spunti teorici all`approccio logopedico del disturbo semantico

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spunti teorici all`approccio logopedico del disturbo semantico
GIUSEPPA DEODATO*
SPUNTI TEORICI ALL’APPROCCIO LOGOPEDICO
DEL DISTURBO SEMANTICO-LESSICALE
RIASSUNTO
L’autrice indaga nella letteratura la correlazione tra gesto, lessico e semantica
del linguaggio; e delinea secondo questa correlazione i profili del Disturbo Specifico
del Linguaggio, della Sordità, della Sindrome Down, della Sindrome di Williams, dei
disturbi dello Spettro Autistico considerando lo stile comunicativo del bambino e
l’approccio logopedico per individuare le parole nel suo eloquio spontaneo, anche
quando esso risulta limitato nella sua intellegibilità. Vengono esaminati anche i
prerequisiti dello sviluppo del linguaggio e si riconosce importanza primaria al
rapporto duale madre-bambino, all’attenzione condivisa sull’oggetto e ai performativi
tra cui il sorriso sociale, l’intenzionalità comunicativa e l’indicazione richiestiva e
dichiarativa.
SUMMARY
The author investigates in the literature the correlation between gesture, lexicon
and semantics of language; and according to this correlation she outlines the contours
of the Specific Disorder of Language, Deafness, Down Syndrome, Williams Syndrome
and Autism Spectrum Disorders, considering the communication style of the child and
the speech therapy approach to locate the words in his spontaneous speech even when it
is limited in its intelligibility. The author also examines the prerequisites for the
development of language and recognizes the primary importance to the dual motherchild relationship, to shared attention on the object, and to the performatives including
social smile, intentional communication, request indication and declarative indication.
Logopedista ASS 6 "Friuli Occidentale" UOS NPI di Maniago.
Laurea Specialistica in Scienze delle Professioni Sanitarie della Riabilitazione.
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Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2014
Introduzione
Le competenze linguistiche sono svariate e vedono coinvolte meccanismi
di recezione, selezione e combinazione che presuppongono l’integrità delle
funzioni esecutive e prassiche, e una sana relazione affettiva con sviluppo della
reciprocità e dell’attenzione condivisa su un oggetto esterno alla relazione
duale madre-bambino. Tra i prerequisiti necessari vi è l’acquisizione dei
performativi tra i quali il sorriso sociale e lo scambio comunicativo che si
realizza durante il babbling e che rafforza il gioco ludico-articolatorio del
bambino. Il linguaggio è il mezzo più economico di comunicazione, di
scambio, e di organizzazione del pensiero concreto e poi simbolico con
sviluppo della capacità di pianificare tante azioni aventi unico scopo, di
problem solving e di progettualità. E’ la presa di coscienza dell’individuo che
man mano che cresce si afferma dicendo “io” e “mio”, “mamma” e “papà”,
“no” “voglio” e così esprime desideri, bisogni, necessità, dolore, gioia,…. fino
ad autodeterminarsi prendendosi il carico e il rischio della propria vita
nell’avventura che è la vita nel mondo sociale e civile.
Il primo sviluppo del linguaggio
Secondo Volterra ed Erting (1994) e Abrahamsen (2000) fin dai primi
stadi dello sviluppo il repertorio comunicativo dei bambini non si limita agli
elementi vocali del parlato, ma comprende anche molti elementi gestuali.
L’inizio della comunicazione gestuale tra i 9 e i 13 mesi è contrassegnato dalla
comparsa di una serie di gesti (richiesta ritualizzata, mostrare, indicare) che
sembrano precedere la comparsa delle prime parole. Questi gesti definiti
inizialmente performativi, e negli studi più recenti deittici, vengono usati per
riferirsi ad oggetti, eventi esterni ed esprimono soltanto l’intenzione
comunicativa del bambino. Il referente di questi gesti è dato interamente dal
contesto extralinguistico in cui la comunicazione ha luogo (Bates et al. 1975;
1979). Il gesto di indicare viene utilizzato dai bambini con due diversi intenti
comunicativi: per richiedere un oggetto o un’azione desiderati (intenzione
richiestiva) e per condividere con l’interlocutore l’interesse o attenzione su un
evento esterno (intenzione dichiarativa). Fra i 12 e i 18 mesi cominciano i gesti
referenziali detti anche rappresentativi; attraverso essi il bambino nomina,
racconta o chiede qualcosa (Caselli 1983; Acredolo e Goodwyn 1988). La
frequenza di uso del gesto di indicare aumenta tra la fine del primo anno di vita
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e la metà del secondo anno, momento in cui tale frequenza inizia a diminuire
(Lock 1980). A 20 mesi il sistema gestuale subisce una riorganizzazione. La
produzione complessiva di gesti diminuisce e i bambini smettono di aggiungere
nuovi gesti al loro repertorio, i nuovi concetti da esprimere verranno d’ora in
poi codificati nella forma vocale (Iverson, Capirci e Caselli 1994). Fin dai 16
mesi i bambini iniziano a combinare due elementi comunicativi e tali
combinazioni sono nella maggior parte dei casi cross-modali (gesto di
indicazione e parola). Secondo Capirci (1996) a 20 mesi le combinazioni di due
parole divengono molto più frequenti. E’ importante sottolineare che le
combinazioni cross-modali possono essere classificate equivalenti quando i due
elementi hanno un significato analogo e l’uno rinforza l’altro; complementari
se uno dei due (l’indicazione) specifica o disambigua l’elemento particolare a
cui la parola si riferisce; supplementare se i due elementi hanno significati
diversi e quindi l’uno aggiunge informazione rispetto all’altro. Quando il
bambino comincia ad usare combinazioni cross-modali di tipo supplementare,
poco dopo produce anche combinazioni di due parole che esprimono anche
relazioni semantiche (possesso, non esistenza, agente-azione) espresse prima
attraverso l’uso del gesto (M.C. Caselli e V. Volterra 2002).
Il lessico e la semantica
Le competenze lessicali consentono di apprendere e di distinguere
singole parole nell’archivio strutturato di un vocabolario. Le competenze
semantiche consentono di collegare il sistema linguistico con l’enciclopedia dei
concetti rappresentazionali e operazionali. Nell’approccio ad un bambino
pertanto il logopedista dovrà appurare il vocabolario presente in comprensione
e in produzione. I parametri da considerare sono: la tipologia dello scarto tra
produzione e comprensione verbale; la variabilità nella scelta delle parole nelle
produzioni spontanee e nell’uso selettivo delle parole comprese; il ventaglio e
la tipologia delle anomie e delle gergolalie, l’ampiezza e la differenziazione
delle aree semantico lessicali; la tipologia dei giri di parole e, successivamente,
le competenze metaforiche mature o devianti (Gabriel Levi 2010).
Il disturbo in questo versante linguistico compromette inevitabilmente il
successivo strutturarsi del messaggio verbale in comprensione e produzione
nella frase e poi nel racconto. Il logopedista quindi spesso appurerà che un
bambino a una certa età continua a non capire e non ascoltare quanto gli viene
detto con possibili e compresenti disturbi di comportamento inevitabili.
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Nell’approccio al bambino si rileva inevitabilmente una anomala lunghezza
media dell’enunciato; lo scarto tra gli enunciati compresi e quelli prodotti; lo
scarto tra gli enunciati realizzati in prove di ripetizione e quelli prodotti
spontaneamente.
Nella maggior parte dei casi nei DSL (Disturbo specifico di linguaggio),
esistono dei ritardi di sviluppo per una o più competenze linguistiche, questi
singoli ritardi anche quando settoriali, tendono a determinare delle eterocronie
nello sviluppo delle altre competenze linguistiche convergenti. Quando le
eterocronie superano una certa soglia critica, tendono a verificarsi delle vere e
proprie dissociazioni funzionali. Eterocronie e dissociazioni funzionali, tra
competenze linguistiche e nell’uso delle stesse, determinano delle vere e
proprie atipie linguistiche che si organizzano stabilmente e si cronicizzano
rendendo atipica l’integrazione tra processi linguistici, comunicativi e cognitivi
(Gabriel Levi 2010).
Con lo sviluppo del linguaggio il bambino: 1. acquisisce un sistema di
funzioni conative con cui impara a differenziare le sue intenzioni nella
relazione interpersonale e altrettanto come linguaggio interno; 2. acquisisce un
sistema di funzioni referenziali con cui impara ad applicare alcune operazioni
logico-linguistiche alla realtà, su cui predica e che categorizza e denomina; 3.
acquisisce un sistema di funzioni meta-comunicative con cui precisa la
consapevolezza e la sofisticazione delle sue espressioni esteriori ed interiori; 4.
attiva e potenzia le funzioni poietiche mediante cui collegare processi cognitivi,
pensiero e linguaggio fino a consentire al linguaggio generatività, autonomia di
sviluppo e creatività (ibidem).
In questa cornice risulta cruciale la definizione dei sistemi semantici
come mediatori essenziali tra sistemi lessico-grammaticali, sistemi fonologici,
e contesto (differenziato come categorie di situazioni sociali). Le prime
integrazioni semantiche operano in parallelo sul controllo del comportamento e
sulla differenziazione del sistema linguistico. I bambini imparano a
comprendere e produrre linguaggio mentre stanno interagendo e comunicando
con la realtà e nella realtà. La grande nuova scoperta del bambino è che esiste il
linguaggio; che esistono la parola e la lingua; che esiste la possibilità di
impacchettare pezzi di realtà (oggetti, eventi, azioni, attributi) con pezzi di
linguaggio. Con un paradosso euristico: il bambino costruisce prima le frasi
(azioni + parole), poi le parole (parole senza azioni) e poi i fonemi (unità di una
struttura). L’integrazione tra meccanismi di produzione delle prime parole e
produzione delle prime frasi, nei bambini che non presentano un DSL, è
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documentata da un fenomeno importante anche se transitorio. Le prime
combinazioni di parole sono molto spesso combinazioni di due lemmi, senza
flessioni morfologiche e senza la presenza di un verbo. Mettendo insieme le
prime coppie di parole, per produrre delle predicazioni, i bambini diventano
rapidamente consapevoli dell’enorme potenzialità linguistica: questa scoperta
accompagna per un certo tempo un’enorme attenzione sulla comprensione
linguistica e una diversificazione di uso delle funzioni linguistiche. Avendo
scoperto le prime risorse dello strumento linguistico, il bambino si trova
davanti alla necessità di apprendere e padroneggiare tutte le diverse
competenze linguistiche nel contesto delle sue reali comunicazioni, adottando
strategie di apprendimento differenziate ma convergenti. Da una parte il
bambino seleziona e produce pacchetti linguistici esplorativi, perché ben
collegati con le sue intenzioni, ma molto imprecisi rispetto al comportamento
fonologico-lessicale, a quello lessicale-semantico, e a quello fonologicosintattico. Dall’altra parte il bambino usa gli incidenti comunicativi e il
problema costante di essere comprensibile, per perfezionare ogni singola
competenza linguistica al fine di risolvere le ambiguità delle altre competenze
linguistiche (Gabriel Levi 2010).
La competenza semantica
La semantica è lo studio del significato del linguaggio (Crystal 1985).
Un bambino sviluppa gradualmente la capacità di dare un significato alle
parole, affinando i suoi concetti sull’ambiente e sulle cose che sperimenta. Le
prime parole sono eccessivamente generalizzate, man mano che il bambino fa
esperienze e sviluppa concetti sul mondo, si forma un vocabolario sempre più
complesso. Se egli non è in grado di organizzare le informazioni per formarsi in
questo modo nuove idee, il suo sviluppo semantico risulterà anomalo.
Normalmente il bambino si costruisce un vocabolario sviluppando e
perfezionando la sua conoscenza del mondo attorno a sé, in risposta ai suoi
bisogni quotidiani di comunicazione. In seguito nella vita del bambino questo
accumulo di vocaboli ha un effetto sul modo in cui le parole vengono
interpretate. Se una parola viene acquisita per ripetizione meccanica invece che
attraverso lo sviluppo della comprensione del mondo reale attorno a sé, il
bambino può trovare complicato accettare che le parole varino di significato a
secondo della presenza di altre parole nella frase o del contesto in cui vengono
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utilizzate. Sarà anche difficile per il bambino capire ulteriori significati non
letterali delle parole e delle frasi (C. Firth e K. Venkatesh 2002).
Nel sistema semantico le rappresentazioni sono organizzate sulla base di
categorie concettuali. Si ipotizza che all’interno di ogni categoria il significato
di uno stimolo sia costituito da un insieme di tratti semantici (per esempio, la
rappresentazione semantica della parola “gatto” è costituita dai seguenti tratti:
animale, domestico, mammifero, a quattro zampe, che miagola….) Questa
caratteristica della rappresentazione semantica determina una relazione
categoriale tra gli stimoli. Le parole che appartengono alla stessa categoria (per
esempio, “gatto” e “cane”) condividono più tratti semantici delle parole che
appartengono a categorie differenti (per esempio “gatto” e “tavolo”). Se vi è un
danno (o un disturbo) del livello semantico, ci si deve aspettare una prestazione
deficitaria sia nei compiti che richiedono la comprensione sia in quelli di
produzione delle parole con errori simili in tutti i compiti. Un danno del lessico
al contrario non ostacola la capacità del soggetto a comprendere il significato
delle parole, ma può determinare anomia. (P. Marangolo 2012). Nei lessici le
parole sono organizzate sulla base della loro classe grammaticale di
appartenenza (sostantivi, verbi, aggettivi), da ciò la necessità di appurare con
gli opportuni strumenti testali se vi è un danno o un disturbo della componente
semantica o della componente lessicale e quali categorie concettuali o lessicali
sono compromesse.
La rappresentazione semantica
Normalmente per estensione di una parola si intende l’insieme di entità
reali che quella parola può servire a denominare. Per intensione di una parola si
intende invece l’insieme dei prerequisiti che un’entità reale deve avere per
essere denominabile da quella parola. Più una parola è generica, maggiore sarà
la sua estensione, ovvero più grande sarà l’insieme di entità denominabili con
quella parola. D’altro canto più una parola è generica e meno numerosi sono i
requisiti che un’entità reale deve rispettare perché io possa attribuirle
legittimamente la parola in questione. Perciò l’estensione e l’intensione di un
termine sono inversamente proporzionali, poiché più sono i requisiti da
rispettare per fare parte di una classe e meno numerosa sarà detta classe. I
requisiti richiesti dalla rappresentazione semantica di un concetto dovrebbero
configurarsi idealmente come delle liste finite di tratti necessari. I tratti presenti
nelle rappresentazioni semantiche dei concetti si collocano in una scala di
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necessità lungo un continuum avente ad un’estremità i tratti più attesi, all’altra i
tratti più inattesi e al centro quelli semplicemente possibili (G. D. Zannino
2003).
I concetti sono immagini mentali e risultato dell’attività di aree
proiettive, non di una sola di esse bensì di tutte quante insieme. Quando nella
mente del bambino si formano i concetti, gli associazionisti argomentavano che
ciò avviene attraverso la reiterata esperienza di singoli esemplari di quel
concetto. Tale esperienza è mediata dai sensi ed ha come risultato il formarsi
nelle rispettive aree associative di una serie di immagini mentali, modalità
specifiche relative all’attività dell’area proiettiva (uditiva, visiva, tattile,…) che
ha elaborato lo stimolo sensoriale. Anche le aree proiettive motorie, attive
durante la manipolazione di un oggetto, formeranno nelle rispettive aree
associative tracce di un’attività che andrà a far parte del corrispondente
concetto. Siccome l’esperienza di un oggetto tende a consistere in
un’attivazione sensorimotoria simultanea su più canali, le singole immagini
modalità specifiche tendono ad associarsi tra loro così che, una volta acquisito
un concetto, l’esposizione ad un esemplare di esso anche attraverso una sola
modalità, richiamerà alla coscienza tutte le immagini sensorimotorie di cui si
compone. Tale concezione è stata criticata con l’avvento dei modelli distribuiti
dove “distribuito” va inteso come “non topograficamente organizzato” e
l’aggettivo va riferito ai tratti di cui si compongono le rappresentazioni
semantiche, i quali non occupano porzioni specializzate del sistema nervoso né
in accordo al tipo di informazione sensorimotoria che implementano (come è
nella teoria del percettivo vs funzionale) né in accordo al dominio di
appartenenza dei concetti di cui entrano a far parte (come è nella categoria
dell’organizzazione categoriale primaria). Nei modelli distribuiti lo status dei
tratti che costituiscono le rappresentazioni semantiche dei singoli concetti varia
lungo due dimensioni fondamentali. La prima legata al concetto di distintività,
riguarda il maggiore o minore contributo che ciascun tratto fornisce al fine di
discriminare tra concetti affini. La seconda legata al concetto di frequenza di
produzione e livello di correlazione, riguarda il livello di resistenza che ciascun
tratto può opporre al danno neurologico. Infatti gli insiemi di tratti che formano
le diverse rappresentazioni semantiche non sono combinazioni completamente
casuali di elementi. Se conosciamo alcuni tratti presenti nella rappresentazione
semantica di un dato concetto, possiamo prevedere con una certa probabilità di
successo la presenza di determinati altri tratti in quella stessa rappresentazione.
Infatti alcune coppie di tratti tendono ad occorrere in associazione, ovvero ad
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essere o entrambi presenti o entrambi assenti nei diversi concetti. Ad esempio,
la coppia “dotato di ali” e “vola” è frequente, da ciò la presenza di uno dei due
tratti in un dato concetto pur non implicando la presenza dell’altro, aumenta
però la possibilità che ciò accada; in altre parole la probabilità che una cosa x
“voli” è più elevata se sappiamo che questa “ha le ali”. Due tratti che si
comportano come “ha le ali” e “vola” sono correlati e la presenza di una
correlazione aumenta la resistenza di un tratto (G. D. Zannino 2003).
Lo stile comunicativo del bambino
Conoscere le abilità comunicative del bambino Parlatore Tardivo nella
fase in cui il suo linguaggio sta emergendo rappresenta un punto essenziale
della valutazione. E’ fondamentale identificare se la difficoltà nel linguaggio
espressivo è accompagnata anche da una inadeguatezza o da un deficit più
pervasivo nella comunicazione e nell’uso del linguaggio, che possono
esprimersi con un’incapacità o una tendenza a non rispondere in molti scambi
conversazionali che necessitano invece di una varietà di atti comunicativi
diversi per forma e funzione. Secondo Fey (1986) i bambini che non sono
ancora in grado di usare il linguaggio per comunicare, ma che si sforzano di
farlo con chi li circonda, dimostrano di avere buone potenzialità comunicative
che possono supportare la crescita del linguaggio funzionale. Invece, i bambini
che mostrano una scarsa varietà di atti comunicativi e formulano poche
intenzioni possono incontrare più problemi nell’acquisire il linguaggio, perché
da una parte offrono ai loro interlocutori meno occasioni di farsi coinvolgere
nella conversazione, di conseguenza si presentano poco o per nulla attivi
nell’interazione, e dall’altra non si sforzano di scambiare messaggi per
continuare il dialogo quando sono già agganciati. In presenza di un bambino
Parlatore Tardivo con scarse capacità comunicative, sarà opportuno indagare,
per prima cosa, se il suo interlocutore o il genitore lo mette nelle condizioni di
poter esprimere al meglio le sue potenzialità comunicative e in secondo luogo,
valutare se effettivamente il bambino esibisce uno stile comunicativo immaturo
o poco adeguato (S. Bonifacio e L. Hvastja Stefani 2010).
Il primo passo che si deve fare quando si analizza un’interazione tra un
adulto e un bambino durante un’attività è l’individuazione dei comportamenti
comunicativi caratterizzati da intenzionalità. Secondo Paul (2001) il
comportamento del bambino è comunicativo se vengono rispettati i seguenti
criteri: a) il bambino deve indirizzare il suo comportamento all’adulto; b) l’atto
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comunicativo, e l’intento che ne sta alla base, devono provocare un effetto o
influenzare il comportamento dell’adulto, modificare il suo centro di
attenzione, o il suo stato di conoscenza. In questo caso potremmo rilevare che
l’adulto si attiva con un comportamento comunicativo se la sua attenzione è
centrata sul bambino sottolineando così che l’intenzione è andata a buon fine;
c) il bambino deve essere persistente nello sforzo di trasmettere il messaggio
anche quando l’adulto non risponde, o risponde in un modo che non
corrisponde a quanto il bambino intendeva. In ciò occorre non dimenticare che
in molti genitori di bambini con ritardo o disturbo di linguaggio sono evidenti
comportamenti comunicativi deboli dal punto di vista della tutorialità e quindi
lo sforzo del bambino del persistere nel comunicare potrebbe venire meno
proprio perché non trova un aggancio efficace (ibidem).
Fey (1986) delinea quattro profili conversazionali basati sulla
dimensione di assertività e responsività. Per assertività si intende la capacità di
far valere, di esporre le proprie affermazioni. Gli atti asseritivi usati
frequentemente dal bambino sono: l’apertura della conversazione con la
proposta dell’argomento; l’essere in grado di mantenere o continuare a
manifestare interesse per l’argomento fornendo anche specifiche informazioni
sotto forma di un certo numero di commenti; il prendere il proprio turno; il
persistere nello sforzo di esprimere l’intenzione comunicativa quando non va a
buon fine; il formulare richieste di aiuto di azione, di attenzione relative ad un
oggetto o ad un evento, per esempio richiedere di denominare indicando le
figure di un libro e/o formulare domande. Con il termine responsività ci si
riferisce a quei comportamenti che costituiscono delle risposte alle richieste
formulate e sollecitate dall’interlocutore riguardanti aspetti inerenti
all’argomento di conversazione, quali il rispondere a domande chiuse, a
domande aperte, a richieste di imitare, eseguire o completare azioni, parole;
l’esprimere disaccordo o accordo circa l’asserzione dell’interlocutore o
l’evento proposto.
Fey definisce un bambino conversatore attivo se è in grado di iniziare la
conversazione e di rispondere alle iniziative del suo interlocutore
indipendentemente dal suo livello di sviluppo linguistico, cioè se è in grado di
riconoscere la necessità di reciprocità dell’interazione conversazionale
nonostante che il suo messaggio espressivo presenti gravi limitazioni.
Tipicamente l’efficacia comunicativa del bambino dipende anche dall’impegno
che il suo interlocutore mette in atto per mantenere aperta la conversazione
premiando così il suo intento comunicativo. Quindi il bambino conversatore
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attivo esibisce atti asseritivi e responsivi ben bilanciati per quantità e qualità.
Questi atti segnalano la capacità non solo di iniziare una conversazione ma
anche di prefigurare ciò che l’interlocutore deve rispondere al fine di rispettare
le regole sociali.
I bambini conversatori passivi presentano più frequentemente e in
maggior misura degli atti di tipo responsivo e un basso livello di assertività;
sono caratterizzati da atti che sono semplici risposte che hanno la funzione di
tenere aperto il canale della conversazione e ci segnalano che il bambino è in
grado di prendere il suo turno, ma non è capace di contribuire alla
conversazione con nuove informazioni o iniziative. Questo aspetto rafforza il
ruolo che gli è proprio di “colui che risponde”, e non il ruolo di “colui che
dimostra iniziativa”, di conseguenza il consolidamento del ruolo responsivo gli
offre poche opportunità di esercitare le sue risorse per comunicare
informazioni; queste sono invece selezionate dal suo interlocutore, soprattutto
quando quest’ultimo è poco sensibile nel considerarlo un partner
conversazionale.
I bambini conversatori inattivi hanno un basso livello di comportamenti
assertivi e responsivi, producono pochi atti comunicativi conversazionali,
nonostante possano essere in grado di farlo. In genere si presentano come
bambini socialmente isolati pur non presentando gravi problemi relazionali,
sembrano non essere troppo interessati alla conversazione anche con persone
del loro ambiente familiare e spesso le loro risposte sono brevi e semplici,
sebbene le loro capacità di produzione siano avanzate.
Il bambino verbale non comunicatore è altamente assertivo ma non
responsivo, cioè la sua comunicazione non è contingente alle richieste del suo
interlocutore; presta poca attenzione e interesse all’ascolto di ciò che gli viene
comunicato ed è difficilmente agganciabile E’ un bambino che si potrebbe
definire socialmente poco adeguato, usa il suo linguaggio più per attirare
l’attenzione del proprio interlocutore piuttosto che per scambiare messaggi. (S.
Bonifacio e L. Hvastja Stefani 2010).
Come identificare le parole nel linguaggio spontaneo
La valutazione delle capacità comunicative in un bambino che presenta
ritardo di linguaggio è fondamentale per capire se il ritardo è limitato
solamente all’ambito linguistico, oppure comprende difficoltà nell’esprimere
intenzioni, iniziative e motivazione nel comunicare. Potremo così scoprire che,
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nonostante le capacità linguistiche espressive limitate nel bambino, egli
dimostra un livello più avanzato nelle abilità conversazionali ed è socialmente
adeguato.
Secondo Vihman e McCune (1994) l’approccio metodologico utilizzato
per identificare le vocalizzazioni come parole si basa fondamentalmente su due
criteri, il primo basato sulla somiglianza della forma fonetica con la parola
adulta nel confronto segmento per segmento, il secondo sulla funzione ricavata
dalla coerenza d’uso nel contesto. Questi criteri assumono una importanza
fondamentale, e sono di grande utilità, quando è necessario attribuire lo status
di parola alle vocalizzazioni dei bambini Parlatori Tardivi che sono nella fase in
cui il linguaggio sta emergendo, oppure nella fase in cui il linguaggio si sta
sviluppando, dove la variabilità delle forme fonetiche e spesso la scarsa
intellegibilità delle produzioni rendono difficile l’identificazione. In alcuni
soggetti per identificare le parole si deve fare ricorso di più al contesto di uso,
per altri ai criteri basati sul confronto complesso, cioè sull’insieme dei criteri
basati sulla forma delle vocalizzazioni e sulla relazione con le altre
vocalizzazioni. (ibidem)
L’uso della vocalizzazione avviene in un contesto che suggerisce
fortemente quella parola e non altre. L’identificazione da parte della madre non
richiede un atto esplicito, ma si individua dal riconoscimento che la madre fa di
una particolare vocalizzazione come parola che le permette di continuare la
conversazione. Il bambino inoltre spesso usa più volte la parola all’interno di
uno stesso episodio, cioè fa un uso sistematico e insistente di una forma
idiosincratica il cui significato è spesso condiviso dai familiari. In base alla
forma delle vocalizzazioni si può accreditare una vocalizzazione come parola
se il bambino, almeno in un caso, non omette, né aggiunge, né sostituisce
segmenti in relazione al modello; le differenze di sonorità vengono trascurate.
Vi può essere ancora una corrispondenza della forma della vocalizzazione del
bambino con almeno due foni della forma adulta o esservi una corrispondenza
prosodica nell’intonazione con il target adulto, o in più ripetizioni della stessa
forma c’è un’intonazione caratteristica che si adatta al significato della parola e
che ricorre in tutte le ripetizioni in questione. In base alla relazione con le altre
vocalizzazioni si considera una vocalizzazione come parola se è prodotta su
imitazione con evidente comprensione del significato, o se viene prodotta
sempre con la stessa forma fonetica secondo i criteri di corrispondenza parziale
o esatta, oppure l’uso di una forma ricorre in contesti che suggeriscono in modo
plausibile la stessa parola (ibidem).
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Peculiarità di alcuni profili clinici linguistici
La sordità
L’input gestuale offerto ai bambini di 16 mesi non è significativamente
diverso, né per tipi né per frequenza, da quello offerto ai bambini a 20 mesi e
che è composto da tre tipi di gesti: deittici, rappresentativi ed enfatici (Iverson
et al. 1999). Le madri sembrano utilizzare con i loro bambini soprattutto gesti
deittici e rappresentativi e solo molto raramente i gesti enfatici. Inoltre le madri
usano i gesti (soprattutto l’indicazione) con minore frequenza rispetto ai loro
bambini, e in una forma ridondante rispetto al parlato: le combinazione
gesto/parola più frequenti sono infatti quelle di tipo equivalente usate per
rafforzare il messaggio espresso con le parole. A circa un anno di età esiste nei
bambini una sorta di equipotenzialità tra la modalità vocale e quella gestuale:
tutti usano diversi tipi di gesti, sia deittici per riferirsi direttamente al contesto,
che rappresentativi, e spesso li combinano con le parole. Nella fase successiva
però quando divengono capaci di combinare due elementi rappresentativi,
scelgono la modalità vocale; i gesti continuano ad essere utilizzati soprattutto in
accompagnamento al parlato, come rinforzo, sostituzione o aggiunta. Esiste
inoltre la possibilità che una (o la sola) lingua utilizzata nell’ambiente sia una
lingua che si realizza nella modalità visivo-gestuale piuttosto che acusticovocale. E’ il caso dei genitori sordi che utilizzano con i propri figli una lingua
dei segni. I bambini udenti o sordi vengono così esposti ad un vero e proprio
“input linguistico gestuale”, dal momento che le lingue dei segni sono lingue a
tutti gli effetti con un lessico, una grammatica e una sintassi. Confrontando
attentamente i risultati di diversi autori Volterra e Iverson (1995) e più
recentemente Abrahamsen (2000) hanno dimostrato che, applicando gli stessi
criteri per definire le produzioni vocali e gestuali, molte differenze scompaiono,
confermando che tra i 12 e i 14 mesi il numero di gesti (o gesti + segni) e di
parole prodotti è molto simile sia nei bambini esposti solo alla lingua vocale sia
in quelli esposti alla lingua dei segni o ad “un input gestuale arricchito”.
L’influenza dell’input linguistico nella modalità segnica è invece evidente a
livello di combinatoria. Infatti i bambini non esposti ad una lingua dei segni,
combinano gesti e parole e più raramente gesti deittici. Questi bambini non
combinano mai due gesti rappresentativi. Al contrario, i bambini esposti alla
lingua dei segni combinano due segni alla stessa età in cui gli altri combinano
due o più parole (Caselli e Volterra 1994). I bambini che nascono sordi da
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genitori udenti non sono esposti, a causa del loro deficit, alla lingua parlata
nell’ambiente, né possono acquisire la lingua dei segni poiché questa non è
usata in famiglia. Le ricerche di Goldin-Meadow e Mylander (1984); GoldinMeadow e Morford (1985); Volterra, Beronesi e Massoni (1994) hanno
mostrato che nonostante le condizioni di apprendimento linguistico impoverite
e svantaggiate, i bambini sordi sviluppano ed usano un sistema gestuale che
esprime molte delle funzioni comunicative, semantiche e pragmatiche,
tipicamente presenti nel linguaggio di bambini esposti ad una lingua, in
condizioni normali. Le strutture linguistiche utilizzate in forma gestuale da
questi bambini sono più complesse rispetto a quelle usate (sempre
gestualmente) da bambini udenti non segnanti, ma più semplici se confrontate
ai segni di bambini sordi e alle parole di bambini udenti rispettivamente esposti
ad una lingua dei segni o ad una lingua parlata. Inoltre i bambini sordi non
esposti ad un input in segni sono in grado di combinare tra loro due o più gesti
rappresentativi (contrariamente a quanto avviene nei bambini udenti), ma
questa abilità compare quando la loro età cronologica è molto più avanzata
rispetto a quella in cui i bambini esposti ad una lingua a tutti gli effetti
producono le prime combinazioni di segni e parole (M. C. Caselli e V. Volterra
2002).
Nonostante la complessità della questione ad oggi i sostenitori del
metodo orale affermano che il sistema comunicativo di riferimento per
l’educazione del bambino sordo deve essere quello della lingua orale, e che si
possono utilizzare anche strategie visive quali la labiolettura, la lettura e la
scrittura precoci. Secondo questo approccio, gesti e segni sono superflui, se non
addirittura di ostacolo per lo sviluppo del linguaggio. In accordo con le più
recenti teorie, i gesti sono parte integrante del linguaggio e il “linguaggio è un
sistema integrato gesto-parola” (McNeill 2005). Gli atti del parlare e del fare
gesti sono collegati e le due modalità operano come unità inseparabili
riflettendo differenti aspetti semiotici della struttura cognitiva sottostante ad
entrambi (Kendon 2004; McNeill 2005). Recenti studi neurofisiologici e
comportamentali hanno dimostrato una forte integrazione del sistema
linguistico con quello motorio e messo in evidenza il valore cognitivo e
comunicativo di azioni e gesti (Gallese et al. 1996; Rizzolatti e Sinigaglia
2006). Il sistema dei neuroni a specchio sarebbe alla base di uno stretto legame
tra rappresentazione motoria, derivante da azioni, gesti e segni osservati, imitati
e prodotti, e rappresentazione semantica. I bambini sordi, anche quando non
sono esposti sistematicamente ad un input in lingua dei segni, usano i gesti con
59
Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2014
frequenza e varietà maggiori rispetto ai bambini udenti: tali gesti compaiono
isolati o in combinazione con altri gesti e/o con parole o enunciati di più parole
dando origine a frequenti fenomeni di bimodalità (Goldin Meadow 2003). I
gesti sono parte integrante del linguaggio e sono funzionali al suo sviluppo,
soprattutto nei casi in cui siano presenti difficoltà o atipie. Un loro uso
sistematico nel contesto logopedico può dunque sostenere l’apprendimento
della lingua parlata e l’espressione delle conoscenze da parte del bambino (M.
C. Caselli 2010).
La sindrome Down
Numerosi autori hanno evidenziato nelle persone con Sindrome di Down
(da ora SD) una comprensione verbale generalmente coerente con il livello
cognitivo generale e, al contrario, specifiche difficoltà sul versante della
produzione con una maggiore compromissione degli aspetti morfosintattici ed
un relativo risparmio delle competenze lessicali (Chapman 1995; Vicari, Caselli
e Tonucci 2000). Analizzando le prime fasi di sviluppo del linguaggio in
bambini con SD, Miller (1988) suggerisce l’esistenza di due profili linguistici
connessi all’età dei bambini esaminati: al di sotto dei 18 mesi le competenze
linguistiche sembrano coerenti con abilità cognitive generali; al di sopra dei 18
mesi, si evidenzia uno sviluppo asincrono tra produzione verbale e
comprensione: la produzione verbale inizia ad essere particolarmente
deficitaria sia rispetto all’età di sviluppo sia rispetto al livello di comprensione
raggiunto. Il divario fra comprensione e produzione linguistica appare sempre
più evidente al crescere dell’età cronologica. Le ricerche sulla comunicazione
gestuale dei bambini con SD si sono focalizzate spesso sull’uso del gesto di
indicazione. In particolare lo studio di Mundy e collaboratori (1989) ha
mostrato come i bambini con SD siano in grado di produrre l’indicazione con
funzione dichiarativa, mentre presentano difficoltà nella produzione di
indicazioni con funzione richiestiva. Caselli, Longobardi e Pisaneschi (1997)
hanno evidenziato che a parità di numero di parole e gesti conosciuti
(repertorio), i bambini con SD usano meno frequentemente parole rispetto ai
bambini di controllo e usano più sovente gesti comunicativi. Sempre Caselli e
collaboratori (1998) hanno evidenziato che il ritardo globale nello sviluppo
delle abilità comunicativo-linguistiche dei bambini con SD è in parte
caratterizzato da un andamento evolutivo rallentato e in parte atipico rispetto
allo sviluppo dei bambini normali. Nei bambini con SD esaminati è emersa
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Deodato G. Spunti teorici all'approccio logopedico...
un’asincronia fra produzione e comprensione verbale e, al contrario, una stretta
relazione fra comprensione di parole e produzione di gesti. I bambini con SD
mostrano un repertorio gestuale significativamente superiore a quello dei
bambini con sviluppo tipico. Tale repertorio comprende azioni simboliche (“far
finta di”) che implicano un livello di rappresentazione avanzato. Si conferma
dunque una sorta di dissociazione fra livello di sviluppo cognitivo generale e
produzione lessicale, e invece una buona capacità simbolica a livello non
verbale. Dunque i bambini con SD sembrano supplire alla carenza nella
modalità espressivo-vocale con una ricca gestualità comunicativa che
comprende un numero consistente di gesti rappresentativi e di gesti di
indicazione (M. C. Caselli e V. Volterra 2002).
In base alle ricerche recenti sembra evidente che una diversificazione nei
tempi e nei modi della crescita comporti necessariamente una differenza
qualitativa dello sviluppo stesso anche in termini di relazione con l’ambiente.
Ad esempio il sorriso sociale nel bambino con SD può comparire anche con 2
mesi di ritardo rispetto agli altri bambini. I sorrisi possono essere più brevi e
meno frequenti e si osservano più sovente in risposta a quello materno. Il
pianto può comparire meno frequentemente, e sappiamo quanto il pianto
svolga, soprattutto per la madre, una funzione comunicativa insostituibile nel
primo anno di vita: serve da richiamo, per esprimere un bisogno (fame) o
manifestare un disagio (malessere) (Gunn, Berry e Andrews, 1982). Un’altra
atipia è il minore utilizzo dello sguardo referenziale quale primitiva struttura
richiestiva (triangolazione visiva madre-oggetto-madre) (Jones 1984). Tale
difficoltà nella formazione del contatto oculare può condizionare l’acquisizione
della reciprocità e della capacità di turnazione all’interno sia del contatto
visivo, che della vocalizzazione. Si è osservata, infatti, una differenza
qualitativa del turn-talking nella coppia madre-bambino con SD, in quanto le
madri non effettuano un decremento della loro vocalizzazione rispetto a quella
dei propri figli, con un conseguente aumento della sovrapposizione all’interno
delle protoconversazioni e dei turni simultanei (Berger e Cunningham, 1986). I
gesti comunicativi si sviluppano con le stesse modalità dei bambini normali,
anche se la loro comparsa ritarda. Alcune ricerche evidenziano addirittura un
maggiore uso dei gesti deittici rispetto ai bambini normali confrontati per età
mentale. Tale uso però più che anticipare e sostenere la produzione verbale,
sembra quasi sostituirsi ad essa per un periodo molto prolungato. Tali gesti
risultano infatti essere usati più frequentemente delle parole o delle
onomatopee rispetto a ciò che accade nei bambini normali (Sabbadini e Ossella
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Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2014
1994). Inoltre si osserva la permanenza di gesti nella fase dell’attività
combinatoriale per un periodo molto lungo (Caselli, Marchetti e Vicari, 1994)
(S. Mazzotti 2010).
La Sindrome di Williams
La Sindrome di Williams (da ora SW) è una sindrome genetica che
comporta, come nel caso della Sindrome di Down, un ritardo cognitivo
generale con profili di sviluppo specifici. Diversamente dai bambini con SD, i
bambini con SW vengono spesso descritti come molto fluenti sul piano
dell’espressione verbale ma con capacità prassiche e visuo-spaziali piuttosto
compromesse. Singer e collaboratori (1997) hanno confrontato le prime fasi di
sviluppo del linguaggio in bambini con SD e in bambini con SW e non hanno
rilevato differenze significative né nella comprensione di parole né nella
produzione di parole (M. C. Caselli e V. Volterra 2002).
Il bambino con SW presenta un ritardo nello sviluppo del linguaggio: le
prime espressioni verbali compaiono infatti solo dopo i 2 anni. Tale ritardo
viene però dopo recuperato, per ciò che concerne l’espressione verbale,
manifestando soprattutto un esplosione del vocabolario: questi bambini infatti
imparano parole nuove ad un ritmo molto veloce. Volterra et al. (1996),
Sabbadini, Capirci e Vicari (2002) hanno evidenziato che in tali soggetti il
livello di sviluppo del linguaggio è correlabile all’età mentale, e che inoltre la
loro competenza non solo non rispecchia la loro età cronologica, ma presenta
alcune peculiarità. Le capacità espressive verbali, una volta acquisite,
rimangono carenti e soprattutto poco adeguate al contesto o agli argomenti che
si stanno trattando; è spesso evidenziabile una marcata anomia, e l’ambito
morfologico è particolarmente compromesso; inoltre, se non trattati
specificatamente, questi soggetti tendono a mostrare deficit semanticopragmatico, soprattutto nelle funzioni conversazionali e discorsive-narrative.
Sono tuttavia dei gran parlatori, anche se nel loro linguaggio compaiono frasi di
convenienza e frasi fatte, imparate come etichette verbali (O. Bartalucci e A.
Ciarabellini 2010).
I Disturbi dello Spettro Autistico
Gli attuali criteri diagnostici che identificano l’autismo si basano sul
riconoscimento di gravi disturbi in diverse aree: integrazione sociale reciproca,
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Deodato G. Spunti teorici all'approccio logopedico...
comunicazione verbale e non verbale, attività immaginativa e limitato
repertorio di attività e di interesse. Gli studi che si sono occupati di indagare lo
sviluppo comunicativo gestuale dei bambini con autismo hanno mostrato che
questi bambini sanno esprimere richieste relativamente ad oggetti, azioni e
routine sociali attraverso i gesti come l’indicare, il dare e le azioni ritualizzate.
Questi stessi gesti non vengono però usati con intenzione dichiarativa, anche se
come Baron-Cohen ha mostrato (1989; 1991) i bambini sono in grado di
comprendere la direzione dello sguardo dell’adulto. Alcuni studi hanno
evidenziato una stretta relazione tra gesti e parole anche in bambini con
autismo: quelli che in età prescolare hanno acquisito alcune capacità
comunicative non verbali, come l’uso dello sguardo e dei gesti comunicativi,
sviluppano un linguaggio più avanzato, rispetto ai bambini che presentano
maggiori difficoltà comunicative non verbali (Mundy, Sigman e Kasary 1994;
M.C. Caselli e V. Volterra 2002).
Nei disturbi dello spettro autistico il linguaggio e le capacità
comunicative sono estremamente variabili: infatti, troviamo descritti sia
bambini che presentano semplici atipie del linguaggio e delle modalità
comunicative, sia bambini con linguaggio assente o comunque in ritardo per
l’età cronologica. La presenza di un problema cognitivo influisce sull’età di
osservazione dei sintomi, sulla sintomatologia e sulla prognosi. Dal punto di
vista della comunicazione: a) gli scambi interattivi scarsi e inefficaci rendono il
bambino non consapevole sia del ruolo potenziale dell’altro come agente per il
soddisfacimento dei suoi desideri, sia degli effetti dei suoi segnali sulle
intenzioni dell’altro; b) l’atipia comunicativa, già evidente in fase presimbolica,
si manifesta con alterata intenzionalità, e mancato adeguamento agli aspetti di
convenzionalità e al contesto pragmatico; c) nel passaggio alla comunicazione
referenziale, solo i bambini ad alto funzionamento possono attivare gesti con
caratteristiche di ecoprassia riferiti ad azioni o eventi particolari, ma non gesti
referenziali riferiti ad un significato simbolico più generale; d) il passaggio alla
comunicazione verbale in questi bambini avviene, quasi sempre, con un ritardo
significativo, tramite una modalità ecolalica e con una grave dissociazione tra
produzione e comprensione verbale. Di conseguenza la funzione linguistica a
causa della dissociazione prassico-simbolica prima e prassico-linguistica dopo,
non supportata dalla capacità di condivisione, appare sganciata dalla
comunicazione ed evidenzia sin dall’inizio una difficoltà sia nell’emergenza,
sia nell’uso della comprensione verbale e una difficoltà di comunicazione sia
verbale che non verbale. La comparsa dell’ecolalia, che rappresenta una
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Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2014
modalità di apprendimento del linguaggio, inizialmente è costituita da parole
con significato poco condiviso, perché non supportate dall’azione e
apparentemente prive di contenuto affettivo (L. Diomede et al. 2010).
Il bambino può anche ricordare delle parole senza averle realmente
comprese. Paul (1987) afferma che i bambini autistici spesso sviluppano un
ampio vocabolario e alcuni di loro hanno un interesse ossessivo per le parole e
per il loro significato. Il bambino autistico può dare significato a certe parole in
maniera particolare. Per esempio può indispettirsi se qualcuno gli dice che la
“pesca” è anche un frutto, quando lui aveva precedentemente scoperto che
“pesca” è una parola relativa ai pesci e al mare; oppure che quando si dice “su”
ci si può riferire ad un piano verticale (per esempio, un orologio può essere sul
muro) quando invece gli è stato insegnato “su” in senso orizzontale. Questa
mancanza di flessibilità può stare a significare che il bambino trova difficile
accettare i molteplici significati delle parole. Le abilità del linguaggio si
formano a poco a poco rispettando certe regole; per esempio le parole sono
correlate le une con le altre e sono classificate in una certa maniera. Anche lo
sviluppo grammaticale ha un sistema basato su delle regole. Se il bambino non
produce il linguaggio utilizzando questi sistemi, ma piuttosto ha memorizzato
frasi intere o parti di esse, il suo linguaggio non è altro che un residuo
dell’ecolalia. Sarà quindi difficile per lui riconoscere le singole parole in quanto
potrebbero “essere nascoste” all’interno di una frase appresa (C. Firth e K.
Venkatesh 2002).
Conclusioni
Il linguaggio non è semplicemente “dare etichette”. Alle parole
corrisponde una immagine mentale con dei tratti distintivi non solo fonologici
ma anche concettuali che sono connessi tra loro come in una rete. Tanto più il
linguaggio è comunicazione, cioè scambio di informazioni su una realtà
comunque agita, quanto più il linguaggio è complesso perché la mappa
concettuale è ricca di informazioni. Il lessico e la semantica sono essenziali alla
comprensione e produzione del messaggio verbale e all’organizzazione sempre
più fine del pensiero operativo concreto, formale e astratto. Il lessico e la
semantica sono organizzati al loro interno in categorie sì che di parla di fluenza
fonologico-lessicale e di fluenza semantico-lessicale secondo che l’accesso al
lessico sia fonologico o semantico. Il tutto ha una forte interfaccia cognitiva
che poi ha ricadute anche sugli apprendimenti e sull’acquisizione delle abilità
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Deodato G. Spunti teorici all'approccio logopedico...
strumentali di lettura, scrittura e calcolo e in generale sull’autonomia e qualità
di vita.
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carico e intervento nei disturbi dello sviluppo. Guide per l’educazione speciale.
Erickson.
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trattamento. Springer.
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