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N.34
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Numero 3 PDF - anno 2013
2013
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DIRETTORE
RINO PAVANELLO
CO-DIRETTORE
STEFANO MAGLIA
Manuale Tecnico-giuridico di In-formazione e Documentazione
per RSPP, RLS, Giuristi, Operatori, Tecnici e Medici della Prevenzione
AUA: IN VIGORE DAL 13 GIUGNO
a cura di: Stefano Maglia
SOTTOPRODOTTO: NORMALE PRATICA INDUSTRIALE
a cura di: Stefano Maglia
DDL DI MODIFICA AL TUA
Rivista Ambiente e Lavoro
a cura di: Miriam Viviana Balossi
ACQUE REFLUE DOMESTICHE E INDUSTRIALI
a cura di: Stefano Maglia
EMISSIONI DI COV NEL TUA
a cura di: Leonardo Benedusi
PRELIEVI E ANALISI ACQUE REFLUE INDUSTRIALI
a cura di: Ettore Sassi
RESPONSABILITÀ PRODUTTORE DEL RIFIUTO
a cura di: Miriam Viviana Balossi
LINEE GUIDA SOTTOPRODOTTI ORIGINE ANIMALE
a cura di: Monica Taina
CSS: A CHE PUNTO SIAMO ?
a cura di: Chiara Zorzino
In collaborazione con
Rivista Ambiente e Lavoro
Febbraio 2011
IN QUESTO NUMERO
INDICE
2
NORMATIVA
Dal 13 giugno in vigore l’Autorizzazione Unica Ambientale
1
(S.Maglia)
3
INDICE
SALUTE E SICUREZZA
Sottoprodotto: ancora sul concetto di “normale pratica
Gli apparecchi e la protezione delle vie respiratorie
industriale”
(S.Maglia)
(Virginio
Galimberti)
COMMENTI
DDL di modifica
al TUA: si riparte? (M.V. Balossi)
25
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L’azione di rivalsa dell’INAIL
ARIA
E ACQUA
(Giovanni
De Luca)
SALUTE
E SICUREZZA
Differenze
tra acque
25
reflue domestiche e industriali
Spazi
Confinati: Sicurezza del lavoro e sistema di gestione
(S.Maglia)
(Eugenio Ferioli)
Emissioni
diAgenti
COV chimici
nel TUA
(L.Benedusi)
D.Lgs.
81/08:
e protezione
delle vie respiratorie
(Graziano Frigeri)
Prelievi e analisi di acque reflue industriali (E.Sassi)
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COMMENTI
COMMENTI
La manutenzione come elemento di garanzia della sicurezza di
macchine e impianti (Alessandro Mazzeranghi e Rossano Rossetti)
Fin dove arriva la responsabilità del produttore del rifiuto
COLLABORATORI
E CORRISPONDENTI
in caso di sub-appalto?
(M.V. Balossi)
Approvate le Linee Guida per la gestione dei
sottoprodotti di origine animale (M.Taina)
Combustibili solidi secondari: il punto della situazione
(C.Zorzino)
COLLABORATORI E CORRISPONDENTI
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Ambiente
DAL 13 GIUGNO IN VIGORE L’AUTORIZZAZIONE
UNICA AMBIENTALE
di Stefano Maglia*
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 124 del 29 maggio 2013 Suppl. Ordinario n. 42 è stato finalmente pubblicato il
Decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo
2013, n. 59 (Regolamento recante la disciplina dell’autorizzazione unica ambientale e la semplificazione di
adempimenti amministrativi in materia ambientale
gravanti sulle piccole e medie imprese e sugli impianti non soggetti ad autorizzazione integrata ambientale,
a norma dell’articolo 23 del decreto-legge 9 febbraio
2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 4
aprile 2012, n. 35): il Regolamento, atteso ormai da
mesi, entrerà in vigore il prossimo 13 giugno.
Con il D.P.R. 59/2013 viene data attuazione a quanto
disposto dall’art. 23, del D.L. 5/2012 (Decreto
Semplificazioni) conv. con modifiche nella L.
35/2012 e si applica alle piccole – medie imprese
(P.M.I.), ovvero quelle imprese di cui all’art. 2 del
D.M. 18 aprile 2005, oltre che agli impianti non soggetti alle disposizioni in materia di autorizzazione
integrata ambientale (A.I.A.). Invece il Decreto non si
applica ai progetti sottoposti alla valutazione di impatto ambientale (V.I.A.), laddove la normativa statale e
regionale disponga che il provvedimento finale di
V.I.A. comprende e sostituisce tutti gli altri atti di
assenso, comunque denominati, in materia ambientale, ex art. 26, c. 4, D.L.vo 152/06 (T.U.A.).
Ex art. 2, per autorizzazione unica ambientale
(A.U.A.) s’intende il provvedimento rilasciato dallo
sportello unico per le attività produttive (S.U.A.P.)
che sostituisce tutti gli atti di comunicazione, notifica
ed autorizzazione in materia ambientale.
Si rammenta che i provvedimenti che vengono sostituiti dall’A.U.A. sono:
- autorizzazione agli scarichi (D.L.vo 152/06, art.
124 ss.);
- comunicazione preventiva per l’utilizzo agronomico
degli effluenti di allevamento, delle acque di vegetazione dei frantoi oleari e dalle acque reflue delle
medesime aziende (D.L.vo 152/06, art. 112);
- autorizzazione alle emissioni in atmosfera per gli
stabilimenti (D.L.vo 152/06, art. 269);
- autorizzazione alle emissioni in atmosfera per gli
impianti e le attività in deroga (D.L.vo 152/06, art.
272);
- il nulla osta di cui all’art. 8, cc. 4 e 6, della L. 447/95
(Legge quadro sull’inquinamento acustico), per il
rilascio di concessioni edilizie relative a nuovi
impianti ed infrastrutture adibiti ad attività produttive, sportive e ricreative e a postazioni di servizi
commerciali polifunzionali;
- autorizzazione all’utilizzo dei fanghi derivanti dal
processo di depurazione in agricoltura (D.L.vo
99/92, art. 9);
- comunicazioni in materia di autosmaltimento e recupero di rifiuti (D.L.vo 152/06, artt. 215 e 216).
In ogni caso, le Regioni e le Provincie Autonome possono individuare altri atti di comunicazione, notifica
ed autorizzazione in materia ambientale che possono
essere ulteriormente compresi nell’A.U.A.
La procedura per il rilascio dell’autorizzazione unica
ambientale è dettagliatamente descritta nell’art. 4,
mentre il successivo art. 5 precisa le modalità per procedere al suo rinnovo.
Tutto ciò premesso, si segnalano alcune criticità.
L’art. 3, c. 1 dispone: “salvo quanto previsto dall’articolo 7, comma 1, i gestori degli impianti di cui
all’articolo 1 presentano domanda di autorizzazione
unica ambientale nel caso in cui siano assoggettati, ai
sensi della normativa vigente, al rilascio, alla formazione, al rinnovo o all’aggiornamento di almeno uno
dei seguenti titoli abilitativi …”. “Presentano” significa che devono presentare, ma di solito un obbligo è
usualmente assistito da una sanzione: in questo caso
no. Peraltro, l’art. 3, c. 3 dispone: “è fatta comunque
salva la facoltà dei gestori degli impianti di non avvalersi dell’autorizzazione unica ambientale nel caso in
cui si tratti di attività soggette solo a comunicazione,
ovvero ad autorizzazione di carattere generale, ferma
restando la presentazione della comunicazione o dell’istanza per il tramite del SUAP”. Alla luce di questa
disposizione è evidente che si tratta di un obbligo e
non di una facoltà di presentare la domanda di autorizzazione unica ambientale, fermo restando il ricorrerne
dei presupposti.
Quindi abbiamo il precetto. Ma la sanzione?
Ad avviso di chi scrive non è possibile ritenere valide
le sanzioni per le singole precedenti autorizzazioni
settoriali, perché l’attività (di gestione rifiuti piuttosto
che di scarico di acque reflue industriali) senza autorizzazione è sanzionata penalmente, e nel nostro ordinamento la sanzione penale non può essere oggetto di
applicazione “per relationem”. Quindi, se entro il
prossimo 13 giugno non interviene un atto ad hoc, ci
si può trovare nella situazione di avere un obbligo non
assistito da sanzione. Come rimediare? Al momento
l’iter istituzionale del D.D.L. “Semplificazioni bis” è
ancora “in itinere” e, siccome sarà un atto avente forza
di legge, si potrebbe valutare di inserire in quella sede
le sanzioni per il D.P.R. 59/2013.
* Prof. Stefano Maglia, univ. Parma, Titolare StudioMaglia e Pres. TuttoAmbiente
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Ambiente
SOTTOPRODOTTO: ANCORA SUL CONCETTO
DI “NORMALE PRATICA INDUSTRIALE
di Stefano Maglia*
In un mio articolo1 di un anno fa mi chiedevo “come
si fa in una medesima pronuncia … affermare in un
punto che la normale pratica industriale non può
comportare «trasformazioni radicali … che ne stravolgano l’originaria natura» e poche righe sotto
affermare che si devono escludere da tale concetto
solo «gli interventi manipolativi del residuo diversi da
quelli ordinariamente effettuati»?”, in quanto è
incomprensibile che quelli “ordinariamente” necessari nella “normale” pratica industriale non possano
consistere anche in “trasformazioni radicali”. E chiudevo l’articolo auspicando un futuro intervento, maggiormente coerente, della Suprema Corte di
Cassazione che, in effetti, si è - almeno parzialmente
- avuto con la recente pronuncia Cass. III Pen., n.
20886 del 15 maggio 2013.
A distanza di due anni e mezzo dalla riforma operata
dal D.L.vo 205/2010 sulla Parte IV – rifiuti del TUA,
con particolare riguardo alla distinzione tra “trattamento” e “normale pratica industriale”, interviene
questa nuova sentenza in merito al concetto di sottoprodotto. Inoltre, nonostante numerose prese di posizione della dottrina2 che insistono nello scindere questi due concetti - che, effettivamente, non c’entrano
nulla l’uno con l’altro -, gli effetti “nefasti” dell’originaria sentenza Cass. II Pen. n. 17453 del 10 maggio
2012 si sono trascinati fino ad oggi: rimane, infatti,
l’impostazione di fondo che prosegue nel dare una
visione talmente restrittiva a quanto disciplinato dall’art. 184-bis, c. 1, lett. c) a tal punto da limitare la
normale pratica industriale ai soli interventi minimali
che potrebbero essere effettuati sullo scarto.
Fa, peraltro, ben sperare il fatto che, in chiusura della
sentenza di Cass. Pen. 20886/2013, viene riportata
quella parte di motivazione della citata Cass. Pen.
17453/2012, l’unica alla quale si aderisce perché considera “conforme alla pratica industriale quella serie
di operazioni che l’impresa normalmente effettua
sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire, escludendosi di conseguenza, tutti quegli interventi manipolativi del residuo che siano diversi da quelli
ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel
quale esso viene utilizzato”. Detti interventi possono
anche essere ampi, estremamente articolati e complessi: l’importante è che siano quelli necessari e sufficienti per generare l’altro sottoprodotto alla luce della
normale pratica industriale.
E, come giustamente sostiene Luca Prati, “nei casi
dubbi dovrebbe ritenersi rientrare nella normale pratica industriale ogni operazione effettuata sulla
sostanza o sull’oggetto preventivamente al suo utilizzo che, nel settore industriale di riferimento, viene
condotta anche su materie prime, intermedi o prodotti, senza che derivi un maggior rischio in termini di
impatto ambientale per il fatto che venga impiegato
un sottoprodotto”3.
Insomma, è opportuno sempre ricordare la prima delle
priorità nella corretta gestione dei rifiuti (Dir.
98/08/CE): riutilizzare e produrre di meno. Non
dimentichiamolo.
* Prof. Stefano Maglia, univ. Parma, Titolare StudioMaglia e Pres. TuttoAmbiente
1 S. MAGLIA, Normale pratica industriale: la contraddittoria e “pericolosa” interpretazione della Cassazione (nota a Cass. n. 17453/2012), in Ambiente &
Sviluppo, n. 7/2012
2 Si vedano:
S. MAGLIA, Normale pratica industriale: la contraddittoria e “pericolosa” interpretazione della Cassazione (nota a Cass. n. 17453/2012), op. cit.;
A. MURATORI, Sottoprodotti: la Suprema Corte in difesa del sistema Tolemaico? (nota a Cass. n. 17453/2012), in Ambiente & Sviluppo, n. 7/2012;
L. PRATI, Rifiuti, sottoprodotto e normale pratica industriale: necessità di una interpretazione che tenga conto della finalità della norma, in http://www.lexambiente.it;
P. GIAMPIETRO, I trattamenti del sottoprodotto e la normale pratica industriale, in http://www.tuttoambiente.it
3 L. PRATI, Rifiuti, sottoprodotto e normale pratica industriale: necessità di una interpretazione che tenga conto della finalità della norma, op. cit.
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Riciclaggio
DDL DI MODIFICA AL TUA: SI RIPARTE ?
di Miriam Viviana Balossi*
La versione più recente del disegno di legge (n. 121)
recante “Modifiche al decreto legislativo 3 aprile
2006, n. 152 e altre disposizioni in materia ambientale” è stato comunicato alla Presidenza lo scorso 15
marzo. Detto DDL, pur riproducendo il testo già
approvato dal Senato in data 9 maggio 2012, si propone di disciplinare con maggior precisione ed efficacia
una serie di aspetti legati alla legislazione ambientale.
Tra gli aspetti più significativi, si segnalano gli articoli 3 e 4 relativi agli sfalci provenienti dall’attività di
manutenzione del verde pubblico e privato urbano.
L’ipotesi di riforma propone che qualunque residuo
dell’attività di potatura di “alberi” - a prescindere
dalla provenienza - possa “anch’esso” essere ricondotto nella categoria dei “sottoprodotti” ex art. 184
bis, se utilizzato per produrre energia da tale biomassa. Oltre a sottolineare il fatto che “sfalci e potature”
sono termini introdotti dal Legislatore italiano, mentre
nella corrispondente norma della Dir. 98/08/CE non
ve n’è alcuna traccia, si segnalano due aspetti critici:
nel presente DDL ci si limita solo al “materiale derivante dalla potature degli alberi” e, in secondo luogo,
si crea confusione tra “non rifiuti” ex art. 185 (come
sarebbe corretto) e sottoprodotti ex art. 184 bis (come
riportato nel testo, ma sostanzialmente errato).
Il successivo art. 5 dispone in tema di miscelazione di
rifiuti: in considerazione del fatto che in passato è
stata modificata la nozione di miscelazione e quella di
rifiuto pericoloso, la citata norma stabilisce che gli
effetti delle autorizzazioni in essere relative all’esercizio degli impianti di recupero o di smaltimento di
rifiuti che prevedono la miscelazione restano in vigore fino alla revisione delle autorizzazioni stesse.
In tema di organizzazione territoriale del ciclo di
gestione rifiuti, l’art.6 introduce la nuova lett. f-bis)
all’art. 200, prevedendo che l’azienda costituta da soli
enti locali, derivante dalla trasformazione di consorzi
o aziende speciali, tale da configurare un unico gestore del servizio a livello di bacino, può costituire ambito territoriale ottimale, purché la popolazione servita
sia pari o superiore a 250.000 abitanti: in tal caso
l’azienda diventa autorità d’ambito a tutti gli effetti e
l’affidamento dei servizi di raccolta e di smaltimento
dei rifiuti avviene direttamente.
Si segnala l’introduzione del nuovo art. 213 bis, al
fine di disciplinare il trattamento dei rifiuti tramite il
compostaggio aerobico e la digestione anaerobica.
L’obiettivo è quello di semplificare tutte le procedure
autorizzative relativamente agli impianti di compostaggio c.d. di prossimità (impianti di piccole dimen* Dott.ssa Miriam Viviana Balossi, Consulente StudioMaglia e TuttoAmbiente
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sioni che servono un massimo di qualche decina di
utenze), oggi sottoposti allo stesso iter autorizzativo
dei grandi impianti.
L’art. 10 modifica l’art. 228 del TUA: il contributo
ambientale per i pneumatici fuori uso costituisce
parte integrante del corrispettivo di vendita, è soggetto ad Iva e deve essere riportato in modo chiaro su ciascuna fattura nell’importo vigente alla data della cessione del prodotto.
In tema di terre e rocce da scavo, l’art. 13 stabilisce
che i materiali da scavo provenienti da miniere
dismesse o esaurite, collocate all’interno dei S.I.N.,
possono essere utilizzati nelle medesime aree minerarie per reinterri, riempimenti, rimodellazioni, etc …
Un’altra norma d’interesse è rappresentata dall’art.
17 relativo ai RAEE: questa disposizione prevede
che rientrino nella fase della raccolta il raggruppamento di AEE finalizzato al loro trasporto presso i
centri di raccolta.
Gli articoli 24 e 25 prevedono alcune misure destinate ad ampliare il campo delle imprese beneficiarie dei
previsti interventi normativi e regolamentari di semplificazione e riduzione dei controlli a livello
ambientale, facendo rientrare tra queste le imprese
certificate EMAS.
Infine, l’art. 26 dispone misure di semplificazione
ambientale volte a ridurre gli oneri di trattamento dei
residui e scarti di produzione e di consumo. Inoltre,
viene prevista la possibilità che i rifiuti derivanti da
attività di manutenzione delle infrastrutture, o comunque, di lavorazione industriale, siano conferiti direttamente agli impianti di smaltimento o recupero in condizione di soddisfare i requisiti ambientali previsti.
Ambiente
LE DIFFERENZE TRA ACQUE REFLUE DOMESTICHE
E INDUSTRIALI*
di Stefano Maglia**
Le tre tipologie di acque di scarico delineate dal D.L.vo
152/06 ripropongono quelle precedenti previste dal
D.L.vo 152/99, ovvero le acque reflue domestiche, le
acque reflue industriali, le acque reflue urbane.
Le “acque reflue domestiche” sono le “acque reflue
provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da
servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo
umano e da attività domestiche” (art. 74, c. 1, lett. g)
e sono caratterizzate da alcune parole chiarissime:
- residenziale - servizi;
- metabolismo umano;
- attività domestiche.
Tutte queste terminologie sono unite da una “e” e non
da una “o”. La sinergia di comune denominatore tra
queste terminologie limita il concetto al campo residenziale; il termine di “servizi” estende il campo
applicativo della definizione a una realtà diretta verso
criteri esterni, ma pur sempre connessi agli altri due
punti cardine seguenti. Infatti, la fonte di questo scarico deve essere prevalente come metabolismo umano
il quale resta comunque inderogabilmente legato a
una funzione di fisiologia naturale umana. Ulteriore
concetto di identificazione della definizione è “l’attività domestica”, la quale è legata anche essa al circuito chiuso con la precedente identità di qualificazione
da una “e” e non da una “o”. Il che significa che non
solo a livello di componente tale scarico deve derivare prevalentemente da un metabolismo umano strutturalmente inserito in una realtà socialmente classificabile come residenziale o al massimo di servizio come
sopra esposto, ma tutto ciò deve essere caratterizzato
da una fisionomia connessa alle attività domestiche.
La seconda importante definizione riguarda lo scarico
di “acque reflue industriali”. La norma, come modificata dal D.L.vo 4/2008, recita che tale scarico è
caratterizzato da “qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività
commerciali o di produzione di beni, diversi dalle
acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di
dilavamento …” (art. 74, comma 1, lett. h).
Il concetto di “attività commerciali o industriali”, fortemente sinergico perché rappresenta la fonte delle
acque reflue industriali, è delineato da “qualsiasi stabilimento nel quale si svolgono attività commerciali o
industriali che comportano la produzione, la trasformazione ovvero l’utilizzazione delle sostanze di cui
alla tabella 3 dell’allegato 5, ovvero qualsiasi altro
processo produttivo che comporti la presenza di tali
sostanze nello scarico”. Si tratta di due ipotesi di cui
la prima si articola a sua volta in due punti distinti.
Tale definizione si riferisce dunque, in primo luogo,
sia alle attività commerciali che industriali.
In altre sedi abbiamo sostenuto, e qui lo confermiamo,
che la definizione precedente alle modifiche del D.L.vo
4/2008 fondava la diversità delle acque reflue industriali dalle acque reflue domestiche su un criterio di differenza qualitativa (si leggeva infatti “differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle
meteoriche di dilavamento”); al riguardo si rammenta
che secondo Cass. III Pen., n. 21119 del 29 maggio
2007, ric. B. nella nozione di acque reflue industriali
rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente al prevalente metabolismo umano ed
alle attività domestiche, atteso che a tal fine rileva la sola
diversità del refluo rispetto alle acque domestiche.
Dopo l’intervento della novella del 2008, il nuovo criterio è senza dubbio quello della differenza della “provenienza”, proprio perché la caratteristica delle acque
industriali è quella di essere scaricate da edifici od
impianti in cui si svolgono attività commerciali o di
produzione di beni.
Da ultimo, si ricorda che il concetto di assimilabilità
(di cui si dirà più avanti), lungi dal trovare una sua
definizione nella normativa vigente, rimane comunque un’alternativa ampiamente sfruttata, anche se non
sempre nella maniera opportuna: infatti, l’art. 101, c.
7, D.L.vo 152/06 individua sì un elenco tassativo di
casi in cui determinate tipologie di acque reflue sono
assimilate ex lege alle domestiche, ma poi alla lett. e)
lascia un ampio margine di autonomia alla potestà
normativa regionale, la quale, di fatto, può vanificare
il suesposto principio giuridico.
Infatti, detta norma (il c. 7 della lett. e) dell’art. 101,
D.L.vo 152/06 cit.) prevede che “sono assimilate alle
acque reflue domestiche le acque reflue … aventi
caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale”. Al
riguardo, le differenti disposizioni regionali che si
possono rinvenire nel ns. panorama normativo sono la
conseguenza di quel concetto, non definito, ma facilmente oggetto di interpretazioni più o meno estensive
da parte delle Regioni, di “equivalenza” previsto dall’art. 28, c. 7, D.L.vo 152/99, prima, e dall’art. 101, c.
7, D.L.vo 152/06, poi: “si tratta dunque, … di una
vera e propria norma bianca di apertura verso la
disciplina regionale che sostanzialmente diventa arbitra in tutta questa delicata materia”.
* Tratto da “Diritto e gestione dell’ambiente” di Amedeo Postiglione e Stefano Maglia, Ed. Irnerio
** Prof. Stefano Maglia, univ. Parma, Titolare StudioMaglia e Pres. TuttoAmbiente
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Riciclaggio
EMISSIONI DI COV NEL TUA*
di Leonardo Benedusi**
L’art. 275 del D.Lgs. 152/06 e l’allegato III alla parte quinta disciplinano i composti organici volatili, indicando:
- i limiti di emissione;
- le modalità di monitoraggio e di controllo delle
emissioni;
- i criteri per la valutazione della conformità dei valori misurati ai valori limite;
- le modalità di redazione del piano di gestione dei
solventi.
Per comprendere di quali sostanze si tratti, si deve ricorrere alla definizione di composto organico volatile.
A seconda delle diverse finalità delle normative
attualmente vigenti, vengono fornite più definizioni.
Nonostante il titolo I consideri solo i COV così come
definiti dall’art. 268 del D.Lgs. 152/06, è opportuno
richiamare anche le definizioni fornite da altre normative, in quanto possono esservi implicazioni per quanto riguarda gli aspetti prettamente tecnici in tema di
emissione di COV.
L’art. 268 del D.Lgs. 152/06 definisce:
- composto organico: “qualsiasi composto contenente
almeno l’elemento carbonio e uno o più degli elementi seguenti: idrogeno, alogeni, ossigeno, zolfo,
fosforo, silicio o azoto, ad eccezione degli ossidi di
carbonio e dei carbonati e bicarbonati inorganici”;
- composto organico volatile (COV): “qualsiasi composto organico che abbia a 293,15 K una pressione
di vapore di 0,01 kPa o superiore, oppure che abbia
una volatilità corrispondente in condizioni particolari di uso”, ai fini della parte quinta del decreto, “è
considerata come COV la frazione di creosoto che
alla temperatura di 293,15 K ha una pressione di
vapore superiore a 0,01 kPa”.
Il D.Lgs. 155/10, già analizzato nel capitolo precedente fornisce, per le sue finalità, la seguente definizione
di COV: “tutti i composti organici diversi dal metano
provenienti da fonti antropogeniche e biogeniche, i
quali possono produrre ossidanti fotochimica reagendo con gli ossidi di azoto in presenza di luce solare”.
Tale definizione, tuttavia, non influisce direttamente
sulla disciplina di cui al titolo I della parte quinta del
D.Lgs. 152/06, pur avendo il medesimo obiettivo di
riduzione dell’inquinamento atmosferico, in particolare di origine fotochimica.
Il D.Lgs. 27.3.2006 n. 161, con cui è stata recepita la
direttiva 2004/42/CE, ha l’obiettivo di prevenire e
limitare l’inquinamento atmosferico derivante dall’effetto dei COV sulla formazione dell’ozono troposferi-
co, pertanto introduce disposizioni specifiche per le
pitture, le vernici e i prodotti per carrozzeria, con
implicazioni sugli stabilimenti ricadenti, in generale,
nel titolo I della parte quinta del D.Lgs. 152/06. Le
definizioni fornite dal D.Lgs. 161/06, seppur valide
solo per le finalità del decreto stesso, sono le seguenti:
- composto organico: “qualsiasi composto contenente
almeno l’elemento carbonio e uno o più degli elementi seguenti: idrogeno, ossigeno, zolfo, fosforo,
silicio o azoto, cloro, bromo e fluoro, ad eccezione
degli ossidi di carbonio e dei carbonati e bicarbonati inorganici”;
- composto organico volatile: “qualsiasi composto
organico avente un punto di ebollizione iniziale
pari o inferiore a 250°C misurato ad una pressione
standard di 101,3 kPa”.
Come si vede, tra il D.Lgs. 152/06 e il D.Lgs. 161/06
vi sono due differenze:
- il D.Lgs. 152/06 prevede che possano essere composti organici i composti contenenti tutti gli elementi
alogeni (ossia fluoro, cloro, bromo, iodio e astato,
quest’ultimo, peraltro, è radioattivo), mentre il
D.Lgs. 161/06 riconosce composti organici solo
quelli contenenti gli alogeni fluoro, cloro e bromo;
- il principio di classificazione dei COV presente nelle
due normative si basa su diverse proprietà chimiche.
La prima differenza sembra essere poco rilevante, per
il fatto che i prodotti a livello industriale contenti
iodio sono marginali. Essa deriva da una errata trasposizione della direttiva 2004/42/CE, che definisce composto organico “qualsiasi composto contenente almeno l’elemento carbonio e uno o più degli elementi
seguenti: idrogeno, ossigeno, zolfo, fosforo, silicio,
azoto od un alogeno, ad eccezione degli ossidi di carbonio e dei carbonati e bicarbonati inorganici”.
Definizione sostanzialmente coincidente con quella
della direttiva 1999/13/CE1 e recentemente ripresa
nella direttiva 2010/75/UE.
La seconda differenza è più sostanziale in quanto possono esservi composti considerabili COV sulla base di
un criterio, ma non dell’altro. Senza dubbio, la maggior parte dei composti comunemente in uso soddisfa
entrambe le condizioni, ma ciò non deve essere dato
per scontato.
Per meglio comprende le differenze tecniche occorre
richiamare i concetti di pressione di vapore e di punto
di ebollizione.
* Tratto da L. BENEDUSI, Guida pratica alle emissioni in atmosfera e alla qualità dell’aria, Irnerio Editore, 2011.
** Ing. Leonardo Benedusi, Funzionario Provincia Piacenza e autore del volume “Guida pratica alle emissioni in atmosfera e alla qualità dell’aria” (Ed. Irnerio)
1 La direttiva 1999/13/CE è stata recepita con il DM 16.1.2004 n. 44, confluito nella parte quinta del D.Lgs. 152/06.
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Rivista Ambiente e Lavoro
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Riciclaggio
PRELIEVI E ANALISI DI ACQUE REFLUE
INDUSTRIALI*
di Ettore Sassi**
Prelievi ed analisi dei campioni costituiscono un
aspetto nevralgico nel campo dell’applicazione del
D.L.vo 152/06 in materia di inquinamento idrico: è,
infatti, inevitabile nella maggior parte dei casi ricorrere a questa procedura per integrare il sistema probatorio delle violazioni di legge nel campo specifico.
Per la misurazione ed il controllo degli scarichi valgono le regole base stabilite dall’art. 101, c. 3: “tutti
gli scarichi ad eccezione di quelli domestici e di quelli assimilati ai sensi del comma 7, lett. e) devono essere resi accessibili per il campionamento da parte dell’autorità competente per il controllo nel punto assunto a riferimento per il campionamento, che, salvo
quanto previsto dall’art. 108, comma 4, va effettuato
immediatamente a monte della immissione nel recapito in tutti gli impluvi naturali, le acque superficiali e
sotterranee, interne e marine, le fognature, sul suolo
e nel sottosuolo”.
Sussiste tuttavia un’eccezione a questa regola-base
sul punto di prelievo stabilita dall’art. 108, c. 5, che
prevede in deroga al principio-base così espresso che
“per le acque reflue industriali contenenti le sostanze
della tabella 5 dell’allegato 5 alla Parte III del presente decreto, il punto di misurazione dello scarico è
fissato secondo quanto previsto dall’autorizzazione
integrata ambientale di cui al D.L.vo 18 febbraio
2005, n. 59, e, nel caso di attività non rientranti nel
campo di applicazione del suddetto decreto, subito
dopo l’uscita dallo stabilimento o dall’impianto di
trattamento che serve lo stabilimento medesimo”.
In ordine all’importante tema del punto di prelievo, la
giurisprudenza della Cassazione aveva già stabilito in
precedenza che, al fine di conseguire la prova del
superamento del limite tabellare da parte di un insediamento produttivo, il prelievo deve essere effettuato sul sistema di scarico immediatamente prima del
riversamento del refluo sul corpo ricettore. Infatti,
l’insediamento deve essere munito di pozzetto di ispezione per operare il prelievo; ove l’insediamento non
disponga di un pozzetto, il punto ideale sarà scelto
dall’operatore di vigilanza che esegue il prelievo. E’
fuorviante effettuare il prelievo dopo il riversamento
dello scarico sul corpo ricettore per ricercare la violazione tabellare specifica.
In particolare, precisa la sentenza n. 4648 del
Consiglio di Stato, Sez. V, 9 settembre 2005, che “ai
fini dell’esatta individuazione del punto di prelievo
dei reflui dell’impianto di smaltimento, rilevante ai
fini del controllo sull’eventuale superamento dei limiti tabellari, l’art. 34, comma 3, del D. Lgs. n.
152/1999 fissa inequivocabilmente il punto posto
“subito dopo l’uscita dallo stabilimento o dall’impianto di trattamento”. Ove lo stabilimento sia costituito da un complesso ed articolato sistema di depurazione, composto da una pluralità di passaggi intermedi prima dell’immissione delle acque nel corpo
ricettore, il punto di misurazione va pertanto individuato nei tratti terminali del canale di scarico, immediatamente precedenti lo sbocco nel corpo ricettore.
La provincia, ove intenda qualificare una parte dell’impianto (nello specifico, la cokeria) come funzionalmente autonomo, è tenuta a imporre preventivamente la separazione dello specifico scarico dalle
acque di raffreddamento o di lavaggio, configurandolo al contempo come “parziale” ai sensi del D. Lgs.
n. 152/99 oppure fissando, in sede di autorizzazione,
ulteriori e più stringenti prescrizioni tecniche ex art.
45, comma 9, all’insegna della migliore tecnologia
disponibile (da descriversi esattamente e, soprattutto,
da individuarsi alla stregua dei principi di proporzionalità e di precauzione)”.
La norma prevede espressamente che gli scarichi
devono essere resi accessibili e l’autorità competente al controllo è autorizzata ad accedere ai luoghi degli
stessi ed ancora che “l’autorità competente per il controllo è autorizzata ad effettuare tutte le ispezioni che
essa ritenga necessarie per l’accertamento delle condizioni che danno luogo alla formazione degli scarichi” (art. 101, c. 4).
Non si dimentichi che, peraltro, l’art. 129 prevede
come “il titolare dello scarico è tenuto a fornire le
informazioni richieste e a consentire l’accesso ai luoghi dai quali origina lo scarico”.
Il c. 4 dell’art. 101 prescrive quanto segue: “l’autorità competente per il controllo è autorizzata ad effettuare tutte le ispezioni che ritenga necessarie per l’accertamento delle condizioni che danno luogo alla formazione degli scarichi. Essa può richiedere che scarichi parziali contenenti le sostanze di cui ai numeri
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 12, 15, 16, 17 e 18 della
tabella 5 dell’allegato 5 alla parte terza del presente
decreto, subiscano un trattamento particolare prima
della loro confluenza nello scarico generale”. Tale
previsione riguarda il potere di controllo da parte dell’autorità competente in materia di scarichi e, pur
essendo una disposizione d’indubbia utilità, va considerato che il potere ispettivo di tipo preventivo amministrativo e repressivo penale era già individuabile nei principi generale dell’ordinamento.
* Articolo tratto da LA GESTIONE DEGLI SCARICHI, di M.V. Balossi – E. Sassi, Irnerio Editore, 2011
** Dott. Ettore Sassi, chimico, già Responsabile del Servizio Territoriale presso ARPA Piacenza, Consulente ambientale.
12
Rivista Ambiente e Lavoro
2013
Ambiente
FIN DOVE ARRIVA LA RESPONSABILITÀ DEL
PRODUTTORE DEL RIFIUTO IN CASO DI SUB-APPALTO?
di Miriam Viviana Balossi*
Nel caso in cui una ditta si sia aggiudicata, tramite
un affidamento diretto da un privato, un’attività di
demolizione di un edificio e conseguente trasporto a
smaltimento/recupero dei rifiuti, quale soggetto
deve essere identificato come produttore sul formulario di rifiuti qualora questa ditta sub-appalti il
lavoro ad un’altra impresa?
L’art. 183, c. 1, D.L. vo 152/06 individua il produttore dei rifiuti nel “soggetto la cui attività produce
rifiuti (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti”.
Dalla sopraccitata nozione di produttore discendono
tre ipotesi:
1) il produttore iniziale (la persona la cui attività ha
prodotto rifiuti);
2) il produttore secondario (la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre
operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti);
3) il non produttore (la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che non hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti).
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha avuto
occasione in numerose pronunce di prendere posizione ed esprimersi sulla corretta individuazione della
nozione di produttore e detentore del rifiuto. In particolare si è precisato che “per produttore di rifiuti deve
intendersi non soltanto il soggetto dalla cui attività
materiale sia derivata la produzione dei rifiuti, ma
anche il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione ed a carico del quale sia quindi
configurabile…l’obbligo di provvedere allo smaltimento dei detti rifiuti nei modi prescritti” (Cass. III
Pen., 4957 del 21 gennaio 2000)1. Tale concetto si
ricava dall’analisi complessiva della disciplina da cui
emerge con chiarezza la volontà del Legislatore di
estendere il campo dei soggetti obbligati e di prevedere norme di chiusura tali da impedire comodi trasferimenti di responsabilità.
Quindi, in sintonia con la lettera della norma e la ratio
del sistema giuridico ambientale, si ipotizza una lettura testuale del dettato normativo dell’art. 183, c. 1,
lett. f) del D.L. vo 152/06 sulla nozione di produttore che, ribadiamo ancora, riferisce tassativamente
tale figura a colui la cui attività ha prodotto dei
rifiuti. Il fatto che tale attività possa essere intesa in
senso sia materiale che giuridico consente di ritenere
come tale, per esempio, non solo chi materialmente
opererà (p.es., il sub-appaltatore), ma anche colui che
(p.es., l’appaltatore) da un lato ha un obbligo contrattuale di realizzazione di un’attività che produrrà rifiuti e contemporaneamente un obbligo di vigilanza su
un soggetto “delegato” a tal fine.
A chiusura del sistema, ovvero nel caso in cui colui
che decide di far effettuare un’operazione (ad es., il
committente, il quale resta escluso “direttamente”
dall’applicazione della norma sulle responsabilità
ex art. 188) che presumibilmente genererà rifiuti, sia
eventualmente a conoscenza (o, ancora peggio, colluso) di attività illecite commesse dall’effettivo produttore (per alcuna giurisprudenza è sufficiente che non
abbia verificato le autorizzazioni del soggetto la cui
attività ha prodotto rifiuti)2, soccorre e completa, per
l’appunto, il regime di responsabilità di cui all’art.
178 D.L.vo 152/06 (già art. 2, c. 3, D.L.vo 22/97).
In conclusione, quindi, nella fattispecie in premessa
alla voce produttore del formulario andrà inserito
il nome della ditta a cui è stato sub-appaltato il
lavoro, in quanto è l’impresa che materialmente
procede alla demolizione dell’edificio ed è quindi
dalla sua attività che si generano i rifiuti.
Eventualmente si potrà riportare nelle annotazioni che
l’attività di demolizione è stata svolta a seguito di
regolare contratto di sub-appalto con la società aggiudicataria del lavoro.
* Dott.ssa Miriam Viviana Balossi, Consulente StudioMaglia e TuttoAmbiente
1Concetto che si ritrova in successive pronunce: Cass. III Pen., 1303 del 12 ottobre 2005, Cass. III Pen., 6443 del 11 febbraio 2008. Giurisprudenza citata in
RAMACCI L., La nuova disciplina dei rifiuti, CELT, 2008, pag. 58.
2Ex multis, si veda Cass. Pen., III, n. 8018 del 1 marzo 2012, ric. Celino, secondo cui l’affidamento di rifiuti a soggetti terzi, al fine del loro smaltimento, comporta per il soggetto che li conferisce precisi obblighi di accertamento (in particolare, la verifica sia dell’affidabilità del terzo che dell’esistenza in capo al medesimo delle necessarie autorizzazioni e competenze per l’espletamento dell’incarico), la cui violazione giustifica l’affermazione della responsabilità penale per
il mancato controllo a titolo di culpa in eligendo.
Rivista Ambiente e Lavoro
2013
15
Riciclaggio
APPROVATE LE LINEE GUIDA PER LA
GESTIONE DEI SOTTOPRODOTTI DI
ORIGINE ANIMALE
di Monica Taina*
Il 7 febbraio scorso la Conferenza Unificata ha approvato le Linee Guida per la gestione dei S.O.A.
Il documento costituisce un atto di indirizzo circa
l’applicazione del Regolamento n. 1069/2009 sui
S.O.A., con risvolti sui profili sia sanitari che ambientali, avente valore sull’intero territorio, che dovrà formalmente essere recepito dalle singole Regioni e
Provincie autonome, ma che possiamo ritenere già
significativo per gli operatori del settore, pur trattandosi di “Linee Guida” che quindi non devono contrastare con la disciplina di rango primario nazionale (ed
a maggior ragione con quella europea)1.
Il documento approvato lo scorso 7 febbraio è sostanzialmente identico rispetto alla prime versioni che erano
state rese note agli addetti ai lavori nella primavera scorsa, ed in relazione alla fase del trasporto, conferma che
se S.O.A. e derivati sono destinati a impianti di incenerimento e coincenerimento o a discariche autorizzate
sono da trasportarsi obbligatoriamente con FIR, anche
nel caso in cui si abbia il conferimento a siti intermedi
di stoccaggio (art. 10 delle LG).
Le LG quindi non entrano nel merito della classificazione giuridica dei S.O.A. ma dispongono in ordine al
loro trasporto.
Nonostante il documento sia stato approvato con l’accordo del MATTM, le norme inerenti il trasporto dei
S.O.A. sembrano ignorare la vigente legislazione
nazionale in tema di trasporto rifiuti, ovvero quanto
previsto dall’art. 193 del TUA2. Tale norma prevede
che il FIR sia validamente sostituito dal DDT ex
Regolamento 1069/2009, mentre le LG di fatto pongono una regola “più restrittiva” per il caso in cui i
S.O.A. siano destinati ad essere gestiti “certamente
come rifiuti”, ovvero avviati a incenerimento e coincenerimento o in discarica.
La scelta di un regime più severo per il trasporto dei
S.O.A. potrebbe essere giustificata delle finalità di
tutela ambientale che caratterizzano usualmente i trasporti dei rifiuti ovvero la tutela dell’ambiente e della
salute umana, ma senz’altro tale scelta poteva essere
meglio motivata nelle LG, a favore degli operatori del
settore che da tempo aspettavano indicazioni in tal
senso, e che oggi si troveranno ancora in dubbio sulla
corretta documentazione per il trasporto3.
Senza contare che lo stesso MATTM ha recentemente
reso pubblica una proposta di “Regolamento recante
criteri e modalità di impiego delle biomasse a fini
energetici ai fini dell’articolo 184-bis comma 2 del
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”, la quale
passa in rassegna i criteri di cui all’art. 184 bis per
classificare i residui come prodotti e che nell’allegato
1 e tra le biomasse combustibili indicate nell’atto vi
sono numerosi riferimenti ai S.O.A. ad esempio: stallatico, contenuto del tubo digerente e farine animali.
Ancora una volta, quindi, penalizzati saranno gli
operatori, pur a fronte di un documento che voleva
essere di supporto e chiarimento alle modalità pratiche di gestione.
* Avvocato, consulente esterno presso Tuttoambiente srl
1Nella gerarchia delle fonti, le Linee Guida si collocano ad un livello inferiore rispetto ai principi fondamentali della materia che, nelle ipotesi di legislazione
concorrente come quella ambientale, l’articolo 117, comma 3, ultimo periodo, della Costituzione, rimette «alla legislazione dello Stato». Peraltro nella fattispecie la legislazione competente sarebbe quella europea. Tuttavia, avendo funzione attuativa dei medesimi principi fondamentali, le linee guida rappresentano
disposizioni interposte tra le norme statali o europee di principio e la legislazione di (ulteriore) dettaglio regionale, sicché, ove quest’ultima si dovesse porre in
contrasto con le prime, sarebbe sostanzialmente violato l’articolo 117, comma 3, della Costituzione. Come pure incostituzionale sarebbe una legge nazionale
lesiva delle linee guida (quale intesa tra lo Stato, le regioni ed il sistema delle autonomie locali), per violazione del principio costituzionale di leale collaborazione, cui devono improntarsi i rapporti fra i vari soggetti dell’ordinamento che, a livelli diversi, operano nella medesima materia.
2Si rammenta che ai sensi del combinato disposto dei cc. 1 e 2 dell’art. 16 del D. L.vo 3 dicembre 2010, n. 205, a decorrere dal giorno successivo alla scadenza del termine di cui all’articolo 12, comma 2 del decreto del MATTM in data 17 dicembre 2009, pubblicato nel S.O. alla Gazzetta Ufficiale n. 9 del 13 gennaio 2010, e successive modificazioni, (sospensione del SISTRI) l’art. 193 sarà sostituito da una nuova versione di testo che NON conterrà più il criterio dell’equipollenza.
3Si potrebbe osservare che le LG sono in un qual modo in linea con il Regolamento Comunitario 1069/2009 che, come detto, distingue il regime giuridico degli
impianti che gestiscono i S.O.A. come rifiuti o meno (ovvero come combustibile).
16
Rivista Ambiente e Lavoro
2013
Ambiente
COMBUSTIBILI SOLIDI SECONDARI:
IL PUNTO DELLA SITUAZIONE
di Chiara Zorzino*
Allo stato attuale, in virtù delle recenti novità normative, il quadro inerente i CSS si caratterizza per una
maggior chiarezza in termini di definizioni e gestione
di quanto non fosse in precedenza. Gran parte del
merito è da attribuire a due recenti atti normativi: il
DM n. 22/2013 e il DM 20 marzo 2013.
Il primo, “Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie
di combustibili solidi secondari (CSS), ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3
aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni”, stabilisce i criteri specifici da rispettare affinché determinate tipologie di combustibile solido secondario
(CSS), cessano di:
essere qualificate come rifiuto, come definito all’articolo 183, comma 1, lettera cc), del sopracitato D. L.
vo. Infatti l’art. 183, c.1, alla lettera cc), come modificato dal D.L. vo n. 205/2010, che aveva superato la
distinzione tra CDR e CDR-Q, recita <<“combustibile solido secondario (CSS)”: il combustibile solido
prodotto da rifiuti che rispetta le caratteristiche di
classificazione e di specificazione individuate delle
norme tecniche UNI CEN/TS 15359 e successive
modifiche ed integrazioni; fatta salva l’applicazione
dell’articolo 184-ter, il combustibile solido secondario, è classificato come rifiuto speciale>>. Poiché
l’art. 184-ter, che altro non è che il recepimento dell’art. 6, c.1, della direttiva 98/2008/CE, definisce le
condizioni affinché sussista la cessazione della qualifica di rifiuto1, in base a quanto appena esposto, si può
dedurre che il “CSS” è un rifiuto speciale2, che rispetta le caratteristiche di classificazione e specificazione
delle UNI CEN 15359, a meno che non si ravvisi
un’ipotesi di “end of waste”. A questo riguardo, il
Prof. Stefano Maglia sottolinea che il sopracitato art.
184-ter, al c. 2, recepisce quanto disposto anche dal c.
4 dell’art. 6, della dir 98/2008/CE, ossia <<2. I criteri di cui al comma 1 sono adottati in conformità a
quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero,
in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per
specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più
decreti del Ministro dell’ambiente..>>.
La disciplina comunitaria ha da tempo stabilito i criteri per due precise tipologie di rifiuto: alcuni tipi di rottami metallici, mediante il Reg. (UE) n. 333 del 31
marzo 2011, e i rottami di vetro, a mezzo del Reg.
(UE) n. 1179 del 10 dicembre 2012. Il citato DM
22/2013 viene a delinearsi quindi come il primo atto
normativo sul piano nazionale, in tema di “end of
waste”.
Il Prof. Maglia chiarisce inoltre la differenza esistente
tra CSS (rifiuto speciale), come definito dall’art. 183,
c. 1 , lettera cc) del T.U.A. (cfr. sopra) e CSS – combustibile (E.o.W.) come definito dall’art. 3, c. 1, lettera e) del DM 22/13, ovvero << “CSS-Combustibile”:
il sottolotto di combustibile solido secondario (CSS)
per il quale risulta emessa una dichiarazione di conformità nel rispetto di quanto disposto all’articolo 8,
c. 2 >>. Analizzate anche le responsabilità, per le quali
si rammenta l’esistenza della “231-ambiente”, che
affianca a una responsabilità penale anche una amministrativa, e le sanzioni, conseguenti ad una <<..attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della
prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione..>> come sancito dall’art. 256 del T.U.A.
La Dott.ssa Claudia Mensi di Fise-Assoambiente
ripercorrendo la genesi del DM 22/2013, premette ciò
che è già noto ai più, e cioè che alcuni Stati membri,
sfruttano a proprio vantaggio l’incapacità italiana di
gestire grandi quantità di rifiuti che quindi vengono a
loro ceduti, con un costo triplo per l’Italia: uno per
l’esportazione, uno per l’incenerimento/trattamento e
uno, indirettamente, per l’energia da essi derivata e
che il nostro Paese acquista proprio da tali Stati, appaiono scontati i numerosi pareri contrari di questi ultimi, recapitati a Bruxelles a seguito dell’invio, da parte
del Ministero dell’ambiente, della bozza del decreto,
il 10 agosto 2012.
Nel novembre 2012 l’Europa ci rispose con qualche
osservazione, che lo Stato italiano ha diligentemente
accolto e, dopo aver provveduto alle modifiche necessarie, ha ottenuto in gennaio un parere positivo della
* Dott.ssa Chiara Zorzino, Consulente StudioMaglia e TuttoAmbiente
1 Art. 184-ter, c.1 : << Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici;
b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.>>
2In base alla norma UNI CEN 15359 i CSS sono combustibili solidi ottenuti da rifiuti non pericolosi, preparati per essere avviati a recupero energetico in
impianti di incenerimento o co-incenerimento; essi possono essere prodotti a partire da rifiuti urbani e rifiuti speciali quali scarti da flussi specifici di produzione, rifiuti da costruzione e demolizione, fanghi da acque reflue. Di concerto, l’art.6, c. 1, Tit. II, DM 22/2013 prevede “per la produzione del CSS-Combustibile
sono utilizzabili solamente i rifiuti urbani e i rifiuti speciali, purché non pericolosi. (..)non sono ammessi i rifiuti non pericolosi elencati nell’Allegato 2.”
Rivista Ambiente e Lavoro
2013
17
Hanno collaborato:
Guido ANELLI, Giovanni ACHILLE, Miriam Viviana BALOSSI, Eginardo BARON, Leonardo BENEDUSI, Paola BERTOLI,
Rosa BERTUZZI, Carlo BISIO, Enrico BONAFINI, Olivia BONARDI, Enrico BONADIO, Renata BORGATO, Marco BOTTAZZI, Mercedes BRESSO, Carlo CALABRESI, Maria Adele CAMERANI CERIZZA, Maria Pia CANCELLIERI, Michele
CANDREVA, Riccardo CANESI, Marco CARLETTI, Renato CASCINO, Mauro CATINO, Luigi CATTERINA, Marco CERRI,
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Domenico FEDELE, Eugenio FERIOLI, Pasquale FIMIANI, Laura FINOCCHIARO, Sara FIORAVANTI, Ilenia FOLLETTI,
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Virginio GALIMBERTI, Giulia GASPARINI, Luigi GASPERINI, Paride GIANGIACOMI, Michela GIANNINI, Bruno GIORDANO, Angelo GIOVANNAZZI, Celsino GOVONI, Elena GORGITANO, Carlo Maria GRILLO, Anna GUARDAVILLA,
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LEONARDI, Stefano LEONI, Carlo LUCCHINA, Giuseppina LUVARA', Stefano MAGLIA, Domenico MARCUCCI, Renato
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Paola RIVA, Giorgio ROILO, Francesco ROSSETTI, Daniela ROTA, Sergio ROVETTA, Guido SACCONI, Carlo SALA,
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tel. 02 2700 7164 - 02 2622 3120
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DELLA SICUREZZA
SUL LAVORO
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DELLA SICUREZZA
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4 CD Rom - 2013
“Codice Sicurezza Lavoro”
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a cura di
Anna Gu
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edizione 2013
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CD Rom
ChemicaLex
2013
Abb. 2013
CD Rom - “Fire-Lex” 2013
CD Rom - “Rischi Fonti e
Misure” 2013
€ 189,00
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Abb. 2012+2013
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