documenti - Progetto Innocenti

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documenti - Progetto Innocenti
TIBET
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La violazione dei diritti umani
I prigionieri politici
La repressione religiosa
La discriminazione razziale
La tortura
La violazione dei diritti delle donne
La violazione dei diritti dell’infanzia
Le condizioni economiche dei tibetani
Associazione Italia-Tibet
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Tel./fax 02.70638382
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TIBET
documenti
La violazione dei diritti umani
I prigionieri politici
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
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La repressione religiosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 11
La discriminazione razziale
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La tortura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 19
La violazione dei diritti delle donne
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La violazione dei diritti dell’infanzia
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Le condizioni economiche dei tibetani
. . . . . . pag.
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La violazione dei Diritti Umani
Nel 1959, 1961 e 1965, le Nazioni Unite approvarono tre risoluzioni a favore del Tibet in cui si esprimeva preoccupazione circa la violazione dei diritti umani e si chiedeva “la cessazione di tutto ciò che priva il
popolo tibetano dei suoi fondamentali diritti umani e delle libertà, incluso il diritto all’autodeterminazione”. A partire dal 1986, numerose risoluzioni del Congresso degli Stati Uniti, del Parlamento Europeo e
di molti parlamenti nazionali hanno deplorato la situazione esistente in Tibet e all’interno della stessa
Cina ed esortato il governo cinese al rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche. Malgrado gli
incessanti appelli della comunità internazionale:
• il diritto del popolo tibetano alla libertà di parola è sistematicamente violato.
• Migliaia di tibetani sono tuttora imprigionati, torturati e condannati senza processo. Le condizioni carcerarie sono disumane.
• Le donne tibetane sono costrette a subire la sterilizzazione e l’aborto.
• I tibetani sono perseguitati per il loro credo religioso.
• Monaci e monache sono costretti a sottostare a sessioni di rieducazione patriottica, a denunciare il Dalai
Lama e a dichiarare obbedienza al Partito comunista.
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I PRIGIONIERI POLITICI E
LE CONDIZIONI CARCERARIE IN TIBET
Si definiscono prigionieri politici coloro i quali
sono incarcerati a causa delle loro opinioni politiche, religiose o della loro etnia. Ogni anno centinaia di tibetani sono arrestati e detenuti per aver
espresso pacificamente il loro credo politico o religioso.
Gli arresti in massa dei tibetani iniziarono all’epoca dell’invasione del Tibet, nel 1949, ma con l’avvio delle politiche di “liberalizzazione” della Cina,
agli inizi degli anni ’80, prese il via una nuova
ondata di detenzioni, torture e condanne. L’età
non costituisce un ostacolo all’arresto per reati
politici e persino bambini di 13 anni sono detenuti insieme ai prigionieri adulti.
fessa, severità per chi nega” oppure “correzione e
rieducazione attraverso il lavoro”.
Durante le indagini, che possono durare da diversi mesi fino a un anno, il sospettato è generalmente tenuto in isolamento e, in molti casi, è ignorata anche la disposizione in base alla quale la polizia deve informare la famiglia del sospettato entro
24 ore dall’arresto.
Molte famiglie non sono mai ufficialmente informate dell’arresto dei loro parenti e sono avvisate
solo al momento del processo. Anche allora, le
famiglie incontrano molte difficoltà a capire esattamente in quale prigione i loro cari siano detenuti. La mancanza di informazioni rende l’intera
esperienza ancora più stressante sia per i prigionieri sia per le loro famiglie.
A metà del 2000, circa 500 Tibetani risultano
essere in carcere per reati di questo tipo e attualmente sono noti i casi di 73 prigionieri politici
che scontano condanne di 10 o più anni.
Nel nuovo Codice di Procedura Penale è stata
introdotta l’espressione “minaccia per la sicurezza
dello stato”, che sostituisce l’espressione utilizzata
in precedenza di “contro-rivoluzionario”. Questo
consente alle autorità cinesi di utilizzare la formula “segreto di stato” a giustificazione dell’arresto e
della detenzione e negare al sospettato il diritto
alla difesa per tutto il periodo delle indagini e
degli interrogatori.
Per gli imputati politici Tibetani è molto difficile ottenere un difensore soprattutto per motivi
finanziari o per la riluttanza degli avvocati che
temono di essere accusati di sostenere i “separatisti”.
Nonostante sia uno dei firmatari della
Convenzione Internazionale per i Diritti Civili e
Politici, la Repubblica Popolare Cinese non ha
protetto i diritti civili e politici dei suoi cittadini.
I prigionieri politici, arrestati solamente per aver
esercitato una loro legale prerogativa, una volta
incarcerati, perdono molti altri diritti. Vengono
sottoposti a torture fisiche e mentali e tenuti in
isolamento, in condizioni ben al di sotto di ogni
standard internazionale. Perdono inoltre il diritto
a un processo giusto o a qualsiasi garanzia legale,
rimanendo privi di ogni possibilità di difendersi
dalle accuse.
IL SISTEMA LEGALE CINESE:
“Prima il verdetto, poi il processo”
Gli imputati sono anche restii a ricorrere in
appello, poiché i ricorsi sono generalmente
inutili e l’Alta Corte si limita a confermare la
decisione del tribunale di primo grado, senza
rivedere il caso. Chi ricorre in appello può
anche dover subire un verdetto più severo in
quanto il giudice d’appello può prolungare la
pena detentiva.
Secondo l’ordinamento giuridico cinese, diritti
legali basilari quali la “presunzione di innocenza
fino a prova contraria” e il diritto alla difesa sono
sostituiti dalle linee di principio cinesi “prima il
verdetto, poi il processo”, “clemenza per chi con7
nuovo Codice di Procedure Penale cinese non ha
introdotto alcuna misura che limiti l’incidenza
degli arresti arbitrari e quindi i tibetani corrono
ancora il rischio di essere arrestati per aver espresso opinioni contrarie alla ideologia ufficiale cinese. Il problema fondamentale in Tibet è che le
considerazioni politiche vengono anteposte alle
norme del codice penale.
LIMITAZIONE DELLA LIBERTÀ
DI ESPRESSIONE
Il diritto alla libertà di espressione e di opinione è
chiaramente espresso nell’Articolo 19 della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo:
“Ciascuno ha diritto alla libertà di opinione e di
espressione; questo diritto include la libertà di professare le proprie opinioni senza intromissioni e di chiedere , ricevere o diffondere informazioni o idee attraverso qualsiasi mezzo e senza limiti di frontiere”.
Tuttavia, in Tibet, l’esercizio del diritto alla libertà di parola e di espressione non esiste: esprimere
una qualsiasi opinione contraria alle politiche del
governo cinese è considerato anti-nazionale e le
conseguenze sono l’arresto e la detenzione.
Il Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Illegittima,
riunitosi in Tibet nel 1997, ha espresso in questi
termini la sua preoccupazione: “anche se l’espressione crimini contro-rivoluzionari è stata abolita, la
giurisdizione dello Stato è stata ampliata. Di conseguenza, anche le azioni dei singoli individui,
nell’esercizio della propria libertà di espressione e
di opinione, possono essere considerate minaccia
alla sicurezza nazionale.” Ciò consente alla
Repubblica Popolare Cinese di continuare ad
effettuare arresti arbitrari per sopprimere le opinioni sovversive, in aperta violazione del diritto
alle libertà civili individuali e del diritto alla libertà di espressione e opinione.
La Repubblica Popolare Cinese ha costantemente
negato al popolo del Tibet il fondamentale diritto
di professare le proprie opinioni politiche o religiose. Per questo motivo la Cina ha avviato, nel
1996, la campagna “Colpisci Duro” che mira a sradicare la fedeltà dei tibetani nei confronti del
Dalai Lama, del Panchen Lama tibetano e della
stessa nazione tibetana. Inizialmente limitata alle
istituzioni monastiche, nel 1999 la campagna è
stata estesa a tutto il contesto sociale. Nel gennaio 1999, la Cina a lanciato una campagna a favore dell’ateismo, violando il diritto dei tibetani a
professare la loro religione. Qualsiasi espressione
pacifica del nazionalismo tibetano o di critica alla
politica cinese può portare all’arresto.
LE CONDIZIONI CARCERARIE
Le condizioni carcerarie in Tibet sono disumane.
Vengono applicati innumerevoli metodi di tortura, sia fisici che psicologici, per estorcere “confessioni” o semplicemente come strumenti di
umiliazione quotidiana. Le celle sono estremamente piccole rispetto al numero dei prigionieri
detenuti e i prigionieri, anche durante l’inverno,
generalmente dormono sul pavimento, senza
materassi né coperte. L’igiene non viene tenuta
in alcuna considerazione: le celle sono sporche,
talvolta con escrementi sul pavimento; i prigionieri hanno come unico servizio igienico un
bidone che viene tenuto nella cella, spesso nello
stesso spazio dove devono mangiare; ci sono
pochissime opportunità di potersi lavare ed alle
donne non sono forniti gli assorbenti igienici
durante le mestruazioni.
ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI
Secondo le Nazioni Unite, un arresto si considera
illegittimo se effettuato (a) su basi o secondo procedure diverse da quelle previste per legge; oppure (b) secondo previsioni di legge che siano in
contrasto con il diritto alla libertà e alla sicurezza
della persona. Tutte le forme di espressione contrarie al Partito Comunista Cinese sono causa di
arresto in Tibet. Quasi tutti i prigionieri politici
tibetani sono stati arrestati e detenuti arbitrariamente. L’accusa più comune consiste nell’imputazione di “minaccia alla sicurezza dello stato”. Il
Jampel Monlam è uno dei tanti prigionieri politici Tibetani che ha trascorso anni dietro le sbarre
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per aver esercitato il suo diritto alla libertà di
espressione. Ha trascorso cinque anni nella prigione di Drapchi dove veniva tenuto in una piccola
cella con altri 12 prigionieri. Dormivano tutti in
un unico lungo letto e dovevano condividere un
bidone come servizio igienico. Durante i suoi cinque anni di detenzione poté lavarsi solo due volte.
LE TORTURE IN CARCERE
Ex prigionieri politici hanno descritto innumerevoli metodi di tortura crudeli e degradanti che
includono, fra gli altri, il ricevere scariche elettriche in ogni parte del corpo per mezzo di un pungolo per bovini e l’essere obbligati a rimanere a
piedi nudi sul terreno ghiacciato fino a che la
pelle dei piedi non rimane attaccata al terreno
stesso.
Cibo ed acqua sono bisogni umani elementari e
devono essere forniti in quantità adeguate.
Invece, le autorità cinesi razionano sia cibo che
acqua come forma di punizione. Il regime alimentare in prigione è decisamente povero sia per
qualità che per quantità. In molti casi il cibo è
anche estremamente sporco o cosparso di insetti
morti.
Le tecniche di tortura impiegate nelle prigioni
cinesi cambiano di volta in volta e nuovi metodi
di tortura sono messi a punto per non lasciare
tracce visibili. Molti ex prigionieri hanno detto di
aver sentito dire dagli ufficiali delle prigioni frasi
come “Non ferirlo all’esterno del corpo, mettilo
fuori uso con delle ferite interne.”
Un certo numero di prigionieri politici viene
inoltre messo in cella di isolamento quale punizione per le più disparate attività, dall’aver partecipato a manifestazioni di protesta all’aver cantato canzoni inneggianti alla libertà. Questi prigionieri vengono messi in celle buie ed anguste che
misurano circa 2 metri per 1 metro, spesso con
mani e piedi ammanettati e le loro razioni di cibo
sono ulteriormente ridotte. La detenzione in isolamento è una delle peggiori esperienze carcerarie di cui si abbia testimonianza. Negli anni ’80
la Cina introdusse anche una nuova forma di
detenzione in isolamento conosciuta come
“cella fredda”. Le piccole celle sono foderate di
lamiera così che la temperatura può scendere
fino a –10° C .
Oltre alle torture fisiche, i prigionieri devono subire talvolta veri e propri traumi psicologici. Per
obbligarli a denunciare il Dalai Lama o altri compatrioti, gli ufficiali delle prigioni spesso minacciano i prigionieri di fare del male alle loro famiglie.
Le donne prigioniere politiche in Tibet subiscono
le forme di tortura più degradanti. Spietati pestaggi, stupri e violenze di tipo sessuale, quali lacerazioni ai capezzoli, l’inserimento di pungoli elettrici per bovini nei genitali o scosse elettriche date
tramite cavi elettrici avvolti intorno al petto ed al
corpo sono alcune fra le tante atrocità di cui si ha
testimonianza.
Nel 1997, la Commissione Internazionale dei
Giuristi interrogò in Tibet ex poliziotti, giudici e
detenuti e confermò che la tortura dei detenuti
politici era una pratica comune.
Gaden Tashi fu tenuto in cella di isolamento per
34 giorni nel carcere di Outridu. “Nei primi tre
giorni ebbi una paura insopportabile e pensai
addirittura al suicidio. Quella cella buia era considerata dalla maggior parte dei prigionieri come
una delle più spaventose esperienze che ci potessero capitare … Quando il tempo era bello e c’era
il sole, in cella riuscivo appena a vedere le mie
mani. Se il tempo era coperto, non riuscivo a
distinguere il giorno dalla notte. Quando fui rilasciato, rimasi cieco per diverse ore, non riuscivo a
vedere nulla.”
LE CURE MEDICHE
I prigionieri vengono generalmente ricoverati a
seguito delle gravi ferite ricevute durante le torture o per le malattie contratte a causa delle pessime
condizioni igieniche. Alcuni ex prigionieri politi9
ci hanno riferito che, durante il loro ricovero in
ospedale, le famiglie ebbero difficoltà a riconoscerli. Se i prigionieri si ristabiliscono, devono
tornare in prigione per finire di scontare la condanna.
responsabilità”, il che significa che dovrà pagare
tutte le spese mediche a partire dalla data della
firma.
Se una persona è in punto di morte a causa delle
torture, viene rilasciata su “parere medico”.
Questa procedura ha due motivazioni principali:
in primo luogo gli ospedali del carcere non hanno
le strutture adatte a fornire cure adeguate e, in
secondo luogo, se un prigioniero muore fuori dalle
mura del carcere, il governo cinese appare meno
colpevole.
I detenuti che vengono ricoverati sono generalmente accompagnati dalle guardie carcerarie e in
alcuni casi sono anche ammanettati al letto dell’ospedale. Se, una volta ricoverato, il prigioniero
non mostra segni di miglioramento, viene imposto
alla sua famiglia di firmare una “dichiarazione di
A cura del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia
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LA REPRESSIONE RELIGIOSA IN TIBET
“In Tibet, la persecuzione religiosa è strettamente legata alla repressione del dissenso politico. La grande maggioranza dei prigionieri politici tibetani conosciuti da Amnesty International sono monache e monaci buddisti.”
Amnesty International
oggi, tuttavia, nessun funzionario è stato accusato
di questo crimine, malgrado le palesi violazioni
della libertà di culto.
Al contrario, lo stesso il governo cinese attua politiche e programmi miranti alla soppressione del
diritto dei tibetani a praticare la propria religione.
Tra questi, ad esempio, la campagna chiamata
“Colpisci Duro”, destinata a colpire severamente
le istituzioni religiose.
Da quando l’Esercito di Liberazione del Popolo è
entrato in Tibet, nel 1949, oltre 6000 tra istituzioni religiose e monumenti sono stati distrutti nel
tentativo di “riunire il Tibet alla madrepatria”.
Sebbene alcuni monasteri siano stati ricostruiti e
a monaci e monache sia stato “permesso” di praticare il buddismo, il diritto alla libertà di credo è
stato severamente limitato. Le istituzioni ricostruite con l’assistenza dei cinesi sono solitamente
solo quelle accessibili ai turisti o quelle più conosciute. Per fare un esempio, la facciata del monastero di Drepung, a Lhasa, è stata magnificamente
ricostruita ma le strutture interne sono ancora in
rovina.
Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la
Democrazia continua a documentare la diffusa
repressione di libertà di religione in Tibet.
Da quando la Cina lanciò, nell’aprile del 1996, la
campagna nazionale “Colpisci Duro” contro le
istituzioni religiose tibetane, continua la sistematica repressione della libertà di credo. Ai monaci
e alle monache è completamente negata ogni
libertà di espressione e a centinaia sono stati
espulsi dai monasteri o arrestati per aver disubbidito agli ordini.
Essendo il buddismo uno degli aspetti più importanti dell’identità nazionale e culturale tibetana,
l’ostilità cinese nei confronti della religione è
determinata, in Tibet, dal timore che attorno ad
essa si cementi il sentimento di unità nazionale
dei suoi abitanti. Il governo cinese reprime inoltre
la libertà di culto in quanto, conferendo la religione al Dalai Lama lo status di leader spirituale e
temporale del popolo tibetano, i credenti buddisti
obbediscono al Dalai Lama e alla sua politica che
il governo di Pechino apertamente rifiuta.
Tutti questi fattori fanno del buddismo tibetano il
simbolo del nazionalismo del popolo del Tibet e,
di conseguenza, questo credo è considerato dalle
autorità cinesi “distruttivo e controverso”. Per le
autorità di Pechino, il problema religioso è un
problema politico e le sue istituzioni sono considerate centri di ribellione che devono essere soppresse.
LA REPRESSIONE RELIGIOSA
La campagna di repressione religiosa iniziata dalla
Repubblica Popolare Cinese nei confronti delle
istituzioni religiose tibetane non accenna a diminuire malgrado la Cina continui a sostenere di
fronte alla comunità internazionale che i tibetani
godono di libertà di religione.
Nel “Libro Bianco sui Diritti Umani in Tibet”,
redatto nel 1998, la Cina così asseriva:
“la Costituzione cinese stabilisce che la libertà di un
credo religioso è uno dei diritti fondamentali dei cittadini. Il governo cinese rispetta e protegge il diritto di
libertà di credo religioso dei suoi cittadini.”
I diritti culturale e religiosi sono internazionalmente riconosciuti come diritti umani.
L’appartenenza di questi diritti alla legge internazionale sta a significare che il loro rispetto riguarda l’intera comunità mondiale. Il diritto di libertà
La legge cinese stabilisce inoltre che i funzionari
che privano i cittadini di questa libertà sono
condannabili a due o più anni di reclusione. Ad
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Le monache del monastero Rating Samtenling,
nella Contea di Phenpo Lhundrup, sono state sottoposte alla campagna di ri-educazione dal luglio
del 1998. I funzionari del “gruppo di lavoro” setacciarono le abitazioni di tutte le monache e le
costrinsero a firmare documenti di denuncia del
Dalai Lama e ad accettare “l’unità della madrepatria”.
A seguito del rifiuto delle monache a firmare questi atti, le sessioni ri-educative furono prolungate
di due mesi. Alle monache fu limitato qualsiasi
contatto con i propri famigliari e non fu loro consentito di andare in visita a casa.
Ottanta monache che si rifiutarono di conformarsi alle istruzioni ricevute furono soggette ad ulteriori restrizioni e fu loro proibito di partecipare
alle funzioni religiose. Quattordici monache furono espulse e solo centocinque furono lasciate nel
monastero.
Precise istruzioni delle autorità cinesi sancirono la
chiusura di tutti i centri religiosi coinvolti in agitazioni politiche. Per questa ragione furono chiusi
quindici monasteri.
di credo è contenuto nell’articolo 18 della
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e per
questo è applicabile a tutte le nazioni.
LA CAMPAGNA DI “RI-EDUCAZIONE
PATRIOTTICA”
Nel tentativo di sopprimere le “attività separatiste”, nell’aprile del 1996 la Cina lanciò la campagna “Colpisci Duro”, un programma di “ri-educazione patriottica” applicato a tutte le istituzioni
religiose in Tibet.
I “gruppi di lavoro”, composti principalmente da
funzionari dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza
(PSB), svolgono minuziose sessioni di ri-educazione. Il loro compito principale consiste nell’identificazione, nell’espulsione o nell’arresto di monaci
e monache considerati “non patriottici”, di coloro
che esprimono una qualsiasi opinione contraria
alla politica del partito o che non sono d’accordo
con i cinque punti che tutti i monaci e monache
sono costretti a sottoscrivere.
Questi i cinque punti sono da rispettare:
Nel luglio del 1998, un “gruppo di lavoro” composto da dieci funzionari visitò il monastero di
Gonsar nella Contea di Lhundup (completamente demolito durante la Rivoluzione Culturale e
ricostruito nel 1991 con il contributo dei tibetani
locali) e diede inizio alla “ri-educazione patriottica” dei venti monaci che vi risiedevano.
I monaci rifiutarono in modo deciso di ubbidire
agli ordini affermando di essere dei religiosi e di
non poter contravvenire alle regole della propria
fede. Malgrado le obiezioni, i funzionari cinesi
insistettero nella loro opera di persuasione incontrando la continua opposizione dei monaci.
Alla fine il “gruppo di lavoro” annunciò che il
monastero sarebbe stato chiuso e che tutti i monaci avrebbero dovuto far ritorno alle rispettive abitazioni. Verso la fine dell’agosto 1998, i venti
monaci fecero ritorno ai loro villaggi e il monastero fu chiuso. Ai religiosi fu inoltre impedito di
entrare in altri monasteri o di praticare servizi di
preghiera nelle loro case.
Dichiarare la propria opposizione a ogni forma di
separatismo
Accettare la versione cinese della storia del Tibet
Riconoscere il Panchen Lama designato da
Pechino
Negare lo status indipendente del Tibet
Denunciare il Dalai Lama come “traditore della
madrepatria”
Secondo alcuni testimoni, per convincere i monaci e le monache della bontà delle loro idee, i
“gruppi di lavoro”, durante le sessioni di ri-educazione, non esitano a ricorrere alla violenza. I dissensi aperti di solito portano all’arresto.
Dall’inizio della campagna, più di 10.569 monaci
sono stati espulsi dai loro monasteri e, al giugno
1999, almeno 511 risultano essere stati arrestati.
Tra gli espulsi ci sono almeno 3.073 giovani
monaci e monache al di sotto dei 18 anni.
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scritto delle preghiere auguranti lunga vita a sua
Santità il Dalai Lama.
Il 20 marzo 1998, una trentina di funzionari del
PSB visitarono il convento di Draylb, a Lhasa.
Secondo quanto riferito da una ex monaca,
Tenzin Dolma, su un totale di centocinquanta
monache residenti, solo le piccole religiose di età
non superiore ai cinque anni ebbero il permesso di
restare. Tutte le altre furono espulse dopo che le
monache, in pellegrinaggio a Lhasa per le festività dell’anno nuovo, si rifiutarono di tornare al
convento e di rinnegare il Dalai Lama.
I funzionari distrussero tutte le camere delle
monache e rimossero i pilastri di legno e le intelaiature delle finestre.
Le sessioni di educazione politica sono lunghe e
interferiscono pesantemente negli studi dei monaci e delle monache. Inoltre, è stata abolita la tradizionale lettura delle sacre scritture all’interno
delle case tibetane e deve essere richiesto uno speciale permesso per alcuni insegnamenti. Il governo controlla dove e come avvengono le cerimonie
religiose. I ritratti del Dalai Lama, già banditi
all’interno delle istituzioni religiose, sono ora vietati anche nelle case private.
Ai tibetani è stato proibito di celebrare il compleanno del Dalai Lama. Una settimana prima del
64° compleanno di Sua Santità, le autorità cinesi
hanno distribuito volantini che rendevano esplicito tale divieto. La celebrazione del compleanno
del Dalai Lama è considerata un atto di propaganda separatista e un’istigazione delle masse ad
opporsi al governo cinese.
Molti monaci e molte monache sono stati allontanati dalle istituzioni religiose a causa del “tetto”
numerico massimo introdotto dai membri dei
“gruppi di lavoro”. Questa misura restrittiva fissa il
numero di monaci/monache consentiti all’interno
di ogni monastero o convento. Inoltre, le autorità
cinesi hanno introdotto disposizioni riguardanti il
limite massimo e minimo di età dei religiosi decretando l’espulsione dei monaci di età inferiore ai 18
anni e superiore ai 50. L’allontanamento forzato
dei religiosi al di sopra dei cinquant’anni minaccia
la sopravvivenza della tradizione del buddismo
tibetano poiché gli anziani hanno un ruolo fondamentale nella trasmissione degli insegnamenti.
IL TOTALE CONTROLLO SULLE
ATTIVITÀ RELIGIOSE
Dall’inizio della campagna di “ri-educazione
patriottica”, i funzionari cinesi dei “gruppi di lavoro” continuano a limitare le attività religiose dei
monasteri e conventi. Scopo della campagna è di
controllare la religione attraverso il controllo
delle menti dei religiosi tibetani.
Nel giugno 1994, il Terzo Forum Nazionale del
Lavoro in Tibet decise un maggior rigore nei confronti delle istituzioni monastiche. A questo scopo
furono istituiti all’interno di ogni monastero dei
“Comitati di Gestione Democratica”, destinati a
sostituire l’autorità tradizionale degli abati e dei
lama. Le autorità di stato affidarono a questi
comitati l’incarico di decidere in merito all’ammissione nel monastero, al programma di studi e
alla disciplina dei monaci e monache.
Oggi, i monasteri e i conventi sono sotto il controllo dei “gruppi di lavoro” cinesi, mandati per
indagare sui dissensi e per portare avanti le sessioni rieducative.
Centinaia di monaci e monache sono stati arrestati per attività politiche. E’ considerata “attività
politica” anche il solo possesso di foto del Dalai
Lama, loro leader spirituale.
Molti altri continuano ad essere espulsi dai propri
monasteri e conventi. Tenpa Rabgyal, un monaco di 27 anni del monastero di Tash-Ge-Kunphel
Ling, fu arrestato nel febbraio del 1998 per aver
LA PROIBIZIONE DEL DIRITTO DI
PRATICARE LA RELIGIONE IN CARCERE
L’arresto dei prigionieri politici non costituisce
soltanto una punizione. Per le autorità cinesi è
anche il mezzo per tentare di annullare il sentimento di identità tibetana. A questo fine, ai
monaci detenuti è proibita la pratica della religione e spesso viene loro imposto l’obbligo di denunciare il Dalai Lama, loro leader politico e spiritua13
13anni, ha dichiarato: “Se, in carcere, recitavamo
mantra o altre preghiere, eravamo immediatamente picchiati”.
La religione è una delle più potenti espressioni
della cultura del Tibet e la sua pratica è molto
importante per i prigionieri tibetani dei quali
molti sono monache e monaci.
le. Mentre i tibetani, nella vita di tutti i giorni,
subiscono forti limitazioni nella pratica della religione, nelle prigioni cinesi esiste il divieto assoluto di qualsiasi forma di culto.
I monaci e le monache in prigione sono costretti
a farsi crescere i capelli, non è loro permesso di
prosternarsi né di indossare gli abiti religiosi. Il
semplice atto di pregare ad alta voce è proibito e
le punizioni per aver rotto questa ‘regola del silenzio’ includono abusi fisici e verbali.
Gyaltsen Pelsang, una monaca arrestata all’età di
A cura del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la
Democrazia
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LA DISCRIMINAZIONE RAZZIALE IN TIBET
All’interno del loro paese, i tibetani hanno subito
ogni genere di violazioni dei diritti umani e di
discriminazioni razziali. La Costituzione cinese e
la Legge sull’Autonomia Regionale delle Etnie
affermano che la Regione Autonoma Tibetana
(TAR) “gode dei più ampi diritti di autonomia sia
in materia di legislazione, dell’uso delle lingue
locali parlate e scritte e dell’amministrazione del
personale, sia in campo economico, finanziario,
scolastico e culturale, sia in quello della gestione e
dello sviluppo delle risorse naturali”.
piego. Il massiccio afflusso dei cinesi è stato incentivato da salari più alti, ferie più lunghe, esenzioni
fiscali e da migliori condizioni in materia di pensioni e investimenti.
I tibetani sono discriminati in molti settori. La
maggioranza dei rifugiati riferisce che i datori di
lavoro esigono la perfetta conoscenza della lingua
cinese, indipendentemente dal tipo di lavoro. I
tibetani sono vittime di pregiudizi e, essendo considerati incapaci e arretrati, sono loro offerti solo
lavori umili, spesso a patto che, nella vita privata,
abbandonino le usanze tipiche della loro cultura.
La corruzione è prassi comune per ottenere un
posto di lavoro ed è l’unico modo per spezzare
quella rete di connessioni che assicura ai cinesi,
proprietari della maggior parte delle imprese private e detentori di tutte le posizioni chiave, ogni
tipo di lavoro e permesso.
Nel 1981 la Cina ha accettato formalmente di
rispettare le leggi internazionali menzionate nella
Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di
ogni forma di Discriminazione Razziale
(International Convention on the Elimination of
all Forms of Racial Discrimination, CERD) che
proibisce ogni distinzione, esclusione o preferenza
basate su razza, colore, discendenza od origini
etniche e nazionali.
Spesso i tibetani sono costretti a pagare per ottenere le licenze di commercio, da cui i cinesi sono
esentati, e devono depositare cospicue somme,
parimenti non richieste ai cinesi, per ottenere prestiti. Ai cinesi sono inoltre assegnati i migliori
punti vendita e i prodotti tibetani sono plagiati e
venduti sotto costo nel tentativo di metterli fuori
mercato. Spesso gli agricoltori sono costretti a
vendere i loro prodotti al governo a prezzi inferiori a quelli di mercato con il conseguente aumento
della povertà contadina. Le famiglie devono fornire manodopera coatta per progetti di sviluppo che
spesso non recano alcun vantaggio ai tibetani. La
discriminazione è evidente anche nei salari percepiti, a parità di lavoro, da cinesi e tibetani. Nortso,
29 anni, nel gennaio 2000 ha riferito che a
Ngamring, prefettura di Shigatse, i tibetani
impiegati nelle costruzioni stradali venivano
pagati dai 15 ai 25 yuan al giorno, contro i 40-80
dei cinesi. Quando lavorava nella costruzione di
un ufficio per le telecomunicazioni, Nortso riceveva solo 10 yuan al giorno, mentre i cinesi ne
guadagnavano 50.
Malgrado queste garanzie legali, i tibetani, definiti “minoranza razziale” dalla Repubblica Popolare
Cinese, subiscono discriminazioni in ogni settore.
La discriminazione sistematica in campo sanitario, educativo, lavorativo, abitativo e della rappresentatività pubblica, continua a ostacolare la partecipazione dei tibetani allo sviluppo del proprio
paese e ne ha svilito la posizione sociale al punto
che, solo a causa della loro razza, sono considerati
cittadini di rango inferiore.
Se non saranno prese misure per porre rimedio
alle discriminazioni prima che il Tibet occupato
diventi la tomba di un’intera nazione, le ingiustizie e le disuguaglianze diverranno, entro breve,
irrevocabili.
L’IMPIEGO
Il trasferimento di popolazione cinese in Tibet
costituisce una delle minacce più gravi per l’im15
torio cinese. Anche in Cina le donne devono sottostare al controllo delle nascite, ma in Tibet, data
la scarsa densità della popolazione e in considerazione del fatto che il suo tasso di crescita è inferiore ai limiti fissati dal governo, tale misura non può
essere vista che come una forma di discriminazione e un tentato genocidio.
LA SALUTE
Il Libro Bianco cinese sui Diritti Umani del febbraio 2000 afferma che in Cina tutti i cittadini
hanno diritto a “servizi medici gratuiti e a un sistema previdenziale di cure mediche per i lavoratori
a carico dello stato”. I rifugiati testimoniano invece che le cure mediche sono a pagamento, spesso
in modo discriminatorio. Molti hanno rivelato di
avere dovuto pagare le medicine a un prezzo maggiorato e che ai nomadi analfabeti sono prescritti
farmaci scaduti o sbagliati. Inoltre sono negate le
cure mediche ai tibetani che riportano ferite in
seguito ad attività che le autorità considerano
“politiche”.
L’ ISTRUZIONE
La stragrande maggioranza dei bambini tibetani
può frequentare la scuola solo per pochi anni. Poi
la devono abbandonare a causa delle spese esorbitanti, della discriminazione in favore dei cinesi o
anche solo perché gli allievi non sono in grado di
seguire le lezioni in lingua cinese. Numerosi rapporti confermano che agli studenti tibetani è
negato l’accesso alle scuole migliori e all’educazione superiore perché i posti disponibili sono riservati ai cinesi o a figli di funzionari tibetani che
lavorano per il governo. Inoltre gli studenti cinesi ricevono, in classe, un insegnamento preferenziale.
I cinesi stessi ammettono che il 30% dei bambini
tibetani in età scolare non riceve alcuna istruzione (contro una percentuale dell’1,5% dei bambini
cinesi), a causa delle tasse scolastiche proibitive
imposte dalle autorità di Pechino e considerate
“inapplicabili” nei confronti degli studenti cinesi.
Gli studenti riferiscono inoltre che agli esami di
ammissione i tibetani devono conseguire voti più
alti e che, per assicurarsi la prosecuzione degli
studi, la corruzione è una prassi comune.
Per il ricovero in ospedale, i pazienti tibetani
devono inoltre versare un deposito che varia da
2.000 a 5.000 yuan. Anche se rimborsabile, in
molti casi l’importo del deposito risulta proibitivo.
Nel 1998, la somma richiesta, pari a 5.000 yuan,
era cinque volte superiore al reddito annuo netto
della popolazione rurale e pari al reddito pro capite dei residenti urbani. Secondo numerosi rapporti, al mancato pagamento segue la negazione del
ricovero e la morte del paziente per mancanza di
cure. I cinesi, per contro, non devono pagare
nulla.
Preoccupa soprattutto la violazione dei diritti
riproduttivi delle donne tibetane. Tutti i tibetani,
indipendentemente dalla regione d’origine, età o
professione, sono soggetti a un rigido controllo
delle nascite affinché siano rispettate le quote
ufficiali stabilite. In Tibet, il numero dei figli è
importante perché i tibetani, soprattutto nelle
campagne, hanno bisogno di famiglie numerose
per sopravvivere. Le donne che hanno avuto due
figli sono obbligate a farsi sterilizzare, spesso con
interventi sommari, in alcuni casi mortali. Le
tibetane sono costrette ad abortire anche al settimo od ottavo mese di gravidanza, in molti casi
senza anestesia. Spesso, di fronte alla minaccia di
multe salate o di altre gravi sanzioni, non hanno
altra scelta. Queste norme sono applicate malgrado il livello della mortalità infantile tra i tibetani
sia tre volte superiore a quello registrato nel terri-
Un’ulteriore discriminazione è rappresentata dallo
stanziamento di fondi speciali per le scuole cinesi,
mentre nelle aree rurali (dove vive più dell’88%
delle famiglie tibetane) le comunità locali sono
obbligate a costruire le scuole e a finanziare l’istruzione a proprie spese.
L’impostazione culturale dei corsi è tendenziosa e
durante gli esami vengono poste domande ideologiche e politiche. Le autorità della Regione
Autonoma hanno affermato in modo esplicito che
“l’essenza del compito educativo e l’unica ragione
16
La situazione dei contadini tibetani è anche peggiore poiché più del 70 % di tutti i sussidi abitativi è destinato alle aree urbane della Regione
Autonoma. Inoltre, il governo discrimina i tibetani limitando drasticamente la possibilità di trasferimento in città dei tibetani residenti nelle zone
agricole, mentre permette agli immigrati cinesi
non residenti di spostarsi liberamente. Al contrario dei cinesi, i tibetani sono soggetti a controlli
costanti del permesso di residenza.
d’essere dell’istruzione della minoranza nazionale
è quella di crescere sostenitori e divulgatori qualificati della causa socialista”. Inoltre i bambini
sono indottrinati costantemente sulla grandezza
dei capi della Cina comunista.
LA CASA
Allo scopo di garantire un alloggio all’alto numero di immigrati cinesi, i centri urbani hanno subito consistenti trasformazioni architettoniche e
oggi molti tibetani vivono nella minaccia di sfratti e demolizioni o di restare senza casa.
RAPPRESENTATIVITÀ PUBBLICA
La discriminazione nell’assegnazione degli alloggi
avviene in quanto agli immigrati cinesi arrivati a
Lhasa è garantita un’abitazione e nelle agenzie
preposte all’assegnazione delle case la corruzione è
ampiamente diffusa. Ogni informazione circa
nuove abitazioni è tenuta riservata all’interno
della cerchia cinese e, di conseguenza, i tibetani
non sono al corrente sulle possibili disponibilità.
Anche gli affitti spesso sono troppo cari per essere
accessibili.
Anche se, nella Regione Autonoma, il 48% dei
funzionari che dirigono i dipartimenti regionali o
di livello superiore è costituito da tibetani, questo
dato non è indicativo di una classe di governo rappresentativa. Si controlla con molta attenzione
che tutti i tibetani impiegati siano “politicamente
puliti”, puliti da qualsiasi idea opposta alla politica del Partito. La Cina concede ai tibetani il diritto di votare ed eleggere i capi politici della
Regione Autonoma, ma il popolo tibetano non
può proporre i propri candidati che sono invece
tutti scelti in anticipo dalle autorità cinesi e sono
membri del Partito o filo cinesi.
Molti tibetani riferiscono di essere stati sfrattati
in modo arbitrario perché l’edificio era stato
definito “non sicuro” o non corrispondente ai
parametri cinesi di “bellezza”. Numerosi proprietari non sono risarciti e sono trasferiti in condomini, in appartamenti più piccoli e con affitti
più cari, o addirittura rispediti nei villaggi d’origine. Una ricerca approfondita ha rivelato che i
nuovi edifici sono di qualità inferiore, quanto a
dimensioni, fornitura d’acqua, scarichi, elettricità e fognature, rispetto alle case tradizionali
tibetane.
Ai funzionari è proibito sostenere il Dalai Lama o
qualsiasi attività a favore dell’indipendenza.
Devono essere d’accordo con la versione cinese
della storia tibetana e non devono avere nessun
parente monaco o monaca, nemmeno in una sola
contea. Nonostante questi controlli, i funzionari
sono comunque soggetti a perquisizioni domiciliari arbitrarie e sul lavoro subiscono la presenza di
“osservatori” cinesi che ne sorvegliano le decisioni. Nella Regione Autonoma, la lingua parlata da
chi ricopre incarichi ufficiali è solo quella cinese.
Di conseguenza, alla maggioranza dei tibetani è
impedito accedere e partecipare alla vita politica.
La discriminatoria distribuzione dei contributi per
le abitazioni fa sì che i cinesi fruiscano di servizi
migliori, come acqua, elettricità e servizi sanitari
appropriati, negati ai tibetani. Assieme al sistema
di assegnazione degli alloggi, questa politica si traduce in una segregazione residenziale che vede gli
spartani quartieri tibetani soffocati da quelli più
nuovi e più grandi destinati ai cinesi.
TRASFERIMENTO DELLA POPOLAZIONE
Il massiccio trasferimento di popolazione in Tibet,
incoraggiato dal governo, non solo viola i diritti
17
dei tibetani, ma minaccia direttamente la loro
sopravvivenza e la loro peculiare cultura.
Documenti del Partito Comunista rivelano che,
oltre a fornire nuove aree di insediamento alla
crescente popolazione cinese, la politica del trasferimento è stata adottata per indebolire la resistenza tibetana e controllare i dissidenti.
tro 7,5 milioni di non-tibetani. La disparità continua ad aggravarsi poiché i rifugiati fuggono dal
Tibet e i cinesi continuano ad affluire nel paese. I
cinesi in Tibet dominano la vita commerciale,
politica e sociale e sopravanzano numericamente i
tibetani nelle prefetture e contee non comprese
nella Regione Autonoma. La popolazione a Lhasa
è passata dai 30.000 abitanti del 1959 ai circa
200.000 di oggi. Di essi, un numero compreso tra
il 60 o 70% sono cinesi.
Oggi i tibetani sono una minoranza nel loro stesso paese. Secondo le stime del governo tibetano in
esilio, i tibetani in Tibet sono circa 6 milioni, con-
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LA TORTURA IN TIBET
arazioni rilasciate dai prigionieri testimoniano che
in Tibet la tortura è molto diffusa. Nel rapporto
pubblicato nel dicembre del 1997, anche la
Commissione Internazionale dei Giuristi dichiara
che la tortura è stata, e continua ad essere, normalmente applicata su larga scala in tutta la Cina.
Il 4 ottobre 1988 la Repubblica Popolare Cinese
ha ratificato la Convenzione Internazionale delle
Nazioni Unite Contro Tortura e Altri
Trattamenti o Punizioni Crudeli e Degradanti, e
ha rassicurato con queste parole la comunità
internazionale: “la Cina renderà effettivi, in
buona fede, gli impegni presi nella Convenzione”.
Da allora, è stato accertato che oltre 70 prigionieri politici tibetani sono stati torturati a morte e
più di cento massacrati per aver partecipato a
dimostrazioni a favore dell’ indipendenza. Un
giornalista cinese, esponente dell’Associazione
dei Giornalisti Cinesi, ha dichiarato che, soltanto
nel marzo 1989, più di 450 tibetani, inclusi monaci, monache e civili, furono uccisi per aver preso
parte alle dimostrazioni.
LA TORTURA NEI CENTRI
DI DETENZIONE
Ex prigionieri politici hanno descritto innumerevoli metodi di tortura degradanti e crudeli.
Eccone alcuni: essere appesi al soffitto con le mani
legate dietro la schiena; essere percossi con bastoni elettrici; subire scosse elettriche su tutto il
corpo; essere colpiti con tavole di legno e bastoni;
essere assaliti dai cani; essere costretti a rimanere
nudi davanti agli altri detenuti, talvolta durante i
pestaggi; essere appesi e lambiti da fuochi accesi
sotto i piedi che vengono spenti quando ormai gli
occhi sono bruciati dal fumo; essere forzati a stare
in piedi sul pavimento ghiacciato fin quando la
pelle dei piedi si stacca dagli arti; sottostare a lunghi periodi di isolamento e privazione di cibo,
acqua e riposo.
Il Comitato Internazionale delle Nazioni Unite
contro la Tortura ha ripetutamente chiesto alla
Cina di varare nuove leggi e bandire ogni forma di
tortura. Nel rapporto stilato nel maggio 1996, il
Comitato ha così dichiarato: “E’ stato un errore
inserire la definizione di tortura all’interno del
sistema legale cinese nei termini previsti dai provvedimenti della Convenzione”.
Da quando la Cina occupò il Tibet nel 1959, la
tortura è stata usata come principale metodo di
repressione contro il popolo tibetano. I prigionieri che maggiormente rischiano la tortura sono i
prigionieri politici, molti dei quali sono monaci e
monache che sono spesso imprigionati solo per
aver esercitato la loro libertà di espressione a
sostegno del Dalai Lama.
Col passare del tempo i funzionari carcerari cambiano le loro tecniche e adottano nuovi metodi di
tortura che non lasciano tracce visibili. Molti exprigionieri hanno sentito pronunciare dai secondini frasi di questo tipo: “ Non colpirlo all’esterno
del corpo, sfiniscilo con ferite interne”.
Oltre alle torture fisiche, i prigionieri sono a
volte costretti a subire traumi psicologici. Gli
addetti carcerari spesso minacciano di colpire le
famiglie dei prigionieri, li costringono a disconoscere il Dalai Lama e li obbligano a denunciare
altri tibetani di partecipazione ad attività politiche.
La Cina dichiara di aderire alla legge internazionale che bandisce completamente il ricorso alla
tortura. Nel 1992, Pechino riferì al Comitato
ONU contro la Tortura di aver adottato leggi efficaci e altre misure atte a “proibire rigorosamente
tutti gli atti di tortura e garantire che i diritti dei
cittadini non fossero violati”. Tuttavia, le dichi-
Nel 1989, Lhundrup Ganden, un monaco di
19
trent’anni anni del monastero di Ganden, fu
condannato a sei anni di carcere. Nel 1992, temporaneamente paralizzato per le terribili torture
subite, fu rilasciato. Il suo racconto fornisce l’idea
della brutalità che sperimentò in prigione: “la tortura peggiore consisteva nel farmi spogliare e percuotermi con bastoni elettrici su tutto il corpo.
Alla fine non ero più in grado di dormire supino.
La pelle si gonfiava, diventava verde e blu, e c’erano anche dei tagli. Venivano sempre usati bastoni
elettrici e filo metallico. Legavano il filo intorno
ai miei polsi e la scossa era estremamente dolorosa.”
Nel centro di detenzione di Gutsa, durante l’interrogatorio, gli ufficiali del PSB lo accusarono di
nascondere alcuni documenti e per questo fu torturato. Nel febbraio 1996 fu rilasciato per motivi
di salute ma durante la detenzione gli furono sempre negate le cure mediche. Per un certo periodo
fu ammesso all’ospedale della Regione Autonoma
Tibetana. Le spese per le cure incisero fortemente
sulle magre risorse economiche della sua famiglia,
anche perché la salute non migliorava. Morì nel
marzo del 1999, quasi tre anni dopo il suo rilascio.
Uno dei metodi di tortura più diffusamente descritti da ex detenuti consiste nell’essere legati al
soffitto col un fuoco acceso sotto. Spesso nel fuoco
viene gettato del pepe che produce un fumo denso
e aumenta le bruciature. Jampel Tsering, un
monaco del monastero di Ganden, detenuto cinque anni nella prigione di Drapchi per aver guidato una dimostrazione a Lhasa nel 1989, così ricorda: “Quando gettavano la polvere di pepe nel
fuoco, la sensazione di bruciore su tutto il corpo
era terribile e, ogni volta, non potevo aprire gli
occhi per diverse ore”.
Oltre ai trattamenti brutali, le donne in prigione
devono sottostare ad abusi sessuali. Pestaggi crudeli, digiuni, violenza sessuale, aggressioni da
parte di cani feroci e atti sessuali violenti sono tra
le più crudeli atrocità di cui è data testimonianza.
Tra le violenze di carattere sessuale vanno annoverate le lacerazione dei capezzoli, i bastoni elettrici forzati nella vagina fino a provocare la perdita della conoscenza e il filo metallico avvolto
attorno al petto e al resto del corpo accompagnato da scariche elettriche.
DONNE TORTURATE
Durante la prigionia, la monaca Tenzin Choeden,
di diciotto anni, fu violentata sessualmente con
un bastone elettrico. Fu arrestata insieme ad altre
12 monache per aver preso parte a una dimostrazione a Lhasa il 14 febbraio 1988. Mentre era
detenuta nel centro di Gutsa, quattro carceriere le
ordinarono di alzarsi e di mettersi contro il muro.
Tenzin ha riferito di aver discusso con le donne e
di averne pagato le conseguenze: “Hanno inserito
un bastone nella mia vagina per quattro volte con
estrema violenza. Poi mi hanno messo il bastone
in bocca. Ho provato a tenere la bocca chiusa ma
spingevano forte. Ho perso due denti e le mie labbra sanguinavano.” Dopo essere stata rilasciata,
nel 1991, Tenzin scappò in India. A causa dei pestaggi continui e delle torture subite, ha perso un
terzo della sua capacità fisica e ha grossi handicap
su tutta la parte destra del corpo. Durante la
detenzione, alle donne gravide è riservato lo stesso trattamento.
CURE MEDICHE NEGATE ALLE VITTIME
DI TORTURE
Il governo cinese dichiara che ai prigionieri sono
concessi i trattamenti medici necessari. Al contrario, molte delle morti avvenute per torture e maltrattamenti si sono verificate per mancanza di
assistenza medica durante la prigionia. Oltretutto,
dopo il rilascio, i detenuti devono accollarsi il
costo delle spese mediche. In molti casi, ai detenuti è stato chiesto di risarcire le autorità delle
spese sostenute per loro salute durante la prigione
e delle spese mediche affrontate in conseguenza
dei maltrattamenti subiti.
Phuntsok, un monaco di ventidue anni del monastero di Nalanda, fu arrestato nel febbraio 1995,
dopo i duri interventi dei funzionari cinesi a causa
della resistenza alla campagna di ri-educazione.
20
di tortura fisica e psicologica utilizzate dai funzionari cinesi. Questo metodo è utilizzato per indebolire fisicamente i prigionieri. Ad altitudini così
elevate, una consistente perdita di sangue indebolirebbe anche una persona in ottima salute. Uniti
a diete povere e alle torture fisiche, i prelievi di
sangue provocano spesso la morte dei detenuti.
Poiché i prigionieri non hanno mai saputo il
motivo di queste donazioni e non hanno mai ricevuto i risultati di alcun test, è possibile che siano
fatte non solo come punizione ma anche per effettuare degli esperimenti.
LA MORTE IN SEGUITO ALLA TORTURA
In seguito al duro trattamento subito, alcuni prigionieri sono deceduti.
Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la
Democrazia (TCHRD) ha accertato che, dal
1987 ad oggi, settanta prigionieri sono morti a
causa delle torture subite. Solitamente, se a
causa delle torture un prigioniero è prossimo a
morire, è mandato in ospedale o comunque rilasciato. Una volta in ospedale, si chiede alla famiglia di firmare una “accordo di responsabilità”
che impegna i parenti al pagamento delle sue
spese mediche. Spesso i detenuti muoiono al di
fuori delle mura della prigione rendendo così il
governo cinese apparentemente meno responsabile dei loro decessi.
TORTURE SUI MINORENNI
Malgrado la Cina, nell’aprile 1992, abbia firmato
la Convenzione per i Diritti dei Bambini, detenzioni, arresti e torture di giovani al di sotto dei
diciotto anni continuano ad essere pratiche usuali in Tibet.
I giovani vengono detenuti nelle stesse carceri
degli adulti, viene loro negato un avvocato, non
possono avere contatti con le famiglie e sono soggetti alle stesse forme di lavoro forzato e di torture degli altri detenuti.
Sonam Wangdu, morì nel marzo 1999 nella sua
residenza a Lhasa. Wangdu fu arrestato nell’aprile
1988 perché ritenuto coinvolto nell’uccisione di
un poliziotto cinese durante la repressione di una
dimostrazione, il cinque marzo di quell’anno.
Durante la sua detenzione a Gutsa, fu duramente
torturato e riportò danni permanenti a un rene e
la rottura della colonna vertebrale. Soffrì di problemi urinari e divenne paraplegico. Secondo
Bhangro, un ex prigioniero politico, Wangdu fu
picchiato con bastoni elettrici e tenuto ammanettato, gambe e piedi, per un periodo di sei mesi. Fu
tenuto appeso dai tre ai cinque giorni e messo in
isolamento per una settimana. La sua testa venne
tenuta immersa con la forza in un secchio d’acqua
e gli fu tolto il sangue senza consenso.
Gli ultimi casi di morte a causa delle torture si
sono verificati nella stessa prigione di Drapchi, nel
maggio del 1998. In seguito a due dimostrazioni,
furono uccisi 11 prigionieri. Tre furono fucilati, tre
morirono a causa di crudeli pestaggi, tre morirono
per soffocamento, uno fu impiccato e la causa della
morte degli altri due rimane sconosciuta.
Sherab Ngawang, che morì all’età di 15anni, è
considerata la più giovane prigioniera politica
morta a causa delle torture subite. Per aver cantato con altre monache in prigione, sembra sia stata
picchiata con bastoni elettrici e tubi di plastica
riempiti di sabbia. Un testimone ha dichiarato:
“La colpirono fino a quando fu completamente
coperta di contusioni tanto che anche noi stentavamo a riconoscerla”. Altre persone hanno riferito che fu confinata in isolamento per tre giorni e,
quando uscì, aveva gravi problemi alla schiena e
ai reni. Perse anche la memoria e aveva difficoltà
a mangiare. Morì due mesi dopo essere stata rilasciata.
LAVORI FORZATI ED ESERCIZIO FISICO
DONAZIONI FORZATE DI SANGUE
E DI SIERO
In tutte le prigioni cinesi in Tibet i detenuti sono
costretti a un duro lavoro. Durante il giorno i
lavori forzati spesso si accompagnano a esercizi
Il prelievo forzato di sangue è un’altra delle forme
21
1996, Ngawang Jinpa fu detenuto nella prigione
di Gutsa per otto mesi dove fu crudelmente picchiato. Secondo le parole di Legshe Drugdrak, un
monaco di Nalanda della Contea di Phenpo che
divise la cella con Jinpa, “quando Jinpa arrivò era
molto debole. Gli ufficiali continuarono a torturarlo e lo forzarono a lavorare”. Nel marzo del
1999, la salute di Jinpa peggiorò a tal punto che
gli ufficiali lo mandarono all’ospedale militare
della Regione Autonoma Tibetana, vicino al
monastero di Sera, dove gli furono diagnosticati
danni al cervello. Le sue condizioni erano così critiche che le autorità cinesi lo rilasciarono per
motivi di salute il 14 marzo 1999. Quando morì
aveva 31anni.
L’incapacità di fare un qualsiasi esercizio nel
modo richiesto è immediatamente punito, di
solito con pestaggi. I detenuti risentono molto
di queste esercitazioni, non solo per lo sforzo
fisico, ma anche per il controllo mentale loro
richiesto.
fisici che, uniti a una dieta povera, indeboliscono
notevolmente i prigionieri. Spesso in Tibet i detenuti vengono utilizzati nell’agricoltura e nel taglio
del legname, settori in cui il lavoro è molto richiesto e gli incidenti più frequenti.
Ai detenuti è in molti casi chiesto di raggiungere
determinati “target” di produzione per consentire
alle autorità carcerarie di trarre un guadagno dal
lavoro dei forzati. Queste quote sono obbligatorie,
anche se i detenuti sono malati.
Ngawang Lhundrup, di circa 23 anni, dopo estenuanti interrogatori e torture durante la sua
detenzione nella prigione di Gutsa, fu mandato ai
lavori forzati. “Quando ci permettevano di fermarci, la sera, le nostre mani erano piene di vesciche ed eravamo letteralmente esausti.”
Ngawang Jinpa, anche conosciuto come Lobsang
Dawa, morì a Phenpo, suo villaggio natale, il 20
maggio 1999. Dopo il suo arresto, il 6 maggio
22
LA VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELLE DONNE IN TIBET
I diritti fondamentali delle donne tibetane continuano ad essere violati dal punto di vista politico,
culturale, economico, sociale nonché da quello
dell’integrità fisica.
Le donne tibetane, spesso monache, continuano
ad essere arrestate arbitrariamente per aver esercitato il loro diritto alla libertà di opinione ed
espressione e, in carcere, sono soggette a maltrattamenti e torture. Spesso sono anche costrette a
subire contro la loro volontà la pratica della sterilizzazione forzata o pratiche di contraccezione o
aborto forzati.
nite condizioni umane di detenzione secondo gli
standard internazionali. Alle donne non vengono
forniti assorbenti igienici per le mestruazioni e la
situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che
non è consentito lavarsi per lunghi periodi. Sono
inoltre sottoposte a lavori forzati, esercitazioni
obbligatorie ed altre crudeli forme di tortura sia
fisica che psichica.
Le donne tibetane, per nulla scoraggiate dalle brutali torture, hanno continuato ad inscenare proteste contro le autorità cinesi anche durante la
detenzione. Il 1 maggio (Festa del Lavoro) ed il 4
maggio (Giornata della Gioventù) 1998, i prigionieri della prigione di Drapchi hanno inscenato
una protesta al momento della cerimonia dell’alzabandiera. I dimostranti furono immediatamente
circondati dalle forze della Polizia Popolare
Armata e furono tutti picchiati senza fare distinzioni, comprese le monache che avevano partecipato alla protesta. La cerimonia venne interrotta
e tutte le monache del 3° blocco, circa 100 in
totale, subirono gravi ferite e molte sanguinavano.
Le autorità rinchiusero in cella di isolamento 20
monache prese a caso, a tre di loro fu prolungata
la condanna mentre altre rimasero in isolamento
per sette mesi.
La Cina, nel 1980, ha ratificato la Convenzione
delle Nazioni Unite per l’Eliminazione di tutte le
Forme di Discriminazione contro le Donne.
La legislazione nazionale cinese nonché gli obblighi assunti a livello internazionale non sono
comunque serviti a difendere i diritti delle donne
tibetane in Tibet. In realtà il governo cinese prosegue nella sua premeditata e sistematica politica
di discriminazione e violenza contro le donne
tibetane.
LE DONNE DETENUTE
Le donne tibetane hanno sempre avuto un ruolo
attivo nel sostegno e la difesa dei diritti umani e
della libertà. Sin dall’occupazione del Tibet nel
1959, le donne e in particolare le monache sono
state a capo di pacifiche dimostrazioni che chiedevano la fine della repressione cinese.
Ngawang Sangdrol, rilasciata nell’ottobre 2002,
fu arrestata per la prima volta nel 1987, all’età di
10 anni e trattenuta per 15 giorni per aver partecipato ad una dimostrazione. In seguito fu nuovamente arrestata il 28 agosto 1990 all’età di 13 anni
e trattenuta agli arresti per 9 mesi. Prima del suo
rilascio, stava scontando una condanna che risaliva al 17 giungo 1992, giorno in cui fu arrestata per
aver tentato di inscenare a Lhasa una protesta a
favore dell’indipendenza. La sua condanna era
stata successivamente prolungata tre volte: nel
giugno 1993, nel giugno 1996 e nell’ottobre 1998
a seguito della protesta nel carcere di Drapchi del
maggio 1998. Ngawang Sangdrol era stata indivi-
Il 26% dei prigionieri politici detenuti nelle prigioni cinesi in tutto il Tibet sono donne. Al
dicembre 1999 si aveva notizia di 615 prigionieri
politici di cui 162 donne. L’80% delle donne detenute sono monache.
Le condizioni delle donne in prigione sono di gran
lunga al di sotto di quelle che possono essere defi23
che “Le autorità cinesi rispettano ed ottemperano alle
disposizioni della Convenzione”. Ha anche affermato
che le autorità cinesi stanno facendo del loro
meglio nella prevenzione della tortura e degli altri
trattamenti disumani e degradanti per i prigionieri.
duata e sottoposta a trattamenti particolarmente
duri e spesso rinchiusa in isolamento. Le sue condizioni di salute sono estremamente fragili.
IL BRUTALE TRATTAMENTO DELLE
DONNE
Nonostante queste dichiarazione, i prigionieri
politici Tibetani continuano ad essere sottoposti
in carcere a torture e trattamenti disumani. I resoconti che riportiamo dimostrano come i prigionieri politici Tibetani ed in particolare le donne continuino a subire torture per mano dei funzionari
delle prigioni cinesi, torture che spesso hanno
portato alla morte dei detenuti.
Il Tibet Information Network (TIN), un’ agenzia di
informazione indipendente ha verificato il trattamento dei Tibetani nelle prigioni cinesi ed ha rilevato che “Il tasso di mortalità dei tibetani durante la reclusione o, come conseguenza della detenzione, poco dopo il
loro rilascio, è in aumento. I prigionieri politici di sesso
femminile e in particolare le detenute nella prigione di
Drapchi a Lhasa, sono quelle esposte al maggior rischio.
Il tasso di mortalità è pari al 5% circa o di 1 a 20.”
Dekyi Yangzom (Drupkyi Pema) era una monaca di 21 anni del monastero di Nyemo Dowa
Choten. Nel Febbraio 1995, fu arrestata e condannata a quattro anni di prigione per aver partecipato a una manifestazione a Lhasa a favore dell’indipendenza. Yangzom subì gravi percosse una settimana dopo aver partecipato alla protesta del
maggio 1998 nel carcere di Drapchi. Le autorità
l’anno picchiata e colpita con un pungolo elettrico sul petto, le guance e nei genitali, riempiendola di lividi ovunque. Poteva a stento parlare.
Nonostante questo, il giorno dopo, insieme agli
altri prigionieri, dovette restare in piedi al sole
dalle sette del mattino fino alle otto di sera.
Yangzom, così come altri prigionieri, doveva tenere un foglio di giornale fra le ginocchia e sotto le
ascelle e tenere in equilibrio una ciotola piena
d’acqua sulla testa. Molti di loro svennero ma a
nessuno era consentito prestare aiuto agli altri. Il
13 maggio 1998 risultò assente così come altre
monache. Successivamente fu dichiarata morta e
le autorità cinesi dichiararono che la causa della
morte era il suicidio, anche se direttamente collegabile alle torture. Fatti simili sono accaduti
anche a Tashi Lhamo, Tsultrim Sangmo, Lobsang
Wangmo e Kundol Yonten, morti a causa delle
conseguenze delle brutali torture.
Choeying Kunsang, arrivata dal Tibet nell’aprile
2000, descrisse dettagliatamente la protesta nel
carcere di Drapchi del maggio 1998. La sua testimonianza è corredata da descrizioni molto vivide
di percosse, violenze sessuali, periodi di isolamento anche di sette mesi, sessioni di “allenamento”
ed episodi di torture che hanno condotto alla
morte il prigioniero.
La sua testimonianza include anche informazioni
riguardo ai casi di abusi sessuali sulle donne nella
prigione di Drapchi; informazioni analoghe sono
contenute in testimonianze e nella documentazione raccolta in un lungo arco di tempo. Secondo
queste testimonianze, alcuni fra i metodi impiegati comprendono il denudare le donne, colpirle con
scosse elettriche ad alto voltaggio applicando cavi
elettrici ai capezzoli e agli organi sessuali e lo stupro. Gli ufficiali cinesi utilizzano anche un pungolo elettrico per bovini che applicano a mani e
piedi o che inseriscono nella bocca, nei genitali o
nell’ano della prigioniera.
I CASI DI MORTE IN SEGU ITO
A TORTURE
Alla recente riunione del Comitato sulla Tortura
del 4 maggio 2000, il rappresentante cinese Quio
Zong Zhun, nella sua dichiarazione ha affermato
LA PERSECUZIONE DELLE MONACHE
Le monache tibetane hanno partecipato alla mag24
gior parte delle dimostrazioni a favore dell’indipendenza e non ci sono mai state testimonianze
che abbiano fatto ricorso alla violenza.
Nonostante ciò, le monache sono sistematicamente arrestate e sottoposte a brutali torture per
aver partecipato a manifestazioni pacifiche.
Spesso le autorità cinesi utilizzano le torture di
tipo sessuale come strumento di punizione o per
estorcere informazioni o anche semplicemente per
umiliare e insultare le monache. Questo genere di
aggressioni non sono solo una violenza nei loro
confronti in quanto donne, ma anche specifiche
violenze in quanto monache che hanno fatto voto
di castità. Le monache, spesso, sono poi costrette
a dover lasciare l’ordine per avere infranto i voti,
anche se contro la loro volontà.
Nonostante questi crudeli e disumani trattamenti,
le monache sono note per la loro coraggiosa ed
audace resistenza alle torture nelle prigioni cinesi.
vessazioni nelle forme più varie. Nella prima metà
del 2000, ci risulta che gli arresti delle monache
siano continuati. Le espulsioni dalle istituzioni
religiose sono ancora molto comuni e la continua
presenza dei “gruppi di lavoro” nei monasteri indica che molte monache sono ancora sottoposte a
molestie. Il numero delle monache si è ridotto
anche in seguito alla chiusura di molti monasteri.
Nell’aprile 1996 la Cina ha lanciato la campagna
“Colpisci Duro”, un programma di “rieducazione
patriottica” avviata in tutte le istituzioni religiose del Tibet come tentativo di soffocare “le attività dei separatisti”. Monache e monaci furono
messi sotto costante sorveglianza e furono inviati nei monasteri “gruppi di lavoro” per investigare sul dissenso e propagandare “l’educazione politica”. Le monache furono costrette a firmare un
atto che condannava pubblicamente il Dalai
Lama e il loro credo religioso e che confermava
la versione cinese della storia del Tibet. Coloro i
quali si rifiutarono di obbedire furono arrestati
oppure espulsi dai monasteri. Molte monache
lasciarono volontariamente i loro conventi piuttosto che partecipare a queste sessioni di “rieducazione patriottica”.
Secondo il rapporto del Dipartimento di Stato,
questi programmi obbligatori di “rieducazione
patriottica” consistono nel contrastare i separatisti, obbligandoli a firmare atti di denuncia nei
confronti del Dalai Lama e del Panchen Lama
riconosciuto dal Dalai Lama e nel mettere al
bando le immagini di entrambi. Inoltre includono
il riconoscimento dell’unità con la madrepatria ed
il rifiuto dell’indipendenza del Tibet. Queste campagne di “rieducazione” spesso durano alcuni mesi
e le monache che non osservano il programma di
educazione sono espulse.
Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel
Rapporto Annuale sui Diritti Umani 1999, pubblicato nel febbraio 2000, rileva che “I Buddisti
Tibetani …. sono sottoposti ad una crescente pressione a causa del giro di vite del governo riguardo al dissenso ed alle attività separatiste.” Il Rapporto
Annuale afferma che il governo cinese “ha ampliato e intensificato le sue continue “campagne per l’educazione patriottica” che mirano a controllare i monasteri e ad espellere i sostenitori del Dalai Lama.”
IL CONTROLLO OBBLIGATORIO DELLE
NASCITE
IL DIVIETO DELLA PRATICA RELIGIOSA
Le politiche cinesi di trasferimento della popolazione e controllo delle nascite sono state descritte
come tentativi di genocidio volti a sterminare il
popolo Tibetano. Queste politiche, volute dallo
stato, si sono tradotte in una sistematica e premeditata politica di discriminazione e violenza nei
confronti delle donne tibetane.
A causa della repressione della libertà religiosa in
Tibet, le monache continuano a subire molestie e
“Gli agricoltori ed i pastori tibetani nella Regione
Autonoma del Tibet (TAR) possono avere quanti
Una volta espulse o detenute per ragioni politiche,
alle monache è vietato ritornare nei loro monasteri
o entrare a far parte di altre istituzioni religiose.
25
Se una donna rimane incinta dopo aver raggiunto
la quota assegnata, è costretta ad abortire. Se si
rifiuta di abortire, viene sottoposta a sterilizzazione subito dopo la nascita del bambino.
figli desiderano.” (Politiche Nazionali per le
Minoranze ed applicazioni in Cina, settembre 1999).
Nonostante i diritti in materia di riproduzione
siano garantiti alle donne tibetane sia dalle leggi
nazionali che internazionali, il governo cinese sta’
applicando una politica discriminatoria ed illegale che mira a ridurre la popolazione tibetana.
Gli aborti o le procedure contraccettive cui sono
sottoposte le donne tibetane sono spesso pericolose. Generalmente avvengono in strutture arrangiate alla meglio, senza alcuna assistenza medica
né medicazioni successive all’intervento. Tale
negligenza ha provocato molti casi di decessi postoperatori. Le operazioni generalmente comportano la sterilizzazione definitiva o la somministrazione di un contraccettivo a lungo termine. La più
comune forma di contraccezione è l’applicazione
della spirale (IUD - Intra Uterin Device) o una
iniezione che dura circa tre anni oppure ancora il
“Norplant” che viene innestato nel braccio e
rilascia ormoni che impediscono la gravidanza. La
paura della sterilizzazione e la mancanza di informazioni riguardo alla natura di questi innesti scoraggiano molte donne che non accettano nemmeno l’assistenza medica generale.
“E’ necessario procedere con forza alla sterilizzazione
di quelle coppie che non si siano sottoposte alla sterilizzazione o all’uso di contraccettivi.” (Fonte:
Politics and Law Tribune - pp. 89-93 - Pechino,
aprile 1993).
Il Dott. Blake Kerr, nel suo discorso del 1993
“Donne e gioventù in Tibet: i problemi aperti”
affermò che negli ospedali di Lhasa gli interventi
di aborto venivano effettuati fino al nono mese di
gravidanza per mezzo di iniezioni di “levanor”, un
farmaco sconosciuto nel mondo occidentale. Ha
confermato che l’infanticidio veniva praticato
negli ospedali come strumento per tenere sotto
controllo il tasso di crescita della popolazione. Il
Dott. Kerr ha scoperto che i regolamenti per il
controllo delle nascite in Tibet sono dettati da
una “politica di genocidio”.
La pianificazione familiare in Tibet rimane una priorità sull’agenda del governo cinese. Nella prima metà
del 2000, numerose testimonianze riportano che
viene ancora applicata la politica di due figli per ogni
coppia di tibetani. Il governo cinese ha continuamente tentato di nascondere queste violazioni dietro
cifre importanti e dietro i vari programmi sanitari
messi a disposizione delle donne.
Khando Kyi, arrivata in India verso la fine del
maggio 2000, rivestiva una carica ufficiale nel
Dipartimento per la Pianificazione Familiare della
città di Akham. I suoi compiti includevano le
politiche relative alla procreazione consapevole
ed il controllo delle nascite. Khando ha riferito
molti dettagli riguardo alle multe comminate alle
famiglie che avevano superato il numero massimo
permesso di figli. Ad esempio, se il limite imposto
ad agricoltori e nomadi era di tre figli, coloro i
quali superavano il limite dovevano pagare multe
fino a 3.000 yuan. Venivano poi imposte delle
multe anche a seconda del tempo trascorso fra la
nascita di un figlio e l’altro: se il secondo bambino
nasceva entro tre anni dalla nascita del primo, la
famiglia veniva multata di 80 yuan.
Sono state imposte delle quote per ridurre il
numero di figli e le famiglie che superano la quota
assegnata devono affrontare la discriminazione e
grosse multe. Un bambino o una bambina nati
“fuori quota” sono generalmente trattati come
una “non-persona”, non saranno registrati all’anagrafe e di conseguenza nel corso della loro vita si
vedranno negati tutti i più elementari diritti quali
cibo, tessere annonarie, istruzione o il diritto ad
ottenere della terra.
A cura del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la
Democrazia
Novembre 2000
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LA VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’INFANZIA IN TIBET
I diritti dei bambini sono ampiamente tutelati
da diverse leggi e convenzioni internazionali
riconosciute anche dalla Repubblica Popolare
Cinese. Il 2 marzo 1992 la Cina ha ratificato la
“Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti
dell’infanzia” dichiarandosi, nella relazione iniziale, “un attento osservatore e difensore dei diritti
dei bambini”. Purtroppo, il governo cinese continua invece a violare i diritti dei bambini tibetani sia in materia di educazione e assistenza
sanitaria sia per quanto concerne la libertà di
espressione.
MINORENNI PRIGIONIERI POLITICI
In Tibet i cinesi applicano brutali misure
repressive contro ogni espressione di libertà,
trattando con uguale durezza adulti e bambini.
Ngawand Sandrol, che è stata liberata nell’ottobre 2002, fu arrestata la prima volta all’età di
10 anni e incarcerata per 15 giorni. A 13 anni
fu imprigionata per nove mesi senza accusa. Nel
1992, a 15 anni, fu arrestata di nuovo per aver
preso parte a una dimostrazione e fu condannata a tre anni di carcere. La sua detenzione nel
carcere di Drapchi fu prolungata per tre volte.
Ogni anno numerose famiglie tibetane sono
costrette a mandare i propri figli in esilio per
assicurare loro libertà ed educazione scolastica.
Spesso questi genitori affidano i bambini ad
estranei e spendono i propri risparmi per
garantire ai figli un passaggio verso la libertà.
Alcuni sono solo lattanti e devono essere trasportati attraverso l’Himalaya sulle spalle di
un adulto.
Esistono prove di detenzione di minorenni in
varie prigioni cinesi sul territorio tibetano.
Sono detenuti in prigioni per adulti, privi di
rappresentanti legali e della possibilità di comunicare con le famiglie. Al pari dei detenuti
adulti, sono obbligati a svolgere lavori pesanti e
sono sottoposti alle medesime forme di abuso e
tortura.
Il viaggio dura almeno quattro settimane ed
espone gran parte dei bambini al gelo e all’ipotermia, al punto che alcuni muoiono durante il
viaggio. Se sopravvivono, ci sono poche possibilità che possano mai rivedere i propri famigliari. Nel 1999, su 2.474 rifugiati in fuga dal
Tibet occupato dai cinesi, ben 1.115 erano
bambini e ragazzi sotto i 18 anni, pari al 45% di
tutti i profughi giunti in India in quell’anno. In
maggioranza non erano accompagnati dai genitori, ma erano stati affidati a guide.
Phuntsok Legmon, 16 anni, il 9 luglio 2000 è
stato condannato dalla Corte Popolare
Intermedia a tre anni di prigione per una protesta svoltasi il 10 marzo 1999. Al momento è
detenuto nella prigione di Drapchi insieme a
prigionieri adulti. Legmon e un altro monaco,
Namdol, osarono gridare slogan filo-tibetani a
Lhasa,
in
occasione
dell’anniversario
dell’Insurrezione Nazionale Tibetana. Secondo
testimonianze, al momento dell’arresto i monaci furono percossi con pugni e bastonate.
Il solo fatto che tante famiglie abbiano preso
questa grave decisione, rischiando la vita dei
figli e la propria nel caso in cui la fuga sia scoperta dalle autorità cinesi, costituisce una prova
sufficiente del fallimento del governo cinese in
materia di tutela dei diritti dei bambini in
Tibet.
Norzin Wangmo, un’ex monaca del monastero
di Shugseb, aveva 16 anni quando fu condannata a cinque anni di carcere, il 13 settembre
1994. Insieme ad altre sette monache, Wangmo
aveva dimostrato di fronte al tempio Jokhang a
Lhasa. Fu imprigionata per 11 mesi nel centro
27
veri motivi della propria incarcerazione.
di detenzione di Gutsa e in quel periodo le fu
negato il diritto di ricevere visite di genitori e
parenti. “Le guardie carcerarie si tenevano tutti i
vestiti e il cibo, rilasciando ricevute fasulle ai membri delle nostre famiglie” ha dichiarato in un’intervista concessa il 27 novembre 1999, al suo
arrivo a Dharamsala, in India.
A soli 15 anni d’età, Sherab Ngawang è la vittima più giovane fra i prigionieri politici che
hanno perso la vita in Tibet in seguito alle torture. Sherab era una monaca del monastero di
Michungri e venne arrestata il 3 febbraio 1992
per aver dimostrato pacificamente nel Barkhor
contro l’occupazione cinese. Fu imprigionata
nel carcere di Gutsa per oltre un anno prima di
essere processata, condannata a tre anni di
reclusione e trasferita alla prigione di Trisam.
L’alternativa legale di affidare i minori alla sorveglianza dei propri genitori non viene applicata. Senza essere processati, i prigionieri minorenni ricevono spesso un semplice ordine
amministrativo di detenzione e vengono inviati
a campi di lavoro per scontare la pena.
Secondo testimonianze, nella notte del 10 agosto 1994 Sherab e altre monache intonarono
canti di libertà. Per questo vennero picchiate e
torturate con bastoni elettrici e un tubo di plastica pieno di sabbia. Un testimone ha affermato: “La picchiarono fino a quando fu così coperta di
ematomi da essere quasi irriconoscibile”. Dopo tre
giorni di isolamento, Sherab accusò forti dolori
alla schiena, problemi renali, perdita di memoria e difficoltà di alimentazione.
Nonostante la legge cinese sancisca l’obbligo
della separazione dei giovani criminali e indagati dai detenuti adulti, negli ultimi anni numerose testimonianze riferiscono l’assoluta non
applicazione di tale norma nelle carceri tibetane. Nessun prigioniero politico minorenne sembra essere mai stato incarcerato in una sezione
giovanile o in un centro di detenzione per giovani.
Al rilascio, le sue condizioni di salute erano così
gravi che la famiglia la fece ricoverare in vari
ospedali di Lhasa. Due mesi dopo, il 7 aprile
1995, Sherab morì.
Dopo l’arresto, i giovani vengono abitualmente
espulsi da scuole e monasteri e, una volta liberati, hanno difficoltà a trovare un lavoro.
MINORENNI TORTURATI
IL PIÙ GIOVANE PRIGIONIERO DI
COSCIENZA: IL PANCHEN LAMA
Detenuti in prigioni per adulti, i bambini vivono in un ambiente in cui la tortura è all’ordine
del giorno. Sono costretti a subire le medesime
torture e punizioni applicate ai prigionieri politici adulti. Tortura non significa solo tortura
fisica, come le percosse o le violenze, ma anche
tortura psicologica, come gli interrogatori ripetuti con le stesse domande talvolta per giorni
interi senza pause.
Gedhun Choekyi Nyima aveva solo sei anni
quando scomparve da casa il 17 maggio 1995.
Solo tre giorni prima il Dalai Lama l’aveva riconosciuto come reincarnazione del decimo
Panchen Lama.
Per un anno intero le autorità cinesi negarono
la sua incarcerazione. Solo nel maggio 1996 fu
ufficialmente dichiarato che il bambino era
trattenuto “sotto la protezione del governo su
richiesta dei genitori”. I cinesi affermarono che
“il bambino correva il rischio di essere rapito
dai separatisti e la sua sicurezza era in pericolo”.
Per un giovane, gli effetti psicologici della tortura possono essere particolarmente devastanti.
Il periodo di detenzione può sembrare infinito,
anche se dura solo un mese, e un bambino spesso non è in grado di elaborare razionalmente i
28
tibetani è invece vietato, a scuola, indossare i
vestiti tradizionali, osservare le festività del loro
paese e, talvolta, anche mangiare il cibo tipico.
Spesso a scuola viene implicitamente insegnato
che il popolo tibetano è inferiore a quello cinese e che le tradizioni tibetane sono arretrate.
Inoltre gli studenti vengono costantemente
indottrinati sulla grandezza dei leader comunisti
cinesi.
Nessun rappresentante governativo, organizzazione umanitaria od osservatore indipendente
ha mai ottenuto il permesso di visitare il ragazzo. La Cina continua a respingere le pressioni
internazionali per la sua liberazione perseverando in questa palese violazione dei diritti umani.
IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE
Gran parte dei bambini in esilio fuggono dal
Tibet per beneficiare del proprio diritto
all’istruzione (universalmente riconosciuto) e,
in particolare, del diritto ad appendere, nella
propria lingua, la loro storia, religione e cultura. Una ricerca condotta nel 1997 dal Centro
Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia ha
evidenziato che il 90% dei 50 bambini che avevano lasciato il Tibet nei tre anni precedenti,
erano fuggiti dal il paese proprio per cercare
adeguata istruzione.
Per qualche tempo, le autorità cinesi hanno
collegato la lingua tibetana al nazionalismo.
Con la repressione dell’uso della lingua e della
conoscenza della cultura e della storia tibetana,
il governo di Pechino spera di asservire completamente al regime la prossima generazione di
tibetani. Un bambino tibetano ha riferito che
alla sua domanda di ulteriori spiegazioni sulla
storia del Tibet, “il maestro si è arrabbiato come
un matto per la domanda e mi ha picchiato in
testa e sulle mani con un bastone”.
La grande maggioranza dei bambini tibetani
può frequentare una scuola solo per qualche
anno. In seguito sono costretti ad abbandonarla
a causa delle tasse scolastiche troppo elevate,
della discriminazione a favore di allievi cinesi o
semplicemente perché non sono in grado di
seguire le lezioni in lingua cinese. Secondo
numerose testimonianze, agli studenti tibetani è
vietato l’accesso a scuole migliori o istituti
superiori perché i posti disponibili sono riservati ad alunni cinesi oppure provenienti da famiglie tibetane che collaborano con il governo di
Pechino.
Un popolo senza lingua è un popolo senza identità. Vietando la lingua tibetana i cinesi vogliono annientare deliberatamente l’identità tibetana. In ogni caso, la lingua cinese oggi in Tibet
è altrettanto importante quanto lo è l’inglese in
occidente ed è indispensabile per accedere alla
maggior parte dei posti di lavoro, in particolare
nelle aree urbane. Tuttavia il cinese dovrebbe
essere insegnato come lingua straniera e non
come prima lingua, per consentire ai tibetani di
raggiungere un sufficiente livello di scioltezza
linguistica. Inoltre tutti i tibetani dovrebbero
avere il diritto di scegliere la lingua che desiderano apprendere. I monasteri maschili e femminili sono le sole istituzioni didattiche in cui i
bambini possono imparare la lingua, la cultura e
la religione tibetana. Ma con la campagna
“Colpisci Duro” lanciata dalla Cina nell’aprile
1996, ai bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni
è vietato entrare a far parte di istituzioni religiose. Più di 3.000 novizi e novizie d’età inferiore ai 18 anni sono già stati costretti a lasciare i
monasteri. Nel solo 1999, il Centro Tibetano
per i Diritti Umani e la Democrazia ha consta-
Circa un terzo dei bambini tibetani in età scolare non ricevono alcuna istruzione, mentre per
i bambini cinesi la percentuale è limitata all’1,5
%. Il motivo principale per cui un numero così
alto di bambini tibetani non frequenta la scuola è il costo proibitivo delle tasse scolastiche
imposte dalle autorità.
La Convenzione dei Diritti del Bambino riconosce che lo scopo dell’educazione è di sviluppare le proprie idee o percezioni. Ai bambini
29
tato l’espulsione dai monasteri di 244 monaci e
monache d’età inferiore ai 18 anni.
pazione, perdita d’identità e soppressione di una
cultura millenaria.
I bambini sono il futuro di ogni società. In
Tibet, allo stato attuale, il futuro non sembra
riservare altro che istruzione carente, disoccu-
A cura del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la
Democrazia.
Novembre 2002
30
LE CONDIZIONI ECONOMICHE DEI TIBETANI IN TIBET
Il governo cinese ha ripetutamente ribattuto alle
critiche sul tema dei diritti umani in Tibet
ponendo l’accento sullo sviluppo e la crescita
economica conseguiti negli ultimi decenni. Tale
argomentazione viene ripresa anche in un libro
bianco sui diritti umani pubblicato il 17 febbraio
2000, in cui nuova enfasi viene data al diritto
allo sviluppo : “… in termini di priorità, viene data
la massima precedenza al diritto ai mezzi di sussistenza ed allo sviluppo.” .
lo standard internazionale di povertà di 1 dollaro
al giorno, praticamente tutte le zone rurali del
Tibet vivono sotto la soglia della povertà.
I PROGETTI DI SVILUPPO
Nel 1994 fu lanciata da Pechino una importante
campagna per “spalancare le porte del Tibet alle zone
interne del paese” e incoraggiare “commercianti,
investimenti, aziende e privati a spostarsi dalla Cina al
Tibet Centrale per avviare ogni genere di iniziativa
imprenditoriale”.
Nell’ambito di questa strategia furono approvati
62 progetti di sviluppo, molti dei quali concentrati nelle zone urbane e solo 9 dedicati all’istruzione
ed alla salute.
Questo fascicolo analizza alcuni aspetti del cosiddetto “sviluppo del Tibet” e in che misura il diritto ai mezzi di sussistenza ed allo sviluppo siano
“garantiti” al popolo Tibetano.
Un crescente numero di rifugiati fuggiti dal Tibet
e le loro testimonianze indicano che in Tibet si è
verificata un’effettiva crescita economica, specialmente nelle aree urbane, ma che di questa crescita hanno beneficiato principalmente i coloni
cinesi.
I grandi e costosi progetti, quali dighe e strade,
non hanno alcuna influenza positiva sulla popolazione locale. In realtà molto del denaro speso per
i progetti è prosciugato dai costi amministrativi
del progetto stesso. Una larga percentuale dei progetti è poi destinata al fallimento a causa della
cattiva gestione o dell’inadeguata pianificazione e
ciò non porta alcun beneficio ai tibetani.
Ciò è confermato dalle cifre ufficiali fornite dai
cinesi che mostrano come i residenti nelle aree
urbane costituiscano il 23,7% della popolazione
totale della Regione Autonoma del Tibet
(“TAR”) mentre meno del 5% dei Tibetani vive
in quelle stesse aree. Inoltre la spesa pubblica
destinata agli abitanti delle aree urbane è di 29
volte superiore a quella destinata ai residenti nelle
aree rurali.
Inoltre, fra il 1991 ed il 1996, nelle zone urbane
l’incremento del reddito annuo [pro capite] è stato
del 250% rispetto ad un incremento nelle zone
rurali solo del 50% nello stesso periodo.
La povertà dilaga fra i tibetani residenti nelle aree
rurali e, nel Tibet Centrale, circa 300.000 famiglie
vivono sotto la soglia di povertà che, secondo la
definizione ufficiale del governo cinese, si applica
a persone con un reddito annuo pro capite di
meno di 650 yuan (USD 80). Peraltro, utilizzando
Inoltre, la preferenza accordata a progetti di vasta
portata che riguardano infrastrutture, attività di
estrazione mineraria o aziende di proprietà dello
stato, incoraggiano l’afflusso di personale cinese in
Tibet. I lavoratori cinesi ricevono spesso salari che
sono tre o quattro volte più alti rispetto a quelli
delle altre province. I tibetani vengono raramente assunti e rappresentano solamente il 5-10%
della forza lavoro impiegata nei progetti e nelle
industrie sotto il controllo cinese.
Tamdin Tsering , 21 anni, originario della contea
di Machu, il 20 gennaio 2000 riferì che su 23.000
lavoratori della miniera di oro di Zoege Nyima,
solamente 45 erano Tibetani. Un’altra fonte, un
uomo di 20 anni dal Kham che preferisce restare
31
anonimo, fornì particolari circa un progetto
riguardante una centrale idroelettrica a Mira
Dotse, il cui contratto di costruzione fu affidato a
una società cinese che assunse lavoratori sia cinesi che tibetani. La retribuzione degli operai cinesi
era di 20 yuan al giorno mentre la retribuzione dei
tibetani era di 10 yuan al giorno.
“Se hai più di 18 anni e meno di 60, nell’arco di un
anno devi fare più di 20 giorni di lavoro obbligatorio
dica Dawa, un agricoltore di 18 anni dalla contea
di Kyirong, prefettura di Shigatse (TAR) che è
arrivato a Dharamsala il 25 gennaio 2000. “Se sei
malato puoi stare a casa ma devi poi completare il
lavoro pattuito. E’ possibile mandare qualcun altro al
tuo posto. Il supervisore del lavoro obbligatorio è
cinese. Se non lavori sodo vieni ripreso. Il lavoro inizia
alle 10.00 del mattino e prosegue fino alle 8.00 di
sera. Non ci sono pause tranne un’ora per il pranzo.”.
Molti rifugiati tibetani riferiscono che non venivano impiegati nei principali progetti di sviluppo
ma che veniva loro richiesto di contribuire a quegli stessi progetti con lavoro non retribuito, tasse
assurde o con la loro terra.
GLI ESPROPRI
IL LAVORO OBBLIGATORIO
Oltre al lavoro obbligatorio, a molti tibetani viene
chiesto di contribuire allo “sviluppo” del Tibet
con la propria terra. Quando i progetti di sviluppo
necessitano di terreni agricoli, questi vengono
espropriati ad agricoltori e pastori, che non vengono risarciti, con la giustificazione che la terra
appartiene al governo cinese.
La giurisprudenza internazionale riconosce il diritto all’indennizzo nei casi in cui il governo subentri nella proprietà. Dunque, anche se la
Repubblica Popolare Cinese può espropriare terreni per scopi pubblici, dovrebbe pagare agli agricoltori un prezzo equo e giusto. Il mancato rispetto di questa norma viola le leggi internazionali.
Il lavoro forzato viola leggi internazionali applicate da lungo tempo.
Tuttavia il programma di riduzione della povertà
adottato da Pechino pone un particolare accento
sullo “sfruttamento del potenziale esistente per favorire lo sviluppo delle aree più povere”.
Ciò è in buona parte ottenuto attraverso il lavoro
pubblico o “yigong daizhen” che significa “offrire
lavoro invece di [aiuto]”. Il programma si concentra su numerosi progetti di miglioramento delle
infrastrutture, quali la costruzione di strade e
impianti o la ristrutturazione di attrezzature e la
tutela delle acque.
Un uomo di 22 anni di Gyantse denuncia di aver
perso metà della sua terra a causa della costruzione di un fabbrica di materiale plastico. La costruzione della fabbrica era iniziata nel 1997 e il suo
completamento era previsto per il 2000. Circa 20
famiglie (o metà dei contadini) hanno perso tutto
il loro terreno. Nessuno è stato risarcito perché il
governo ha sostenuto che la terra apparteneva al
partito comunista.
La maggior parte dei rifugiati arrivati di recente in
India e Nepal riferiscono che a tutti i tibetani di
ogni parte del Tibet viene richiesto un mese di
lavoro obbligatorio ogni anno con pesanti
ammende per coloro i quali non si presentano.
Samdup, un nomade di 30 anni dalla contea di
Saga, prefettura di Shigatse (TAR), arrivato in
Nepal l’11 gennaio 2000, riferisce che tutti gli abitanti della sua zona di età compresa fra i 16 e i 58
anni erano obbligati a lavorare alla costruzione di
una strada senza essere pagati. Agli uomini sono
imposti 25 giorni di lavoro obbligatorio l’anno
mentre alle donne 15 giorni. Ci sono multe per le
assenze.
LE TASSE IMPOSTE AI TIBETANI
Una quota elevata della produzione e del reddito
dei tibetani ritorna al governo cinese sotto forma
di tasse di ogni genere. Gli immigrati cinesi sono
dispensati dal pagamento della maggior parte di
32
queste tasse mentre il carico fiscale cresce per i
tibetani quanto più aumenta il numero dei progetti di sviluppo.
vite della gente comune. Le strade sono molto
utili all’esercito cinese e ai coloni cinesi che arrivano ogni giorno in Tibet attratti dagli incentivi
del governo. Inoltre, facilitano lo sfruttamento
delle risorse naturali del Tibet. Le strade esistono
ma non ci sono sistemi di trasporto pubblico perché la popolazione locale possa beneficiarne.
Le autorità cinesi hanno fatto ispezioni, suddiviso
e inutilmente recintato la terra. I costi di tutto
questo lavoro sono stati fatti pagare agli agricoltori e ai pastori.
La Commissione Internazionale dei Giuristi riferisce: “I mezzi di sussistenza di molti Tibetani, che vivono in piccole comunità rurali, sono stati trascurati, in
quanto beneficiano poco dei massicci investimenti
cinesi. Questo rapporto dimostra che la povertà relativa dei tibetani, lo sfruttamento delle risorse tibetane
per contribuire allo sviluppo della Cina, l’insediamento di un considerevole numero di cinesi nei nuovi centri urbani hanno conseguenze negative sulle comunità
tibetane”.
La tassa più comune è una parte del raccolto degli
agricoltori. Rinchen, di Rebkong, nell’Amdo,
riferisce che alla sua famiglia è stato richiesto di
pagare metà del raccolto ai cinesi. Wongchen
Nyendar, 19 anni, di Dwerlung, ha riferito al
Centro Tibetano per i Diritti Umani e la democrazia (TCHRD) che alla sua famiglia, che coltiva orzo e possiede tre mucche ed uno yak, è richiesto di pagare una tassa di 150 chilogrammi di orzo
l’anno a persona.
La logica del governo cinese in Tibet ha le stesse
caratteristiche di quella utilizzata dalle potenze
occidentali durante il periodo coloniale: i paesi
più sviluppati invadono i paesi sottosviluppati per
portare loro progresso e sviluppo. Certamente i
“progetti di sviluppo” cinesi hanno portato dei
cambiamenti in Tibet, ma quando parliamo di
“progresso” dobbiamo sempre tenere presente cosa
significa progresso, chi ne beneficia e chi, per esso,
paga.
I rapporti Cina-Tibet hanno molte caratteristiche
della dominazione coloniale, con lo sfruttamento
delle risorse naturali della colonia a beneficio del
paese colonizzatore.
Ciò crea stagnazione economica, promuove l’inefficienza e crea le condizioni di dipendenza che
riducono di fatto gli sforzi di sviluppo a livello
locale.
Dallo sfruttamento delle risorse naturali alle decisioni chiave in termini di politiche locali e regionali, i tibetani sono esclusi, ad ogni livello, dalla
partecipazione allo sviluppo del loro paese e dalle
decisioni sul futuro economico del Tibet.
I vasti e costosi progetti volti alla costruzione di
strade e dighe, hanno conseguenze negative sul
fragile ecosistema tibetano e pochi effetti sulle
A cura del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la
Democrazia
Novembre 2002
L’IMPATTO DEI PROGETTI DI SVILUPPO
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L’Associazione Italia-Tibet
L’Associazione Italia-Tibet è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro,
legamente costituita. Fondata nel 1988, l’Associazione si propone di sostenere il
lavoro del Dalai Lama, massima autorità politica e religiosa del Tibet e del suo
governo in esilio, affinché al popolo tibetano venga riconosciuto il diritto all’autodeterminazione e gli siano garantite le fondamentali libertà civili.
Per promuovere la conoscenza della effettiva realtà tibetana, l’Associazione ItaliaTibet:
• Organizza manifestazioni politiche e culturali per sensibilizzare l’opinione
pubblica sulla storia e gli sviluppi del problema tibetano.
• Mantiene contatti con il mondo politico, con le organizzazioni per i diritti umani e
con tutti i gruppi sensibili a queste tematiche.
• Pubblica materiale informativo di agile consultazione sugli aspetti sociali,
culturali e religiosi del popolo tibetano.
• Mantiene il sito web: www.italiatibet.org
L’Associazione Italia-Tibet aiuta inoltre concretamente la comunità tibetana in
esilio, sostenendo progetti di cooperazione allo sviluppo e promuovendo le adozioni
a distanza.
Come associarsi
Il modo migliore per aiutare e rimanere in contatto con l’Associazione Italia-Tibet è
quello di iscriversi ad una delle seguenti quattro categorie di soci previste.
Quote annuali:
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Studenti o famigliari di soci
Socio ordinario
Socio sostenitore
Socio benemerito
€
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25,00
50,00
100,00
300,00
€ 12,00
Acquisto bandiera del Tibet:
Per informazioni contattare:
Associazione Italia-Tibet
20133 MILANO - Via Pinturicchio, 25
Tel./fax 02.70638382 - [email protected]
www.italiatibet.org
(spedizione compresa)