Il caso Sabina Spielrein

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Il caso Sabina Spielrein
Il caso Sabina Spielrein
Sara Pisani*
Per istinto autodistruttivo si intende, nel gergo comune, la volontà di condurre la propria vicenda umana con spirito
masochistico, dettato da odio nei confronti di se stesso e dalla conseguente volontà di procurarsi dolore.
La tematica degli istinti autodistruttivi riceve contributi significativi da diversi ambiti del pensiero: psicoanalisi
freudiana e filosofia scheleriana, religioni ascetiche e credenze occidentali.
Quel che ci interessa evidenziare è l’apporto che Sabina Spielrein, psicoanalista russa vissuta nella prima metà del ‘900,
ha saputo dare a questo dibattito. Attraverso un’accurata autoanalisi, che la portò a guarire da un’isteria psicotica, ed
attraverso lo studio di alcuni casi clinici con cui entrò in contatto dopo essersi laureata in medicina, la Spielrein gettò le
basi di quella che sarà definita la rivoluzione freudiana del 1920.
Infatti le innovazioni apportate alla Teoria della Libido da Freud, espresse in Al di là del principio di piacere (1920),
non sono in toto opera sua, ma derivano dall’amicizia che i due avevano intrecciato e da alcuni quesiti basilari posti
dalla giovane Spielrein:
davvero il solo scopo dell’uomo è trarre un piacere personale da ciò che fa? La vita dell’uomo tende al
soddisfacimento del piacere, come supposto dalla Teoria della Libido, o tende alla distruzione del suo essere,
all’annullamento del Sé?
Sabina Spielrein entra in contatto per la prima volta con l’ambiente della psicoanalisi viennese il 17 agosto 1904,
quando, affetta da una grave forma d’isteria, viene trasferita da Rostov sul Don, dov’era nata nel 1885, all’ospedale
psichiatrico più celebre di Zurigo, il Burghölzli, in cui lavorava il Dottor Carl Gustav Jung.
Il caso Spielrein venne affidato proprio a Jung, che lo considererà il suo primo caso d’isteria perfettamente risolto
utilizzando il metodo freudiano delle libere associazioni.1
«Sto applicando attualmente il Suo metodo alla cura di un’isteria. È un caso difficile: una studentessa russa ventenne,
ammalata da sei anni». 2
I sintomi in base ai quali Jung diagnosticava un’isteria psicotica erano tic nervosi, quali contrazioni alle gambe,
rotazione della testa e lingua fra i denti, ma anche fantasie, visioni, sensazioni di doppiezza del suo corpo. Ma quanto
più stupiva Jung erano i tratti tipicamente masochistici, manifestati da Sabina quando, rivolgendosi ai terapisti,
domandava che le cose le venissero impartite, ordinate con violenza, per poter trarre godimento nel farle.
Un godimento, ne siamo certi, non metaforico, ma fisico.
Questo suo approccio al piacere era dovuto all’educazione impartitale dalla famiglia, che era solita reprimere ogni
forma di sessualità nel pudore e nella negazione. Se si considera che l’unico interlocutore maschile di Sabina fosse
sempre stato il padre, e che la sola espressione di virilità alla quale essa avesse mai assistito fossero le punizioni che
questi impartiva ai suoi figli, risulta evidente che, nel suo inconscio, le sculacciate sulle natiche nude erano assimilabili
ad avere rapporti fisici con un uomo. Per eccitarsi quindi le bastava assistere ad una scena violenta o anche solo sentire
le grida del fratellino durante una punizione. Fu in quei primi anni di vita che in Sabina nacque l’associazione mentale
sessualità-violenza.
«Le bastava guardare le mani del padre per sentirsi eccitata sessualmente [...] né poteva vederlo mangiare senza pensare
da dove poi sarebbe uscito il mangiare, cosa che poi associava alla punizione sulle natiche»3
Venuto a conoscenza per la prima volta del caso Spielrein nel 1906, attraverso la descrizione che gliene fece Jung per
lettera, Freud ipotizzò che si trattasse di una tipica regressione alla sessualità infantile, dovuta ad un trauma sessuale.
Toccherà a Sabina dimostrare che la nevrosi altro non è che la manifestazione palese della natura umana, duplice e non
unica, in tensione sia verso il piacere che verso l’autodistruttività. Una volta guarita dall’isteria, Sabina fu in grado di
comprendere i meccanismi che generano la malattia molto più di chi, come Freud e Jung, ne ha sempre ricercate le
cause attraverso l’analisi dei pazienti. Ed è per questo che, terminata la cura al Burghölzli, nel 1911 si trasferirà a
Berlino, dove prenderà a frequentare i seminari freudiani, laureandosi in medicina e intraprendendo la carriera
psicoanalitica.
Il 25 novembre 1911 Sabina fu invitata da Freud ad esporre in una serata al Circolo di Vienna4 il suo primo saggio La
distruzione come causa della nascita 5, dedicato allo studio dell’istinto di morte e pubblicato l’anno seguente sullo
Jahrbuch.6
Qui venne aspramente contestata da tutti i presenti. Probabilmente né Freud né l’ambiente della psicoanalisi del ‘900
erano ancora pronti ad accettare che vi fosse qualcuno capace di sovvertire i termini della teoria freudiana, proponendo
una nuova concezione antropologica, in grado di eguagliare, in parità di principi, la Teoria della Libido. Il fatto, inoltre,
che si trattasse di una giovane donna, ai più sconosciuta o segnalata come ex-paziente junghiana, non rese certo le cose
più facili.
Ma cosa disse Sabina per attirarsi le ira dei maggiori psicanalisti viennesi?
Quale fu l’intuizione per cui i tempi erano prematuri e che fece affermare a Freud, diciotto anni dopo quella famosa
conferenza:
«Ricordo come io stesso rifuggii all’idea d’una pulsione distruttiva quando emerse per la prima volta nella letteratura
psicoanalitica e quanto tempo ci volle prima che fossi disposto ad ammetterla» 7
L’intento di Sabina era dimostrare che anche nella volontà normale e non necessariamente affetta da nevrosi è possibile
riscontrare la compresenza di elementi piacevoli e dolorosi.
Nell’opera La distruzione come causa della nascita Sabina parte dallo studio dell’istinto di riproduzione, che Freud
considerava istinto naturale dell’uomo, e vi trova elementi quali paura e nausea, che evidenziano il lato doloroso
dell’esistenza.
«Come le sensazioni piacevoli corrispondenti al divenire sono presenti nello stesso istinto procreativo, così anche le
sensazioni di difesa come la paura e il disgusto sono sensazioni che corrispondono alla componente distruttiva
dell’istinto sessuale» 8
I casi allora sono due: o la riproduzione non ci è affatto congeniale, e l’uomo ha cercato una forma di
autoconvincimento per poter sopportare questo suo destino, oppure dobbiamo abituarci all’idea che nell’essere umano
una sensazione positiva è sempre seguita da una negativa.
Queste intuizioni la portarono a rinnegare la psicoanalisi freudiana, che attribuiva ogni dolore della vita presente al
rimosso, e la avvicinarono al pensiero junghiano: «Il desiderio appassionato ha due aspetti; è la forza che tutto
abbellisce ma, all’occasione, tutto distrugge. È comprensibile quindi che un desiderio già in sé violento sia
accompagnato oppure seguito da angoscia o annunciato da esso. […] Chi rinuncia al rischio di sperimentare la vita deve
soffocare in se stesso il desiderio di vivere e commette quindi una specie di suicidio parziale.
Con questo si spiegano le fantasie di morte che accompagnano spesso la rinuncia al desiderio». 9
Sabina riscontra inoltre il medesimo autolesionismo nell’attività erotica: l’unione che avviene fra le cellule maschili e
femminili durante la fecondazione comporta la morte di entrambe, che perdono la loro individualità originaria, per dare
vita a una nuova creatura. Ne è prova la sensazione causata dal raggiungimento del piacere orgasmico che, se da un lato
attrae l’essere umano, dall’altro lo intimorisce, perché lo trascina verso una “morte spirituale”. Penetrare l’altro
significa perdere una parte di sé e liberarsi, nel momento del coito, dei prodotti sessuali che il nostro organismo ha in
sovrappiù.
Nell’opera Il contenuto psicologico di un caso di schizofrenia Sabina recupera nello studio di una paziente dei
riferimenti alla mitologia induista, che contengono alcuni simboli della madre fecondante e della morte. Nelle visioni
avute dalla donna un serpente la salva dalla morte, mordendola, cioè fecondandola, e poi «divora nell’acqua le vittime
della nave», ossia, secondo la lettura che Sabina ne fa, divora i bambini della donna ancora nel suo grembo. Due
momenti in opposizione, ma terribilmente correlati: lo stesso animale è causa di vita per la donna e di morte per i
suoi figli.
«L’atto nel quale scocca la scintilla della vita è rappresentato col simbolismo della morte».10
In un altro sogno, la paziente identifica la genesi umana con l’immagine dell’acqua, che penetra attraverso una fessura
nella terra. L’acqua rappresenta, nella mitologia classica, la madre dispensatrice e la pietra rappresenta la terra da cui
Dio creò Adamo.
Gli studi di Sabina partono dunque dall’analisi di alcuni casi di schizofrenia, dai quali risulta che l’uomo è composto in
natura dal dualismo vita-morte, ma non si fermano ad essa. Il primo esempio lampante di correlazione vita-morte,
Sabina lo riscontra in se stessa, nel sentimento provato per il suo analista, il dottor Jung, e per la forte proiezione che di
esso aveva fatto nella sua mente. L’incapacità di Sabina di comprendere perché Jung non accettasse il suo amore, la
porta a creare nella sua fantasia un dualismo tra ciò che si vorrebbe e ciò che è permesso, quasi identificando un
principio di piacere e uno di dovere d’ispirazione kantiana.
«Si parla come si deve parlare, si agisce come si deve agire; spesso ci si sente coinvolti, mentre si oppongono enormi
complessi, e si parla del desiderio». 11
È evidente che Sabina non stesse formulando in questo frammento di lettera una precisa teoria, ma noi siamo del parere
che la bellezza della sua novità sia proprio nell’esperienza vissuta che ella porta con sé. Sabina parla
di costrizioni a cui la morale obbliga, intendendo l’impossibilità di vivere il suo amore con un uomo sposato.
In un’altra lettera, scritta probabilmente nel 1912, per giustificare le sue intuizioni sul principio distruttivo
come causa della vita, riporta a Jung una favola di Grimm, che aveva appreso leggendo Il linguaggio del sogno di
Stekel: «Dove compare la morte, si manifesta anche l’istinto di vita» 12
Da qui Sabina deriva la legge sulla conservazione della vita, che consiste in un’equivalenza tra vita e morte, secondo la
quale la cessione di cellule sessuali provoca una momentanea diminuzione di vita.
Ma il vero salto qualitativo è dovuto all’approfondimento che Sabina fa del concetto di uomo.
Sabina è una discendente diretta della teoria fondata da Freud secondo la quale la vita psicologica della persona è
totalmente riassunta nell’Io, sinonimo di stato di coscienza. Alle spalle del quale vive il rimosso, sito nella sfera più
recondita e protetta, detta inconscio. Ma se è vero che causa movens dell’Io è il piacere, come postulato dalla Teoria
della Libido, é altrettanto vero che parallelamente all’Io esistono delle forze motrici della nostra vita psichica ancora più
profonde, totalmente indifferenti al benessere e al malessere del presente. Queste forze agiscono indipendentemente
dalle reazioni superficiali dell’individuo, ossia senza tenere conto di come la coscienza della persona potrebbe
rispondere. Si tratta di “forze interiori” che guidano l’Io, anziché esserne soggette, e che si lasciano condizionare
esclusivamente dai due principi fondamentali della costituzione umana: l’autoconservazione e la conservazione della
specie. «Sono decisamente convinta che la psiche dell’Io, anche quella inconscia, sia guidata da impulsi che stanno ad
un livello ancora più profondo e non si curano affatto delle nostre reazioni emotive alle esigenze che ci impongono. Il
piacere è semplicemente una reazione di consenso dell’Io a queste esigenze. Perciò, nel nostro profondo, esiste qualcosa
che desidera questo autolesionismo, perché l’Io reagisce senz’altro a ciò con piacere». 13
Partendo da questi presupposti, Sabina mette in dubbio la validità del principio di unitarietà dell’Io freudiana, e fa
propria la Teoria della duplicità dell’Io junghiana.
Jung parla di molteplici complessi che formerebbero l’essenza di uomo, in opposizione fra loro, in perenne lotta per la
supremazia. E Sabina conferma che, durante la schizofrenia, si assiste al manifestarsi di queste opposizioni. Non esiste
un Io indiviso, ma un insieme di molteplici Io, indipendenti fra loro, ognuno con i propri desideri e la propria vita
autonoma.
«La profondità della nostra psiche non conosce nessun Io, ma semplicemente la sua somma, cioè il Noi». 14
Dagli studi di pazienti affetti da schizofrenia, fatti con Jung, Sabina ricava la consapevolezza che il soggetto malato
affida la sua corrente psichica sia all’Io personale che all’Io della specie, anche se la convivenza tra i due non è
semplice.
La psiche della specie vuole ridurre il soggettivo in universale, e deve lottare contro la psiche dell’Io che si oppone a
questa operazione. Rientrare a far parte della specie significherebbe per l’Io personale la sua autodistruzione e, di
conseguenza, la morte del soggetto. I pensieri verrebbero spersonalizzati, tutto sembrerebbe estraneo all’Io,
come una “rappresentazione teatrale”.
«La psiche della specie vuole assimilare la psiche dell’Io, mentre l’Io, anzi qualsiasi particella dell’Io, possiede la
tendenza all’autoconservazione nella forma presente (forza di inerzia)». 15
L’accettazione da parte dell’Io di questa imposizione significa però che in lui è presente, oltre alla forza d’inerzia,
anche un istinto di conservazione della specie, che lo induce a desiderare ciò che è meglio per tutti, a suo discapito.
«Dunque accanto al desiderio di inerzia esiste in noi un desiderio di trasformazione [...] Si cerca ciò che ci assomiglia,
ciò in cui la nostra particella dell’Io possa dissolversi». 16
La novità di Sabina sta nell’affermare che l’Io ha coscienza della presenza, in sé, di processi autodistruttivi e non vi si
oppone; anzi alimenta sia l’istinto di vita che l’istinto di morte.
Il passaggio dal nostro Io personale ad un altro soggetto, assume la forma di una trasformazione vera e propria. L’uomo,
qualunque uomo, è portato dunque per natura a perseguire la volontà della specie e a ricreare la dissoluzione del sé,
nascendo nuovamente sotto altra forma.
Ma Sabina ipotizza che nel genere umano sia presente un desiderio di trasformarsi in qualcosa che assomigli alle sue
origini, così che ogni particella dell’Io avverta in modo meno brusco la dissoluzione finale.
Soltanto in amore questo è possibile. La dissoluzione avviene in questo caso con completo piacere, perché l’individuo
sceglie di perdersi in un essere a lui simile.
Questa sua intuizione trova spunti interessanti anche nella filosofia, ed in particolar modo in quella scheleriana.
Scheler fondò nei primi del ‘900 una teoria definita Axiologia dei valori, partendo da una concezione molto simile a
quella della Spielrein: non esiste un Io indiviso, una persona sempre uguale a se stessa, ma al contrario l’uomo è fatto
per il mutamento.
Scheler giunge a queste conclusioni dopo aver analizzato le componenti essenziali della vita umana, e in particolar
modo dopo essersi soffermato sull’esperienza amorosa.
L’amore è il sommo valore, nella scala axiologica del filosofo, perché avvicina a Dio e alla sublimazione dei sentimenti.
Ma amare non significa godere e gioire costantemente, quanto piuttosto donarsi all’altro, rinunciando al sé originario
per trasformarsi in un nuovo individuo, caratterizzato dall’unione di due, l’amante e l’amato.
Amare significa partire da sé per incontrare l’ob-jectum, colui che si é “posto di fronte” al nostro sguardo e che noi
abbiamo prescelto come oggetto del nostro interesse. Ma bisogna mettere in conto che dall’incontro si tornerà diversi,
non più sé, ma arricchiti dall’unione sentimentale avvenuta con l’amato. Questo fenomeno prende il nome di circolarità
dell’amore, che unisce e rende nuovi, ma che al tempo stesso uccide la singolarità della persona.
E questo è anche quanto Sabina affermerà pochi anni più tardi: amare e morire sono fenomeni della vita correlati tra
loro. Quindi l’uomo, spesso senza saperlo, scegliendo la vita promuove la morte. All’apice del suo pensiero
autodistruttivo, Sabina arrivò ad affermare che la morte reale nient’altro è che un atto sessuale dalla forte coloritura
sadica, tanto da ritenere la guerra un insieme di rappresentazioni distruttive dell’istinto riproduttivo.
Dopo avere lungamente analizzato La distruzione come causa della nascita, Freud rivoluziona la sua psicoanalisi,
introducendo concetti totalmente nuovi al suo pensiero.
Il concetto di morte di tutto ciò che è vivente, sostenuto dalla coazione a ripetere esperienze dolorose, mette in dubbio
la validità del principio di piacere e lo porta a postulare una teoria dualistica delle pulsioni umane, abbandonando la
teoria di unicità dell’Io di cui si era fatto garante. Alle pulsioni di vita, rappresentate dall’eros, si oppongono
originariamente le pulsioni di morte (thanatos), che rigenerano nell’essere il desiderio di ripristinare lo stato inorganico
da cui l’uomo deriva. Anziché vivere per la vita, l’uomo vive per la morte, in vista della sua decomposizione
inorganica. L’istinto di vita è la tendenza dell’uomo a ricercare continuamente la perfezione e l’ampliamento del
proprio Io; l’istinto di morte, al contrario, è l’impulso dell’uomo a ritornare all’unità originaria, ripristinando un antico
rapporto d’equilibrio fra il sé e la natura.
Ma ciò che differenzia l’opera di Freud dall’ispirazione della Spielrein è il pessimismo con cui egli prende a
considerare la natura umana, vittima probabilmente delle atroci condizioni che lo videro esule a Londra durante la II
Guerra Mondiale, per trovare scampo alla deportazione. Freud non accetta di parlare di autolesionismo come fulcro
della vita, ma preferisce porre l’accento sull’aggressività, che spesso guida le scelte personali dell’uomo. L’aggressività
rappresenta la fusione dell’istinto di vita all’istinto di morte.
Rovesciare l’istinto masochistico in istinto sadico, significa essere pronti a uccidere pur di salvarsi.
In Al di là del principio di piacere Freud ripropone dettagliatamente l’itinerario compiuto sullo studio della figura
umana, arricchito da un’analisi più complessa e multiforme, che lo portò ad affermare che nell’essere umano esiste una
spinta conservatrice a ripristinare uno stadio precedente di vita vissuta.
Sottraendo alla libido ogni valenza assoluta, ciò che guida l’uomo nelle sue scelte quotidiane è una spinta
elementare verso le tendenze regressive e distruttive della vita.
Questa messa in forse della legge del principio di piacere come regolatore della vita umana, è la novità dell’ultimo
Freud: la vera ambizione dell’uomo è ritornare a uno stadio precedente, a un tempo remoto, magari in cui la vita non
esisteva e non era come ora.
Ma poiché sono passati ben diciotto anni dalla formulazione che ne fece Sabina, prima che Freud la presentasse
al pubblico come sua evoluzione personale, amiamo pensare ch’egli ebbe tutto il tempo necessario per convincersi della
validità di questa teoria e per cercarne conferma nei suoi casi clinici. Fu appunto uno di questi che lo indusse a definire
la coazione a ripetere esperienze dolorose come la pulsione madre della psicologia umana.
Osservando la giornata del suo nipotino Ernst di nemmeno due anni, Freud notò uno strano gioco che quasi tutti i
bambini amano fare: gettare lontano da sé un piccolo tronchetto di legno, per poi recuperarlo con stupore e gioia.
Eppure, a un’attenta osservazione, Freud comprese che il nipote traeva maggiore soddisfazione dalla prima fase del
gioco, ossia dal distacco dall’oggetto, che dalla seconda, il riavvicinamento all’oggetto stesso. La vita
dell’uomo, dunque, sembrerebbe gestita dalla volontà di ripercorrere i momenti spiacevoli, fino all’atto più doloroso.
«Nella vita psichica esiste davvero una coazione che si afferma anche contro il principio di piacere» 17
Il masochismo che trova spazio nella vita del bambino, e come in lui di ogni adulto che incappa nella coazione a
ripetere esperienze dolorose, crea nell’esistenza umana l’incapacità di provare piacere. Freud cerca giustificazioni
esterne all’uomo, per non ammettere che sia egli liberamente a sottostare al dolore, ma non le sa trovare.
Giunge piuttosto ad una svolta solo nel momento in cui ammette che la vita umana è gestita da due forze, una psichica
ed una sessuale. Alla pulsione sessuale è concesso vivere per la vita, trovando sfogo nella funzione riproduttiva; alla
pulsione psichica è invece affidato il compito di rinnovare l’attaccamento alla condizione del passato, di quando l’uomo
non era ancora uomo, ma solo materia inorganica. Vivere per la morte, dunque, laddove per morte s’intende ripristino
del passato.
Ma Freud non si ferma qui. Partendo dallo stesso esempio postula una seconda interpretazione, che completa la sua
teoria: il tronchetto può essere interpretato dal bambino come simbolo di sé stesso e gettarlo lontano significa per lui
infliggere la sua propria sofferenza su qualcun altro. Prendere parte attivamente al gioco della vita, sostituendosi in
questo caso alla madre, significa per il bambino iniziare a gestire le sue relazioni, passando da una condizione passiva,
di subordinazione, a una attiva, di dominio.
Questa seconda interpretazione comprende la presa di coscienza della condizione infelice dell’uomo, che riversa
l’insoddisfazione di cui è vittima in prima istanza su se stesso, in definitiva sui suoi simili, facendo subire ad altri la
propria stessa sorte. In Tre saggi sulla teoria sessuale inoltre, Freud considera le pulsioni di vita e le pulsioni di morte
dal punto di vista strettamente sessuale, dando il giusto peso ad entrambe.
Alla pulsione di vita corrisponde generalmente, nell’azione amorosa-sessuale, la tenerezza; questa non sempre però
fa ottenere quanto desiderato, e può allora capitare che l’innamorato arrivi ad attirare l’attenzione dell’amata usando
metodi poco consoni, diremmo quasi violenti, come si vede spesso tra i bambini che giocano a farsi male.
«La sessualità della maggior parte degli uomini si rivela mescolata ad una certa aggressività, all’inclinazione alla
sopraffazione, il cui significato biologico potrebbe risiedere nella necessità di superare la resistenza dell’oggetto
sessuale. [...] Il sadismo corrisponderebbe allora a una componente aggressiva della pulsione sessuale» 18.
Alla pulsione di morte corrisponde invece l’uso di dolore e aggressività rivolti alla propria persona, quasi a designare
come artefice della nostra salute la persona amata, che può fare di noi ciò che vuole.
Ad ogni modo, sadismo e masochismo rivelano per Freud l’antitesi amore-odio, attivo-passivo, tenerezza-aggressività
tipica della vita sessuale umana. E proprio nella condizione sessuale si riscontra la connessione originaria tra sessualità
e crudeltà, ossia tra ciò che ci è naturale e ciò che spesso cerchiamo di negare a noi stessi: l’uomo sa essere tanto
generoso quanto crudele, tanto vittima quanto carnefice.
È pur vero che, nell’osservazione dell’attuale stato delle cose, è impossibile negare il disprezzo della vita che si
manifesta in molte occasioni, l’indifferenza totale di migliaia di individui di fronte alle ineguaglianze e alle ingiustizie e
l’assurda presa di posizione del radicale desiderio di rivincita sulle nostre disgrazie personali, che induce l’essere umano
a lottare contro i suoi simili e che fa temere la precoce distruzione della specie, nella guerra che, con gli antichi, osiamo
definire di omnes contra omnes.
In conclusione di questo breve excursus dinamico, scegliamo un’espressione di Sabina Spielrein, che ci stupisce e ci
catapulta, nuovamente, nel grande pozzo senza fine, che chiamiamo uomo.
Un’espressione che non ci dà risposte, ma spiana la strada alla psicoanalisi del futuro:
«Morire significa nel sogno la stessa cosa che vivere, e proprio la grande gioia di vivere si esprime spesso in un
desiderio di morte». 19
* L’articolo è un estratto della tesi di laurea dell’autrice (Il contributo di Sabina Spielrein agli istinti
distruttivi,Università degli Studi di Parma, 2001).
BIBLIOGRAFIA
Carotenuto A. (1980), Diario di una segreta simmetria, Astrolabio, Roma.
Coomaraswamy (1994), Induismo e buddhismo, Rusconi, Milano.
Ellemberger H. F. (1976), La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica, vol. I-II, Bollati Boringhieri, Torino.
Freud S. (1905), Tre saggi sulla teoria sessuale, Bollati Boringhieri, Torino 1975.
Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino 1975.
Freud S., L’Io e l’Es, Bollati boringhieri, Torino 1976.
Freud S., Epistolari. Lettere tra Freud e Jung 1906-1913, Bollati boringhieri, Torino 1974.
Jung C.G. (1908), Teoria freudiana dell’isteria, in Opere, vol. IV, Bollati boringhieri, Torino 1973.
Jung C.G., Opere, vol.V, Bollati boringhieri, Torino 1973.
Lambertino A. (1997), La morale in Sigmund Freud, La Nuova Italia, Napoli.
Brown (1971), La vita contro la morte. Il significato psicanalitico della storia, Saggiatore, Milano.
Spielrein S., Comprensione della schizofrenia, Liguori Editore, Napoli 1986.
Spielrein S., Il contenuto psicologico di un caso di schizofrenia, Liguori Editore, Napoli 1986.
Spielrein S., La distruzione come causa della nascita, Liguori Editore, Napoli 1986.
Spielrein S., Il tempo nella vita psichica subliminale, Liguori Editore, Napoli 1986.
NOTE
1 Il metodo psicoanalitico delle libere associazioni e dell’analisi dei sogni, fondato da Freud negli ultimi anni del 1800, venne accolto
con non poche remore nell’ambiente psicoanalitico viennese, che era solito curare i casi d’isteria e schizofrenia attraverso l’ipnosi e
le scariche elettriche. Dal 1886 al 1896 Freud sviluppò un sistema di analisi del tutto personale, che prendeva le distanze dalle teorie
delle nevrosi di Charcot e di conseguenza dall’approccio neurologico alle malattie dell’Io, per riformulare l’idea stessa di
isteria ed ossessioni. Il suo metodo era talmente unico e primo, da potergli attribuire un titolo del tutto
innovativo: psicoanalisi.
2 Freud S., Epistolari. Lettere tra Freud e Jung (1906 – 1913), lettera 4 J, p. 7, Torino 1974.
3 Jung C.G. (1906), Cartella medica di Sabina Spielrein.
4 La Società psicoanalitica viennese era stata fondata da Freud e da altri amici nel 1902 con il nome di “Società psicoanalitica del
mercoledi”, perché era formata da un piccolo gruppo di persone interessate alla psicoanalisi che si ritrovavano a casa di Freud ogni
mercoledi sera per discutere insieme. Nel 1908 il movimento acquistò carattere internazionale, prese il nome di “Società
psicoanalitica viennese” e venne convocato al I Congresso Internazionale di Psicoanalisi a Salisburgo.
5 Si tratta della tesi di laurea di Sabina Spielrein, pubblicata per la prima volta in Jahrbuch für Psycoanalystische und
Psychopathologische Forschungen, vol. IV, parte prima, 1912, pp. 465-503.
6 Lo Jahrbuch nacque dopo la prima riunione informale fra tutti quelli che si interessavano all’attività di Freud. Il suo primo numero
comparve nel 1909 e l’ultimo nel 1913. L’indice dei cinque volumi si trova in Lettere tra Freud e Jung, op. cit., pp. 599-602.
7 Freud S. (1929), Il disagio della civiltà, Torino 1971, p. 255, in Spielrein S., Diario di una segreta simmetria, op. cit., p. 31.
8 Spielrein S., op. cit., p. 79.
9 Jung C.G., Simboli della trasformazione (1952), Torino 1969, pp. 115-116, in Spielrein S., La distruzione come causa della
nascita, in Jahrbuch, op. cit., p. 78.
10 Spielrein S., Il contenuto psicologico di un caso di schizofrenia (dementia praecox), in Jahrbuch, vol. III, parte I, pp. 329-400.
11 Spielrein S., Lettera a Jung, op. cit., p. 99.
12 Grimm, Le fiabe del focolare, Torino 1961, p. 185, in Carotenuto A., Diario di una segreta simmetria, Lettera a Freud (1909),
Roma 1980, p. 164
13 Spielrein S., La distruzione come causa della nascita, in Jahrbuch, 1912, p. 83
14 Spielrein S., op. cit., p. 83
15 Spielrein S., op. cit., p. 86.
16 Spielrein S., op.cit, p. 87.
17 Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere, Torino 1975, p. 40
18 Freud S. (1905), Tre saggi sulla teoira sessuale, Torino 1975, p. 40
19 Spielrein S., op. cit., p. 90

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