Editoriale - Conversazione fra Marta Dassù e Walter Russell Mead
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Editoriale - Conversazione fra Marta Dassù e Walter Russell Mead
editoriale Conversazione fra Marta Dassù e Walter Russell Mead MARTA DASSÙ. Le elezioni americane di questo 2016 hanno suscitato vera preoccupazione – e non solo il normale interesse – nel resto del mondo. Anzitutto, sembra essere profondamente cambiato l’atteggiamento verso la globalizzazione e gli impegni internazionali di Washington. Stati Uniti. Donald Trump ne ha fatto un cavallo di battaglia. Ma perfino Hillary Clinton fatica non poco a difendere le tradizionali posizioni americane a favore del libero commercio. 2016 74 commerciali e la globalizzazione in generale non convengano più agli 5 Aspenia La Cina è il principale argomento di quanti sostengono che gli accordi WALTER RUSSELL MEAD. Il commercio con la Cina ha fortemente beneficiato gli Stati Uniti, ma questi benefici non sono stati distribuiti uniformemente e non sono stati compresi o apprezzati da tutti. Quando una fabbrica chiude, il fatto è sotto gli occhi dei lavoratori e delle autorità locali ed è facile puntare il dito contro il libero commercio. Quando invece il prezzo delle merci acquistate dagli americani scende, e contemporaneamente la qualità aumenta, l’effetto è più diffuso e meno palese. Il commercio è insomma sempre meno popolare di quanto meriterebbe. Barack Obama, che chiaramente crede nel libero scambio, ha tentato di stringere accordi commerciali regionali con l’Unione Europea e con importanti partner asiatici, senza tuttavia presentare e argomentare ade- 005-017 Editoriale 74_It.indd 5 13/09/16 15.50 guatamente questa politica in patria. Questo deficit di leadership ha fatto sì che il sostegno a tali accordi tra i democratici si erodesse, mentre il fenomeno Trump ha fatto altrettanto tra i repubblicani. Verosimilmente, una volta alla Casa Bianca Hillary Clinton non rinnegherebbe la sua fede liberista, ma negli Stati Uniti, come altrove, la causa del libero commercio è decisamente meno popolare rispetto a otto anni fa. Molti europei nutrivano forti aspettative quando Obama si insediò, ma ciò che continuiamo a chiamare “Occidente” non appare in gran forma. In che misura questo presidente è responsabile del senso di crisi che aleggia su entrambe le sponde dell’Atlantico? 6 Qui occorre una prospettiva storica più ampia. Nel 1990 molti esperti, sia europei che americani, preconizzavano il trionfo globale della democrazia e dell’economia sociale di mercato, il che ci avrebbe permesso di investire meno nella politica estera e nella sicurezza, mentre il mondo avrebbe continuato a progredire rapidamente. Era questa, in sintesi, l’iperottimistica visione della globalizzazione di stampo occidentale. Nel primo decennio, corrispondente grosso modo agli anni di Bill Clinton, tutto sembrava andare secondo i piani: al tempo infatti, non era ancora chiaro che Russia e Cina avrebbero imboccato un’altra strada. E anche l’Organizzazione mondiale del Commercio è stata fondata quando già Russia e Cina avevano, seppure sottotraccia, visioni proprie e non pienamente compatibili con l’ordine occidentale. Poi sotto Bush arrivò l’11 settembre, e con esso il senso di crisi e le tensioni nel rapporto transatlantico, man mano che il Medio Oriente diventava una regione molto più difficile da gestire. Eppure, persino allora sembrava che economicamente la globalizzazione funzionasse, mentre il sistema finanziario appariva solido e vi era ancora una fiducia infondata nelle intenzioni di Russia e Cina. 005-017 Editoriale 74_It.indd 6 13/09/16 15.50 L’amministrazione Bush termina nel 2008 con la crisi finanziaria e l’invasione russa della Georgia, che inaugura la terza fase del post guerra fredda, quella di Obama. Comincia così la fase più buia, che papa Francesco ha ben sintetizzato quando ha detto: “Il mondo ha perso la pace”. Obama condivide la responsabilità dell’attuale stato di cose con George W. Bush, Bill Clinton e con gli europei: si tratta di un fallimento collettivo dell’Occidente. Gli storici probabilmente identificheranno negli anni di Obama il momento in cui la pace è andata perduta e ciò determinerà il verdetto sulla sua presidenza. Tuttavia, sarebbe profondamente ingiusto addebitare a questa amministrazione la responsabilità principale di aver peggiorato un mondo che, di fatto, non andava granché bene nemmeno prima. La sua colpa è stata 7 piuttosto quella di aver perpetuato le politiche irrealistiche e le idee inadeguate che hanno prevalso nelle élite occidentali dalla fine della guerra fredda. Il livello d’attenzione riservato all’Europa da Washington appare oggi relativamente basso e il più delle volte l’intesa personale tra Obama e i leader europei non è stata delle migliori. Il ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) ha fatto sperare in una rivitalizzazione del rapporto transatlantico, ma i negoziati sono a un punto morto. Qual è, sotto questo profilo, l’eredità per la prossima amministrazione? L’amministrazione Obama non ha contributo in alcun modo a risolvere la crisi dell’euro. È come se si fosse limitata a ristampare gli articoli di Paul Krugman e a paracadutarli su Berlino a mo’ di volantini. Il risultato è molto modesto: la retorica americana ha alienato i tedeschi senza incidere sugli sviluppi europei. La crisi europea dei migranti è stata verosimilmente esacerbata dall’intervento in Libia e dal non intervento in Siria, di 005-017 Editoriale 74_It.indd 7 13/09/16 15.50 cui ovviamente gli Stati Uniti sono corresponsabili. Nel complesso, Obama non si è impegnato con gli europei come avrebbe dovuto e diversi artefici della politica estera americana – anche fra quelli di orientamento più “asiatico” – sono ora consapevoli della necessità di ridare senso alla relazione euro-statunitense. In quest’ottica, la Brexit potrebbe obbligarci tutti a un profondo ripensamento, ma un’altra tendenza preoccupante è il pessimo stato della cooperazione intra-europea, cui si aggiunge il revanchismo russo: una minaccia ben inferiore rispetto a quella posta da Mosca durante la guerra fredda, ma da non sottovalutare. Poi c’è la crescita, un po’ ovunque, del populismo antieuropeo e i ricorrenti attacchi terroristici. Questi sviluppi 8 configurano una nuova e pericolosa fase per l’Europa e per il rapporto transatlantico: dagli anni Settanta abbiamo creduto che i problemi europei fossero stati concettualmente risolti e potessero dunque essere gestiti attraverso mezzi tecnici, burocratici. Non è più così, ma a Washington non lo hanno ancora pienamente realizzato. Secondo lei, la Brexit cambia sostanzialmente questo quadro? E il concetto di “anglosfera” come alternativa agli equilibri attuali risulta appetibile agli Stati Uniti? La Brexit aumenta certamente l’importanza della nato nel pensiero strategico americano. È nell’interesse di Washington che la collaborazione nell’ambito della sicurezza tra Londra e il resto d’Europa resti solida e, pertanto, che vengano preservati legami economici più stretti possibile (erigere barriere indebolirebbe sia il Regno Unito che l’ue). Negli Stati Uniti non c’è entusiasmo all’idea di porre maggiore enfasi sull’anglosfera a scapito delle relazioni col resto d’Europa; di certo, non tra i più stretti consiglieri di Hillary Clinton. 005-017 Editoriale 74_It.indd 8 13/09/16 15.50 Tuttavia, l’anglosfera resta un concetto interessante, essendo basato non su un trattato o su una burocrazia formale, ma su legami informali che restano molto rilevanti. Un tratto comune che unisce Stati Uniti, Canada e Nuova Zelanda è la fede in un commercio mondiale aperto, che porta questi paesi a pensare su scala globale. A parte il comune retaggio storico, sono dunque un forte interesse condiviso e posizioni simili su temi specifici a unire questi paesi. L’anglosfera è reale, ma forse paradossalmente non può e non dovrebbe essere strutturata in qualcosa di più formale: la sua forza sta nell’essere una realtà di fatto. Dobbiamo aspettarci cambiamenti rilevanti nella politica statunitense 9 sulla crisi regionale del “Siraq”? La situazione sul terreno evolve così rapidamente che è molto difficile stabilire oggi quali opzioni avrà la prossima amministrazione nel gennaio 2017. Hillary Clinton è tendenzialmente più interventista di Obama e si concentra di più sui rapporti con la Russia, anche nel contesto siriano, con una visione orientata al contenimento di Mosca. Potrebbe dunque essere incline ad agire sul terreno, ma le opzioni pratiche sono molto difficili da prevedere al momento. E per quanto riguarda l’Iran e Israele? Gli eventi obbligheranno un’eventuale presidenza Clinton a rimarcare la dimensione regionale dell’accordo usa-Iran. Ciò metterà sotto grande pressione l’intesa sul nucleare, che già appare un po’ traballante. Difficilmente Clinton porrà tale intesa davanti alle relazioni con i tradizionali alleati dell’America. Obama vede chiaramente l’accordo come un viatico per la pace regionale o almeno per un più stabile equilibrio di potere, attraverso la trasformazione dell’Iran, ma sottostima gli effetti desta- 005-017 Editoriale 74_It.indd 9 13/09/16 15.50 bilizzanti dell’erraticità saudita. La prossima amministrazione tenterà probabilmente di ribilanciare l’approccio statunitense. Ciò migliora in qualche modo il rapporto con Israele, che è diventato molto teso, ma un’amministrazione Clinton non appoggerà la politica degli insediamenti più di quanto abbia fatto Obama. La relazione strategica resterà salda, ma punteggiata da numerose divergenze su scelte specifiche di ambo le parti. Hillary Clinton potrebbe comunque mostrare meno ottimismo rispetto a Obama e a John Kerry sul rilancio del processo di pace israelo-palestinese, classico progetto figlio della visione ottimistica prevalente negli anni Novanta. Il tipo di pace cui aspiriamo infatti non è il semplice rapporto di forza che intercorreva tra un Cesare Borgia e gli 10 Sforza nell’Italia rinascimentale; è piuttosto una sorta di “pace liberale” che include commercio e integrazione. Abbiamo posto l’asticella molto in alto, pretendendo niente meno che una rivoluzione per il Medio Oriente, dove la maggior parte degli attori sono abituati tutt’al più a fragili tregue. Probabilmente dovremmo ridimensionare le nostre pretese, puntando a un accordo ragionevolmente duraturo che scongiuri la guerra aperta e lasci più spazio all’autodeterminazione palestinese. Non c’è dubbio che l’approccio di Donald Trump alla politica estera ha attratto molti americani. Agli occhi di un europeo appare strano che l’America sia impaurita o “arrabbiata” quando guarda al resto del mondo. Hanno ragione gli elettori a credere che il loro paese sia in rapido declino e meno sicuro rispetto a otto anni fa? L’opzione isolazionista è davvero percorribile? E se lo è solo in parte per una superpotenza come gli Stati Uniti, c’è da chiedersi quanto alla fine differirebbe da una politica essenzialmente unilaterale. 005-017 Editoriale 74_It.indd 10 13/09/16 15.50 In campagna elettorale non c’è stato tanto un convinto sostegno degli elettori alle proposte di politica estera avanzate da Trump, quanto piuttosto una reazione viscerale, frutto di un diffuso clima di disagio, preoccupazione e scarsa comprensione. Trump ha quasi fatto un vanto della sua abitudine a contraddirsi, e nessun presidente ha mai puntato alla Casa Bianca con un programma così vago (il che sarebbe peraltro un grosso vantaggio in caso di vittoria), se non altro perché le sue proposte si annullano a vicenda. Tuttavia, dietro la candidatura di Donald Trump vi sono spinte potenti al cambiamento. Guardiamo a quanto gli esperti di politica estera sono andati dicendo dagli anni Novanta: il mondo sta migliorando; la globalizzazione renderà gli americani (e gli altri) ricchi; possiamo spendere e faticare meno godendo di più democrazia, diritti 11 umani e sicurezza; l’Islam è una religione amichevole e non vi è alcun problema specifico con le sue incarnazioni politiche; l’immigrazione è un bene e gli immigrati irregolari non sono un problema. Quanto gli americani ascoltavano dalle élite suonava alle loro orecchie sempre meno attinente alla realtà che vivevano. È su questo che Trump, al pari di molti populismi europei, ha puntato: cavalcare l’onda montante dello scetticismo verso la classe dirigente nel suo insieme. Oggettivamente, Hillary Clinton è la quintessenza dell’establishment. Trump ha corso contro quello che lui descrive come 25 anni di politica estera fallimentare, e certamente di errori rilevanti ne sono stati commessi. Ovviamente, il grosso degli americani non ha la possibilità di viaggiare per il mondo, ricevere relazioni da esperti di politica estera o partecipare a conferenze, sicché non hanno un’idea chiara delle alternative. Sanno però quando qualcosa va contro il loro interesse. Al netto delle numerose contraddizioni nei suoi discorsi, l’approccio di Trump alla politica estera è fondamentalmente “jacksoniano”: gli Stati 005-017 Editoriale 74_It.indd 11 13/09/16 15.50 Uniti non devono firmare grandi accordi commerciali, né tentare di diffondere la democrazia o cambiare il mondo, nemmeno credere nei loro alleati. Devono invece mantenere un forte esercito che consenta loro di non dipendere da nessuno e di perseguire il proprio interesse nazionale. Come tutto ciò si traduca in politiche è molto più difficile a dirsi. Dopo otto anni di politica estera sotto la guida del presidente Obama, si può darne una valutazione complessiva, e collocare il suo approccio e le sue scelte nell’ambito delle principali scuole di pensiero statunitensi – quelle descritte nella sua “Storia della politica estera americana”1? In base alla mia classificazione (ho appena detto che Trump è “jackso- 12 niano”), all’inizio Obama sembrava un misto di Wilson e Jefferson: da un lato, la sua ambiziosa agenda contemplava la messa al bando delle armi atomiche, la promozione dei diritti umani e la radicale modifica del modo in cui funziona il mondo; dall’altro, la promessa di non ingaggiare nuove guerre e l’idea che un eccessivo attivismo riducesse le chance di successo della politica estera statunitense avevano un tratto jeffersoniano. Nel tempo, abbiamo assistito al prevalere del secondo approccio. Credo che il punto di svolta sia stata la Libia: tutti i wilsoniani dell’entourage presidenziale consigliavano a Obama di usare le armi in un’operazione militare relativamente semplice, ma dalle implicazioni profonde. Le conseguenze dell’intervento in Libia e il fallimento delle Primavere arabe (nonché l’incapacità statunitense di sfruttarle) hanno convinto Obama del bisogno di concentrarsi unicamente sul tenere il paese fuori dai guai, rinunciando al tentativo di cambiare il mondo. Obama ci ha forse riservato qualche sorpresa in alcuni casi, soprattutto in Medio oriente. La reazione alle rivolte arabe è stata obiettivamente oscil- 005-017 Editoriale 74_It.indd 12 13/09/16 15.50 lante, anche se certo la sfida, anche concettuale, è stata difficile per tutti. Ma pochi si aspettavano un’azione militare in Libia dopo le promesse di non trascinare più gli usa nei conflitti della regione. E poi c’è stata l’implosione della Siria a complicare enormemente il quadro. L’intervento in Libia è stato certamente una sorpresa, ma non gradita, tant’è che lo stesso Obama se ne è poi apertamente pentito. La questione della “linea rossa” in Siria (l’affermazione fatta da Obama nell’estate del 2012 secondo cui l’uso di armi chimiche da parte delle forze di Assad avrebbe provocato una forte reazione statunitense) è stata poi il momento chiave. Come si legge nella citatissima intervista di Jeff Goldberg a Obama pubblicata su The Atlantic, il presidente si sentiva quasi affrancato dalle limitazioni del pensiero ortodosso, dalle idee tradizionali sulla de- 13 terrenza e sulla credibilità, ad esempio. Non credo che un presidente abbia l’obbligo di seguire pedissequamente le opinioni prevalenti nei circoli della politica estera, ma nel secondo mandato Obama si è circondato di persone che la pensavano come lui più di quanto avesse fatto nei primi quattro anni (durante i quali il segretario alla Difesa Robert Gates e quello di Stato Hillary Clinton fungevano da controparti e finanche da rivali nei dibattiti interni all’amministrazione, e anche i militari avevano una voce più forte). Essendoci meno voci dissenzienti dopo la rielezione del 2012, Obama ha acquisito crescente fiducia nel proprio approccio, ma l’efficacia della sua politica estera ne ha risentito. La politica estera dei presidenti americani è sovente valutata o riesaminata dopo un po’ di tempo dalla fine dei loro mandati, in parte perché alcuni risultati possono essere verificati solo nel medio termine. Guardando invece al breve periodo, quali grandi meriti ascriverebbe inequivocabilmente a Barack Obama? 005-017 Editoriale 74_It.indd 13 13/09/16 15.50 Il maggior successo Obama lo ha raggiunto semplicemente venendo eletto. Non dobbiamo dimenticare il livello di acrimonia e contrapposizione che ha caratterizzato la presidenza di George W. Bush, specialmente nell’ambito delle relazioni transatlantiche. Il nuovo presidente ha segnato una forte discontinuità rispetto a quella stagione. Le relazioni con i leader europei non saranno state così amichevoli come molti si aspettavano o speravano, ma la percezione pubblica degli Stati Uniti in Europa e in molte altre parti del mondo è notevolmente migliorata. Al riguardo, Obama ha fatto ciò che aveva promesso: ha rinnovato la fiducia nell’America, almeno in una certa misura, abbandonando alcune delle politiche più impopolari dell’amministrazione Bush. 14 Il ripristino delle relazioni diplomatiche con Cuba è considerato un evento storico, ma come giudicarlo nel lungo termine e nel più vasto quadro degli attuali equilibri mondiali? In fin dei conti, Cuba è una piccola isola dei Caraibi che ha una valenza politica soprattutto per gli americani più anziani, mentre le giovani generazioni non nutrono particolari passioni al riguardo. Più che all’abilità diplomatica di Washington, il riavvicinamento si deve al cambio di rotta del governo cubano, cui del resto si doveva in gran parte la precedente inimicizia. Il punto di svolta è stato il collasso del Venezuela (il maggior sostenitore dell’economia cubana), che ha forzato una riluttante Avana a procacciarsi attivamente il turismo e gli investimenti esteri di cui ha disperato bisogno. Il merito di Obama è stato di essersi tenuto fuori dal caos venezuelano, sfruttandolo a proprio vantaggio: l’implosione del governo “bolivariano” di Caracas è infatti avvenuto senza alcun reale coinvolgimento statunitense, il che ha mandato un messaggio positivo alla regione. D’altro canto, Washington ha fatto probabilmente meno del do- 005-017 Editoriale 74_It.indd 14 13/09/16 15.50 vuto per attrezzarsi a fronteggiare le conseguenze di quella che potrebbe rivelarsi una catastrofe di proporzioni regionali, di cui dovrà occuparsi la prossima amministrazione. Anche stare in panchina comporta dei rischi. Il tanto discusso “pivot to Asia” è stato più una cornice concettuale che una politica concreta. Del resto, il rapporto con la Cina è strutturalmente complesso, data la compresenza di interessi economici e di sicurezza per entrambi i paesi. Cosa ci insegnano gli anni di Obama rispetto alla gestione di questo rapporto? È un mix di interdipendenza economica e crescenti preoccupazioni nell’ambito della sicurezza, specialmente nel Mar Cinese meridionale e più in generale in ambito marittimo, dove Pechino sta sviluppando una strategia sempre più ambiziosa. 15 Sono a favore di un’intensificazione delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Asia, ma il modo in cui tale sforzo è stato presentato suscita preoccupazioni, specie in Europa, sul fatto che Washington si stia allontanando dal vecchio continente. Forse sarebbe stato meglio chiamarlo pivot to the world, nel senso di un adeguamento delle priorità statunitensi alle mutate circostanze internazionali, ivi compresa ovviamente l’ascesa cinese. Resta il fatto che la baldanzosa postura di Pechino richiede un maggior coinvolgimento americano in Asia orientale e sotto questo profilo credo che Obama non abbia fatto abbastanza. Per rendersene conto basta chiedersi se la regione sia più militarizzata oggi di quanto non lo fosse nel 2008, e sfortunatamente la risposta è sì. Una delle tendenze principali è il riarmo del Giappone. Per un verso lo si potrebbe considerare un bene, in quanto gli Stati Uniti desiderano che i loro principali alleati condividano il fardello della sicurezza e della difesa; d’altro canto, non è nell’interesse dell’America avere potenze asiatiche armate fino ai denti nel tentativo di controbilanciare la Cina. Certo, ritengo che il maggior rischio di 005-017 Editoriale 74_It.indd 15 13/09/16 15.50 un conflitto armato in Asia non derivi dalle politiche di Obama, bensì dalle decisioni cinesi. Tuttavia, oggi la situazione regionale è più pericolosa rispetto a otto anni fa. Questo sarà un aspetto non secondario dell’eredità di Obama. Guardiamo oltre i fenomeni contingenti e anche oltre i leader politici attuali. L’America “profonda” dietro questo ciclo elettorale è certamente inquieta e forse più pessimista o disillusa che mai, come se la società avesse perso alcuni dei suoi tratti tipici – la fiducia quasi sfrenata nel futuro e nel progresso, la coscienza del proprio “eccezionalismo” e l’orgoglio per i propri valori fondanti. Sembra una vera crisi di identità, per molti versi. In- 16 somma, stiamo osservando una fase di trasformazione radicale del paese plasmato da personaggi come Thomas Jefferson, James Madison, Abraham Lincoln, al punto da diventare irriconoscibile? Non c’è dubbio che la visione di una “eccezione” americana ha radice profonde: costituì le basi anche dell’approccio di Woodrow Wilson nel 1919 e ispirò Franklin Delano Roosevelt nel suo celebre discorso del 1941 sulle Quattro Libertà (libertà di parola, libertà di culto, libertà dal bisogno, e libertà dalla paura). La stessa linea di pensiero è molto presente nelle biografie e nelle idee delle persone che concepirono il Piano Marshall – persone come George Kennan e George C. Marshall. La guerra fredda poi rafforzò ancor più quelle convinzioni: dopo aver giocato un ruolo cruciale nella distruzione della tirannia dei fascisti e dei nazisti, infatti, gli Stati Uniti erano adesso chiamati a condurre la resistenza mondiale contro la tirannia stalinista: una nuova lotta tra Bene e Male su scala mondiale. In tali circostanze, per gli americani fu difficile trattenersi dal pensare ancora una volta che l’America fosse stata designata dalla Provvidenza per ricoprire un ruolo storico unico. Si tratta di una 005-017 Editoriale 74_It.indd 16 13/09/16 15.50 visione al tempo stesso politica ed etica, ovviamente con forti connotazioni religiose, che è tuttora molto viva. Non sappiamo però esattamente dove ci condurrà questa tradizione nei prossimi anni. Nel corso della storia americana, si è verificata una sorta di alternanza: generazioni più o meno religiose e militanti nell’approccio al resto del mondo in termini di una “missione americana”. La generazione del baby boom e la cosiddetta Generazione x (i nati tra il 1963 e il 1980) hanno finito con lo sposare i valori religiosi tradizionali a un punto tale che molti non si sarebbero aspettati. Alla luce di ciò, la generazione dei millennials o Generazione y (i nati dai primi anni Ottanta) si affermerà probabilmente come una generazione più laica, più scettica e potrebbe anche mettere in dubbio l’ideale che vede l’America come il più grande paese al mondo. 17 Ancora però non possiamo saperlo con certezza: non ci resta che aspettare e vedere come i più giovani elettori interpreteranno questa lunga eredità. Penso comunque che l’eccezionalismo vada inteso non tanto come una sorta di corona di alloro da indossare, ma come un dovere da assumersi e da portare a termine nel mondo. A prescindere dal modo in cui si evolverà nel tempo, credo che tale sentimento continuerà sempre a contraddistinguere il popolo americano. Walter Russell Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, Garzanti, 2005. 1 Walter Russell Mead è James Clarke Chace Professor al Bard College e distinguished scholar all’Hudson Institute. Il suo ultimo libro, The Arc of a Covenant: the United States, Israel, and the Fate of the Jewish People, esce per i tipi di Knopf nel 2017. 005-017 Editoriale 74_It.indd 17 13/09/16 15.50