documenti - Progetto Innocenti
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TIBET documenti La violazione dei diritti umani I prigionieri politici La repressione religiosa La discriminazione razziale La tortura La violazione dei diritti delle donne La violazione dei diritti dell’infanzia Le condizioni economiche dei tibetani Associazione Italia-Tibet 20133 MILANO - Via Pinturicchio, 25 Tel./fax 02.70638382 [email protected] - www.italiatibet.org TIBET documenti La violazione dei diritti umani I prigionieri politici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 7 La repressione religiosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 11 La discriminazione razziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 15 La tortura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 19 La violazione dei diritti delle donne . . . . . . . . . pag. 23 La violazione dei diritti dell’infanzia . . . . . . . . pag. 27 Le condizioni economiche dei tibetani . . . . . . pag. 31 La violazione dei Diritti Umani Nel 1959, 1961 e 1965, le Nazioni Unite approvarono tre risoluzioni a favore del Tibet in cui si esprimeva preoccupazione circa la violazione dei diritti umani e si chiedeva “la cessazione di tutto ciò che priva il popolo tibetano dei suoi fondamentali diritti umani e delle libertà, incluso il diritto all’autodeterminazione”. A partire dal 1986, numerose risoluzioni del Congresso degli Stati Uniti, del Parlamento Europeo e di molti parlamenti nazionali hanno deplorato la situazione esistente in Tibet e all’interno della stessa Cina ed esortato il governo cinese al rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche. Malgrado gli incessanti appelli della comunità internazionale: • il diritto del popolo tibetano alla libertà di parola è sistematicamente violato. • Migliaia di tibetani sono tuttora imprigionati, torturati e condannati senza processo. Le condizioni carcerarie sono disumane. • Le donne tibetane sono costrette a subire la sterilizzazione e l’aborto. • I tibetani sono perseguitati per il loro credo religioso. • Monaci e monache sono costretti a sottostare a sessioni di rieducazione patriottica, a denunciare il Dalai Lama e a dichiarare obbedienza al Partito comunista. 5 I PRIGIONIERI POLITICI E LE CONDIZIONI CARCERARIE IN TIBET Si definiscono prigionieri politici coloro i quali sono incarcerati a causa delle loro opinioni politiche, religiose o della loro etnia. Ogni anno centinaia di tibetani sono arrestati e detenuti per aver espresso pacificamente il loro credo politico o religioso. Gli arresti in massa dei tibetani iniziarono all’epoca dell’invasione del Tibet, nel 1949, ma con l’avvio delle politiche di “liberalizzazione” della Cina, agli inizi degli anni ’80, prese il via una nuova ondata di detenzioni, torture e condanne. L’età non costituisce un ostacolo all’arresto per reati politici e persino bambini di 13 anni sono detenuti insieme ai prigionieri adulti. fessa, severità per chi nega” oppure “correzione e rieducazione attraverso il lavoro”. Durante le indagini, che possono durare da diversi mesi fino a un anno, il sospettato è generalmente tenuto in isolamento e, in molti casi, è ignorata anche la disposizione in base alla quale la polizia deve informare la famiglia del sospettato entro 24 ore dall’arresto. Molte famiglie non sono mai ufficialmente informate dell’arresto dei loro parenti e sono avvisate solo al momento del processo. Anche allora, le famiglie incontrano molte difficoltà a capire esattamente in quale prigione i loro cari siano detenuti. La mancanza di informazioni rende l’intera esperienza ancora più stressante sia per i prigionieri sia per le loro famiglie. A metà del 2000, circa 500 Tibetani risultano essere in carcere per reati di questo tipo e attualmente sono noti i casi di 73 prigionieri politici che scontano condanne di 10 o più anni. Nel nuovo Codice di Procedura Penale è stata introdotta l’espressione “minaccia per la sicurezza dello stato”, che sostituisce l’espressione utilizzata in precedenza di “contro-rivoluzionario”. Questo consente alle autorità cinesi di utilizzare la formula “segreto di stato” a giustificazione dell’arresto e della detenzione e negare al sospettato il diritto alla difesa per tutto il periodo delle indagini e degli interrogatori. Per gli imputati politici Tibetani è molto difficile ottenere un difensore soprattutto per motivi finanziari o per la riluttanza degli avvocati che temono di essere accusati di sostenere i “separatisti”. Nonostante sia uno dei firmatari della Convenzione Internazionale per i Diritti Civili e Politici, la Repubblica Popolare Cinese non ha protetto i diritti civili e politici dei suoi cittadini. I prigionieri politici, arrestati solamente per aver esercitato una loro legale prerogativa, una volta incarcerati, perdono molti altri diritti. Vengono sottoposti a torture fisiche e mentali e tenuti in isolamento, in condizioni ben al di sotto di ogni standard internazionale. Perdono inoltre il diritto a un processo giusto o a qualsiasi garanzia legale, rimanendo privi di ogni possibilità di difendersi dalle accuse. IL SISTEMA LEGALE CINESE: “Prima il verdetto, poi il processo” Gli imputati sono anche restii a ricorrere in appello, poiché i ricorsi sono generalmente inutili e l’Alta Corte si limita a confermare la decisione del tribunale di primo grado, senza rivedere il caso. Chi ricorre in appello può anche dover subire un verdetto più severo in quanto il giudice d’appello può prolungare la pena detentiva. Secondo l’ordinamento giuridico cinese, diritti legali basilari quali la “presunzione di innocenza fino a prova contraria” e il diritto alla difesa sono sostituiti dalle linee di principio cinesi “prima il verdetto, poi il processo”, “clemenza per chi con7 nuovo Codice di Procedure Penale cinese non ha introdotto alcuna misura che limiti l’incidenza degli arresti arbitrari e quindi i tibetani corrono ancora il rischio di essere arrestati per aver espresso opinioni contrarie alla ideologia ufficiale cinese. Il problema fondamentale in Tibet è che le considerazioni politiche vengono anteposte alle norme del codice penale. LIMITAZIONE DELLA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE Il diritto alla libertà di espressione e di opinione è chiaramente espresso nell’Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: “Ciascuno ha diritto alla libertà di opinione e di espressione; questo diritto include la libertà di professare le proprie opinioni senza intromissioni e di chiedere , ricevere o diffondere informazioni o idee attraverso qualsiasi mezzo e senza limiti di frontiere”. Tuttavia, in Tibet, l’esercizio del diritto alla libertà di parola e di espressione non esiste: esprimere una qualsiasi opinione contraria alle politiche del governo cinese è considerato anti-nazionale e le conseguenze sono l’arresto e la detenzione. Il Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Illegittima, riunitosi in Tibet nel 1997, ha espresso in questi termini la sua preoccupazione: “anche se l’espressione crimini contro-rivoluzionari è stata abolita, la giurisdizione dello Stato è stata ampliata. Di conseguenza, anche le azioni dei singoli individui, nell’esercizio della propria libertà di espressione e di opinione, possono essere considerate minaccia alla sicurezza nazionale.” Ciò consente alla Repubblica Popolare Cinese di continuare ad effettuare arresti arbitrari per sopprimere le opinioni sovversive, in aperta violazione del diritto alle libertà civili individuali e del diritto alla libertà di espressione e opinione. La Repubblica Popolare Cinese ha costantemente negato al popolo del Tibet il fondamentale diritto di professare le proprie opinioni politiche o religiose. Per questo motivo la Cina ha avviato, nel 1996, la campagna “Colpisci Duro” che mira a sradicare la fedeltà dei tibetani nei confronti del Dalai Lama, del Panchen Lama tibetano e della stessa nazione tibetana. Inizialmente limitata alle istituzioni monastiche, nel 1999 la campagna è stata estesa a tutto il contesto sociale. Nel gennaio 1999, la Cina a lanciato una campagna a favore dell’ateismo, violando il diritto dei tibetani a professare la loro religione. Qualsiasi espressione pacifica del nazionalismo tibetano o di critica alla politica cinese può portare all’arresto. LE CONDIZIONI CARCERARIE Le condizioni carcerarie in Tibet sono disumane. Vengono applicati innumerevoli metodi di tortura, sia fisici che psicologici, per estorcere “confessioni” o semplicemente come strumenti di umiliazione quotidiana. Le celle sono estremamente piccole rispetto al numero dei prigionieri detenuti e i prigionieri, anche durante l’inverno, generalmente dormono sul pavimento, senza materassi né coperte. L’igiene non viene tenuta in alcuna considerazione: le celle sono sporche, talvolta con escrementi sul pavimento; i prigionieri hanno come unico servizio igienico un bidone che viene tenuto nella cella, spesso nello stesso spazio dove devono mangiare; ci sono pochissime opportunità di potersi lavare ed alle donne non sono forniti gli assorbenti igienici durante le mestruazioni. ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Secondo le Nazioni Unite, un arresto si considera illegittimo se effettuato (a) su basi o secondo procedure diverse da quelle previste per legge; oppure (b) secondo previsioni di legge che siano in contrasto con il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona. Tutte le forme di espressione contrarie al Partito Comunista Cinese sono causa di arresto in Tibet. Quasi tutti i prigionieri politici tibetani sono stati arrestati e detenuti arbitrariamente. L’accusa più comune consiste nell’imputazione di “minaccia alla sicurezza dello stato”. Il Jampel Monlam è uno dei tanti prigionieri politici Tibetani che ha trascorso anni dietro le sbarre 8 per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione. Ha trascorso cinque anni nella prigione di Drapchi dove veniva tenuto in una piccola cella con altri 12 prigionieri. Dormivano tutti in un unico lungo letto e dovevano condividere un bidone come servizio igienico. Durante i suoi cinque anni di detenzione poté lavarsi solo due volte. LE TORTURE IN CARCERE Ex prigionieri politici hanno descritto innumerevoli metodi di tortura crudeli e degradanti che includono, fra gli altri, il ricevere scariche elettriche in ogni parte del corpo per mezzo di un pungolo per bovini e l’essere obbligati a rimanere a piedi nudi sul terreno ghiacciato fino a che la pelle dei piedi non rimane attaccata al terreno stesso. Cibo ed acqua sono bisogni umani elementari e devono essere forniti in quantità adeguate. Invece, le autorità cinesi razionano sia cibo che acqua come forma di punizione. Il regime alimentare in prigione è decisamente povero sia per qualità che per quantità. In molti casi il cibo è anche estremamente sporco o cosparso di insetti morti. Le tecniche di tortura impiegate nelle prigioni cinesi cambiano di volta in volta e nuovi metodi di tortura sono messi a punto per non lasciare tracce visibili. Molti ex prigionieri hanno detto di aver sentito dire dagli ufficiali delle prigioni frasi come “Non ferirlo all’esterno del corpo, mettilo fuori uso con delle ferite interne.” Un certo numero di prigionieri politici viene inoltre messo in cella di isolamento quale punizione per le più disparate attività, dall’aver partecipato a manifestazioni di protesta all’aver cantato canzoni inneggianti alla libertà. Questi prigionieri vengono messi in celle buie ed anguste che misurano circa 2 metri per 1 metro, spesso con mani e piedi ammanettati e le loro razioni di cibo sono ulteriormente ridotte. La detenzione in isolamento è una delle peggiori esperienze carcerarie di cui si abbia testimonianza. Negli anni ’80 la Cina introdusse anche una nuova forma di detenzione in isolamento conosciuta come “cella fredda”. Le piccole celle sono foderate di lamiera così che la temperatura può scendere fino a –10° C . Oltre alle torture fisiche, i prigionieri devono subire talvolta veri e propri traumi psicologici. Per obbligarli a denunciare il Dalai Lama o altri compatrioti, gli ufficiali delle prigioni spesso minacciano i prigionieri di fare del male alle loro famiglie. Le donne prigioniere politiche in Tibet subiscono le forme di tortura più degradanti. Spietati pestaggi, stupri e violenze di tipo sessuale, quali lacerazioni ai capezzoli, l’inserimento di pungoli elettrici per bovini nei genitali o scosse elettriche date tramite cavi elettrici avvolti intorno al petto ed al corpo sono alcune fra le tante atrocità di cui si ha testimonianza. Nel 1997, la Commissione Internazionale dei Giuristi interrogò in Tibet ex poliziotti, giudici e detenuti e confermò che la tortura dei detenuti politici era una pratica comune. Gaden Tashi fu tenuto in cella di isolamento per 34 giorni nel carcere di Outridu. “Nei primi tre giorni ebbi una paura insopportabile e pensai addirittura al suicidio. Quella cella buia era considerata dalla maggior parte dei prigionieri come una delle più spaventose esperienze che ci potessero capitare … Quando il tempo era bello e c’era il sole, in cella riuscivo appena a vedere le mie mani. Se il tempo era coperto, non riuscivo a distinguere il giorno dalla notte. Quando fui rilasciato, rimasi cieco per diverse ore, non riuscivo a vedere nulla.” LE CURE MEDICHE I prigionieri vengono generalmente ricoverati a seguito delle gravi ferite ricevute durante le torture o per le malattie contratte a causa delle pessime condizioni igieniche. Alcuni ex prigionieri politi9 ci hanno riferito che, durante il loro ricovero in ospedale, le famiglie ebbero difficoltà a riconoscerli. Se i prigionieri si ristabiliscono, devono tornare in prigione per finire di scontare la condanna. responsabilità”, il che significa che dovrà pagare tutte le spese mediche a partire dalla data della firma. Se una persona è in punto di morte a causa delle torture, viene rilasciata su “parere medico”. Questa procedura ha due motivazioni principali: in primo luogo gli ospedali del carcere non hanno le strutture adatte a fornire cure adeguate e, in secondo luogo, se un prigioniero muore fuori dalle mura del carcere, il governo cinese appare meno colpevole. I detenuti che vengono ricoverati sono generalmente accompagnati dalle guardie carcerarie e in alcuni casi sono anche ammanettati al letto dell’ospedale. Se, una volta ricoverato, il prigioniero non mostra segni di miglioramento, viene imposto alla sua famiglia di firmare una “dichiarazione di A cura del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia Novembre 2000 10 LA REPRESSIONE RELIGIOSA IN TIBET “In Tibet, la persecuzione religiosa è strettamente legata alla repressione del dissenso politico. La grande maggioranza dei prigionieri politici tibetani conosciuti da Amnesty International sono monache e monaci buddisti.” Amnesty International oggi, tuttavia, nessun funzionario è stato accusato di questo crimine, malgrado le palesi violazioni della libertà di culto. Al contrario, lo stesso il governo cinese attua politiche e programmi miranti alla soppressione del diritto dei tibetani a praticare la propria religione. Tra questi, ad esempio, la campagna chiamata “Colpisci Duro”, destinata a colpire severamente le istituzioni religiose. Da quando l’Esercito di Liberazione del Popolo è entrato in Tibet, nel 1949, oltre 6000 tra istituzioni religiose e monumenti sono stati distrutti nel tentativo di “riunire il Tibet alla madrepatria”. Sebbene alcuni monasteri siano stati ricostruiti e a monaci e monache sia stato “permesso” di praticare il buddismo, il diritto alla libertà di credo è stato severamente limitato. Le istituzioni ricostruite con l’assistenza dei cinesi sono solitamente solo quelle accessibili ai turisti o quelle più conosciute. Per fare un esempio, la facciata del monastero di Drepung, a Lhasa, è stata magnificamente ricostruita ma le strutture interne sono ancora in rovina. Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia continua a documentare la diffusa repressione di libertà di religione in Tibet. Da quando la Cina lanciò, nell’aprile del 1996, la campagna nazionale “Colpisci Duro” contro le istituzioni religiose tibetane, continua la sistematica repressione della libertà di credo. Ai monaci e alle monache è completamente negata ogni libertà di espressione e a centinaia sono stati espulsi dai monasteri o arrestati per aver disubbidito agli ordini. Essendo il buddismo uno degli aspetti più importanti dell’identità nazionale e culturale tibetana, l’ostilità cinese nei confronti della religione è determinata, in Tibet, dal timore che attorno ad essa si cementi il sentimento di unità nazionale dei suoi abitanti. Il governo cinese reprime inoltre la libertà di culto in quanto, conferendo la religione al Dalai Lama lo status di leader spirituale e temporale del popolo tibetano, i credenti buddisti obbediscono al Dalai Lama e alla sua politica che il governo di Pechino apertamente rifiuta. Tutti questi fattori fanno del buddismo tibetano il simbolo del nazionalismo del popolo del Tibet e, di conseguenza, questo credo è considerato dalle autorità cinesi “distruttivo e controverso”. Per le autorità di Pechino, il problema religioso è un problema politico e le sue istituzioni sono considerate centri di ribellione che devono essere soppresse. LA REPRESSIONE RELIGIOSA La campagna di repressione religiosa iniziata dalla Repubblica Popolare Cinese nei confronti delle istituzioni religiose tibetane non accenna a diminuire malgrado la Cina continui a sostenere di fronte alla comunità internazionale che i tibetani godono di libertà di religione. Nel “Libro Bianco sui Diritti Umani in Tibet”, redatto nel 1998, la Cina così asseriva: “la Costituzione cinese stabilisce che la libertà di un credo religioso è uno dei diritti fondamentali dei cittadini. Il governo cinese rispetta e protegge il diritto di libertà di credo religioso dei suoi cittadini.” I diritti culturale e religiosi sono internazionalmente riconosciuti come diritti umani. L’appartenenza di questi diritti alla legge internazionale sta a significare che il loro rispetto riguarda l’intera comunità mondiale. Il diritto di libertà La legge cinese stabilisce inoltre che i funzionari che privano i cittadini di questa libertà sono condannabili a due o più anni di reclusione. Ad 11 Le monache del monastero Rating Samtenling, nella Contea di Phenpo Lhundrup, sono state sottoposte alla campagna di ri-educazione dal luglio del 1998. I funzionari del “gruppo di lavoro” setacciarono le abitazioni di tutte le monache e le costrinsero a firmare documenti di denuncia del Dalai Lama e ad accettare “l’unità della madrepatria”. A seguito del rifiuto delle monache a firmare questi atti, le sessioni ri-educative furono prolungate di due mesi. Alle monache fu limitato qualsiasi contatto con i propri famigliari e non fu loro consentito di andare in visita a casa. Ottanta monache che si rifiutarono di conformarsi alle istruzioni ricevute furono soggette ad ulteriori restrizioni e fu loro proibito di partecipare alle funzioni religiose. Quattordici monache furono espulse e solo centocinque furono lasciate nel monastero. Precise istruzioni delle autorità cinesi sancirono la chiusura di tutti i centri religiosi coinvolti in agitazioni politiche. Per questa ragione furono chiusi quindici monasteri. di credo è contenuto nell’articolo 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e per questo è applicabile a tutte le nazioni. LA CAMPAGNA DI “RI-EDUCAZIONE PATRIOTTICA” Nel tentativo di sopprimere le “attività separatiste”, nell’aprile del 1996 la Cina lanciò la campagna “Colpisci Duro”, un programma di “ri-educazione patriottica” applicato a tutte le istituzioni religiose in Tibet. I “gruppi di lavoro”, composti principalmente da funzionari dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza (PSB), svolgono minuziose sessioni di ri-educazione. Il loro compito principale consiste nell’identificazione, nell’espulsione o nell’arresto di monaci e monache considerati “non patriottici”, di coloro che esprimono una qualsiasi opinione contraria alla politica del partito o che non sono d’accordo con i cinque punti che tutti i monaci e monache sono costretti a sottoscrivere. Questi i cinque punti sono da rispettare: Nel luglio del 1998, un “gruppo di lavoro” composto da dieci funzionari visitò il monastero di Gonsar nella Contea di Lhundup (completamente demolito durante la Rivoluzione Culturale e ricostruito nel 1991 con il contributo dei tibetani locali) e diede inizio alla “ri-educazione patriottica” dei venti monaci che vi risiedevano. I monaci rifiutarono in modo deciso di ubbidire agli ordini affermando di essere dei religiosi e di non poter contravvenire alle regole della propria fede. Malgrado le obiezioni, i funzionari cinesi insistettero nella loro opera di persuasione incontrando la continua opposizione dei monaci. Alla fine il “gruppo di lavoro” annunciò che il monastero sarebbe stato chiuso e che tutti i monaci avrebbero dovuto far ritorno alle rispettive abitazioni. Verso la fine dell’agosto 1998, i venti monaci fecero ritorno ai loro villaggi e il monastero fu chiuso. Ai religiosi fu inoltre impedito di entrare in altri monasteri o di praticare servizi di preghiera nelle loro case. Dichiarare la propria opposizione a ogni forma di separatismo Accettare la versione cinese della storia del Tibet Riconoscere il Panchen Lama designato da Pechino Negare lo status indipendente del Tibet Denunciare il Dalai Lama come “traditore della madrepatria” Secondo alcuni testimoni, per convincere i monaci e le monache della bontà delle loro idee, i “gruppi di lavoro”, durante le sessioni di ri-educazione, non esitano a ricorrere alla violenza. I dissensi aperti di solito portano all’arresto. Dall’inizio della campagna, più di 10.569 monaci sono stati espulsi dai loro monasteri e, al giugno 1999, almeno 511 risultano essere stati arrestati. Tra gli espulsi ci sono almeno 3.073 giovani monaci e monache al di sotto dei 18 anni. 12 scritto delle preghiere auguranti lunga vita a sua Santità il Dalai Lama. Il 20 marzo 1998, una trentina di funzionari del PSB visitarono il convento di Draylb, a Lhasa. Secondo quanto riferito da una ex monaca, Tenzin Dolma, su un totale di centocinquanta monache residenti, solo le piccole religiose di età non superiore ai cinque anni ebbero il permesso di restare. Tutte le altre furono espulse dopo che le monache, in pellegrinaggio a Lhasa per le festività dell’anno nuovo, si rifiutarono di tornare al convento e di rinnegare il Dalai Lama. I funzionari distrussero tutte le camere delle monache e rimossero i pilastri di legno e le intelaiature delle finestre. Le sessioni di educazione politica sono lunghe e interferiscono pesantemente negli studi dei monaci e delle monache. Inoltre, è stata abolita la tradizionale lettura delle sacre scritture all’interno delle case tibetane e deve essere richiesto uno speciale permesso per alcuni insegnamenti. Il governo controlla dove e come avvengono le cerimonie religiose. I ritratti del Dalai Lama, già banditi all’interno delle istituzioni religiose, sono ora vietati anche nelle case private. Ai tibetani è stato proibito di celebrare il compleanno del Dalai Lama. Una settimana prima del 64° compleanno di Sua Santità, le autorità cinesi hanno distribuito volantini che rendevano esplicito tale divieto. La celebrazione del compleanno del Dalai Lama è considerata un atto di propaganda separatista e un’istigazione delle masse ad opporsi al governo cinese. Molti monaci e molte monache sono stati allontanati dalle istituzioni religiose a causa del “tetto” numerico massimo introdotto dai membri dei “gruppi di lavoro”. Questa misura restrittiva fissa il numero di monaci/monache consentiti all’interno di ogni monastero o convento. Inoltre, le autorità cinesi hanno introdotto disposizioni riguardanti il limite massimo e minimo di età dei religiosi decretando l’espulsione dei monaci di età inferiore ai 18 anni e superiore ai 50. L’allontanamento forzato dei religiosi al di sopra dei cinquant’anni minaccia la sopravvivenza della tradizione del buddismo tibetano poiché gli anziani hanno un ruolo fondamentale nella trasmissione degli insegnamenti. IL TOTALE CONTROLLO SULLE ATTIVITÀ RELIGIOSE Dall’inizio della campagna di “ri-educazione patriottica”, i funzionari cinesi dei “gruppi di lavoro” continuano a limitare le attività religiose dei monasteri e conventi. Scopo della campagna è di controllare la religione attraverso il controllo delle menti dei religiosi tibetani. Nel giugno 1994, il Terzo Forum Nazionale del Lavoro in Tibet decise un maggior rigore nei confronti delle istituzioni monastiche. A questo scopo furono istituiti all’interno di ogni monastero dei “Comitati di Gestione Democratica”, destinati a sostituire l’autorità tradizionale degli abati e dei lama. Le autorità di stato affidarono a questi comitati l’incarico di decidere in merito all’ammissione nel monastero, al programma di studi e alla disciplina dei monaci e monache. Oggi, i monasteri e i conventi sono sotto il controllo dei “gruppi di lavoro” cinesi, mandati per indagare sui dissensi e per portare avanti le sessioni rieducative. Centinaia di monaci e monache sono stati arrestati per attività politiche. E’ considerata “attività politica” anche il solo possesso di foto del Dalai Lama, loro leader spirituale. Molti altri continuano ad essere espulsi dai propri monasteri e conventi. Tenpa Rabgyal, un monaco di 27 anni del monastero di Tash-Ge-Kunphel Ling, fu arrestato nel febbraio del 1998 per aver LA PROIBIZIONE DEL DIRITTO DI PRATICARE LA RELIGIONE IN CARCERE L’arresto dei prigionieri politici non costituisce soltanto una punizione. Per le autorità cinesi è anche il mezzo per tentare di annullare il sentimento di identità tibetana. A questo fine, ai monaci detenuti è proibita la pratica della religione e spesso viene loro imposto l’obbligo di denunciare il Dalai Lama, loro leader politico e spiritua13 13anni, ha dichiarato: “Se, in carcere, recitavamo mantra o altre preghiere, eravamo immediatamente picchiati”. La religione è una delle più potenti espressioni della cultura del Tibet e la sua pratica è molto importante per i prigionieri tibetani dei quali molti sono monache e monaci. le. Mentre i tibetani, nella vita di tutti i giorni, subiscono forti limitazioni nella pratica della religione, nelle prigioni cinesi esiste il divieto assoluto di qualsiasi forma di culto. I monaci e le monache in prigione sono costretti a farsi crescere i capelli, non è loro permesso di prosternarsi né di indossare gli abiti religiosi. Il semplice atto di pregare ad alta voce è proibito e le punizioni per aver rotto questa ‘regola del silenzio’ includono abusi fisici e verbali. Gyaltsen Pelsang, una monaca arrestata all’età di A cura del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia Novembre 2000 14 LA DISCRIMINAZIONE RAZZIALE IN TIBET All’interno del loro paese, i tibetani hanno subito ogni genere di violazioni dei diritti umani e di discriminazioni razziali. La Costituzione cinese e la Legge sull’Autonomia Regionale delle Etnie affermano che la Regione Autonoma Tibetana (TAR) “gode dei più ampi diritti di autonomia sia in materia di legislazione, dell’uso delle lingue locali parlate e scritte e dell’amministrazione del personale, sia in campo economico, finanziario, scolastico e culturale, sia in quello della gestione e dello sviluppo delle risorse naturali”. piego. Il massiccio afflusso dei cinesi è stato incentivato da salari più alti, ferie più lunghe, esenzioni fiscali e da migliori condizioni in materia di pensioni e investimenti. I tibetani sono discriminati in molti settori. La maggioranza dei rifugiati riferisce che i datori di lavoro esigono la perfetta conoscenza della lingua cinese, indipendentemente dal tipo di lavoro. I tibetani sono vittime di pregiudizi e, essendo considerati incapaci e arretrati, sono loro offerti solo lavori umili, spesso a patto che, nella vita privata, abbandonino le usanze tipiche della loro cultura. La corruzione è prassi comune per ottenere un posto di lavoro ed è l’unico modo per spezzare quella rete di connessioni che assicura ai cinesi, proprietari della maggior parte delle imprese private e detentori di tutte le posizioni chiave, ogni tipo di lavoro e permesso. Nel 1981 la Cina ha accettato formalmente di rispettare le leggi internazionali menzionate nella Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione Razziale (International Convention on the Elimination of all Forms of Racial Discrimination, CERD) che proibisce ogni distinzione, esclusione o preferenza basate su razza, colore, discendenza od origini etniche e nazionali. Spesso i tibetani sono costretti a pagare per ottenere le licenze di commercio, da cui i cinesi sono esentati, e devono depositare cospicue somme, parimenti non richieste ai cinesi, per ottenere prestiti. Ai cinesi sono inoltre assegnati i migliori punti vendita e i prodotti tibetani sono plagiati e venduti sotto costo nel tentativo di metterli fuori mercato. Spesso gli agricoltori sono costretti a vendere i loro prodotti al governo a prezzi inferiori a quelli di mercato con il conseguente aumento della povertà contadina. Le famiglie devono fornire manodopera coatta per progetti di sviluppo che spesso non recano alcun vantaggio ai tibetani. La discriminazione è evidente anche nei salari percepiti, a parità di lavoro, da cinesi e tibetani. Nortso, 29 anni, nel gennaio 2000 ha riferito che a Ngamring, prefettura di Shigatse, i tibetani impiegati nelle costruzioni stradali venivano pagati dai 15 ai 25 yuan al giorno, contro i 40-80 dei cinesi. Quando lavorava nella costruzione di un ufficio per le telecomunicazioni, Nortso riceveva solo 10 yuan al giorno, mentre i cinesi ne guadagnavano 50. Malgrado queste garanzie legali, i tibetani, definiti “minoranza razziale” dalla Repubblica Popolare Cinese, subiscono discriminazioni in ogni settore. La discriminazione sistematica in campo sanitario, educativo, lavorativo, abitativo e della rappresentatività pubblica, continua a ostacolare la partecipazione dei tibetani allo sviluppo del proprio paese e ne ha svilito la posizione sociale al punto che, solo a causa della loro razza, sono considerati cittadini di rango inferiore. Se non saranno prese misure per porre rimedio alle discriminazioni prima che il Tibet occupato diventi la tomba di un’intera nazione, le ingiustizie e le disuguaglianze diverranno, entro breve, irrevocabili. L’IMPIEGO Il trasferimento di popolazione cinese in Tibet costituisce una delle minacce più gravi per l’im15 torio cinese. Anche in Cina le donne devono sottostare al controllo delle nascite, ma in Tibet, data la scarsa densità della popolazione e in considerazione del fatto che il suo tasso di crescita è inferiore ai limiti fissati dal governo, tale misura non può essere vista che come una forma di discriminazione e un tentato genocidio. LA SALUTE Il Libro Bianco cinese sui Diritti Umani del febbraio 2000 afferma che in Cina tutti i cittadini hanno diritto a “servizi medici gratuiti e a un sistema previdenziale di cure mediche per i lavoratori a carico dello stato”. I rifugiati testimoniano invece che le cure mediche sono a pagamento, spesso in modo discriminatorio. Molti hanno rivelato di avere dovuto pagare le medicine a un prezzo maggiorato e che ai nomadi analfabeti sono prescritti farmaci scaduti o sbagliati. Inoltre sono negate le cure mediche ai tibetani che riportano ferite in seguito ad attività che le autorità considerano “politiche”. L’ ISTRUZIONE La stragrande maggioranza dei bambini tibetani può frequentare la scuola solo per pochi anni. Poi la devono abbandonare a causa delle spese esorbitanti, della discriminazione in favore dei cinesi o anche solo perché gli allievi non sono in grado di seguire le lezioni in lingua cinese. Numerosi rapporti confermano che agli studenti tibetani è negato l’accesso alle scuole migliori e all’educazione superiore perché i posti disponibili sono riservati ai cinesi o a figli di funzionari tibetani che lavorano per il governo. Inoltre gli studenti cinesi ricevono, in classe, un insegnamento preferenziale. I cinesi stessi ammettono che il 30% dei bambini tibetani in età scolare non riceve alcuna istruzione (contro una percentuale dell’1,5% dei bambini cinesi), a causa delle tasse scolastiche proibitive imposte dalle autorità di Pechino e considerate “inapplicabili” nei confronti degli studenti cinesi. Gli studenti riferiscono inoltre che agli esami di ammissione i tibetani devono conseguire voti più alti e che, per assicurarsi la prosecuzione degli studi, la corruzione è una prassi comune. Per il ricovero in ospedale, i pazienti tibetani devono inoltre versare un deposito che varia da 2.000 a 5.000 yuan. Anche se rimborsabile, in molti casi l’importo del deposito risulta proibitivo. Nel 1998, la somma richiesta, pari a 5.000 yuan, era cinque volte superiore al reddito annuo netto della popolazione rurale e pari al reddito pro capite dei residenti urbani. Secondo numerosi rapporti, al mancato pagamento segue la negazione del ricovero e la morte del paziente per mancanza di cure. I cinesi, per contro, non devono pagare nulla. Preoccupa soprattutto la violazione dei diritti riproduttivi delle donne tibetane. Tutti i tibetani, indipendentemente dalla regione d’origine, età o professione, sono soggetti a un rigido controllo delle nascite affinché siano rispettate le quote ufficiali stabilite. In Tibet, il numero dei figli è importante perché i tibetani, soprattutto nelle campagne, hanno bisogno di famiglie numerose per sopravvivere. Le donne che hanno avuto due figli sono obbligate a farsi sterilizzare, spesso con interventi sommari, in alcuni casi mortali. Le tibetane sono costrette ad abortire anche al settimo od ottavo mese di gravidanza, in molti casi senza anestesia. Spesso, di fronte alla minaccia di multe salate o di altre gravi sanzioni, non hanno altra scelta. Queste norme sono applicate malgrado il livello della mortalità infantile tra i tibetani sia tre volte superiore a quello registrato nel terri- Un’ulteriore discriminazione è rappresentata dallo stanziamento di fondi speciali per le scuole cinesi, mentre nelle aree rurali (dove vive più dell’88% delle famiglie tibetane) le comunità locali sono obbligate a costruire le scuole e a finanziare l’istruzione a proprie spese. L’impostazione culturale dei corsi è tendenziosa e durante gli esami vengono poste domande ideologiche e politiche. Le autorità della Regione Autonoma hanno affermato in modo esplicito che “l’essenza del compito educativo e l’unica ragione 16 La situazione dei contadini tibetani è anche peggiore poiché più del 70 % di tutti i sussidi abitativi è destinato alle aree urbane della Regione Autonoma. Inoltre, il governo discrimina i tibetani limitando drasticamente la possibilità di trasferimento in città dei tibetani residenti nelle zone agricole, mentre permette agli immigrati cinesi non residenti di spostarsi liberamente. Al contrario dei cinesi, i tibetani sono soggetti a controlli costanti del permesso di residenza. d’essere dell’istruzione della minoranza nazionale è quella di crescere sostenitori e divulgatori qualificati della causa socialista”. Inoltre i bambini sono indottrinati costantemente sulla grandezza dei capi della Cina comunista. LA CASA Allo scopo di garantire un alloggio all’alto numero di immigrati cinesi, i centri urbani hanno subito consistenti trasformazioni architettoniche e oggi molti tibetani vivono nella minaccia di sfratti e demolizioni o di restare senza casa. RAPPRESENTATIVITÀ PUBBLICA La discriminazione nell’assegnazione degli alloggi avviene in quanto agli immigrati cinesi arrivati a Lhasa è garantita un’abitazione e nelle agenzie preposte all’assegnazione delle case la corruzione è ampiamente diffusa. Ogni informazione circa nuove abitazioni è tenuta riservata all’interno della cerchia cinese e, di conseguenza, i tibetani non sono al corrente sulle possibili disponibilità. Anche gli affitti spesso sono troppo cari per essere accessibili. Anche se, nella Regione Autonoma, il 48% dei funzionari che dirigono i dipartimenti regionali o di livello superiore è costituito da tibetani, questo dato non è indicativo di una classe di governo rappresentativa. Si controlla con molta attenzione che tutti i tibetani impiegati siano “politicamente puliti”, puliti da qualsiasi idea opposta alla politica del Partito. La Cina concede ai tibetani il diritto di votare ed eleggere i capi politici della Regione Autonoma, ma il popolo tibetano non può proporre i propri candidati che sono invece tutti scelti in anticipo dalle autorità cinesi e sono membri del Partito o filo cinesi. Molti tibetani riferiscono di essere stati sfrattati in modo arbitrario perché l’edificio era stato definito “non sicuro” o non corrispondente ai parametri cinesi di “bellezza”. Numerosi proprietari non sono risarciti e sono trasferiti in condomini, in appartamenti più piccoli e con affitti più cari, o addirittura rispediti nei villaggi d’origine. Una ricerca approfondita ha rivelato che i nuovi edifici sono di qualità inferiore, quanto a dimensioni, fornitura d’acqua, scarichi, elettricità e fognature, rispetto alle case tradizionali tibetane. Ai funzionari è proibito sostenere il Dalai Lama o qualsiasi attività a favore dell’indipendenza. Devono essere d’accordo con la versione cinese della storia tibetana e non devono avere nessun parente monaco o monaca, nemmeno in una sola contea. Nonostante questi controlli, i funzionari sono comunque soggetti a perquisizioni domiciliari arbitrarie e sul lavoro subiscono la presenza di “osservatori” cinesi che ne sorvegliano le decisioni. Nella Regione Autonoma, la lingua parlata da chi ricopre incarichi ufficiali è solo quella cinese. Di conseguenza, alla maggioranza dei tibetani è impedito accedere e partecipare alla vita politica. La discriminatoria distribuzione dei contributi per le abitazioni fa sì che i cinesi fruiscano di servizi migliori, come acqua, elettricità e servizi sanitari appropriati, negati ai tibetani. Assieme al sistema di assegnazione degli alloggi, questa politica si traduce in una segregazione residenziale che vede gli spartani quartieri tibetani soffocati da quelli più nuovi e più grandi destinati ai cinesi. TRASFERIMENTO DELLA POPOLAZIONE Il massiccio trasferimento di popolazione in Tibet, incoraggiato dal governo, non solo viola i diritti 17 dei tibetani, ma minaccia direttamente la loro sopravvivenza e la loro peculiare cultura. Documenti del Partito Comunista rivelano che, oltre a fornire nuove aree di insediamento alla crescente popolazione cinese, la politica del trasferimento è stata adottata per indebolire la resistenza tibetana e controllare i dissidenti. tro 7,5 milioni di non-tibetani. La disparità continua ad aggravarsi poiché i rifugiati fuggono dal Tibet e i cinesi continuano ad affluire nel paese. I cinesi in Tibet dominano la vita commerciale, politica e sociale e sopravanzano numericamente i tibetani nelle prefetture e contee non comprese nella Regione Autonoma. La popolazione a Lhasa è passata dai 30.000 abitanti del 1959 ai circa 200.000 di oggi. Di essi, un numero compreso tra il 60 o 70% sono cinesi. Oggi i tibetani sono una minoranza nel loro stesso paese. Secondo le stime del governo tibetano in esilio, i tibetani in Tibet sono circa 6 milioni, con- 18 LA TORTURA IN TIBET arazioni rilasciate dai prigionieri testimoniano che in Tibet la tortura è molto diffusa. Nel rapporto pubblicato nel dicembre del 1997, anche la Commissione Internazionale dei Giuristi dichiara che la tortura è stata, e continua ad essere, normalmente applicata su larga scala in tutta la Cina. Il 4 ottobre 1988 la Repubblica Popolare Cinese ha ratificato la Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite Contro Tortura e Altri Trattamenti o Punizioni Crudeli e Degradanti, e ha rassicurato con queste parole la comunità internazionale: “la Cina renderà effettivi, in buona fede, gli impegni presi nella Convenzione”. Da allora, è stato accertato che oltre 70 prigionieri politici tibetani sono stati torturati a morte e più di cento massacrati per aver partecipato a dimostrazioni a favore dell’ indipendenza. Un giornalista cinese, esponente dell’Associazione dei Giornalisti Cinesi, ha dichiarato che, soltanto nel marzo 1989, più di 450 tibetani, inclusi monaci, monache e civili, furono uccisi per aver preso parte alle dimostrazioni. LA TORTURA NEI CENTRI DI DETENZIONE Ex prigionieri politici hanno descritto innumerevoli metodi di tortura degradanti e crudeli. Eccone alcuni: essere appesi al soffitto con le mani legate dietro la schiena; essere percossi con bastoni elettrici; subire scosse elettriche su tutto il corpo; essere colpiti con tavole di legno e bastoni; essere assaliti dai cani; essere costretti a rimanere nudi davanti agli altri detenuti, talvolta durante i pestaggi; essere appesi e lambiti da fuochi accesi sotto i piedi che vengono spenti quando ormai gli occhi sono bruciati dal fumo; essere forzati a stare in piedi sul pavimento ghiacciato fin quando la pelle dei piedi si stacca dagli arti; sottostare a lunghi periodi di isolamento e privazione di cibo, acqua e riposo. Il Comitato Internazionale delle Nazioni Unite contro la Tortura ha ripetutamente chiesto alla Cina di varare nuove leggi e bandire ogni forma di tortura. Nel rapporto stilato nel maggio 1996, il Comitato ha così dichiarato: “E’ stato un errore inserire la definizione di tortura all’interno del sistema legale cinese nei termini previsti dai provvedimenti della Convenzione”. Da quando la Cina occupò il Tibet nel 1959, la tortura è stata usata come principale metodo di repressione contro il popolo tibetano. I prigionieri che maggiormente rischiano la tortura sono i prigionieri politici, molti dei quali sono monaci e monache che sono spesso imprigionati solo per aver esercitato la loro libertà di espressione a sostegno del Dalai Lama. Col passare del tempo i funzionari carcerari cambiano le loro tecniche e adottano nuovi metodi di tortura che non lasciano tracce visibili. Molti exprigionieri hanno sentito pronunciare dai secondini frasi di questo tipo: “ Non colpirlo all’esterno del corpo, sfiniscilo con ferite interne”. Oltre alle torture fisiche, i prigionieri sono a volte costretti a subire traumi psicologici. Gli addetti carcerari spesso minacciano di colpire le famiglie dei prigionieri, li costringono a disconoscere il Dalai Lama e li obbligano a denunciare altri tibetani di partecipazione ad attività politiche. La Cina dichiara di aderire alla legge internazionale che bandisce completamente il ricorso alla tortura. Nel 1992, Pechino riferì al Comitato ONU contro la Tortura di aver adottato leggi efficaci e altre misure atte a “proibire rigorosamente tutti gli atti di tortura e garantire che i diritti dei cittadini non fossero violati”. Tuttavia, le dichi- Nel 1989, Lhundrup Ganden, un monaco di 19 trent’anni anni del monastero di Ganden, fu condannato a sei anni di carcere. Nel 1992, temporaneamente paralizzato per le terribili torture subite, fu rilasciato. Il suo racconto fornisce l’idea della brutalità che sperimentò in prigione: “la tortura peggiore consisteva nel farmi spogliare e percuotermi con bastoni elettrici su tutto il corpo. Alla fine non ero più in grado di dormire supino. La pelle si gonfiava, diventava verde e blu, e c’erano anche dei tagli. Venivano sempre usati bastoni elettrici e filo metallico. Legavano il filo intorno ai miei polsi e la scossa era estremamente dolorosa.” Nel centro di detenzione di Gutsa, durante l’interrogatorio, gli ufficiali del PSB lo accusarono di nascondere alcuni documenti e per questo fu torturato. Nel febbraio 1996 fu rilasciato per motivi di salute ma durante la detenzione gli furono sempre negate le cure mediche. Per un certo periodo fu ammesso all’ospedale della Regione Autonoma Tibetana. Le spese per le cure incisero fortemente sulle magre risorse economiche della sua famiglia, anche perché la salute non migliorava. Morì nel marzo del 1999, quasi tre anni dopo il suo rilascio. Uno dei metodi di tortura più diffusamente descritti da ex detenuti consiste nell’essere legati al soffitto col un fuoco acceso sotto. Spesso nel fuoco viene gettato del pepe che produce un fumo denso e aumenta le bruciature. Jampel Tsering, un monaco del monastero di Ganden, detenuto cinque anni nella prigione di Drapchi per aver guidato una dimostrazione a Lhasa nel 1989, così ricorda: “Quando gettavano la polvere di pepe nel fuoco, la sensazione di bruciore su tutto il corpo era terribile e, ogni volta, non potevo aprire gli occhi per diverse ore”. Oltre ai trattamenti brutali, le donne in prigione devono sottostare ad abusi sessuali. Pestaggi crudeli, digiuni, violenza sessuale, aggressioni da parte di cani feroci e atti sessuali violenti sono tra le più crudeli atrocità di cui è data testimonianza. Tra le violenze di carattere sessuale vanno annoverate le lacerazione dei capezzoli, i bastoni elettrici forzati nella vagina fino a provocare la perdita della conoscenza e il filo metallico avvolto attorno al petto e al resto del corpo accompagnato da scariche elettriche. DONNE TORTURATE Durante la prigionia, la monaca Tenzin Choeden, di diciotto anni, fu violentata sessualmente con un bastone elettrico. Fu arrestata insieme ad altre 12 monache per aver preso parte a una dimostrazione a Lhasa il 14 febbraio 1988. Mentre era detenuta nel centro di Gutsa, quattro carceriere le ordinarono di alzarsi e di mettersi contro il muro. Tenzin ha riferito di aver discusso con le donne e di averne pagato le conseguenze: “Hanno inserito un bastone nella mia vagina per quattro volte con estrema violenza. Poi mi hanno messo il bastone in bocca. Ho provato a tenere la bocca chiusa ma spingevano forte. Ho perso due denti e le mie labbra sanguinavano.” Dopo essere stata rilasciata, nel 1991, Tenzin scappò in India. A causa dei pestaggi continui e delle torture subite, ha perso un terzo della sua capacità fisica e ha grossi handicap su tutta la parte destra del corpo. Durante la detenzione, alle donne gravide è riservato lo stesso trattamento. CURE MEDICHE NEGATE ALLE VITTIME DI TORTURE Il governo cinese dichiara che ai prigionieri sono concessi i trattamenti medici necessari. Al contrario, molte delle morti avvenute per torture e maltrattamenti si sono verificate per mancanza di assistenza medica durante la prigionia. Oltretutto, dopo il rilascio, i detenuti devono accollarsi il costo delle spese mediche. In molti casi, ai detenuti è stato chiesto di risarcire le autorità delle spese sostenute per loro salute durante la prigione e delle spese mediche affrontate in conseguenza dei maltrattamenti subiti. Phuntsok, un monaco di ventidue anni del monastero di Nalanda, fu arrestato nel febbraio 1995, dopo i duri interventi dei funzionari cinesi a causa della resistenza alla campagna di ri-educazione. 20 di tortura fisica e psicologica utilizzate dai funzionari cinesi. Questo metodo è utilizzato per indebolire fisicamente i prigionieri. Ad altitudini così elevate, una consistente perdita di sangue indebolirebbe anche una persona in ottima salute. Uniti a diete povere e alle torture fisiche, i prelievi di sangue provocano spesso la morte dei detenuti. Poiché i prigionieri non hanno mai saputo il motivo di queste donazioni e non hanno mai ricevuto i risultati di alcun test, è possibile che siano fatte non solo come punizione ma anche per effettuare degli esperimenti. LA MORTE IN SEGUITO ALLA TORTURA In seguito al duro trattamento subito, alcuni prigionieri sono deceduti. Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia (TCHRD) ha accertato che, dal 1987 ad oggi, settanta prigionieri sono morti a causa delle torture subite. Solitamente, se a causa delle torture un prigioniero è prossimo a morire, è mandato in ospedale o comunque rilasciato. Una volta in ospedale, si chiede alla famiglia di firmare una “accordo di responsabilità” che impegna i parenti al pagamento delle sue spese mediche. Spesso i detenuti muoiono al di fuori delle mura della prigione rendendo così il governo cinese apparentemente meno responsabile dei loro decessi. TORTURE SUI MINORENNI Malgrado la Cina, nell’aprile 1992, abbia firmato la Convenzione per i Diritti dei Bambini, detenzioni, arresti e torture di giovani al di sotto dei diciotto anni continuano ad essere pratiche usuali in Tibet. I giovani vengono detenuti nelle stesse carceri degli adulti, viene loro negato un avvocato, non possono avere contatti con le famiglie e sono soggetti alle stesse forme di lavoro forzato e di torture degli altri detenuti. Sonam Wangdu, morì nel marzo 1999 nella sua residenza a Lhasa. Wangdu fu arrestato nell’aprile 1988 perché ritenuto coinvolto nell’uccisione di un poliziotto cinese durante la repressione di una dimostrazione, il cinque marzo di quell’anno. Durante la sua detenzione a Gutsa, fu duramente torturato e riportò danni permanenti a un rene e la rottura della colonna vertebrale. Soffrì di problemi urinari e divenne paraplegico. Secondo Bhangro, un ex prigioniero politico, Wangdu fu picchiato con bastoni elettrici e tenuto ammanettato, gambe e piedi, per un periodo di sei mesi. Fu tenuto appeso dai tre ai cinque giorni e messo in isolamento per una settimana. La sua testa venne tenuta immersa con la forza in un secchio d’acqua e gli fu tolto il sangue senza consenso. Gli ultimi casi di morte a causa delle torture si sono verificati nella stessa prigione di Drapchi, nel maggio del 1998. In seguito a due dimostrazioni, furono uccisi 11 prigionieri. Tre furono fucilati, tre morirono a causa di crudeli pestaggi, tre morirono per soffocamento, uno fu impiccato e la causa della morte degli altri due rimane sconosciuta. Sherab Ngawang, che morì all’età di 15anni, è considerata la più giovane prigioniera politica morta a causa delle torture subite. Per aver cantato con altre monache in prigione, sembra sia stata picchiata con bastoni elettrici e tubi di plastica riempiti di sabbia. Un testimone ha dichiarato: “La colpirono fino a quando fu completamente coperta di contusioni tanto che anche noi stentavamo a riconoscerla”. Altre persone hanno riferito che fu confinata in isolamento per tre giorni e, quando uscì, aveva gravi problemi alla schiena e ai reni. Perse anche la memoria e aveva difficoltà a mangiare. Morì due mesi dopo essere stata rilasciata. LAVORI FORZATI ED ESERCIZIO FISICO DONAZIONI FORZATE DI SANGUE E DI SIERO In tutte le prigioni cinesi in Tibet i detenuti sono costretti a un duro lavoro. Durante il giorno i lavori forzati spesso si accompagnano a esercizi Il prelievo forzato di sangue è un’altra delle forme 21 1996, Ngawang Jinpa fu detenuto nella prigione di Gutsa per otto mesi dove fu crudelmente picchiato. Secondo le parole di Legshe Drugdrak, un monaco di Nalanda della Contea di Phenpo che divise la cella con Jinpa, “quando Jinpa arrivò era molto debole. Gli ufficiali continuarono a torturarlo e lo forzarono a lavorare”. Nel marzo del 1999, la salute di Jinpa peggiorò a tal punto che gli ufficiali lo mandarono all’ospedale militare della Regione Autonoma Tibetana, vicino al monastero di Sera, dove gli furono diagnosticati danni al cervello. Le sue condizioni erano così critiche che le autorità cinesi lo rilasciarono per motivi di salute il 14 marzo 1999. Quando morì aveva 31anni. L’incapacità di fare un qualsiasi esercizio nel modo richiesto è immediatamente punito, di solito con pestaggi. I detenuti risentono molto di queste esercitazioni, non solo per lo sforzo fisico, ma anche per il controllo mentale loro richiesto. fisici che, uniti a una dieta povera, indeboliscono notevolmente i prigionieri. Spesso in Tibet i detenuti vengono utilizzati nell’agricoltura e nel taglio del legname, settori in cui il lavoro è molto richiesto e gli incidenti più frequenti. Ai detenuti è in molti casi chiesto di raggiungere determinati “target” di produzione per consentire alle autorità carcerarie di trarre un guadagno dal lavoro dei forzati. Queste quote sono obbligatorie, anche se i detenuti sono malati. Ngawang Lhundrup, di circa 23 anni, dopo estenuanti interrogatori e torture durante la sua detenzione nella prigione di Gutsa, fu mandato ai lavori forzati. “Quando ci permettevano di fermarci, la sera, le nostre mani erano piene di vesciche ed eravamo letteralmente esausti.” Ngawang Jinpa, anche conosciuto come Lobsang Dawa, morì a Phenpo, suo villaggio natale, il 20 maggio 1999. Dopo il suo arresto, il 6 maggio 22 LA VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELLE DONNE IN TIBET I diritti fondamentali delle donne tibetane continuano ad essere violati dal punto di vista politico, culturale, economico, sociale nonché da quello dell’integrità fisica. Le donne tibetane, spesso monache, continuano ad essere arrestate arbitrariamente per aver esercitato il loro diritto alla libertà di opinione ed espressione e, in carcere, sono soggette a maltrattamenti e torture. Spesso sono anche costrette a subire contro la loro volontà la pratica della sterilizzazione forzata o pratiche di contraccezione o aborto forzati. nite condizioni umane di detenzione secondo gli standard internazionali. Alle donne non vengono forniti assorbenti igienici per le mestruazioni e la situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che non è consentito lavarsi per lunghi periodi. Sono inoltre sottoposte a lavori forzati, esercitazioni obbligatorie ed altre crudeli forme di tortura sia fisica che psichica. Le donne tibetane, per nulla scoraggiate dalle brutali torture, hanno continuato ad inscenare proteste contro le autorità cinesi anche durante la detenzione. Il 1 maggio (Festa del Lavoro) ed il 4 maggio (Giornata della Gioventù) 1998, i prigionieri della prigione di Drapchi hanno inscenato una protesta al momento della cerimonia dell’alzabandiera. I dimostranti furono immediatamente circondati dalle forze della Polizia Popolare Armata e furono tutti picchiati senza fare distinzioni, comprese le monache che avevano partecipato alla protesta. La cerimonia venne interrotta e tutte le monache del 3° blocco, circa 100 in totale, subirono gravi ferite e molte sanguinavano. Le autorità rinchiusero in cella di isolamento 20 monache prese a caso, a tre di loro fu prolungata la condanna mentre altre rimasero in isolamento per sette mesi. La Cina, nel 1980, ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite per l’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne. La legislazione nazionale cinese nonché gli obblighi assunti a livello internazionale non sono comunque serviti a difendere i diritti delle donne tibetane in Tibet. In realtà il governo cinese prosegue nella sua premeditata e sistematica politica di discriminazione e violenza contro le donne tibetane. LE DONNE DETENUTE Le donne tibetane hanno sempre avuto un ruolo attivo nel sostegno e la difesa dei diritti umani e della libertà. Sin dall’occupazione del Tibet nel 1959, le donne e in particolare le monache sono state a capo di pacifiche dimostrazioni che chiedevano la fine della repressione cinese. Ngawang Sangdrol, rilasciata nell’ottobre 2002, fu arrestata per la prima volta nel 1987, all’età di 10 anni e trattenuta per 15 giorni per aver partecipato ad una dimostrazione. In seguito fu nuovamente arrestata il 28 agosto 1990 all’età di 13 anni e trattenuta agli arresti per 9 mesi. Prima del suo rilascio, stava scontando una condanna che risaliva al 17 giungo 1992, giorno in cui fu arrestata per aver tentato di inscenare a Lhasa una protesta a favore dell’indipendenza. La sua condanna era stata successivamente prolungata tre volte: nel giugno 1993, nel giugno 1996 e nell’ottobre 1998 a seguito della protesta nel carcere di Drapchi del maggio 1998. Ngawang Sangdrol era stata indivi- Il 26% dei prigionieri politici detenuti nelle prigioni cinesi in tutto il Tibet sono donne. Al dicembre 1999 si aveva notizia di 615 prigionieri politici di cui 162 donne. L’80% delle donne detenute sono monache. Le condizioni delle donne in prigione sono di gran lunga al di sotto di quelle che possono essere defi23 che “Le autorità cinesi rispettano ed ottemperano alle disposizioni della Convenzione”. Ha anche affermato che le autorità cinesi stanno facendo del loro meglio nella prevenzione della tortura e degli altri trattamenti disumani e degradanti per i prigionieri. duata e sottoposta a trattamenti particolarmente duri e spesso rinchiusa in isolamento. Le sue condizioni di salute sono estremamente fragili. IL BRUTALE TRATTAMENTO DELLE DONNE Nonostante queste dichiarazione, i prigionieri politici Tibetani continuano ad essere sottoposti in carcere a torture e trattamenti disumani. I resoconti che riportiamo dimostrano come i prigionieri politici Tibetani ed in particolare le donne continuino a subire torture per mano dei funzionari delle prigioni cinesi, torture che spesso hanno portato alla morte dei detenuti. Il Tibet Information Network (TIN), un’ agenzia di informazione indipendente ha verificato il trattamento dei Tibetani nelle prigioni cinesi ed ha rilevato che “Il tasso di mortalità dei tibetani durante la reclusione o, come conseguenza della detenzione, poco dopo il loro rilascio, è in aumento. I prigionieri politici di sesso femminile e in particolare le detenute nella prigione di Drapchi a Lhasa, sono quelle esposte al maggior rischio. Il tasso di mortalità è pari al 5% circa o di 1 a 20.” Dekyi Yangzom (Drupkyi Pema) era una monaca di 21 anni del monastero di Nyemo Dowa Choten. Nel Febbraio 1995, fu arrestata e condannata a quattro anni di prigione per aver partecipato a una manifestazione a Lhasa a favore dell’indipendenza. Yangzom subì gravi percosse una settimana dopo aver partecipato alla protesta del maggio 1998 nel carcere di Drapchi. Le autorità l’anno picchiata e colpita con un pungolo elettrico sul petto, le guance e nei genitali, riempiendola di lividi ovunque. Poteva a stento parlare. Nonostante questo, il giorno dopo, insieme agli altri prigionieri, dovette restare in piedi al sole dalle sette del mattino fino alle otto di sera. Yangzom, così come altri prigionieri, doveva tenere un foglio di giornale fra le ginocchia e sotto le ascelle e tenere in equilibrio una ciotola piena d’acqua sulla testa. Molti di loro svennero ma a nessuno era consentito prestare aiuto agli altri. Il 13 maggio 1998 risultò assente così come altre monache. Successivamente fu dichiarata morta e le autorità cinesi dichiararono che la causa della morte era il suicidio, anche se direttamente collegabile alle torture. Fatti simili sono accaduti anche a Tashi Lhamo, Tsultrim Sangmo, Lobsang Wangmo e Kundol Yonten, morti a causa delle conseguenze delle brutali torture. Choeying Kunsang, arrivata dal Tibet nell’aprile 2000, descrisse dettagliatamente la protesta nel carcere di Drapchi del maggio 1998. La sua testimonianza è corredata da descrizioni molto vivide di percosse, violenze sessuali, periodi di isolamento anche di sette mesi, sessioni di “allenamento” ed episodi di torture che hanno condotto alla morte il prigioniero. La sua testimonianza include anche informazioni riguardo ai casi di abusi sessuali sulle donne nella prigione di Drapchi; informazioni analoghe sono contenute in testimonianze e nella documentazione raccolta in un lungo arco di tempo. Secondo queste testimonianze, alcuni fra i metodi impiegati comprendono il denudare le donne, colpirle con scosse elettriche ad alto voltaggio applicando cavi elettrici ai capezzoli e agli organi sessuali e lo stupro. Gli ufficiali cinesi utilizzano anche un pungolo elettrico per bovini che applicano a mani e piedi o che inseriscono nella bocca, nei genitali o nell’ano della prigioniera. I CASI DI MORTE IN SEGU ITO A TORTURE Alla recente riunione del Comitato sulla Tortura del 4 maggio 2000, il rappresentante cinese Quio Zong Zhun, nella sua dichiarazione ha affermato LA PERSECUZIONE DELLE MONACHE Le monache tibetane hanno partecipato alla mag24 gior parte delle dimostrazioni a favore dell’indipendenza e non ci sono mai state testimonianze che abbiano fatto ricorso alla violenza. Nonostante ciò, le monache sono sistematicamente arrestate e sottoposte a brutali torture per aver partecipato a manifestazioni pacifiche. Spesso le autorità cinesi utilizzano le torture di tipo sessuale come strumento di punizione o per estorcere informazioni o anche semplicemente per umiliare e insultare le monache. Questo genere di aggressioni non sono solo una violenza nei loro confronti in quanto donne, ma anche specifiche violenze in quanto monache che hanno fatto voto di castità. Le monache, spesso, sono poi costrette a dover lasciare l’ordine per avere infranto i voti, anche se contro la loro volontà. Nonostante questi crudeli e disumani trattamenti, le monache sono note per la loro coraggiosa ed audace resistenza alle torture nelle prigioni cinesi. vessazioni nelle forme più varie. Nella prima metà del 2000, ci risulta che gli arresti delle monache siano continuati. Le espulsioni dalle istituzioni religiose sono ancora molto comuni e la continua presenza dei “gruppi di lavoro” nei monasteri indica che molte monache sono ancora sottoposte a molestie. Il numero delle monache si è ridotto anche in seguito alla chiusura di molti monasteri. Nell’aprile 1996 la Cina ha lanciato la campagna “Colpisci Duro”, un programma di “rieducazione patriottica” avviata in tutte le istituzioni religiose del Tibet come tentativo di soffocare “le attività dei separatisti”. Monache e monaci furono messi sotto costante sorveglianza e furono inviati nei monasteri “gruppi di lavoro” per investigare sul dissenso e propagandare “l’educazione politica”. Le monache furono costrette a firmare un atto che condannava pubblicamente il Dalai Lama e il loro credo religioso e che confermava la versione cinese della storia del Tibet. Coloro i quali si rifiutarono di obbedire furono arrestati oppure espulsi dai monasteri. Molte monache lasciarono volontariamente i loro conventi piuttosto che partecipare a queste sessioni di “rieducazione patriottica”. Secondo il rapporto del Dipartimento di Stato, questi programmi obbligatori di “rieducazione patriottica” consistono nel contrastare i separatisti, obbligandoli a firmare atti di denuncia nei confronti del Dalai Lama e del Panchen Lama riconosciuto dal Dalai Lama e nel mettere al bando le immagini di entrambi. Inoltre includono il riconoscimento dell’unità con la madrepatria ed il rifiuto dell’indipendenza del Tibet. Queste campagne di “rieducazione” spesso durano alcuni mesi e le monache che non osservano il programma di educazione sono espulse. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel Rapporto Annuale sui Diritti Umani 1999, pubblicato nel febbraio 2000, rileva che “I Buddisti Tibetani …. sono sottoposti ad una crescente pressione a causa del giro di vite del governo riguardo al dissenso ed alle attività separatiste.” Il Rapporto Annuale afferma che il governo cinese “ha ampliato e intensificato le sue continue “campagne per l’educazione patriottica” che mirano a controllare i monasteri e ad espellere i sostenitori del Dalai Lama.” IL CONTROLLO OBBLIGATORIO DELLE NASCITE IL DIVIETO DELLA PRATICA RELIGIOSA Le politiche cinesi di trasferimento della popolazione e controllo delle nascite sono state descritte come tentativi di genocidio volti a sterminare il popolo Tibetano. Queste politiche, volute dallo stato, si sono tradotte in una sistematica e premeditata politica di discriminazione e violenza nei confronti delle donne tibetane. A causa della repressione della libertà religiosa in Tibet, le monache continuano a subire molestie e “Gli agricoltori ed i pastori tibetani nella Regione Autonoma del Tibet (TAR) possono avere quanti Una volta espulse o detenute per ragioni politiche, alle monache è vietato ritornare nei loro monasteri o entrare a far parte di altre istituzioni religiose. 25 Se una donna rimane incinta dopo aver raggiunto la quota assegnata, è costretta ad abortire. Se si rifiuta di abortire, viene sottoposta a sterilizzazione subito dopo la nascita del bambino. figli desiderano.” (Politiche Nazionali per le Minoranze ed applicazioni in Cina, settembre 1999). Nonostante i diritti in materia di riproduzione siano garantiti alle donne tibetane sia dalle leggi nazionali che internazionali, il governo cinese sta’ applicando una politica discriminatoria ed illegale che mira a ridurre la popolazione tibetana. Gli aborti o le procedure contraccettive cui sono sottoposte le donne tibetane sono spesso pericolose. Generalmente avvengono in strutture arrangiate alla meglio, senza alcuna assistenza medica né medicazioni successive all’intervento. Tale negligenza ha provocato molti casi di decessi postoperatori. Le operazioni generalmente comportano la sterilizzazione definitiva o la somministrazione di un contraccettivo a lungo termine. La più comune forma di contraccezione è l’applicazione della spirale (IUD - Intra Uterin Device) o una iniezione che dura circa tre anni oppure ancora il “Norplant” che viene innestato nel braccio e rilascia ormoni che impediscono la gravidanza. La paura della sterilizzazione e la mancanza di informazioni riguardo alla natura di questi innesti scoraggiano molte donne che non accettano nemmeno l’assistenza medica generale. “E’ necessario procedere con forza alla sterilizzazione di quelle coppie che non si siano sottoposte alla sterilizzazione o all’uso di contraccettivi.” (Fonte: Politics and Law Tribune - pp. 89-93 - Pechino, aprile 1993). Il Dott. Blake Kerr, nel suo discorso del 1993 “Donne e gioventù in Tibet: i problemi aperti” affermò che negli ospedali di Lhasa gli interventi di aborto venivano effettuati fino al nono mese di gravidanza per mezzo di iniezioni di “levanor”, un farmaco sconosciuto nel mondo occidentale. Ha confermato che l’infanticidio veniva praticato negli ospedali come strumento per tenere sotto controllo il tasso di crescita della popolazione. Il Dott. Kerr ha scoperto che i regolamenti per il controllo delle nascite in Tibet sono dettati da una “politica di genocidio”. La pianificazione familiare in Tibet rimane una priorità sull’agenda del governo cinese. Nella prima metà del 2000, numerose testimonianze riportano che viene ancora applicata la politica di due figli per ogni coppia di tibetani. Il governo cinese ha continuamente tentato di nascondere queste violazioni dietro cifre importanti e dietro i vari programmi sanitari messi a disposizione delle donne. Khando Kyi, arrivata in India verso la fine del maggio 2000, rivestiva una carica ufficiale nel Dipartimento per la Pianificazione Familiare della città di Akham. I suoi compiti includevano le politiche relative alla procreazione consapevole ed il controllo delle nascite. Khando ha riferito molti dettagli riguardo alle multe comminate alle famiglie che avevano superato il numero massimo permesso di figli. Ad esempio, se il limite imposto ad agricoltori e nomadi era di tre figli, coloro i quali superavano il limite dovevano pagare multe fino a 3.000 yuan. Venivano poi imposte delle multe anche a seconda del tempo trascorso fra la nascita di un figlio e l’altro: se il secondo bambino nasceva entro tre anni dalla nascita del primo, la famiglia veniva multata di 80 yuan. Sono state imposte delle quote per ridurre il numero di figli e le famiglie che superano la quota assegnata devono affrontare la discriminazione e grosse multe. Un bambino o una bambina nati “fuori quota” sono generalmente trattati come una “non-persona”, non saranno registrati all’anagrafe e di conseguenza nel corso della loro vita si vedranno negati tutti i più elementari diritti quali cibo, tessere annonarie, istruzione o il diritto ad ottenere della terra. A cura del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia Novembre 2000 26 LA VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’INFANZIA IN TIBET I diritti dei bambini sono ampiamente tutelati da diverse leggi e convenzioni internazionali riconosciute anche dalla Repubblica Popolare Cinese. Il 2 marzo 1992 la Cina ha ratificato la “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia” dichiarandosi, nella relazione iniziale, “un attento osservatore e difensore dei diritti dei bambini”. Purtroppo, il governo cinese continua invece a violare i diritti dei bambini tibetani sia in materia di educazione e assistenza sanitaria sia per quanto concerne la libertà di espressione. MINORENNI PRIGIONIERI POLITICI In Tibet i cinesi applicano brutali misure repressive contro ogni espressione di libertà, trattando con uguale durezza adulti e bambini. Ngawand Sandrol, che è stata liberata nell’ottobre 2002, fu arrestata la prima volta all’età di 10 anni e incarcerata per 15 giorni. A 13 anni fu imprigionata per nove mesi senza accusa. Nel 1992, a 15 anni, fu arrestata di nuovo per aver preso parte a una dimostrazione e fu condannata a tre anni di carcere. La sua detenzione nel carcere di Drapchi fu prolungata per tre volte. Ogni anno numerose famiglie tibetane sono costrette a mandare i propri figli in esilio per assicurare loro libertà ed educazione scolastica. Spesso questi genitori affidano i bambini ad estranei e spendono i propri risparmi per garantire ai figli un passaggio verso la libertà. Alcuni sono solo lattanti e devono essere trasportati attraverso l’Himalaya sulle spalle di un adulto. Esistono prove di detenzione di minorenni in varie prigioni cinesi sul territorio tibetano. Sono detenuti in prigioni per adulti, privi di rappresentanti legali e della possibilità di comunicare con le famiglie. Al pari dei detenuti adulti, sono obbligati a svolgere lavori pesanti e sono sottoposti alle medesime forme di abuso e tortura. Il viaggio dura almeno quattro settimane ed espone gran parte dei bambini al gelo e all’ipotermia, al punto che alcuni muoiono durante il viaggio. Se sopravvivono, ci sono poche possibilità che possano mai rivedere i propri famigliari. Nel 1999, su 2.474 rifugiati in fuga dal Tibet occupato dai cinesi, ben 1.115 erano bambini e ragazzi sotto i 18 anni, pari al 45% di tutti i profughi giunti in India in quell’anno. In maggioranza non erano accompagnati dai genitori, ma erano stati affidati a guide. Phuntsok Legmon, 16 anni, il 9 luglio 2000 è stato condannato dalla Corte Popolare Intermedia a tre anni di prigione per una protesta svoltasi il 10 marzo 1999. Al momento è detenuto nella prigione di Drapchi insieme a prigionieri adulti. Legmon e un altro monaco, Namdol, osarono gridare slogan filo-tibetani a Lhasa, in occasione dell’anniversario dell’Insurrezione Nazionale Tibetana. Secondo testimonianze, al momento dell’arresto i monaci furono percossi con pugni e bastonate. Il solo fatto che tante famiglie abbiano preso questa grave decisione, rischiando la vita dei figli e la propria nel caso in cui la fuga sia scoperta dalle autorità cinesi, costituisce una prova sufficiente del fallimento del governo cinese in materia di tutela dei diritti dei bambini in Tibet. Norzin Wangmo, un’ex monaca del monastero di Shugseb, aveva 16 anni quando fu condannata a cinque anni di carcere, il 13 settembre 1994. Insieme ad altre sette monache, Wangmo aveva dimostrato di fronte al tempio Jokhang a Lhasa. Fu imprigionata per 11 mesi nel centro 27 veri motivi della propria incarcerazione. di detenzione di Gutsa e in quel periodo le fu negato il diritto di ricevere visite di genitori e parenti. “Le guardie carcerarie si tenevano tutti i vestiti e il cibo, rilasciando ricevute fasulle ai membri delle nostre famiglie” ha dichiarato in un’intervista concessa il 27 novembre 1999, al suo arrivo a Dharamsala, in India. A soli 15 anni d’età, Sherab Ngawang è la vittima più giovane fra i prigionieri politici che hanno perso la vita in Tibet in seguito alle torture. Sherab era una monaca del monastero di Michungri e venne arrestata il 3 febbraio 1992 per aver dimostrato pacificamente nel Barkhor contro l’occupazione cinese. Fu imprigionata nel carcere di Gutsa per oltre un anno prima di essere processata, condannata a tre anni di reclusione e trasferita alla prigione di Trisam. L’alternativa legale di affidare i minori alla sorveglianza dei propri genitori non viene applicata. Senza essere processati, i prigionieri minorenni ricevono spesso un semplice ordine amministrativo di detenzione e vengono inviati a campi di lavoro per scontare la pena. Secondo testimonianze, nella notte del 10 agosto 1994 Sherab e altre monache intonarono canti di libertà. Per questo vennero picchiate e torturate con bastoni elettrici e un tubo di plastica pieno di sabbia. Un testimone ha affermato: “La picchiarono fino a quando fu così coperta di ematomi da essere quasi irriconoscibile”. Dopo tre giorni di isolamento, Sherab accusò forti dolori alla schiena, problemi renali, perdita di memoria e difficoltà di alimentazione. Nonostante la legge cinese sancisca l’obbligo della separazione dei giovani criminali e indagati dai detenuti adulti, negli ultimi anni numerose testimonianze riferiscono l’assoluta non applicazione di tale norma nelle carceri tibetane. Nessun prigioniero politico minorenne sembra essere mai stato incarcerato in una sezione giovanile o in un centro di detenzione per giovani. Al rilascio, le sue condizioni di salute erano così gravi che la famiglia la fece ricoverare in vari ospedali di Lhasa. Due mesi dopo, il 7 aprile 1995, Sherab morì. Dopo l’arresto, i giovani vengono abitualmente espulsi da scuole e monasteri e, una volta liberati, hanno difficoltà a trovare un lavoro. MINORENNI TORTURATI IL PIÙ GIOVANE PRIGIONIERO DI COSCIENZA: IL PANCHEN LAMA Detenuti in prigioni per adulti, i bambini vivono in un ambiente in cui la tortura è all’ordine del giorno. Sono costretti a subire le medesime torture e punizioni applicate ai prigionieri politici adulti. Tortura non significa solo tortura fisica, come le percosse o le violenze, ma anche tortura psicologica, come gli interrogatori ripetuti con le stesse domande talvolta per giorni interi senza pause. Gedhun Choekyi Nyima aveva solo sei anni quando scomparve da casa il 17 maggio 1995. Solo tre giorni prima il Dalai Lama l’aveva riconosciuto come reincarnazione del decimo Panchen Lama. Per un anno intero le autorità cinesi negarono la sua incarcerazione. Solo nel maggio 1996 fu ufficialmente dichiarato che il bambino era trattenuto “sotto la protezione del governo su richiesta dei genitori”. I cinesi affermarono che “il bambino correva il rischio di essere rapito dai separatisti e la sua sicurezza era in pericolo”. Per un giovane, gli effetti psicologici della tortura possono essere particolarmente devastanti. Il periodo di detenzione può sembrare infinito, anche se dura solo un mese, e un bambino spesso non è in grado di elaborare razionalmente i 28 tibetani è invece vietato, a scuola, indossare i vestiti tradizionali, osservare le festività del loro paese e, talvolta, anche mangiare il cibo tipico. Spesso a scuola viene implicitamente insegnato che il popolo tibetano è inferiore a quello cinese e che le tradizioni tibetane sono arretrate. Inoltre gli studenti vengono costantemente indottrinati sulla grandezza dei leader comunisti cinesi. Nessun rappresentante governativo, organizzazione umanitaria od osservatore indipendente ha mai ottenuto il permesso di visitare il ragazzo. La Cina continua a respingere le pressioni internazionali per la sua liberazione perseverando in questa palese violazione dei diritti umani. IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE Gran parte dei bambini in esilio fuggono dal Tibet per beneficiare del proprio diritto all’istruzione (universalmente riconosciuto) e, in particolare, del diritto ad appendere, nella propria lingua, la loro storia, religione e cultura. Una ricerca condotta nel 1997 dal Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia ha evidenziato che il 90% dei 50 bambini che avevano lasciato il Tibet nei tre anni precedenti, erano fuggiti dal il paese proprio per cercare adeguata istruzione. Per qualche tempo, le autorità cinesi hanno collegato la lingua tibetana al nazionalismo. Con la repressione dell’uso della lingua e della conoscenza della cultura e della storia tibetana, il governo di Pechino spera di asservire completamente al regime la prossima generazione di tibetani. Un bambino tibetano ha riferito che alla sua domanda di ulteriori spiegazioni sulla storia del Tibet, “il maestro si è arrabbiato come un matto per la domanda e mi ha picchiato in testa e sulle mani con un bastone”. La grande maggioranza dei bambini tibetani può frequentare una scuola solo per qualche anno. In seguito sono costretti ad abbandonarla a causa delle tasse scolastiche troppo elevate, della discriminazione a favore di allievi cinesi o semplicemente perché non sono in grado di seguire le lezioni in lingua cinese. Secondo numerose testimonianze, agli studenti tibetani è vietato l’accesso a scuole migliori o istituti superiori perché i posti disponibili sono riservati ad alunni cinesi oppure provenienti da famiglie tibetane che collaborano con il governo di Pechino. Un popolo senza lingua è un popolo senza identità. Vietando la lingua tibetana i cinesi vogliono annientare deliberatamente l’identità tibetana. In ogni caso, la lingua cinese oggi in Tibet è altrettanto importante quanto lo è l’inglese in occidente ed è indispensabile per accedere alla maggior parte dei posti di lavoro, in particolare nelle aree urbane. Tuttavia il cinese dovrebbe essere insegnato come lingua straniera e non come prima lingua, per consentire ai tibetani di raggiungere un sufficiente livello di scioltezza linguistica. Inoltre tutti i tibetani dovrebbero avere il diritto di scegliere la lingua che desiderano apprendere. I monasteri maschili e femminili sono le sole istituzioni didattiche in cui i bambini possono imparare la lingua, la cultura e la religione tibetana. Ma con la campagna “Colpisci Duro” lanciata dalla Cina nell’aprile 1996, ai bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni è vietato entrare a far parte di istituzioni religiose. Più di 3.000 novizi e novizie d’età inferiore ai 18 anni sono già stati costretti a lasciare i monasteri. Nel solo 1999, il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia ha consta- Circa un terzo dei bambini tibetani in età scolare non ricevono alcuna istruzione, mentre per i bambini cinesi la percentuale è limitata all’1,5 %. Il motivo principale per cui un numero così alto di bambini tibetani non frequenta la scuola è il costo proibitivo delle tasse scolastiche imposte dalle autorità. La Convenzione dei Diritti del Bambino riconosce che lo scopo dell’educazione è di sviluppare le proprie idee o percezioni. Ai bambini 29 tato l’espulsione dai monasteri di 244 monaci e monache d’età inferiore ai 18 anni. pazione, perdita d’identità e soppressione di una cultura millenaria. I bambini sono il futuro di ogni società. In Tibet, allo stato attuale, il futuro non sembra riservare altro che istruzione carente, disoccu- A cura del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia. Novembre 2002 30 LE CONDIZIONI ECONOMICHE DEI TIBETANI IN TIBET Il governo cinese ha ripetutamente ribattuto alle critiche sul tema dei diritti umani in Tibet ponendo l’accento sullo sviluppo e la crescita economica conseguiti negli ultimi decenni. Tale argomentazione viene ripresa anche in un libro bianco sui diritti umani pubblicato il 17 febbraio 2000, in cui nuova enfasi viene data al diritto allo sviluppo : “… in termini di priorità, viene data la massima precedenza al diritto ai mezzi di sussistenza ed allo sviluppo.” . lo standard internazionale di povertà di 1 dollaro al giorno, praticamente tutte le zone rurali del Tibet vivono sotto la soglia della povertà. I PROGETTI DI SVILUPPO Nel 1994 fu lanciata da Pechino una importante campagna per “spalancare le porte del Tibet alle zone interne del paese” e incoraggiare “commercianti, investimenti, aziende e privati a spostarsi dalla Cina al Tibet Centrale per avviare ogni genere di iniziativa imprenditoriale”. Nell’ambito di questa strategia furono approvati 62 progetti di sviluppo, molti dei quali concentrati nelle zone urbane e solo 9 dedicati all’istruzione ed alla salute. Questo fascicolo analizza alcuni aspetti del cosiddetto “sviluppo del Tibet” e in che misura il diritto ai mezzi di sussistenza ed allo sviluppo siano “garantiti” al popolo Tibetano. Un crescente numero di rifugiati fuggiti dal Tibet e le loro testimonianze indicano che in Tibet si è verificata un’effettiva crescita economica, specialmente nelle aree urbane, ma che di questa crescita hanno beneficiato principalmente i coloni cinesi. I grandi e costosi progetti, quali dighe e strade, non hanno alcuna influenza positiva sulla popolazione locale. In realtà molto del denaro speso per i progetti è prosciugato dai costi amministrativi del progetto stesso. Una larga percentuale dei progetti è poi destinata al fallimento a causa della cattiva gestione o dell’inadeguata pianificazione e ciò non porta alcun beneficio ai tibetani. Ciò è confermato dalle cifre ufficiali fornite dai cinesi che mostrano come i residenti nelle aree urbane costituiscano il 23,7% della popolazione totale della Regione Autonoma del Tibet (“TAR”) mentre meno del 5% dei Tibetani vive in quelle stesse aree. Inoltre la spesa pubblica destinata agli abitanti delle aree urbane è di 29 volte superiore a quella destinata ai residenti nelle aree rurali. Inoltre, fra il 1991 ed il 1996, nelle zone urbane l’incremento del reddito annuo [pro capite] è stato del 250% rispetto ad un incremento nelle zone rurali solo del 50% nello stesso periodo. La povertà dilaga fra i tibetani residenti nelle aree rurali e, nel Tibet Centrale, circa 300.000 famiglie vivono sotto la soglia di povertà che, secondo la definizione ufficiale del governo cinese, si applica a persone con un reddito annuo pro capite di meno di 650 yuan (USD 80). Peraltro, utilizzando Inoltre, la preferenza accordata a progetti di vasta portata che riguardano infrastrutture, attività di estrazione mineraria o aziende di proprietà dello stato, incoraggiano l’afflusso di personale cinese in Tibet. I lavoratori cinesi ricevono spesso salari che sono tre o quattro volte più alti rispetto a quelli delle altre province. I tibetani vengono raramente assunti e rappresentano solamente il 5-10% della forza lavoro impiegata nei progetti e nelle industrie sotto il controllo cinese. Tamdin Tsering , 21 anni, originario della contea di Machu, il 20 gennaio 2000 riferì che su 23.000 lavoratori della miniera di oro di Zoege Nyima, solamente 45 erano Tibetani. Un’altra fonte, un uomo di 20 anni dal Kham che preferisce restare 31 anonimo, fornì particolari circa un progetto riguardante una centrale idroelettrica a Mira Dotse, il cui contratto di costruzione fu affidato a una società cinese che assunse lavoratori sia cinesi che tibetani. La retribuzione degli operai cinesi era di 20 yuan al giorno mentre la retribuzione dei tibetani era di 10 yuan al giorno. “Se hai più di 18 anni e meno di 60, nell’arco di un anno devi fare più di 20 giorni di lavoro obbligatorio dica Dawa, un agricoltore di 18 anni dalla contea di Kyirong, prefettura di Shigatse (TAR) che è arrivato a Dharamsala il 25 gennaio 2000. “Se sei malato puoi stare a casa ma devi poi completare il lavoro pattuito. E’ possibile mandare qualcun altro al tuo posto. Il supervisore del lavoro obbligatorio è cinese. Se non lavori sodo vieni ripreso. Il lavoro inizia alle 10.00 del mattino e prosegue fino alle 8.00 di sera. Non ci sono pause tranne un’ora per il pranzo.”. Molti rifugiati tibetani riferiscono che non venivano impiegati nei principali progetti di sviluppo ma che veniva loro richiesto di contribuire a quegli stessi progetti con lavoro non retribuito, tasse assurde o con la loro terra. GLI ESPROPRI IL LAVORO OBBLIGATORIO Oltre al lavoro obbligatorio, a molti tibetani viene chiesto di contribuire allo “sviluppo” del Tibet con la propria terra. Quando i progetti di sviluppo necessitano di terreni agricoli, questi vengono espropriati ad agricoltori e pastori, che non vengono risarciti, con la giustificazione che la terra appartiene al governo cinese. La giurisprudenza internazionale riconosce il diritto all’indennizzo nei casi in cui il governo subentri nella proprietà. Dunque, anche se la Repubblica Popolare Cinese può espropriare terreni per scopi pubblici, dovrebbe pagare agli agricoltori un prezzo equo e giusto. Il mancato rispetto di questa norma viola le leggi internazionali. Il lavoro forzato viola leggi internazionali applicate da lungo tempo. Tuttavia il programma di riduzione della povertà adottato da Pechino pone un particolare accento sullo “sfruttamento del potenziale esistente per favorire lo sviluppo delle aree più povere”. Ciò è in buona parte ottenuto attraverso il lavoro pubblico o “yigong daizhen” che significa “offrire lavoro invece di [aiuto]”. Il programma si concentra su numerosi progetti di miglioramento delle infrastrutture, quali la costruzione di strade e impianti o la ristrutturazione di attrezzature e la tutela delle acque. Un uomo di 22 anni di Gyantse denuncia di aver perso metà della sua terra a causa della costruzione di un fabbrica di materiale plastico. La costruzione della fabbrica era iniziata nel 1997 e il suo completamento era previsto per il 2000. Circa 20 famiglie (o metà dei contadini) hanno perso tutto il loro terreno. Nessuno è stato risarcito perché il governo ha sostenuto che la terra apparteneva al partito comunista. La maggior parte dei rifugiati arrivati di recente in India e Nepal riferiscono che a tutti i tibetani di ogni parte del Tibet viene richiesto un mese di lavoro obbligatorio ogni anno con pesanti ammende per coloro i quali non si presentano. Samdup, un nomade di 30 anni dalla contea di Saga, prefettura di Shigatse (TAR), arrivato in Nepal l’11 gennaio 2000, riferisce che tutti gli abitanti della sua zona di età compresa fra i 16 e i 58 anni erano obbligati a lavorare alla costruzione di una strada senza essere pagati. Agli uomini sono imposti 25 giorni di lavoro obbligatorio l’anno mentre alle donne 15 giorni. Ci sono multe per le assenze. LE TASSE IMPOSTE AI TIBETANI Una quota elevata della produzione e del reddito dei tibetani ritorna al governo cinese sotto forma di tasse di ogni genere. Gli immigrati cinesi sono dispensati dal pagamento della maggior parte di 32 queste tasse mentre il carico fiscale cresce per i tibetani quanto più aumenta il numero dei progetti di sviluppo. vite della gente comune. Le strade sono molto utili all’esercito cinese e ai coloni cinesi che arrivano ogni giorno in Tibet attratti dagli incentivi del governo. Inoltre, facilitano lo sfruttamento delle risorse naturali del Tibet. Le strade esistono ma non ci sono sistemi di trasporto pubblico perché la popolazione locale possa beneficiarne. Le autorità cinesi hanno fatto ispezioni, suddiviso e inutilmente recintato la terra. I costi di tutto questo lavoro sono stati fatti pagare agli agricoltori e ai pastori. La Commissione Internazionale dei Giuristi riferisce: “I mezzi di sussistenza di molti Tibetani, che vivono in piccole comunità rurali, sono stati trascurati, in quanto beneficiano poco dei massicci investimenti cinesi. Questo rapporto dimostra che la povertà relativa dei tibetani, lo sfruttamento delle risorse tibetane per contribuire allo sviluppo della Cina, l’insediamento di un considerevole numero di cinesi nei nuovi centri urbani hanno conseguenze negative sulle comunità tibetane”. La tassa più comune è una parte del raccolto degli agricoltori. Rinchen, di Rebkong, nell’Amdo, riferisce che alla sua famiglia è stato richiesto di pagare metà del raccolto ai cinesi. Wongchen Nyendar, 19 anni, di Dwerlung, ha riferito al Centro Tibetano per i Diritti Umani e la democrazia (TCHRD) che alla sua famiglia, che coltiva orzo e possiede tre mucche ed uno yak, è richiesto di pagare una tassa di 150 chilogrammi di orzo l’anno a persona. La logica del governo cinese in Tibet ha le stesse caratteristiche di quella utilizzata dalle potenze occidentali durante il periodo coloniale: i paesi più sviluppati invadono i paesi sottosviluppati per portare loro progresso e sviluppo. Certamente i “progetti di sviluppo” cinesi hanno portato dei cambiamenti in Tibet, ma quando parliamo di “progresso” dobbiamo sempre tenere presente cosa significa progresso, chi ne beneficia e chi, per esso, paga. I rapporti Cina-Tibet hanno molte caratteristiche della dominazione coloniale, con lo sfruttamento delle risorse naturali della colonia a beneficio del paese colonizzatore. Ciò crea stagnazione economica, promuove l’inefficienza e crea le condizioni di dipendenza che riducono di fatto gli sforzi di sviluppo a livello locale. Dallo sfruttamento delle risorse naturali alle decisioni chiave in termini di politiche locali e regionali, i tibetani sono esclusi, ad ogni livello, dalla partecipazione allo sviluppo del loro paese e dalle decisioni sul futuro economico del Tibet. I vasti e costosi progetti volti alla costruzione di strade e dighe, hanno conseguenze negative sul fragile ecosistema tibetano e pochi effetti sulle A cura del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia Novembre 2002 L’IMPATTO DEI PROGETTI DI SVILUPPO 33 L’Associazione Italia-Tibet L’Associazione Italia-Tibet è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro, legamente costituita. Fondata nel 1988, l’Associazione si propone di sostenere il lavoro del Dalai Lama, massima autorità politica e religiosa del Tibet e del suo governo in esilio, affinché al popolo tibetano venga riconosciuto il diritto all’autodeterminazione e gli siano garantite le fondamentali libertà civili. Per promuovere la conoscenza della effettiva realtà tibetana, l’Associazione ItaliaTibet: • Organizza manifestazioni politiche e culturali per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla storia e gli sviluppi del problema tibetano. • Mantiene contatti con il mondo politico, con le organizzazioni per i diritti umani e con tutti i gruppi sensibili a queste tematiche. • Pubblica materiale informativo di agile consultazione sugli aspetti sociali, culturali e religiosi del popolo tibetano. • Mantiene il sito web: www.italiatibet.org L’Associazione Italia-Tibet aiuta inoltre concretamente la comunità tibetana in esilio, sostenendo progetti di cooperazione allo sviluppo e promuovendo le adozioni a distanza. Come associarsi Il modo migliore per aiutare e rimanere in contatto con l’Associazione Italia-Tibet è quello di iscriversi ad una delle seguenti quattro categorie di soci previste. Quote annuali: • • • • Studenti o famigliari di soci Socio ordinario Socio sostenitore Socio benemerito € € € € 25,00 50,00 100,00 300,00 € 12,00 Acquisto bandiera del Tibet: Per informazioni contattare: Associazione Italia-Tibet 20133 MILANO - Via Pinturicchio, 25 Tel./fax 02.70638382 - [email protected] www.italiatibet.org (spedizione compresa)