`Ndrangheta e Chiesa1 di Donatella Loprieno 1. La protettrice di tutti

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`Ndrangheta e Chiesa1 di Donatella Loprieno 1. La protettrice di tutti
‘Ndrangheta e Chiesa1
di Donatella Loprieno
1. La protettrice di tutti i mafiosi. Non diversamente da quello che accade nelle altre
organizzazioni mafiose, anche gli appartenenti alla ’ndrangheta mostrano una forte dedizione alla
religione cattolica, partecipando ai suoi riti e alle sue cerimonie, mutuandone utilitaristicamente la
simbologia (Tizian, 2010) e aderendo al suo sistema sacramentale. Battesimi, matrimoni e funerali
appaiono essere, ancor prima che strumenti di salvezza e segni sensibili della grazia di Dio, “eventi”
pubblici e passaggi obbligati grazie ai quali uomini e donne dell’universo mafioso calabrese stringono
alleanze, rinnovano patti, mostrano e/o pretendono deferenza e rispetto. La celebrazione dei santi e
delle sante patrone necessita, come altrove, di un apparato liturgico organizzato generalmente
intorno alle processioni. Queste ultime, nelle molte varianti presenti in Calabria, costituiscono
momenti importanti per gli ’ndranghetisti: portare sulle spalle la statua del santo o far sì che essa si
fermi sotto la casa di questo o quel personaggio è, in alcuni contesti, un onore che pochi possono
permettersi e un chiaro messaggio sul ruolo all’interno del sodalizio criminale. Gli uomini d’onore
calabresi, in particolare, per antica tradizione hanno eletto la Madonna di Polsi, il cui santuario sorge
nel cuore dell’Aspromonte, nel territorio di San Luca, a loro protettrice. Per Cosimo Cirfeta, un
collaboratore di giustizia, la Madonna di Polsi è addirittura da considerare la protettrice di tutti i
mafiosi (Ciconte, 2008). Il santuario aspromontano è rappresentato come un luogo mitico ove, già a
partire dall’Ottocento, gli uomini della “onorata società” discutono dei loro affari, assegnano cariche
e decidono doti sentenziando, altresì, della vita o della morte dei colpevoli di qualche inosservanza
alle regole comuni. Nei pressi del Santuario, il primo giugno 1989, venne decapitato a colpi di fucile
Don Giuseppe Giovinazzo, parroco di Moschetta di Locri e “responsabile” della processione rituale
della Madonna di Polsi. Nel 1985, il religioso aveva celebrato il matrimonio dell’allora latitante
Giuseppe Cataldo di Locri e, intervistato su tale vicenda, ebbe a dire che non era tenuto a conoscere
la fedina penale di chi si sposa, non rientrando ciò nella missione sacerdotale. Tale omicidio, sulle cui
ragioni non è mai stata fatta chiarezza, non ha certamente contribuito a far scendere il silenzio su
Polsi. Di ciò che il suo santuario rappresenta si continua a parlare, specie a fine estate e nella
imminenza dei festeggiamenti che si tengono i primissimi giorni di settembre. Comprensibilmente le
autorità della Chiesa locale, specie dopo la diffusione delle riprese, ad opera dei carabinieri nel
settembre del 2009, di un summit tra ’ndrine presso il Santuario, da un lato, denunciano la terribile
profanazione del sacro e l’insulto alla religione dei padri e, dall’altro, ricordano che Polsi non è stata e
non è solo ‘ndrangheta. Monsignor Giuseppe Morosini, pastore della diocesi di Locri-Gerace, in
occasione della festa della Madonna della Montagna di Polsi del settembre 2012 ha ricordato che “la
Chiesa perdona tutti, anche i mafiosi, ma la conversione deve essere autentica”. Il perdono agli
’ndranghetisti non viene, nelle parole del vescovo, dato a buon mercato.
2. La religiosità meridionale. Queste prime considerazioni sui rapporti tra la principale confessione
religiosa del nostro Paese e gli appartenenti alla ’ndrangheta mostrano come essi non paiono, nel
fondo, discostarsi significativamente dagli atteggiamenti riscontrati nelle altre organizzazioni
mafiose, già oggetto di studio da diverse angolazioni prospettiche (Fiorita, 2012; Sales: 2010; Cavadi,
2009; Dino, 2008; Ceruso, 2007; Savagnone, 1998; Scarpinato, 1998). È noto tuttavia che la
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In Dizionario enciclopedico di mafie e antimafie, a cura di Manuela Mareso e Livio Pepino, Gruppo Abele, Torino,
2013.
’ndrangheta è stata storicamente sottovalutata e sottostimata (Parini, 2010 , Forgione, 2009,
Ciconte,2008a ) e ciò ha, in parte, contribuito alla sua crescita esponenziale e alla costruzione di un
sistema di potere al contempo sofisticatissimo e ancorato alle tradizioni, alla ritualità e alla
simbologia. Altrimenti detto, la conquista di una posizione dominante nel traffico internazionale degli
stupefacenti, a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, e la resistenza ‘opposta’ alla
repressione dello Stato dopo le stragi del 1992, non hanno affatto allentato le trame che legano la
’ndrangheta al suo territorio di tradizionale insediamento (Parini,2010). Per indagare le ragioni del
perché la religiosità delle popolazioni meridionali e la storica presenza della Chiesa non abbiano agito
da freno al consolidamento delle organizzazioni criminali, appare ragionevole estendere alla Calabria
le conclusioni di Umberto Santino e di Alessandra Dino. Il primo studioso si è spinto a paragonare
organizzazione della Chiesa e modello mafioso: “Dobbiamo chiederci se, e in che misura, la Chiesa ha
contribuito all’affermazione, diffusione e introiezione di una visione gerarchico-autoritaria… La
societas ecclesiale è fondata sulla sottomissione, sulla cancellazione di sé, sull’accettazione dei fini
sociali…Una metafora dell’obbedienza incondizionata, totalizzante, come il “perinde ac cadaver”, si
attaglia perfettamente alla rigidità e indiscutibilità del comando mafioso” (Santino, 1995: 40-55). Per
Alessandra Dino (2000: 211) bisogna parlare di “sincretismo di modelli culturali” che, nel corso del
tempo, avrebbe portato a fenomeni di ibridazione tra orientamenti valoriali diversi “proprio in virtù
della pressoché scarna e superficiale riflessione maturata sul problema mafia” da parte della Chiesa.
3. Chiesa e Stato. La Calabria, eccezion fatta per il suo lontanissimo passato magnogreco, è stata
storicamente una terra marginale. Come gran parte del Sud, essa non ha fatto esperienza
dell’autonomia dei Comuni e ciò ha ritardato la conclusione della sua fase feudale con tutti i suoi
portati sui percorsi di modernizzazione. La marginalità della Calabria era poi evidente già prima della
unificazione nazionale sotto il Regno delle Due Sicilie perché lontanissima, sotto tutti i punti di vista,
dalle due capitali Napoli e Palermo. L’arretratezza culturale ed economica di queste terre non ha
consentito, peraltro, di sviluppare gli anticorpi necessari per resistere ai processi di uniformizzazione
imposti dallo Stato unitario e per combattere il conservatorismo sociale e politico delle élites locali
(Villari, 1963; Spagnoletti, 1997). Non bisogna dimenticare che se vi fu una partecipazione attiva al
Risorgimento, a essa si affiancarono forti forme di opposizione popolare tra cui il sanfedismo e il
brigantaggio (Rauti, Spadaro, 2011). Il coinvolgimento marginale dei calabresi alla Resistenza al
nazifascismo, momento fondativo dell’ethos pubblico all’origine della Costituzione repubblicana,
segna una ulteriore tassello della scarsa partecipazione alla costruzione politico-culturale della vita
nazionale (Ghisalberti, 1983). Potrebbe sembrare una semplificazione eccessiva eppure ciò che pare
mancare da sempre a buona parte della società calabrese è “il senso dello Stato”, il riconoscimento
“diffuso, popolare, che lo Stato – o melius, la cosa pubblica – c’è, ma non solo in senso negativo
(vessazione del potere, costrizione che nasce da un obbligo giuridico…), ma in senso assolutamente
positivo (casa comune, sede in cui, e attraverso cui, ottenere giustizia” (Rauti, Spadaro, 2011: 7).
Il sistema di potere reticolare della ’ndrangheta (cfr. voce) ha trovato in tutto ciò un terreno
fertilissimo su cui prosperare, e che ha contribuito a conservare non avendo nulla da guadagnare, e
tutto da perdere, dal recupero o dalla riscoperta della legalità, della prevalenza dell’interesse
generale sugli egoismi individuali e di gruppo, in una parola dell’etica pubblica costituzionale. La
Chiesa cattolica si è opposta storicamente a questa deriva o la ha assecondata? Per Enzo Ciconte,
che della ’ndrangheta è fine studioso, la Chiesa meridionale è rimasta a lungo invischiata in quella
“santa alleanza conservatrice” che, a partire dalla metà all’Ottocento e per quasi tutto il secolo
scorso, ha ostacolato ogni serio cambiamento degli assetti di potere consolidati (Ciconte, 2008b:
211). È nota la conflittualità tra il neonato Stato liberale italiano e la Chiesa cattolica che rifiutava
l’intero assetto ideologico del liberalismo ivi compresa la desacralizzazione del potere e del diritto. Il
conflitto era politico prima che religioso e “strutturale, prima che ideologico” ponendo lo Stato
italiano nella condizione di “difendersi da un progetto alternativo a quelle che erano le ragioni stesse
del suo essere Stato moderno” (Cardia, 1990: 37). L’alleanza della Chiesa cattolica con lo Stato
fascista, sugellata dalla svolta concordataria del 1929, era funzionale alla costruzione di un fronte
comune contro il diffondersi del verbo marxista. Dunque, l’avversione della Chiesa al liberalismo,
prima, e al comunismo, poi, è stata così radicale da spingere a forme di collaborazione e vicinanza
con tutti quelli che tali idee rifiutavano: mafie comprese. La ‘ndrangheta, da parte sua, ha
sapientemente utilizzato il sentimento di ostilità che parte della popolazione calabrese nutriva nei
confronti dello Stato unitario e sul polemico disinteresse per il funzionamento dello stesso. Se è vero
che nella propaganda antiunitaria un ruolo di primo piano è stato svolto dalla Chiesa cattolica, vi è chi
ritiene che si sia trattato anche di una copertura ideologica volta a nascondere ai più che la
‘ndrangheta andava sviluppandosi grazie anche alla presenza della nuova entità statuale “che nelle
sue articolazioni e nei suoi rappresentanti periferici e a volte anche centrali era complice – non
assente! – era connivente e colluso perché l’uno supportava l’altra” (Ciconte, 2008: 378). Un blocco
di potere, dunque, che in Calabria specialmente – complici tanto lo Stato quanto buona parte della
Chiesa – annientò sul nascere, come ricorda Umberto Santino (2009), il primo vero movimento
antimafia: contadini, braccianti, sindacalisti in lotta per l’occupazione delle terre e per la realizzazione
della giustizia sociale.
4. Dall’indifferenza al tentativo di distanza . ’Ndrangheta e Chiesa hanno percorso un lungo tratto
della propria storia non solo non intralciandosi l’un l’altra, ma troppo spesso aiutandosi
reciprocamente e ognuna per il proprio tornaconto: la ricerca del consenso ai fini del controllo
sociale. La Chiesa, che è una delle maggiori agenzie sociali in grado di fornire consenso, non si è tirata
indietro almeno fino a una epoca abbastanza recente e non senza qualche ambiguità.
Paradossalmente, su alcune questioni, quali l’ordine naturale della famiglia e la legittimità della sola
giustizia ultraterrena (solo per fare qualche esempio), si è registrata una pericolosa convergenza tra
uomini di Chiesa e uomini di ’ndrangheta. Si conferma così l’idea che non sempre “in media stat
virtus”, non sempre cioè la posizione più coerente con il sistema valoriale di riferimento è quella che
rifugge da una delle opzioni estreme. Anche nella storia dei rapporti tra il mondo cattolico e gli
ambienti ‘ndranghetisti si registrano casi di autentica complicità e casi di preti che si sono esposti alla
violenza perché hanno ritenuto di dover interpretare il proprio ruolo facendo azione sociale e
pastorale “contro”. Persino nei casi in cui più intensi sono stati i legami tra religiosi ed ambienti
’ndranghetisti, non si è giunti a una corale presa di distanza. Si pensi, ad esempio, al caso di Don Stilo,
per cinquant’anni sacerdote di Africo, per alcuni “benefattore” e figura da rivisitare (Belluscio,
Kostner, 2009), per molti altri sodale di spicco di una cosca della Locride e “malandrino” per
definizione (Palamara: 2012). In molti, tuttavia, concordano nel ritenere che “i preti-boss e i pretimartiri costituiscono comunque, nella loro atipicità, un’eccezione. La norma è stata, invece, una sorta
di indifferenza disincantata delle Chiese cristiane – e in particolare della Chiesa cattolica, rispetto ad
una questione considerata, a torto, di competenza dello Stato” (Cavadi, 2008: 30-31). La Calabria ha
conosciuto ministri del culto cattolico dalle più che dubbie frequentazioni mafiose; ha più di recente
conosciuto preti impegnati, a diverso titolo ed in misura diversa, a costruire una antimafia sociale
incisiva; per (s)fortuna non ha conosciuto, e speriamo non debba mai farne conoscenza, preti-martire
come Don Puglisi o Don Diana. La “normalità” dei rapporti tra preti e ‘ndranghetisti è stata per
lunghissimo tempo la convivenza sugli stessi territori e la condivisione degli spazi e dei meccanismi di
produzione e riproduzione del consenso. Anche e soprattutto in Calabria, vittime e carnefici hanno
occupato gli stessi banchi della Chiesa e pregato lo stesso Dio a testimonianza che l’agire degli
uomini di Chiesa non ha avuto la forza di rompere codici culturali: ordine, famiglia, gerarchia.
Più di recente, però, sono stati prodotti dalla Chiesa calabrese interessanti documenti ufficiali contro
le mafie cogliendosi anche una maggiore sensibilità alla questione. Altrimenti detto, anche per la
Chiesa calabrese quello dei rapporti ambigui ed ambivalenti con il mondo della ‘ndrangheta
costituisce un problema di non poco conto. Invero, già nel 1975, da presidente della Conferenza
episcopale calabrese, monsignor Ferro scriveva un documento, firmato dagli altri vescovi calabresi,
dal titolo “L’episcopato calabro contro la mafia, disonorante piaga della società”. Qui il fenomeno
mafioso viene chiamato “cancro esiziale e soprastruttura parassitaria che rode la nostra compagine
sociale”. Nel 2007, a Falerna, si è tenuto un interessante convegno, dal titolo “E’ cosa nostra”,
organizzato dalla Caritas Calabria, il cui delegato regionale all’epoca era Don Ennio Stamile (Stamile,
Schinella, 2007) a cui ha fatto seguito, nello stesso anno, un documento della Conferenza episcopale
calabra (“Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”) ove si legge che le mafie devono
essere contrastate “perché nemiche del vangelo e della comunità umana”). Quelle citate sono solo
alcuni tra i non pochi atti con cui la Chiesa ufficialmente mostra di voler cambiare strategie e
posizionamento nei riguardi delle mafie. A ricordarci la difficoltà di questo cambiamento stanno preti
come don Memè Ascone, parroco di Rosarno, che, chiamato a testimoniare dal Tribunale di Palmi su
presunti affiliati della cosca Pesce, non ha esitato a definirli buoni fedeli, sempre presenti alle
cerimonie religiose e generosi sostenitori delle attività della parrocchia.
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