leggi un assaggio - Ad est dell`equatore
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leggi un assaggio - Ad est dell`equatore
venerdì 9 luglio 1993 “Quando gli altri te lo dicono non ci credi. Al fatto che ven- gono i dubbi, che vuoi tornare indietro e compagnia cantando. Te lo dicono e pensi che a te non capiterà mai. Non a te. Poi vai per l’ultima prova dalla sarta, prenoti il parrucchiere e arriva l’attimo in cui te ne accorgi. Un istante. Uno. È un flash. Ti ricordi le facce e le voci di chi racconta d’esserci passato, i sorrisini, l’evidenza che loro lo stanno dicendo per il bene tuo. Ecco. Io sarò pure un’immatura perché solo i bambini si tormentano così, però penso alle poche volte in cui parliamo. Intendo le volte in cui parliamo davvero. Di cose serie. Io e lui. Ci penso e mi dico se questo dev’essere mio marito. A me è successo domenica scorsa. La prima volta. I dubbi e la tentazione di tornare indietro. Volevo confessarlo a papà. Ce la stavo facendo. Quasi. Il tarlo girava girava, e una e due e tre. Alla fine ho rinunciato. Non è il momento. Quello, papà, adesso tiene la testa da un’altra parte, crede che io non me ne sia accorta. Allora ho preso la bici e sono andata a fare un giro. Col buio. Mia madre mi è corsa dietro, ha gridato Ué ma dove vai. Io ce l’avevo bene in testa dove andare. Da lui. Quando ho visto in faccia la paura, c’era solo una persona da cui scappare. Ho bussato a casa sua, mi ha aperto un tizio con certi occhi da pazzo che all’inizio non avevo neanche riconosciuto, l’ho tirato fuori e gli ho detto che questo tormento io non lo voglio. Lui ha sbuffato. Vienidentro. Ha risposto così. Tutto d’un fiato. Ha sbuffato e ha detto Fai presto, scema, vienidentro che ci vedono”. [Andreina Orlandini] Il prete sopra all’altare si mangiò le parole prima di ingoiare l’ostia. Nennomedeppàdredeffìglio e tutto il resto appresso. Nessuno mette in conto di andare a un matrimonio e ritrovarsi davanti un morto. Nessuno. Altrimenti le donne risparmierebbero un po’ di soldi sui vestiti. E pure sul parrucchiere. Nessuno lo mise in conto neanche questa volta. A dramma ormai esploso, quando il colpo di pistola ebbe fatto quel che si riprometteva, tutti stranamente ricordavano un dettaglio solo. Lo stesso particolare. L’accento curioso del sacerdote. Insignificante per le indagini, nella testa dei presenti s’era insinuata la stravagante parlata del servitore del Signoriddìo, quella sua indefinibile dizione. Molti degli invitati al matrimonio di Andreina Orlandini avevano colto durante la funzione la pronuncia indistinta della vocale finale, altri la caduta della consonante laterale davanti a una nasale, e tutti ne riferirono ridendo. Ridevano pure se era scoppiato quel poco di bordello. Pareva di essere usciti da un congresso di glottologi, non da una funzione religiosa. Uno pensa che la gente si soffermi a guardare una permanente, una stola, un sandalo, un tubino. È questo che in genere succede. Quando la messa comincia, nennomedeppàdredeffìglio e quel che viene appresso, le bizzoche dicono ammèn, gli uomini fissano l’orologio e tutti insieme cominciano a guardarsi intorno. Così iniziano in genere i matrimoni. Quello di Andreina no. La gente si mise a fissare il prete e si dedicò all’ascolto della sua inflessione, senza neppure accorgersi che nel frattempo il padre della sposa stava lì, a far galleggiare lo sguardo in aria, senza un sorriso, perché non gli veniva. Andreina dall’ambone scorreva il passo tratto dal libro dei Proverbi. Con la voce tutta ingottosa leggeva che Vale più l’uomo paziente di un eroe, più chi è 14 padrone di se stesso che un conquistatore di città, e suo padre laggiù era una maschera turbata. Si era storzellato sano sano. Non per la tensione. Non di angoscia legata all’evento si trattava, giacché Guglielmo Orlandini, diciamo la verità, se ne fotteva altamente del matrimonio della figlia, in piena coerenza con una linea tenuta anni e anni verso le persone a lui più vicine. Famiglia compresa: ufficialmente il bene supremo della sua esistenza; in realtà un mezzo fastidio riposto nell’angolo meno frequentato delle sue ventiquattr’ore. I figli erano diventati adulti mentre lui si dedicava alla politica, alla vita del partito, e adesso la vita del partito lo spogliava di tutto o quasi, lasciandogli addosso la nudità e il destino del sopravvissuto. Forse era il più enigmatico della sua generazione, una generazione di dinosauri signori del voto nati da uova colme di segreti. A tratti Orlandini sapeva essere finanche più indecifrabile della lineare A rinvenuta a Creta. Uno che ha sempre amato lanciare i suoi messaggi, ad avversari e alleati, con un linguaggio fatto di allusioni. Citazioni. Perifrasi. Una lingua che nell’ambiente ancora adesso chiamano l’orlandinese. È stato quel codice a dargli un’aria da intoccabile, anzi, più d’una volta gli ha puntellato la reputazione. È uscito indenne, Orlandini, e si direbbe persino più credibile, da quel polverone che l’avvolse una decina d’anni fa. Lui comincia da fedelissimo sciacquino d’un ministro, alla cui corrente si affanna ad aderire, e appena in politica si mette per conto suo. Ma questo è pleistocene, parliamo di giorni in cui dagli intrighi se ne sta bello lontano. È invece nelle vesti di alto funzionario del partito che rischia d’inciampare, quando in una villa vesuviana finita tra le proprietà di mani torbide e compromesse trovano un bigliettino intestato Regione Campania, con i ringraziamenti per l’appoggio elettorale dato a Tizio e Caio. Lì sotto, la firma sua. E come si difende quel fuoriclasse di Guglielmo? Nel solo modo che conosce. Con una sola lingua. 15 L’orlandinese. Dice, non dice, accenna. Soprattutto si fa capire da chi deve. Così va a finire che nominano un perito grafologo per l’inchiesta e in quella firma viene riconosciuta una perfetta imitazione dell’originale. Perfetta, sancisce la consulenza. Ma pur sempre di imitazione si tratta. Insomma: lo dichiarano innocente. L’uomo è questo. Perciò nessuno dentro la chiesa intuì quel che gli passava per la testa, tantomeno ciò che stava per scatenarsi, mentre lui portava sua figlia vestita di bianco sotto al braccio. Neppure don Pietro Taviano, che si trovò il padre della sposa occhi negli occhi per sessantadue minuti e quattordici secondi, marcia nuziale e Avemmarìa compresa. Alla fine di tutto, il prete riferì alla polizia che durante la comunione un’ostia era andata di traverso a un parente della sposa, forse uno zio, lui che ne poteva sapere. Raccontò che quello lì con un colpo di tosse la stava quasi rigettando sull’altare, ed era la sola cosa che aveva da comunicare sulla tragedia capitata all’onorevole. Gli era parsa una premonizione, a cose fatte voglio vedere chi è che gli dà torto. Onorevole, poi. In realtà Guglielmo Orlandini non lo era, ma tollerava volentieri che lo chiamassero così. In fondo non era neanche assessore, altra carica che in genere veniva associata in modo improprio al suo metro e novanta di scaltrezza. Neanche consigliere era. Eppure a Napoli e provincia, questo bisogna dirlo con chiarezza, contava più degli onorevoli, degli assessori e dei consiglieri messi assieme. Aveva imparato a orientare le decisioni importanti del partito dalla sua poltroncina di vice segretario regionale, potere che non esercitava influenzando posizioni ideologiche, di queste mai gli era importato. Amava semmai il ruolo del pilota che non lascia le impronte sullo sterzo. Gli stava a cuore più d’ogni altra cosa il rapporto con gli elettori: lui lo chiamava il territorio, e per intero si dava al 16 popolo. Diceva Sono disponibile con chiunque abbia bisogno, ma non ne posso più dei perdenti di successo, di gente che non tiene un voto e parla, straparla, impartisce lezioni e detta condizioni, la politica non è ’na pazziella, io non ne posso più di gente che è distante dai problemi reali e che confligge con le istanze della maggioranza. Sul serio, Orlandini diceva confligge. Quanto gli piaceva riempirsene la bocca, e stringere mani, tante mani, tutte le mani che poteva, perché ogni mano stretta è una mano che impugna una matita in una cabina elettorale. Quattrocentoventi invitati al matrimonio di tua figlia sono il frutto di una vita così. Io non andai. Per via di quello che era successo nei giorni precedenti. La mia non fu la sola defezione: Orlandini lo stava mollando mezza Napoli. Buon per la polizia, che dovette sentire 133 persone anziché il triplo, tutte immediatamente ascoltate nel casale poco fuori città dove si teneva il ricevimento. L’ultimo a vedere vivo il senatore - sì, non andate per le scarde, non sottilizziamo, c’era persino chi si spingeva a chiamarlo senatore - l’ultimo a vederlo vivo era stato il violinista del trio che in mezzo agli oleandri del giardino dimenava l’archetto tra un pezzo di Haydn e un Bela Bartok. «Violoncellista, veramente». Così volle precisare alla polizia tutto d’un fiato. «Violoncellista o violinista non lo so, commissa’, ma con tutto il rispetto quei suonatori per tutto il pomeriggio mi hanno fatto due palle così». E questa invece fu la testimonianza resa da quel gran signore del marito di Andreina, titolare della concessionaria d’auto col fatturato più alto della provincia di Napoli. Concessionaria Calamaro. Lui si chiama Giosi. Sul bene che voglio alla madonna, pare un nome inventato, lo so, ma veramente si chiama Giosi Calamaro. Non riconoscerebbe una 17 tromba in mezzo a tre pianoforti. Aveva le orecchie di latta, come direbbe Ray Walston, e quelli del commissariato mo’ se ne venivano da lui a fargli domande sulle differenze tra un violino e un violoncello. La poliziotta lasciò cadere ogni distinguo, non ce n’è traccia nel verbale d’interrogatorio, andate a controllare. C’è scritto solo che il Lopez, Armando Lopez nato a eccetera eccetera ed ivi residente, musicista, dichiara di aver incrociato Guglielmo Orlandini all’uscita dal luogo preposto a esigenze fisiologiche. Era lì che i due s’erano incrociati e salutati l’ultima volta, con un sorriso arronzato e di circostanza. Nel luogo preposto. Mellifluo come sempre era stato Orlandini, il quale era poi salito lungo le scale verso il secondo piano e s’era avvicinato alla suite in cui i ragazzi, gli sposi, avrebbero dovuto trascorrere la loro prima notte. Là aveva lasciato la sua borsa di cuoio. Una volta tornato sul prato inglese, fra le siepi di alloro e gli aperitivi, il Lopez invece aveva riattaccato la musica insieme ai suoi compagni. Adagio in fa minore numero 6 di Mozart. Un adattamento, a dire il vero. Perché quella sera, al fresco di villa Criscimanni, il quartetto d’archi Rudy Ensemble era in versione monca. Un trio. Privo della viola di Perla, che chiaro e tondo si era espressa sin dall’inizio, Voi fate quello che volete, io non vengo. E quando Perla li aveva mollati, il Lopez, insomma Armando, gliene aveva cantate quattro davanti a tutti, le aveva risposto Se vai al concerto degli U2 ci metti nella merda. Perla aveva stretto gli occhi, e quando stringeva gli occhi le venivano le fossette alle guance, e quando le venivano le fossette alle guance intorno si faceva un vuoto. Un vuoto profumato. Si entrava nel rovescio del tempo, si fermavano gli orologi, come piaceva dire a Ross, il secondo violino, che a Perla però non aveva avuto il coraggio di rivelarlo mai. Era di dieci anni più giovane, dieci centimetri più alta e dieci volte più bella di tutte le 18 altre. E Ross non gliel’aveva detto mai. Lo era per gli occhi, per le fossette e per la risposta pronta, infatti aggiunse Non mi fate ridere, al matrimonio ve la cavate da soli. Lei voleva il concerto, più che gli U2 voleva vedere i Velvet Underground, riuniti in via del tutto straordinaria, spalla di lusso a Bono. Meglio i nonnini del rock, meglio gli anziani di Some Kinda Love, che deprimersi con l’ennesimo adagio in fa minore, sistemato in scaletta prima della fuga di Bach e della fuga di Orlandini dalla vita. Arrangiatevi, disse, e andò. C’è gente a cui piace uscire per andare a ballare e altri che devono lavorare, così stava cantando Lou Reed, il quale negli anni aveva continuato a portare in giro per il mondo i suoi pezzi da solo, quando il gruppo s’era sciolto. Sweet Jane, oh-ho. Ma è lui che adesso fa fatica a sciogliersi. Come di legno se ne sta sul palco, trafitto da un raggio di laser. E però. Rieccoli. Insieme. Sterling Morrison, John Cale, Mou Tucker, e naturalmente Lou. A occhio non tiene neppure un capello tinto. Non bisogna mai essere troppo giovani. Non lo dico io, lo dice Natalie Paley. La cosa incredibile era che tutto questo ben di dio, gli U2 e i Velvet Underground riuniti, capitassero in una notte sola dentro lo stadio di Napoli, dove se sei cazzo che succede qualche cosa. I Velvet si erano rimessi insieme un mese prima a Edimburgo. Poi erano stati a Londra, in Olanda, ad Amburgo, a Praga, l’ultima cosa che ti viene in mente è che possano passare di qui. In pieno giorno. Contro la loro natura. E invece. Mou è una mamma con figli di vent’anni finalmente in grado di badare a loro stessi, così per lei è giunta l’ora di tornare alla batteria. S’è messa in aspettativa dalla ditta di computer dove lavora. Eccola, guarda il piede che fa cassa e pedale, cassa e pedale. Ossessiva, primitiva. Sterling invece è vestito di viola, ipnotico sulla stessa identica nota, dal suo posto si muove mai, a Perla pare quello più a suo agio. Del resto sai che cosa gliene 19 può fottere dello stadio San Paolo e di tutta Napoli e provincia a uno che è professore di storia medievale e che campa facendo lo skipper nel Golfo del Messico. Quanto a Lou Reed, be’ Lou sta morbosamente scandendo le sillabe del testo della sua canzone preferita: Lecca le cinghie diletta signora. Una voce che davvero arriva dai bassifondi della mente, questo scrivono i critici, io che ne so, io lo ripeto. Ha una sola espressione, quella fissa, e basta. Mentre a John tocca l’interpretazione dei pezzi che un tempo erano riservati alla povera Nico, ma voi ve lo ricordate quant’era bella Nico nella Dolce Vita? Non se lo ricorda mai nessuno. Così quando John col suo caschetto di capelli liscissimi impugna la viola sul palco, Perla dal pubblico si sporge oltre le spalle delle due persone che ha davanti a sé, un padre e una figlia, cercando di scorgere sulla faccia di Morrison il solito fastidio: il disgusto di doversi caricare a tracolla il basso appena mollato dal compagno. A Sterling, lo sanno tutti, non va di cambiare lo strumento durante il concerto. Non lo sopportava a suo tempo, figurarsi adesso. Non deve essere eccitante rifare le cose di sempre quando tieni cinquantun anni. Però si deve, alla fine si fa. Si chiama lavoro. Guarda il modo in cui cammina, senti in che modo parla, She’s una Femme Fatale, e a Perla pare che con quella canzone i Velvet stiano parlando di lei, di ciò che era e non era, di quello che in fondo veramente cercava. Un posto. Il suo posto. Nel mondo, da qualche parte, da qualunque parte, che posto vuoto ce n’è stato, ce n’è e ce ne sarà, come aveva borbottato nel microfono prima dei Velvet quel trentenne con l’accento emiliano che Perla sentiva cantare per la prima volta. Il coltissimo John era passato a declamare The Gift, poi un altro paio di pezzi scapparono via veloci, senza più intermezzi di parole, fino all’istante in cui la folla prese a pretendere i bis. Allora Lou capì che era giunto il momento, che non era più il caso di aspettare, e prima di uscire di scena tutti insieme, in fila 20 indiana, allineati e voltati sul lato sinistro, sermoneggiò che nella vita la prima cosa che impari è aspettare. Aspettare. E aspetta, santiddìo, si spazientì il padre con sua figlia; la ragazzina da un po’ non faceva altro che lagnarsi con due parole. Quando arrivano, quando arrivano. Solo che gli U2 non arrivavano mai. Attendevano che allo stadio calasse il sole, questo è il canone, si sa come sono le star. Pa’ io mi sto annoiando con questi, e tu?, fece Ginevra al serioso ingegnere Introcchia, che nulla sapeva degli U2, come del resto nei decenni scorsi nulla aveva saputo dei Velvet Underground. Lui, come sua figlia, e come la ragazzina davanti a sua figlia, e l’uomo accanto alla ragazzina, e quello lì, quello laggiù, e l’altra, e lei, e lui, e tanti dentro lo stadio, alla voce di Lou Reed non è che badassero poi tanto. Se fra qualche anno lo raccontate in giro, non vi crede nessuno. I Velvet Underground tornano, suonano e la gente qua dentro pare che se ne fotta. Ma annoiarsi no, almeno non Introcchia. Trovava impossibile staccare gli occhi da quella immensa massa nera che era il palco. Un gigantesco parallelepipedo a ridosso di una delle curve, con cinque tralicci sistemati lungo il perimetro, alla cui sommità stavano altrettante torrette. Tipo gli aeroporti, per intendersi. O i fari dark al largo della costa di Lønstrup, a volersi atteggiare. E modestamente, ogni tanto, io mi atteggio. Ai lati del palco, saranno stati settanta metri, forse pure settantacinque, stavano quattro megaschermi, due per parte, e dei monitor, trentadue trentatré trentaquattro, l’ingegnere li contò uno a uno, erano trentacinque, anzi trentasei, mentre l’illuminazione - con il sole ancora alto - era coperta da alcuni teloni neri, dietro i quali si nascondevano le diavolerie messe in piedi per l’occasione da quel mago di Willie Williams, un genio nel campo della tecnologia applicata all’industria dell’intrattenimento. Le sue opere erano materia di studio per Introcchia, sempre a caccia di nuovi spunti professionali. Era noto che sotto i teloni si 21 nascondessero tetre carcasse di Trabant. Come impiccate. Una metafora dell’apocalisse consumistica, così dicevano quattro tipi seduti due file davanti. Certo che se ne contano in giro di stronzate. E sotto le Trabant stavano migliaia di corpi sdraiati, sessantamila fu il calcolo finale, immersi nell’afa e nell’arrapamento di una sera di luglio, bella come può esser bella una sera di luglio quando hai vent’anni. Se Ginevra era lì per Bono, Introcchia era lì per Willie Williams. Anzi. Per Willie e per Ginevra. Non erano più molte ormai le occasioni per starsene un poco con sua figlia, soprattutto adesso che l’azienda lo aveva mandato a Napoli tre mesi, in avanscoperta, a spingere il nuovo progetto. Un parco divertimenti. Ma grande. Non grande, di più. Un dio di parco. Un pacco di miliardi di investimento e una doppia sfida, la prima alla concorrenza, la seconda tirata in faccia all’idea che in questa città nulla si possa fare. Un secondo palco più piccolo era sistemato in mezzo al pubblico e collegato a quello principale per mezzo di una passerella lunga, dunque vediamo, trentotto quaranta, sì, più o meno quarantacinque metri. Una specie di penisola. Alcuni inservienti ora stavano trascinando quattro bauli bianchi immersi dentro una nuvola di fumogeni. Dalle casse vennero fuori quattro attori con le maschere degli U2, così qualche altro professorone là attorno sparò che l’allegoria era evidente, che si trattava di un gioco ironico sulla mostruosità della vita da star. Sciroppiamoci pure questa. Introcchia stava calcolando a mente misure e volumi, l’altezza, gli angoli driedali, il triplo prodotto scalare, altro che musica, Ginevra, altro che annoiarsi, mentre sul prato gli uomini della sicurezza bagnavano con delle pompe giganti i ragazzi fermi da ore a ingrifarsi sotto al sole. Toraci e seni strizzati dentro minuscole canottiere, lingue che si scambiavano baci e dialetti, una scatola di preservativi duemila lire. Una folla di seminudità