La «grande mobilitazione» del clero per la conquista dell`Etiopia 1

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La «grande mobilitazione» del clero per la conquista dell`Etiopia 1
La «grande mobilitazione» del clero per la conquista dell’Etiopia
1. Cenni sul rapporto clero-guerra prima della campagna d’Abissinia
I rapporti cattolicesimo-guerre coloniali sono pesantemente condizionati, durante il Regno d’Italia,
dalla «questione romana». L’ultimo quarantennio dell’Ottocento è contraddistinto da un
antimperialismo illiberale, riecheggiato dalle pagine dell’«Osservatore Romano» e della «Civiltà
Cattolica»; il rovescio bellico di Adua viene ad esempio rivendicato come vittoria cristiana sulla
massoneria, testimonianza di «che possa e che valga, anche sulle infuocate arene dell'Africa, la
stella di Satana contro la croce di Cristo». «L'Osservatore Cattolico» (fondato da don Davide
Albertario), elogia il 4 marzo 1896 manifestazioni antimilitariste inscenate a Pavia contro la
partenza dei soldati per l'Africa, e l'indomani precisa: «La conquista dell'Abissinia è anche una
impresa ingiusta, e noi non possiamo, non dobbiamo pensare a continuare su questa strada.
Ripetiamo: una sola deliberazione sarebbe equa, utile, doverosa per l'Italia: finirla».
Segnali diversi provengono dai missionari e dal clero di Massaua, occupata nel 1885. Una vivida
descrizione degli aneliti patriottici dei religiosi italiani stanziati nella colonia è fornita da
Ferdinando Martini (futuro ministro della Pubblica istruzione e governatore dell’Eritrea) nel volume
Nell'Affrica italiana. Impressioni e ricordi, edito nel 1891, in riferimento alla visita alla scuola
gestita da padre Bonaventura Piscopo e intitolata al colonnello De Cristoforis (caduto nel
combattimento di Dogali). Dopo una gustosa descrizione della pedagogia clerical-nazionalista
inflitta agli alunni eritrei, questo è il commiato offerto a Martini e agli altri componenti della
commissione parlamentare italiana:
Quando facemmo per licenziarci, gli alunni intonarono un coro, del quale non ricordo e mi pento di
non avere trascritto tutte le strofe. Era un ringraziamento alle autorità della colonia, una
glorificazione dell’Italia, una enumerazione dei benefizi quotidiani che riversa sull’Abissinia, e si
chiudeva così:
Gl’italiani son stirpe di forti
Che seppero le sorti
Con le armi domar.
Lasciamo da parte la vanteria e preghiamo gli echi di Dogali e di Metemma che quei versi nn li
ripetano. Tra que’ giovanetti di dieci, di dodici, di quindici anni, ve n’era più d’uno cui avevano
fucilato il padre, non d’altro colpevole che di non volere europei, neanche apportatori di civiltà:
come cinquant’anni or sono i lombardi e i veneti non volevano tedeschi, neanche apportatori
d’ordine. La conquista ha sempre tristi e talora disoneste necessità; ma il mettere sulle labbra a
quegli orfani la lode de’ benefizi nostri mi parve,mi pare un tale oltraggio alla natura umana, che
tuttavia, ripensandoci, mi sento il sangue al capo per conto mio e sulla faccia per conto di altri.
V’era argomento a sorridere; pur io non sorridevo, allorché uscii dall’Istituto più tardi.
Un passo in avanti sulla strada dell’intesa patriottico-religiosa si ha con l’aggregazione di alcuni
francescani alla spedizione contro i Boxers; l’iniziativa è frutto dell’impegno volontaristico
dell’Associazione pei missionari cattolici italiani, che l’estate 1900 ottiene dalle autorità civili e
militari l’imbarco dei frati sulle navi in partenza dal porto di Napoli verso la Cina. Di
quell’esperienza testimoniano, insieme ad alcune note pubblicate da «La Civiltà Cattolica», gli
scritti autobiografici di padre Giovacchino Geroni, antesignano del clero castrense italiano. 1
Atteggiamenti inediti si delineano in riferimento alla campagna di Libia, particolarmente ad opera
del vescovo di Cremona mons. Geremia Bonomelli, che nella pastorale d’inizio ottobre 1911
auspica un nuovo patto tra religione e armate:
Se come cittadino italiano, non secondo a nessuno nell'amare la mia Patria, mi rallegro
intensamente di questi vantaggi che le possono derivare dall'occupazione della Tripolitania, debbo,
come Vescovo, rallegrarmi anche per un'altra nobilissima ragione, Accanto al tricolore italiano io
veggo innalzarsi la croce. [...] Vi esorto, sacerdoti e fedeli, ad essere concordi in ogni modo con
l'azione della nostra Patria. Soprattutto vi esorto vivamente a pregare Iddio che doni la vittoria alle
nostre armi e che sia poco lo spargimento del sangue; che siano risparmiate molte lacrime ai padri,
alle madri, alle spose. 2
La grande guerra fa uscire allo scoperto le divisioni interne alla Chiesa: a fronte delle posizioni
pacifiste di Benedetto XV, viene ufficializzata la costituzione di un corpo di cappellani militari,
sulla scia delle iniziative disposte dal generale Cadorna d’intesa con alcuni religiosi resisisi
disponibili per l’assistenza spirituale alle truppe. 3 Nel 1922 l’abolizione del clero castrense viene
ostacolata e poi valutata negativamente dalla Chiesa. Quattro anni più tardi – nel marzo 1926 –
l'erezione dell’Ordinariato militare d'Italia precorre e prepara il Concordato: non è un caso che
l’incontro Stato-Chiesa si sia realizzato proprio sul terreno militare. 4
2. I religiosi e la guerra per l’Impero
1
Cfr. Giovacchino Geroni, Tra i figli del cielo (Milano, Bertarelli, 1906), Nella terra del Mikado (ibid., 1908) e Dal
mio diario (Borgo S. Lorenzo, Mazzocchi, 1926).
2
La pastorale di Bonomelli è trascritta su «Il Corriere della Sera» del 5 ottobre 1911, col titolo La parola del Vescovo
Bonomelli per la conquista della Tripolitania.
3
Cfr. Roberto Morozzo Della Rocca, La fede e la guerra, Roma, Studium, 1980.
4
Cfr. Mimmo Franzinelli, Stellette, croce e fascio littorio. L’assistenza religiosa a balilla e camicie nere 1919-1939,
Milano, INSMLI, 1995.
2
La partecipazione del clero italiano agli eventi bellici della seconda metà del 1935 richiede la
contestualizzazione con la mentalità dell'epoca: erano trascorsi 6 anni e mezzo dal Concordato, i
religiosi attribuiscono grande rilievo alla dimensione missionaria e a un’evangelizzazione concepita
come conversione dei pagani. In ciò è ravvisabile l’analogia con quanto avviene sul piano civile con
l’imperialismo: necessità di espansione e di conquista, materiale e/o spirituale a seconda degli
ambiti. Si aggiunga, non da ultimo, il fattore della concorrenzialità con i protestanti, che trova
nell’Africa un terrenno di scontro più che di confronto.
Dinanzi alla campagna militare la Santa Sede assume posizioni prudenti e un distacco riservato, ma
l’approvazione – espressa da qualche cardinale – cresce a mano a mano si scende lungo la piramide
gerarchica, dall'alto al basso clero. Un consenso così forte da infastidire il regime, deciso a
caratterizzare la campagna in senso patriottico e politico, senza esagerate inframmettenze religiose.
Richiamerei almeno quattro fonti meritevoli di indagine: 1) le lettere pastorali; 2) i carteggi di
religiosi disseminati nella Segreteria particolare del duce (specialmente nei fascicoli del Carteggio
ordinario); 3) la stampa confessionale, dai bollettini ecclesiastici ai quodidiani e periodici; 4) i
rapporti prefettizi e dei carabinieri sull'atteggiamento del clero, consultabili presso gli archivi
provinciali di Stato (solitamente collocati nel Gabinetto prefettura).
Tra i più infaticabili registi della presenza cattolica nella guerra vi è padre Agostino Gemelli,
magnifico rettore dell’Università cattolica del S. Cuore di Gesù. A lui si devono la cerimonia della
consacrazione dei combattenti al S. Cuore e la stampa de Il Vangelo del soldato, a cura dell’Opera
della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo. La consacrazione dei militari s’innesta sulla dottrina
della regalità, pietra miliare del pontificato di Pio XI. 5 Il dinamico francescano milanese mette a
frutto esperienza e entrature della grande guerra (quando aveva operato nello Stato Maggiore
cadorniano) per unire fattivamente fedeli e combattenti, col progetto di clericalizzare l'Impero, in
una sorta di entrismo istituzionale in cui Gemelli è maestro. Il suo attivismo gli procura peraltro
fastidiosi screzi con l’Ordinariato militare d’Italia (guidato da monsignor Angelo Bartolomasi) e
soprattutto con i vertici militari, che mal sopportano ingerenze esterne.
Le benedizioni ai soldati e alle loro armi, in occasione della partenza dei militari dall’Italia, trovano
largo spazio nella stampa e espongono la S. Sede alle critiche internazionali, tanto è vero che
«L’Osservatore Romano» del 23 ottobre 1935 precisa: «La benedizione che i sacerdoti e i vescovi
d'Italia impartiscono ai soldati che partono per la guerra, non ha nulla da fare col giudizio sulle
circostanze politiche della guerra». Distinzione che sfugge a chi partecipa alle infervorate cerimonie
patriottico-religiose svoltesi con grande concorso popolare.
5
Cfr. Daniele Menozzi, Sacro cuore: un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Roma,
Viella, 2001.
3
L’Ordinariato militare è la struttura preposta all’invio dei cappellani in Abissinia; la selezione è
disposta sulla base di valutazioni sull’idoneità del candidato, ma numerosi religiosi respinti dalla
curia castrense implorano da Mussolini l’arruolamento per l’Africa Orientale. Il 20 giugno 1935,
quando già risulta evidente a ogni osservatore la volontà italiana di dichiarare la guerra, don
Augusto Leoni, ad onta della sua «età un po' inoltrata» si presenta al duce come volontario:
Mi sento forte, sano, resistente e quindi anelo raggiungere i forti e bravi soldati d'Italia, che ci
daranno un nuovo territorio di espansione ed apriranno un vasto campo alla nostra azione coloniale,
nonostante gl'insidiosi ostacoli e le malvagie, sleali recriminazioni di oltre frontiera.
I recenti ampliamenti del risorto giardino zoologico di Roma stanno in onorata attesa di ricevere,
quali graditi ospiti, i signori Ras Abissini e con loro tutti i neri e tutti i biondi massacratori dei
poveri Boeri. 6
La sua lettera viene trasmessa all’Ordinariato militare e la richiesta, appoggiata dalla Segreteria
particolare del dittatore, è esaudita.
Il monzese don Enrico Saporiti, respinto dall’Ordinariato in quando considerato di sentimenti
fanaticamente fascisti, reitera per quattro volte in un semestre istanza di arruolamento a Mussolini,
cui da ultimo scrive il 4 maggio 1936 parole adulatrici: «Duce, Voi tutto potete! Basta una sola
Vostra parola, e la mia partenza, son certo, subito avverrà. È il grande amore verso di Voi e la
grande causa fascista, è l'amore verso quest'Italia da Voi rigenerata, da Voi fatta più potente,
rispettata e temuta». 7 Don Saporiti viene esaudito con la nomina a capomanipolo cappellano presso
il Comando 3a Legione Lavoratori «Reginaldo Giuliani».
Viene mobilitato anche il quarantacinquenne don Alberto Paissani, un sanguigno trentino che
commenta la nomina in una lettera al cappellano capo della Milizia, don Rubino, dicendosi lieto di
prestare la sua opera di vecchio fascista e di attestare con i fatti l’entusiastico assenso al regime.
La devozione mariana trova riscontro anche nella campagna d’Abissinia. Diverse icone e statue
della Madonna – inclusa quella celeberrima di Pompei – partono verso le sponde africane, arruolate
contro Hailé Selassié. L’arcivescovo ordinario militare, il solitamente misurato monsignor
Bartolomasi, scrive per l’occasione frasi belliciste:
Cento e cento Madonne partire per l'Africa Orientale Italiana, fra tripudio di cuori anelanti, accolte
da braccia valide e da petti forti che le volevano sui campi del dovere, del sacrificio, della gloria. Le
volevano, perché ricordano le Madonne delle loro città, paesi e santuari, ad Esse affidavano i loro
ferrei propositi di combattere e vincere, i loro fervidi voti per la vittoria, per la Patria, per la
famiglia lontana. 8
6
Archivio dell’Ordinariato militare d’Italia, Roma, fascicolo personale Augusto Leoni.
Ivi, fascicolo Enrico Saporiti.
8
Prefazione di mons. Angelo Bartolomasi a Fra Ginepro, La Strada delle Madonnine del Tembien, Torino, Sei, 1938, p.
VIII.
7
4
L’organizzatore delle migrazioni mariane, fra Ginepro da Pompeiana, è travolto dall’adesione di
parrocchie e raccomanda il senso della misura:
Un buon numero di queste immagini arrivate a Massaua non trovavano destinatario. Giacevano
abbandonate nei magazzini, oppure venivano portate alla missione cattolica che le faceva
proseguire, quando ne aveva il tempo e i mezzi, per Asmara. Qui rimanevano per mesi e mesi, in un
trambusto di casse, come materiale ingombrante. [...] Il Vescovo e il Cappellano Capo rimasero
impressionati da questa spedizione continua, crescente, d'immagini sacre. Dove si potevano
collocare, se non c'erano ancora le chiese? E le chiese, quando si sarebbero potute costruire, se ora
si doveva combattere e aprire strade, sempre strade? Si fece perciò comprendere, a chi di ragione,
che bastavano già, le Madonne in Abissinia. 9
Il basso clero, condizionato dalla sua estrazione sociale contadina, soggiace alla propaganda che
presenta l’Etiopia come lo sbocco della manodopera esuberante, e coopera esso stesso alla
diffusione di questo mito.
La guerra avvicina gli ecclesiastici alle autorità. Indicativa la relazione mensile sull'attività del clero
per il dicembre 1935, redatta dal comandante della Legione dei carabinieri regi di Milano al
Prefetto:
Di fronte agli avvenimenti il clero continua a mantenere contegno riservato ma favorevole, e si
dimostra compreso dell'attuale delicata situazione.
In occasione dell'ingresso ufficiale in Desio, avvenuto il 22 dicembre, il nuovo prevosto, mons.
Giovanni Bandera, prelato domestico di Sua Santità, esaltò in un suo elevato discorso la santità e la
giustizia della nostra causa, invitando il popolo a serrarsi unito e fidente nello sforzo comune per la
vittoria finale.
L’atteggiamento della componente patriottica dei vescovi è bene espresso da Giovanni Cazzani
nella lettera episcopale ai fedeli di Cremona del 2 ottobre 1935:
Veri cristiani, preghiamo anche per quel povero popolo di Etiopia, perché si persuada di aprire le
sue porte al progresso dell'umanità, e di concedere quella parte delle sue terre, che egli non sa e non
può rendere fruttifere, alle braccia esuberanti di un altro popolo più numeroso e più avanzato
nell'agricoltura e nell'industria.
Preghiamo, perché quella povera gente entri con le sue forti naturali energie nella grande famiglia
della Chiesa Cattolica
Da Udine, l’arcivescovo Giuseppe Nogara cogli l’occasione del 28 ottobre 1935, tredicesimo
anniversario della marcia su Roma, per rigettare ogni responsabilità della guerra sui nemici della
patria e della cattolicità:
9
Fra Ginepro, La strada delle Madonnine del Tembien, cit., pp. 164-65.
5
L'Italia nostra si vede contrastata ed assalita da una fatale congiura di partiti che, invidiosi dei suoi
progressi, irritati per l'ostracismo dato ad ogni sovversivismo, bolscevismo, massonismo,
anticristianesimo, le contrastano i suoi diritti e attentano alla sua prosperità ed alla sua vita con
sanzioni finanziarie ed economiche alle quali oggi vorrebbero aggiungerne altre di carattere
militare.
Si direbbe che tutti costoro, sotto lo specioso pretesto della pace, vogliono, ad ogni costo, scatenare
la guerra.
Francesco Petronelli dirama da Avellino la lettera pastorale ai «Fratelli e Figli Dilettissimi», il 27
novembre 1935:
Nessuno di noi manchi al suo posto in quest'ora di prova; tutti dobbiamo sentire la grave solennità
del momento e mostrarci degni del nome di cattolici e d'italiani.
Mentre i nostri eroici soldati portano vittoriosi nell'Africa Orientale il vessillo glorioso d'Italia,
segnato dalla Croce, il nostro sguardo sia rivolto al cielo e le nostre mani siano sollevate in alto.
Auxilium meum a domino.
Tra i documenti più rappresentativi dell'allineamento entusiasta dell'episcopato, merita una
riflessione la circolare dell’arcivescovo di Amalfi, mons. Ercolano Marini, diramata il 18 novembre
1935 per controbattere i mali delle sanzioni, della massoneria e dell’anglicanismo; il reverendo
individua «analogie tra il popolo italiano e l'antico popolo eletto», presentando Mussolini nei panni
di un redivivo Mosé, attorno al quale si stringe una sacra alleanza:
Io mi allieto della futura grandezza, a cui è destinata l'Italia nel mondo: l'Italia, patria di santi e di
eroi, l'Italia riconciliata con la Chiesa e benedetta dal Papa; l'Italia messa dal Governo Fascista in un
piano legislativo morale e cristiano; l'Italia per la cui libertà i cittadini danno i preziosi monili e i
Vescovi le loro croci d'oro.
Questa veloce carrellata si può chiudere con il parmense mons. Evasio Colli, le cui considerazioni si
possono intendere dall’allineamento dei paragrafi della lettera pastorale I cattolici e la patria
(pubblicata il 5 febbraio 1936 sul foglio diocesano «L’Eco»):
Le ragioni del nostro patriottismo - Che cosa è la patria per i cristiani - Il patriottismo, che è per tutti
un dovere naturale, è per i cristiani anche una virtù - L'amor di patria è per i cristiani non soltanto
dovere e virtù, ma «incitamento di molte virtù ed anche di mirabili eroismi» - Quanto la religione
alimenti l'amor di patria - Come si ama la patria - Autorità ed obbedienza - Limiti dell'autorità Oltre la patria, non c'è altro? Soltanto la chiesa cattolica può creare l'ambiente di carità tra le nazioni
- Quando la patria è in guerra - Che cosa ha fatto il papa per la pace - I doveri dell'ora presente:
preghiera, disciplina, austerità di vita.
6
Qualche fedele rimane infastidito dall’accento bellicista impresso alla predicazione evangelica. La
torinese Barbara Allason, arrestata per antifascismo nel 1934 e liberata dopo una crisi mistica
culminata nel pentimento (alla Silvio Pellico), lamenta, da parte ecclesiastica, «una vera e propria
campagna in favore della guerra abissina, quasi quei disgraziati africani non fossero uomini
anch'essi, e molti, per giunta, cristiani»:
Fu veramente un triste spettacolo vedere quei pergami, da cui dovrebbero essere bandite al mondo
la carità e l'amore, divenire tribune di imperialismo, e argomenti come «la nostra potenza», «la
nostra ricchezza», «il nostro prestigio» - che per il cristiano e il cattolico dovrebbero essere oggetti
supremamente vani e addirittura perniciosi - venire annunciati come perentorie ragioni per uccidere
e predare, senza che mai a mitigare quelle prediche venisse fuori una parola di pietà verso quei
disgraziati a cui veniva tolta la patria, o di ammirazione verso quei valorosi che, con armi così
impari, tentavano di difenderla. 10
L’enfasi del clero sulla mobilitazione, amplificata dalla stampa per evidenti ragioni, colpisce gli
antifascisti di orientamento laicista che, dall’esilio, criticano la deriva militarista di una parte
rilevante della Chiesa italiana. Gaetano Salvemini osserva: «Chi raccogliesse gli elogi mussoliniani
pronunciati a getto continuo dai cardinali, arcivescovi, preti, frati, suore e giornalisti cattolici in
tutto il mondo, metterebbe insieme una sorprendente e assurda antologia di glorificazione verso una
dei regimi più anti-cristiani che siano mai esistiti nella storia». Sulla base dello spoglio della stampa
italiana, lo storico molfettese compila l’elenco degli ecclesiastici dichiaratisi favorevoli alla guerra;
il censimento include 7 cardinali arcivescovi (Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo e
Torino), 29 arcivescovi e 74 vescovi; «senza dubbio – postilla Salvemini - la lista è lungi dall'essere
completa». 11 Di lì a poco, con lo scoppio della guerra di Spagna, il consenso ecclesiastico diverrà
generalizzato, con i toni della nuova crociata.
Ultimata la conquista militare, il suggello religioso all’Impero viene apposto con notevole rilievo
dalla Messa al campo celebrata il 1° marzo 1936 sull'Altare della Patria dall'arcivescovo
Bartolomasi, nella ricorrenza del 40° anniversario della battaglia di Adua, «in commemorazione dei
morti vendicati». La convocazione alla cerimonia è disposta con circolare dal sottosegretario alla
Guerra, vincolante per tutti i prefetti del Regno: «Interverranno le Maestà del Re e il Duce. Sarà
gradito l'intervento di V.E. Uniforme fascista senza decorazioni». Buffarini Guidi, per il ministero
dell’Interno, telegrafa: «I prefetti et i podestà capoluoghi provincia dovranno trovarsi ore 9.30
presso Regia Prefettura Roma, dove riceveranno apposito biglietto et poscia muoveranno inquadrati
per recarsi Altare Patria nota cerimonia». Nella capitale s’inscena per l’occasione una grandiosa
10
Barbara Allason, Memorie di una antifascista, Mmilano, Ed. Avanti!, 1961, pp. 249-50.
Cfr. Gaetano Salvemini, Il Vaticano e la guerra d'Africa , pubblicata dal 18 settembre al 20 novembre 1936 sul
settimanale parigino «Giustizia e Libertà».
11
7
coreografia, alla presenza di tutte le rappresentanze delle armi, con tanto di orchestra e coro. Degno
epilogo della mobilitazione del clero per la conquista dell’Etiopia e dimostrazione della memoria
lunga del fascismo. 12
In un momento delicato sul piano diplomatico, nell’isolamento internazionale dell’Italia per
l’aggressione alla sovranità di uno Stato, la legittimazione vaticana all’Impero – nel febbraio 1937 –
è preceduta soltanto dal riconoscimento della Germania nazista. Quando il maresciallo Graziani,
salutato come l’artefice della vittoria, rimpatrierà, nell’aprile 1938, gli verrà concessa da Pio XI una
cordialissima udienza ufficiale.
Anche l’alta finanza paga pegno alla vittoria della patria e della fede. Il presidente della CARIPLO
ne relaziona il 14 maggio 1937 al prefetto di Milano:
Eccellenza,
ho d'urgenza riunito i Camerati del Comitato Esecutivo, i quali sono lietissimi di dare con me alla
EV notizia che la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde contribuisce di buon grado alla
erezione di una Chiesa Cattolica in Gondar, anche per solennizzare la marcia trionfale della
Colonna Starace e portare la luce e la Fede di Cristo alle genti redente dalla rinnovata gloria
imperiale di Roma.
Unisco alla presente un assegno di lire 50.000.
Non si creda che il consenso attivo alla guerra sia prerogativa dei soli cattolici. Anche in ambito
protestante il contagio nazionalista attecchisce: sul terreno patriottico non si vuole essere secondi a
nessuno. Di ciò testimonia un manoscritto inedito del pastore Giovanni Bertinatti (conservato
all’Archivio Società studi valdesi, Torre Pellice). Chiarificatrice la premessa del Diario: «Durante il
conflitto italo-etiopico ribolliva in me il desiderio di accorrere fra i combattenti in terra africana, per
portar loro il conforto della fede Cristiana, attinta alle pure fonti del Vangelo. Ad esaudire codesto
mio desiderio si adoperò il Moderatore della Chiesa Valdese».
A meno di tre anni dall’introduzione della legislazione razziale, vengono arruolati anche i rabbini,
su istanza rivolta a Mussolini dal presidente dell'Unione della Comunità Israelitiche italiane, avv.
Luigi Ravenna: cinque ministri di culto sono assimilati agli ufficiali, per prestare il servizio
religioso ai combattenti ebraici.
3. padre Reginaldo Giuliani, l’eroe crociato
12
Sulla «Messa coloniale» del 1° marzo 1936 cfr. Mimmo Franzinelli, Clero militare e primo colonialismo italiano, in
«Studi Piacentini», n. 20, 1996, pp. 167-175.
8
Dei circa duecento cappellani militari mobilitati per la guerra, quello assurto a straordinaria
notorietà è il domenicano padre Reginaldo Giuliani. Nato a Torino nel 1887, è cappellano degli
arditi nella grande guerra (decorato con medaglia d’argento al valore), poi segue D’Annunzio a
Fiume e sconcerta anche i suoi confratelli col rito della «benedizione del pugnale» offerto al Poeta
da un gruppo di sue ammiratrici. Oratore efficacissimo, alle avvisaglie di guerra si arruola, a 48
anni suonati, come cappellano-centurione nel battaglione di camicie nere «XXVIII Ottobre» e
confida agli allievi: «Tra qualche giorno io parto per l'Africa e voi, o giovani, fatemi un solo
augurio: che io possa morire tra le mie Camicie Nere. Questo è l'augurio più bello che mi possiate
fare». Concetto ribadito a un amico: «La mia morte avrà un valore apologetico più potente di tutte
le mie predicazioni». In effetti, così sarà.
Il suo diario d’Africa, pubblicato postumo dall’editore Salani col titolo Per Cristo e per la Patria,
testimonia una lotta senza quartiere al clero copto dell'Etiopia, composto – secondo il poco
caritatevole domenicano – da eremiti scrocconi, divenuti «per ragioni di vita e per necessità di
camorra» sostenitori del Negus; sarebbe follia, argomenta, «sperare un risanamento sociale da una
religiose in cui l'elemento cristiano primitivo è rimasto soffocato dal peso della millenario eresia,
della superstizione e della volgare politica». Padre Giuliani era solito ispezionare con le sue camicie
nere le chiese «per vedere se i complici del tiranno di Addis Abeba non vi tenessero celate le armi».
A suo giudizio, la spedizione militare era «tutta vibrante forza italica che si scatena con amore».
Egli cooperava a tanta impresa: «Le artiglieri appoggiavano l'avanzata. Io celebrai la Santa Messa
festiva, accompagnato dalla musica continua dei prossimi cannoni».
Nel suo diario si cercherebbe invano una parola di compassione per i morti etiopi, militari o civili;
in compenso si trova una pagina commossa per la precoce fine del mulo che per 8 mesi ha
scorrazzato il cappellano torinese per le ambe, in una «corsa fremente di entusiasmo e
canzoni,intrecciata con il quotidiano sacrificio per gli ideali della Patria Fascista e della Civiltà».
La morte, da lui tanto invocata, lo raggiunge il 21 gennaio 1936 a Passo Urieu, in combattimento.
La sua figura, «intreccio inestricabile tra virtù sacerdotali e spirito bellico» viene presentata agli
italiani come quella di un modello di virtù cristiane e civili. La motivazione della medaglia d’oro
alla memoria, rivelatrice degli orientamenti ideologici comandi militari più che della dinamica della
morte di Giuliani, recita:
Di fronte all'incalzare del nemico alimentava con la parola e con l'esempio l'ardore delle camicie
nere gridando: “Dobbiamo vincere, il Duce vuole così”. Chinato su di un caduto mentre ne
assicurava l'anima a Dio, veniva gravemente ferito. Raccolte le sue ultime forze partecipava ancora
con eroico ardimento all’azione per impedire al nemico di gettarsi sui moribondi, alto agitando un
9
piccolo Crocifisso di legno. Un colpo di scimitarra da barbara mano vibrato troncava la sua serena
esistenza chiudendo la vita di un Apostolo, dando inizio a quella di un Martire. 13
La tomba africana del frate-guerriero, con la silhouette di fascio, è stata riprodotta su santini e
cartoline. Il pugnace domenicano è protagonista del film Abuna Messias (girato nel 1939 da
Goffredo Alessandrini), che lo presenta quale degno successore del grande missionario Guglielmo
Massaia. A padre Giuliani sono intitolate – ancora oggi – scuole e strade.
4. Mons. Giordani, vescovo dei Balilla
La creazione dell’Impero è un evento decisivo nella formazione ideologica della gioventù italiana,
bombardata dalla propaganda fascista che traccia un rapporto di discendenza diretta tra la Roma dei
Cesari e quella di Mussolini. Tra i prelati che descrivono il duce come il Cesare Augusto redivivo vi
è, oltre all’arcivescovo di Milano cardinale Ildefonso Schuster, l’ecclesiastico marchigiano Antonio
Giordani (1877-1960). Cappellano militare pluridecorato nella grande guerra, Giordani è il
«vescovo dei Balilla». A lui compete, per conto dell’Opera Nazionale Balilla, la formazione
spirituale dei giovani, cui provvede uno stuolo di cappellani dell’ONB.
La sua posizione politica e la sua impostazione pedagogica sono implicitamente riassunte il 25
ottobre 1935 nella lettera con cui presenta a Mussolini le bozze di un volumetto antologico, di cui
chiede il nulla-osta per la stampa: «Mi sono permesso di far raccogliere il pensiero così
autorevolmente espresso dall'E.V. su argomenti di indole spirituale, perché gli educatori della
gioventù e particolarmente i cappellani dell'Opera Balilla e delle Forze Armate possano proporlo,
nei loro discorsi, come guida e incitamento ai giovani».
Monsignor Giordani è autore di una preghiera per il Re e per il Duce; per sintetizzare il suo ideale
religioso, ama citare De Maistre: «Noi vogliamo dei giovani che credano in Dio e non abbiano
paura del cannone».
Il vescovo dei Balilla inserisce nella sua predicazione insistenti riferimenti alla situazione politicomilitare, come nel discorso tenuto il 2 febbraio 1936 a Brindisi, in una sacra funzione propiziatrice
di vittoria. Questo uno stralcio degli appunti preparati per la predica:
Implorare la benedizione di Dio sulla nostra Patria impegnata in una grave battaglia che dovrà
decidere del suo avvenire. L'Italia oggi è tutto un esercito di combattenti, sul fronte interno non
meno che su quello dell'Africa Orientale: un esercito compatto, deciso a strappare al nemico la
vittoria a qualunque costo. Al nemico? Dovrei dire "ai nemici", che sono quasi tutto il mondo
coordinato per scopi inconfessabili contro di noi. Fra i combattenti vi siete anche voi, o Balilla. [...]
13
Francesco Marchisio (a cura di), Cappellani militari 1870-1970, Roma, Associazione nazionale cappellani militari
d’Italia in congedo, 1970, p. 71.
10
Noi non possiamo confidare soltanto sulle nostre forze, ci occorre l'aiuto di Dio. E ci sono momenti
in cui solo l'aiuto di Dio ci può salvare.
Da un lato mons. Giordani e numerosi suoi confratelli esaltano la guerra come fattore di
rinvigorimento della gioventù e di rafforzamento della patria, dall’altro condannano nel modo più
categorico ogni aspetto sia pure lontanamente riconducibile alla sfera sessuale (accettata soltanto
nella finalizzazione riproduttiva dentro la «famiglia cristiana»). Detto altrimenti, diversi
ecclesiastici banditori della «guerra giusta» sono perseguitati da un’ossessione sessuofobica, come
traspare pure dalle loro lettere pastorali. Rivelatrice di questo stato d’animo una riflessione di mons.
Giordani, annotata in un foglietto intestato «appunto Sansepolcro»: «Problema morale dei giovani e
l'incontinenza. Vi torno sopra. Minaccia più grave. I germi li portiamo in noi... Pericolo nell'ordine
individuale e sociale. Neppure l'ideale di Patria è al sicuro».
La celebrazione della Pasqua 1936 viene intesa come preannunzio della felice conclusione delle
operazioni militari:
Signori, la vittoria finale è vicina, più vicina di quel che si pensa. Essa giunge con la primavera,
quasi a significare che una primavera si dischiude per quelle terre e per quelle popolazioni che
saranno affrancate dalla schiavitù, dalla miseria, dalla barbarie.
Primavera anche per i figli d'Italia, così numerosi e così laboriosi, che avranno il loro posto al sole,
a cui hanno ben diritto.
Gli auspici di monsignor Giordani si realizzano e il vescovo può intonare il Te Deum per la vittoria,
modulato secondo canoni squisitamente fascisti:
Siamo qui riuniti per il canto del Te Deum per la vittoria riportata dalle armi italiane e per la
fondazione dell'Impero coloniale (considerazioni sull'onnipotenza di Dio) che ha prestato aiuto alla
Sua Nazione prediletta; Dio domina gli accadimenti umani li i subordina ai suoi altissimi e
santissimi fini [...]. Con ciò non diminuisce il genio e il valore degli uomini, ma giustamente è
apprezzato. Genio del Duce che ha concepito, voluto, preparato, condotto felicemente a termine
l'impresa: genio del Capo, alla cui direzione furono affidate le operazioni militari , e valore dei
soldati, di tutti i soldati e camicie nere.
Trascorso poco più di un anno, il 28 ottobre 1937 il presule conferisce squarci lirici al suo discorso,
tenuto presso una cripta dei caduti:
A quindici anni di distanza [dalla marcia su Roma], l'aria ripete la sagra dei caduti. Quale il motivo?
Altri si immolarono in questo periodo di tempo che meritano di essere celebrati: i caduti della
Rivoluzione Fascista, che ci hanno dato l'Italia di oggi, sana e forte come non fu mai, e i caduti
della guerra etiopica, che all'Italia hanno dato un Impero.
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Monsignor Antonio Giordani è uno dei troppi cattivi maestri che, legatisi al carro di Mussolini, ne
hanno tessuto le lodi mentre il dittatore preparava il Paese alla guerra. Il vescovo dei balilla ha
validamente cooperato al progetto totalitario di strumentalizzazione della gioventù, per trasformare
gli adolescenti in carne da cannone. Dinanzi al sanguinoso fallimento del progetto mussoliniano,
l’alto ecclesiastico – lungi dall’esaminare in retrospettiva critica il proprio operato – si è lestamente
adeguato ai tempi: il 25 luglio 1943 si è scoperto badogliano; a quel punto il Vaticano lo colloca ai
vertici della Pontificia Opera di Assistenza. Nell’immediato dopoguerra Giordani veste addirittura i
panni del giudice benevolo e rilascia certificati di buona condotta a gerarchi fascisti sotto processo.
Tra chi beneficia delll’autorevole patrocinio vi è Renato Ricci, ex comandante dell’Opera
Nazionale Balilla e poi – durante la Repubblica sociale – della Guardia Nazionale Repubblicana.
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