quindi, una sorta di una forzatura dal basso dei
poteri costituzionali del Capo dello Stato, una sorta di investitura
popolare di un Primo Ministro che però, formalmente, è scelto dal
Presidente della Repubblica e trova la sua legittimazione nella fiducia parlamentare.
Questo avviene anche in altri sistemi, ma con un alto grado di
informalità. È vero che, di fatto, anche in altri sistemi il leader del
maggior partito è designato ad essere Capo di Governo, ma – a parte
il fatto che da noi non è stato così, perché più che avere un bipartitismo abbiamo avuto una sorta di bi-leaderismo fondato su coalizioni variopinte e, in qualche modo, non mi pare che siamo usciti del
tutto da questa situazione, questo «presidenzialismo di fatto», cioè
questo sovrapporsi di una legittimazione popolare informale ad un
impianto costituzionale invariato, a mio giudizio, ha creato una situazione abbastanza confusa, nella quale, poi, con l’ultima legge elettorale, la dipendenza del Parlamento dal capo eletto/non eletto dai
cittadini è diventata fortissima, anche per il carattere anonimo e
quasi di nomina che ha assunto l’elezione dei parlamentari della Repubblica. Esistono delle liste anonime in cui il cittadino non sa bene
per chi vota, non sa se scatterà l’undicesimo, il dodicesimo di queste
liste di parlamentari sostanzialmente designati.
Io ritengo questa situazione abbastanza originale per un grande
Paese democratico, e una situazione dalla quale si dovrebbe uscire,
innanzi tutto con riforme che favoriscano il ricostituirsi di quei fondamentali mediatori, quali sono i partiti politici, che aiutino un processo di riorganizzazione del sistema politico italiano, favorendo una
semplificazione rispetto alla estrema frammentazione e ricostituendo
le basi di un sistema di tipo parlamentare, sia pure profondamente
rinnovato, in un diverso e più avanzato equilibrio nei rapporti fra
Governo e Parlamento. Partiti più forti, un Governo più forte, in un
rapporto equilibrato con un Parlamento che ritrovi pienamente la
sua legittimazione in una legge elettorale che restituisca ai cittadini il
potere di scegliere i propri rappresentanti.
Devo dire, sinceramente, che questa mi pare la linea evolutiva
più ragionevole, al punto in cui sono arrivate le cose. Anche per questo, penso che le proposte intorno a cui nel corso della passata legi-
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slatura si era riconcentrata l’attenzione del Parlamento (penso alla
c.d. «bozza Violante» che si ispira notevolmente ad un sistema di
tipo neoparlamentare, di tipo tedesco), a mio giudizio vanno nella
direzione giusta, e credo che sarebbe ragionevole completare una
riforma di questo tipo con una legge elettorale coerente, che è,
grosso modo, la legge tedesca. Un simile sistema elettorale consentirebbe quella razionalizzazione del quadro politico e consoliderebbe
la situazione politica determinatasi all’indomani delle ultime elezioni
non per forza di una riforma ma per effetto di scelte politiche che
sono state compiute dai maggiori partiti, e che sono andate nel senso
di una razionalizzazione.
Io credo che una simile razionalizzazione andrebbe consolidata
e credo che l’evoluzione del sistema democratico italiano dovrebbe
portarci, oggi, ad una intesa del tipo di quella che si è delineata nel
corso della precedente Legislatura, rafforzata da una riforma della
legge elettorale in senso tedesco.
Non so se sia possibile ciò e sarei molto prudente nel valutare le
condizioni politiche di una effettiva fase costituente, che mi sembra
abbastanza problematica. Certo, il fatto che si vada avanti nella attuazione delle norme costituzionali di riforma del Titolo V consiglierebbe di riprendere una riflessione sul funzionamento del Governo e
del Parlamento, anche perché una riforma di questo tipo consentirebbe di uscire da quel bicameralismo perfetto che, in realtà, appesantisce molto la democrazia parlamentare, non rafforza l’autorità
del Parlamento, ed è incompatibile con una articolazione dei compiti
delle due Camere che rispecchi in modo più efficace il funzionamento di uno Stato di tipo federale.
Quindi, molte ragioni spingerebbero verso riforme costituzionali nel senso da me auspicato – che appare, a questo punto, abbastanza diverso dal modello francese –, ma non posso pronunciarmi
sulla fattibilità di questo, perché ciò dipenderà dal clima costituente,
che un giorno c’è ed un altro no. Questa intermittenza della disponibilità al dialogo sembrerebbe essere, di per sé, poco incoraggiante,
per riforme che richiedono, invece, un impegno di grande respiro e
di lunga lena.
Quindi, da questo punto di vista lasciatemi essere abbastanza
pessimista nella valutazione circa la possibilità di realizzare grandi
riforme; circa la necessità, invece, non ho dubbi che il Paese avrebbe
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bisogno di uscire dalla attuale legge elettorale e di rendere più efficace il sistema di governo ed anche il ruolo del Parlamento, che appare oggi indebolito dal carattere pletorico – troppi parlamentari –,
e dalla lunghezza delle procedure di un bicameralismo perfetto che
risponde, credo, ad esigenze di un tempo ormai lontano.
FRANCESCO D’ONOFRIO
Ritengo che anche oggi avrò una qualche difficoltà a distinguere
radicalmente il mio ruolo culturale di docente di diritto pubblico all’Università da quello politico di Responsabile del programma dell’UDC: mi auguro che questa difficoltà non costituisca ostacolo per
il mio intervento e comunque chiedo scusa se non riuscirò a distinguere del tutto i miei due ruoli.
D’altra parte allorché nelle scorse elezioni politiche ho scelto di
correre per il Senato della Repubblica anziché per la Camera dei deputati pur sapendo che sulla base della legge elettorale vigente sarebbe stato molto più difficile conquistare un seggio al Senato anziché alla Camera soprattutto in considerazione del fatto che l’UDC
aveva deciso di competere da solo alle elezioni politiche, l’ho fatto
anche perché sapevo che in caso di insuccesso – come è stato – sarei
rientrato nella mia Facoltà alla Sapienza. Cosa che rappresentava per
me allora e lo rappresenta ancora oggi un motivo di particolare tranquillità.
Occorre peraltro far sapere ai nostri colleghi francesi che il sistema elettorale nazionale italiano con il quale abbiamo votato alle
ultime elezioni politiche era considerato poco meno che una vergogna da parte di tutti, mentre all’indomani delle elezioni si è improvvisamente assistito ad una sorta di esaltazione del sistema medesimo,
probabilmente perché ritenuto idoneo a favorire una evoluzione illusoriamente a mio giudizio bipartitica del sistema italiano.
Per quel che concerne l’oggetto specifico del nostro incontro,
ritengo che siano state molto rilevanti le considerazioni svolte dai
due colleghi francesi perché essi hanno molto insistito sul fatto che
quello che noi consideriamo il «modello della quinta Repubblica» va
esaminato in riferimento a quattro questioni specifiche particolarmente rilevanti per il dibattito che si sta svolgendo in Italia sul miglior modo di organizzare la democrazia italiana.
FRANCESCO D’ONOFRIO
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La Le Pourhiet ha infatti detto che la quinta Repubblica – che
noi consideriamo prevalentemente come modello costituzionale concernente il Capo dello Stato – va studiata in riferimento al concetto
di potere presidenziale, all’idea che la Francia ha di Stato di diritto,
alla connessione tra processo di integrazione europea e Stato nazionale francese a quel «modello repubblicano» che la Francia evoca
molto spesso.
Un giudizio sulla esperienza della quinta Repubblica francese,
deve infatti tener conto di tutte e quattro queste questioni fondamentali soprattutto in considerazione del fatto che l’Italia a differenza della Francia non ha una lunga storia costituzionale repubblicana né una significativa storia coloniale.
Occorre infatti saper leggere le diverse Costituzioni che si sono
succedute in Francia non come fatti esclusivamente o prevalentemente tecnici ma come fatti che disciplinano i rapporti tra i poteri
dello Stato anche alla luce della storia nazionale, delle strutture economiche e sociali che si sono succedute nel corso degli anni, dei rapporti tra lo Stato nazionale da un lato ed i processi di integrazione
europea dall’altro.
Queste considerazioni concernenti la Francia devono essere ancor più tenute presenti allorché ci volgiamo a considerare le questioni istituzionali italiane: non ritengo che sia infatti vero che in Italia parliamo da oltre trent’anni di riforme costituzionali senza mai
realizzarle perché in questi tre decenni sono avvenute molte vicende
estremamente significative per quel che concerne dapprima la cultura delle coalizioni prevalentemente democristiana e in un secondo
tempo le più evidenti manifestazioni delle proposte politiche ed istituzionali delle due sinistre italiane, fino a giungere ai tentativi concernenti la trasformazione federalistica dell’Italia che hanno preso
corpo soprattutto dopo la stagione di «mani pulite» con la quale si
può ritenere sostanzialmente conclusa la «Prima Repubblica» senza
che si sia dato vita, peraltro, a quella che giornalisticamente chiamiamo «Seconda Repubblica».
Qualora si tenga infatti presente che i due valori di fondo alla
stregua dei quali valutiamo anche le Costituzioni – lo spazio e il
tempo – notiamo che lo spazio del Costituente del 1946 era l’Italia
tutta, laddove con l’avvento politicamente sempre più significativo
della Lega Nord all’inizio degli anni Novanta si è posto, proprio in
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riferimento allo spazio, una questione – quella del c.d. federalismo –
che impone di raccordare il territorio in modo diverso dal passato
proprio in riferimento ai poteri del Governo centrale e dei Governi
regionali.
È dunque cambiato il criterio dello spazio.
Per quel che concerne il criterio del tempo, mi sembra che si
possa dire che mentre nella c.d. «Prima Repubblica», il passaggio
elettorale era importante ma mai decisivo, perché la scelta costituzionale di fondo riguardava proprio il Governo del Paese anche tra una
elezione e l’altra, dal 1994 – inizio della c.d. «Seconda Repubblica» –
viviamo in una stagione nella quale sembra che le elezioni siano sempre più importanti del Governo del Paese tra una elezione e l’altra.
Vi è da chiedersi se vogliamo un sistema nel quale si affrontino
due comitati elettorali per vincere le elezioni o se intendiamo dar vita
a veri e propri schieramenti politici: in breve, dobbiamo scegliere fra
una c.d. «vocazione maggioritaria» che tende ad esaltare il passaggio
elettorale ed una cultura delle alleanze che tende ad esaltare il Governo del Paese tra una elezione e l’altra.
I colleghi francesi ci hanno detto che anche nella quinta Repubblica la Francia non si limita a considerare il solo fatto elettorale perché tra una elezione presidenziale e l’altra l’equilibrio tra il ruolo dei
partiti politici e il Presidente della Repubblica eletto direttamente
dal corpo elettorale ha rappresentato un tormento che ha portato o
a modifiche del sistema elettorale, o a modiche della durata del mandato presidenziale.
Ed è proprio il significativo ruolo dei partiti politici fra una elezione presidenziale e l’altra ad assumere un rilievo di integrazione
della evoluzione semipresidenziale francese.
Ho ripetutamente affermato (e l’esempio francese mi sembra
che conforti questa affermazione), che occorre lavorare per un
nuovo equilibrio costituzionale in Italia: nella Costituzione repubblicana abbiamo infatti realizzato una radicale distinzione tra la maggioranza necessaria per un vero e proprio patto costituzionale e
quella necessaria per il Governo del Paese. Se si vuol comprendere
fino in fondo l’Italia repubblicana e la sua esperienza costituzionale,
occorre tener presente che le vicende politiche e culturali dell’anno
fondativo della Carta costituzionale, portarono a configurare queste
due diverse maggioranze.
FRANCESCO D’ONOFRIO
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Vogliamo ritenere che la maggioranza di Governo comprenda
anche la maggioranza costituzionale come è avvenuto con la radicale
modifica dell’ordinamento federale della Repubblica compiuta dal
centrosinistra del 2001 e con la molto più ampia riforma costituzionale deliberata dal centrodestra nel 2005 e bocciata dal referendum
popolare? O vogliamo tener distinte le due maggioranze, ed in tal
caso occorre capire tra chi verrebbe stipulato un nuovo patto costituzionale.
Dal 1994 in poi l’Italia ha sperimentato infatti leggi elettorali con
premio di maggioranza inserito nel sistema dei collegi elettorali minuscoli o con la previsione di un robusto premio di maggioranza per chi
avesse conseguito una qualunque maggioranza relativa, e non ci
siamo mai chiesti se queste evoluzioni maggioritarie sono state previste per governare il Paese o anche per riformare la Costituzione: se
con le leggi elettorali si voleva garantire il governo del Paese e non anche una modifica radicale della Costituzione è venuto il momento di
riconsiderare complessivamente riforma costituzionale e leggi elettorali anche alla luce della esperienza francese profondamente studiata.
Il nuovo equilibrio costituzionale del quale ho parlato deve concernere, allo stesso tempo, la questione dello spazio mediante un
nuovo rapporto fra centro e periferia, ed anche il tempo, che non
può essere considerato rilevante soltanto al momento delle elezioni o
fra una elezione ed un’altra.
Questa esigenza di un nuovo equilibrio costituzionale costituisce la proposta specifica del mio partito, perché siamo convinti che
non occorre un’altra Costituzione rispetto a quella del 1947 perché
occorre confermare le due maggioranze necessarie, l’una per radicali
modifiche costituzionali e l’altra per il governo quotidiano del Paese.
È auspicabile che i due principali cartelli elettorali – il Pdl e il
Pd – che si sono presentati alle ultime elezioni politiche definiscano
proprio una specifica identità su questa questione di fondo, perché è
di tutta evidenza che l’identità di un partito politico deve saper dare
risposte alla questione di fondo del rapporto fra corpo elettorale e
partiti politici non meno del dare risposta alle questioni concernenti
i rapporti internazionali e le scelte essenziali di politica economica e
sociale.
La questione concernente l’identità dei partiti politici è dunque
fondamentale in questa fase della storia italiana, perché il venir meno
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LA V REPUBBLICA FRANCESE
dei partiti politici che hanno caratterizzato la storia della c.d. «Prima
Repubblica» pone ai nuovi soggetti politici la necessità di ripensare
il rapporto tra leggi elettorali nazionali, locali ed europee, e quindi il
rapporto fra i corpi elettorali e le rispettive istituzioni di Governo.
Questo problema riguarda anche il mio partito, che ha dato vita
ad un Costituente di centro che ha iniziato il proprio percorso senza
concluderlo.
In questo contesto vanno considerate anche le questioni poste
dalla lista bloccata: mi sembra di tutta evidenza che è ben possibile
che vi sia una lista bloccata in uno dei sistemi elettorali considerati
ma che non si possa sottrarre complessivamente agli elettori il potere
di scegliere le persone chiamate a rappresentarli: quando l’UDC ha
posto la questione del voto di preferenza lo ha fatto per affermare un
principio fondamentale: i partiti si costruiscono partendo dalla periferia verso il centro e non viceversa.
D’Alema ha detto di essere pessimista rispetto alle riforme istituzionali, ed in particolare rispetto al modello della V Repubblica.
Per quanto mi riguarda non so se condividere il pessimismo di D’Alema o no. Una cosa mi sembra comunque fondamentale: un Governo eletto per governare il Paese non può anche dar vita ad una
nuova Costituzione se la distinzione fra maggioranza costituzionale e
maggioranza di governo vuole essere confermata.
È probabile che il nodo verrà al pettine nel momento in cui si
passerà dalle parole ai fatti in tema di federalismo fiscale. Se è vero –
come a me sembra – che il federalismo fiscale costituisce una radicale riforma dello spazio, è di tutta evidenza che non può una semplice maggioranza di governo procedere in una ridefinizione radicale
del rapporto fra Governo nazionale e Governi regionali con la semplice maggioranza di governo.
L’esperienza francese sembra confermare questa necessità.
ELIO VITO
Rivolgo un sentito ringraziamento al prof. Lanchester e al prof.
Lippolis per l’importante occasione di confronto su argomenti istituzionali di grande interesse che assumono un particolare rilievo nell’attuale contesto politico italiano.
ELIO VITO
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Vorrei partire con alcune considerazioni sull’intervento del Presidente D’Alema. La sua analisi della realtà politico-istituzionale del
nostro Paese mi trova d’accordo, salvo una diversa valutazione delle
ragioni per le quali l’importante esperienza della Bicamerale si è conclusa, dissento invece completamente sulle possibili soluzioni.
In via generale, ritengo che occorra prendere atto del fatto che,
se da un lato la politica è cambiata per stare al passo con le esigenze
di modernità, di competizione e di concorrenza imposteci dalla situazione internazionale, dall’altro, invece, non sono mutate le regole
del gioco e le Istituzioni.
Ciò determina una profonda frattura che investe le ragioni costitutive della nostra democrazia, ossia la funzione della rappresentatività.
Nel sistema attuale i cittadini nel preferire uno schieramento ad
un altro scelgono di fatto chi li governerà. Paradossalmente potremmo affermare che il cittadino non sceglie più il singolo rappresentante o il singolo partito, bensì sceglie il Governo e il programma
che dovrà essere attuato.
Possiamo interrogarci se fosse preferibile il precedente sistema
elettorale nel quale il cittadino votava direttamente il parlamentare
senza poter minimamente incidere sulla formazione governativa. In
merito questi mesi vi è una ricorrente polemica sul «voto di preferenza». Naturalmente, ritengo che si possano avere diverse opinioni
sulla bontà dei sistemi elettorali, non credo però abbia alcun fondamento l’idea che il voto di preferenza conferisca maggiore democraticità al sistema.
Chi compie questo errore ha la memoria corta e ha già dimenticato la realtà politica italiana di qualche decennio fa, nella quale proprio il meccanismo del voto di preferenza, e il conseguente «mercato
delle preferenze» rappresentava una delle principali cause di degrado istituzionale.
Il mancato controllo da parte dell’elettore sulle scelte e la formazione di Governo provocava una forte instabilità politica, leggi di
spesa micro settoriali – che hanno portato il debito pubblico all’attuale livello – ed un eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza.
Nonostante ciò tutti erano contenti: gli Esecutivi governavano,
pur senza stabilità, attraverso decreti legge che, non arrivando a essere convertiti, erano di fatto sottratti al controllo parlamentare; il
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Parlamento produceva soprattutto leggi micro settoriali, che garantivano al parlamentare di essere rieletto per aver soddisfatto le richieste del proprio elettorato, invece di occuparsi dell’attuazione del
programma di governo e delle necessità del Paese.
Nella fase attuale, pur non essendo il nostro un sistema bipartitico, l’opinione pubblica esprime una chiara tendenza in questa direzione.
Pertanto, di fronte ai problemi del nostro sistema politico, non
ritengo che la soluzione possa essere quella di tornare ad un sistema
multipartitico o partitocratrico, come quello precedente, ma piuttosto quella di stabilizzare e radicare ciò che di buono è stato fatto.
Concordo con il Presidente D’Alema sul fatto che il nostro
Paese non è maturo per l’adozione del modello presidenziale poiché
il sistema parlamentare radicato profondamente nel costume politico
e nella coscienza dei cittadini è difficile da sradicare.
Confermata l’impostazione parlamentare del nostro sistema, è
indispensabile però, adeguarlo, alle reali esigenze del Paese, alla
realtà politica che si è determinata. Oggi i cittadini influenzano
molto più direttamente che in passato la scelta del Governo e non
credo che ciò possa essere considerato negativamente.
Credo, piuttosto, che sia necessario procedere a una riscrittura
della legge elettorale, che nella forma presente per incapacità della
classe politica di procedere a delle modifiche istituzionali «più convenienti», è alquanto contorta.
L‘attuale formulazione risponde alla richiesta dei cittadini di
avere un ruolo attivo nella scelta del Governo, essi attraverso il rifiuto del sistema partitocratrico hanno voluto affidare ai partiti il
compito di realizzare un progetto, un programma politico. Nei fatti,
però, abbiamo, da un lato, un Governo che non ha grandi poteri,
dall’altro un regime parlamentare in cui le Camere si dichiarano fortemente insoddisfatte della funzione di mere attuatrici del programma di governo che si trovano a svolgere.
Quando un qualunque Ministro dice «io ho presentato un ddl,
e non so se il Parlamento me lo vota fra sei mesi, fra un anno, un
anno e mezzo» solleva un problema di grande attualità. Le nostre ricerche hanno dimostrato che per approvare un ddl ordinario il Parlamento impiega in media più di un anno, 374 giorni e questi non
sono a mio avviso tempi compatibili con la democrazia parlamentare
ELIO VITO
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e con la nostra realtà politica. Credo, quindi, che non possiamo sottrarci al dovere di prendere delle decisioni che ci aiutino a superare
questi problemi.
Le soluzioni possibili sono: o procedere attraverso modifiche
costituzionali che attribuiscano maggiori poteri al governo e al Premier, oppure procedere, attraverso delle modifiche regolamentari,
che, rafforzando la centralità del Parlamento – con particolare riferimento alle attività di indirizzo e di controllo ed all’insostituibile
ruolo dell’Opposizione (come ricordato dal Prof. Ceccanti nel suo
intervento) – lo adeguino maggiormente al contesto attuale
Al contempo, però, è necessario riconoscere al Governo il diritto – dovere di attuare il programma scelto dagli elettori, utilizzando in Parlamento degli strumenti che sicuramente non possono
essere solo quelli straordinari della decretazione d’urgenza e del ricorso al voto di fiducia, ma devono, normalmente, essere piuttosto
strumenti ordinari idonei a influenzare e determinare l’attività del
Parlamento, dando la priorità a quei temi che il Governo inserisce
nella propria agenda, poiché contenuti nel programma elettorale. Ritengo che l’iniziativa legislativa spetti prevalentemente al Governo e
che l’Esecutivo abbia dei poteri più stringenti, come avviene in Francia, nella determinazione dell’agenda politica, pur senza ricorrere all’adozione di quegli strumenti più estremi previsti dalla Costituzione
francese e non modificati dalla riforma Debrè.
Questi i temi all’ordine del giorno – anche delle Giunte per il
regolamento – con i quali non si intende affatto ridurre il potere del
Parlamento, bensì renderlo più efficace e soprattutto restituire al nostro Paese più competitività a livello internazionale. Un Paese in cui
non è possibile prevedere i tempi di approvazione di norme che regolano temi importanti, quali la sicurezza dei cittadini o le decisioni
di politica estera, non è un Paese competitivo.
Sulla Bicamerale sono dell’opinione che l’intelligenza e l’esperienza del Presidente D’Alema non gli consentano di credere che quel
voto fu casuale; il fallimento della Bicamerale in Aula non fu responsabilità dell’intervento di Berlusconi, anche se Forza Italia e altre
componenti ci arrivarono convinte, ma del voto sul presidenzialismo.
Sicuramente la Bicamerale fu costruita per un altro modello rispetto a quello presidenziale, poi l’abilità del Presidente D’Alema ha
fatto in modo che il progetto potesse comunque superare quel voto,
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giungere in aula e arrivare quasi fino in fondo, ma in realtà era minato dalla scelta di un modello che contrastava con l’impianto che si
stava costruendo.
Io non voglio sostenere che fu un capolavoro o una sconfitta,
credo che su quel voto pesi l’incapacità della politica di saper adeguare le sue Istituzioni alle esigenze della modernizzazione. Quel
voto fu una scelta lucida di conservazione, dettata dal timore di un
possibile cambiamento, dagli interessi contingenti, dalla paura che
qualcuno potesse essere escluso. Insomma, la storia di sempre del
nostro Paese.
Io mi auguro, senza enfasi, che oggi vi sia questa capacità, anche
con tutti i limiti dell’attuale legge elettorale. Nelle ultime elezioni politiche è stato compiuto un importante passo in avanti per rendere
più moderno il nostro sistema politico, credo che ora, per le forze
politiche che hanno compiuto questo passo faticoso sia giunto il momento di proseguire su quel cammino. Non voglio dire che il modello elettorale tedesco, al quale con molta onestà intellettuale il Presidente D’Alema si è da tempo richiamato, necessariamente contraddica questo modello; non lo voglio dire e non lo penso. Dico, però,
che la modifica della legge elettorale non mi pare la necessità dalla
quale partire. Io credo che occorra, comunque, consolidare, quello
che è accaduto ed è stato premiato dagli elettori. Quando il Parlamento rappresenta una così alta percentuale di voti ricevuti, penso
che le forze politiche abbiano il dovere di andare avanti su quella
strada, ed io, ripeto, mi concentrerei sulla modifica della Costituzione che rafforzi i poteri del Premier e del Governo, oppure sulla
modifica dei Regolamenti parlamentari.
L’esecutivo, formalmente, non ha alcun ruolo nella modifica dei
Regolamenti Parlamentari, altra anomalia italiana, ma naturalmente,
in concreto il terreno dei regolamenti parlamentari è spesso decisivo
ed il Governo non può disinteressarsene. In passato ci sono stati Governi che hanno posto l’accento sulla necessità che si facessero modifiche regolamentari o che hanno legato la propria sopravvivenza all’approvazione di determinate riforme.
Quando il Governo è intervenuto in modo chiaro e consapevole
sul terreno regolamentare anche il Parlamento ne è uscito rafforzato.
Credo quindi sia il caso di superare certi nostri tabù nell’interesse comune del Parlamento, del Governo, e, in fin dei conti, della
nostra democrazia.