Undici allunaggi possibili, catalogo mostra, Ed.L`affiche

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Undici allunaggi possibili, catalogo mostra, Ed.L`affiche
UNDICI ALLUNAGGI
POSSIBILI
Progetto di
martina cavallarin
Mostra a cura di
martina cavallarin
auroraMeccanica
Alessandro Bergonzoni
Francesco Bocchini
Mauro Ghiglione
Robert Gligorov
Gianni Moretti
Ester Maria Negretti
Gino Sabatini Odoardi
Ekaterina Panikanova
Tamara Repetto
Eric Winarto
coordinamento
culturale
e scientifico
s c a t o l a b i a n c a
© 2012 - Edizioni della Galleria l'Affiche, Milano
Artisti e curatore per le proprie immagini e testi
scatolabianca www.scatolabianca.com
Centro progetti: [email protected]
Art Director: Federico Arcuri, [email protected]
PR & Comunicazione: Roberta Donato, [email protected]
Web Agency: www.immediatic.it
ISBN 9788890659232
Edizioni della Galleria l’Affiche
via Nirone 11 - 20123 Milano
[email protected]
Fotografie di Pierluigi Buttò: [email protected]
patrocinio
COMUNE
DI VENEZIA
PROVINCIA
DI VENEZIA
REGIONE
VENETO
COLLEGIO ARMENO
MOORAT RAPHAEL
CA’ ZENOBIO
Ca’ Zenobio • Venezia • 11 maggio / 26 luglio 2012
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Ca’ Zenobio - Fondamenta del Soccorso, 2596
Dorsoduro - Venezia - Ph: +39 041522 8770
www.collegioarmeno.com
1 Gianni Moretti
2 Robert Gligorov
3 auroraMeccanica
4 Alessandro Bergonzoni
5 Ester Maria Negretti
6 Ekaterina Panikanova
7 Mauro Ghiglione
8 Eric Winarto
9 Tamara Repetto
10 Gino Sabatini Odoardi
11 Francesco Bocchini
allunaggi possibili
di martina cavallarin
Il faut être nomade, traverser
les idées comme on traverse les
pays et les villes. (1)
Se la creazione dell’artista nella sua fase germinale abita la
stanza privata dell’arte, quando
tale creazione si sviluppa si mette in relazione con lo spettatore
in una stanza pubblica, il luogo dello scambio e dell’ascolto,
il luogo del possibile e dell’incantesimo reale. La stanza diviene, nell’inciampo tra sguardo a li-
bellula,
prismatico,
dell’artista
mutante (2) e sguardo solitamente
orizzontale dello spettatore, un al-
lunaggio possibile, forma di negoziazione interumana che Marcel Duchamp
chiamava “coefficiente d’arte”, tra
narrazione e comprensione che genera
questo humus fertile, pallido, apparentemente lontano, ma appunto possi-
bile come qualsiasi allunaggio inteso
come bisogno di espansione del pensiero e del pensare, del rovesciamento
del gioco delle parti. Ogni stanza di
un’esposizione,
di
questa
esposizio-
ne d’allunaggi possibili, è una stanza
che mi piace pensare come un territorio
di sospensione non silenzioso per forza, non chiassoso per forza. Uno spazio
confidenziale dell’opera che convive e
dialoga con i singoli luoghi prendendo
per mano il visitatore che condivide un
percorso. Nell’arte contemporanea ritengo che l’allunaggio non sia morbido né
forse duro, perché la macchina che lo
rende plausibile non è un congegno meccanico di pistoni e metalli, ma è quella
indefinibile della creazione e dell’epifania dell’opera. L’allunaggio possibile è
il mio apporto di scrittura espositiva che
permette l’incidente tra l’intromissione
dell’estraneo atteso, il viandante solitamente sul bilico della soglia, con l’opera
e lo stupore della sua presenza. In questa
mostra il progetto tenta di essere una casuale armonia attraverso la quale prova a
porsi come segno naturale di un artificio
programmato, quello strutturato da ogni singolo artista che in maniera gestaltica si
relaziona con lo spazio ed entra in meccanismo empatico attraverso opere struggenti e
mai contenute.
Se il liminale è un fatto o fenomeno alla so-
glia della coscienza e della percezione sono
gli accostamenti tra i limiti valicabili ed
espandibili
che
undici
allunaggi
possibili
connette attraverso i presupposti linguistici
impiegati dagli artisti per le loro opere e
che innestano l’idea della complessità esecutiva. Le stanze sono camere delle meraviglie
delle appropriazioni calde e degli avvicinamenti freddi, wunderkammer, territorio accessibile
allo sguardo attraverso le transizioni orizzontali dei nostri passi e gli sguardi verticali
e ancor più, complessi, tra parete e pavimento,
soffitto e il prossimo angolo ancora da metabolizzare.
L’ingresso della mostra è un vibrare
ossessivo e rutilante di mille campanellini, un allarme innestato da Gianni
Moretti nella sua La Seconda Stanza,
installazione fragile ed energetica,
costruzione poverista che cattura le
esperienze della paura e della protezione,
svela
con
abbagli
di
luce
lo sfavillio del metallo dorato delle sfere impazzite sotto la spinta di
piccoli motori che imprimono ritmo ai
legni incrociati solo quando qualcuno si avvicina, grazie all’allerta di
sensori attenti. Quello che compie
Gianni Moretti
Moretti in questo lavoro e in questo
La seconda stanza, 2012, campanellini, legno, fascette
autobloccanti, piccoli motori vibranti, sensore di movimento,
filo di nylon, 387x350x295 cm
allunaggio è un atto di segnalazione
d’esistenza, un portare la sua dimensione privata in relazione con il
mondo non senza armarsi di strumenti,
The second room, 2012, small bells, wood, self-locking cable
tiles, small vibrating engines, motion sensor, nylon wire,
387x350x295 cm
nella stessa misura in cui metaforicamente il lavoro richiama i bastoni
dotati di tintinnii che i contadini
usano nei campi per allontanare dal
loro percorso serpenti e pericoli.
Il movimento, il suono, lo scintillio accecante dell’oro e la danza
epilettica
degli
elementi
appesi
a invisibili fili di nylon nella tensione centrifuga esasperata,
conduce al punto limite di collasso l’intera struttura. Le sottili ossature lignee che formano
angoli e impercettibili filamenti
laterali sono i depositari di un
esercito tremante e chiassoso, un
universo saturo e condensato in
cui il senso della perdita è una
previsione necessaria e auspicabile. La delimitazione studiata
da Moretti corrisponde al Raum
heideggeriano - Rum anticamente
significava “un posto reso libero per un insediamento di coloni
o per un accampamento” - (3),
un limite quindi che come intendono i greci con la parola
péras non è la fine di qualcosa, bensì un inizio, un ambiente soggettivo in cui l’uomo
impara a convivere con se stesso e a conoscersi. All’interno
lo spazio è vuoto, disarmante
nelle sua trasparenza, luogo
sacro e inaccessibile di cui è
difficile comprendere il significato della difesa se non
accettando il presupposto che
quel luogo è proprio il Raum,
quindi
corrispondenza
meta-
forica del corpo dell’artista, del suo esistere nella
vita come nell’arte. Lì vige
sicurezza ed emarginazione,
lontananza dal vedere e dal
sentire,
immersione
nella
privata visione, nel territorio lunare del pensiero in
cui forse è sempre possibile entrare, in cui forse
è sempre possibile uscire,
per un viaggio che costituisce un pericolo come tutte
quelle rotte che solo il
coraggio permette di tracciare distanti dalla costa (4), per affrontare le
acque abissali dell’arte,
universali e senza coordinate,
laddove
esiste
la scoperta e le sue incognite,
laddove
l’arte
culla e inabissa, bagna
e brucia.
6
Gianni Moretti
Gianni Moretti è nato a Perugia nel 1978. Vive e lavora tra Milano e Berlino.
Disegno, installazioni e mixed media sono le tecniche impiegate da Gianni Moretti per una ricerca che si concentra sul
tentativo di arrivare al massimo punto di comprensione del limite e della rottura della struttura di vari tipi di organismi. Le sue installazioni sono ossature precarie e volatili portate fino al limite del collasso, ma sempre in stato
di controllo. Attraverso segno e assemblaggi attua processi che inducono reazioni concatenate nello sforzo di generare,
attraverso la reiterazione di gesti che incidono, disgregano e dissestano, delle forme in stato di perenne smantellamento
e ricomposizione.
Nel 2011 è stato invitato a partecipare a “Round the Clock”, evento collaterale della 54ª Esposizione Internazionale
d’Arte - La Biennale di Venezia, a cura di Martina Cavallarin
Ha partecipato a residenze artistiche internazionali a New York, Seoul e Berlino e collaborato con il teatro.
tra i riconoscimenti ottenuti:
“Premio Nazionale delle Arti 2003”, Roma; “Premio Iceberg 2005”, Bologna; “Premio Accademia Olimpica Nazionale 2006”,
Roma; “XXIII Premio Oscar Signorini 2006”, Milano; “Premio San Fedele 2007”, Milano; “Premio d’Arte Rugabella 2011”,
Milano.
Dal 2010 è socio fondatore dell’associazione di promozione sociale scatolabianca.
tra le personali:
2012 “Manuale per la perfetta gestione delle emozioni”, MARS, Milano
2011 “Inventario perenne”, a cura di Martina Cavallarin, Centro Arti Visive Pescheria, Pesaro; “{to} PUZZLE”, a cura di
Alberto Zanchetta, Otto gallery, Bologna
2010 “Intermittenza”, a cura di Martina Cavallarin, Changing Role-move over gallery, Napoli; “Paper Heroes”, a cura di
Martina Cavallarin, Gaya Art Space, Bali (Indonesia)
2009 “Poena Cullei”, a cura di Alberto Zanchetta, Basilica Palladiana, Vicenza
2008 “Settantasette centesimi”, a cura di Martina Cavallarin, Galleria Michela Rizzo Project Room, Venezia
tra le recenti collettive:
2012 “undici allunaggi possibili”, a cura di Martina Cavallarin, Palazzo Zenobio per l’arte, Venezia
2011 “Round the Clock”, a cura di Martina Cavallarin, evento collaterale della 54ª Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, Spazio Thetis, Venezia
2010 “Show V”, MMX, Berlino (Germania); “Open”, a cura di Jiyae Choi, Mongin Art Space, Seoul (Corea del Sud)
2009 “Big in Japan”, a cura di Doreen Uhlig e Alida Speler, Arcus Studio, Ibaraki (Giappone); “Italian Artists New York”,
ISCP, New York (USA); “The Goldberg’s Variations”, a cura di Martina Cavallarin, 91mQ, Berlino (Germania)
Gianni Moretti was born in Perugia in 1978. He lives and works between Milan and Berlin.
Drawing, installation and mixed media techniques are used by Gianni Moretti in a research focused on trying to reach the
highest point of understanding the limits and breaking the structure of various kinds of organisms. His installations are
frames precarious and volatile flows up to the edge of collapse, but always under control. Through sign and implement
processes that generate assembly reactions linked in an effort to generate, through repetition of actions that affect,
disrupt and break up, the forms in a state of perpetual dismantling and reassembling.
In 2011 he was invited to participate in “Round the Clock”, a collateral event of the 54th Esposizione Internazionale
d’Arte - La Biennale di Venezia, curated by Martina Cavallarin.
He have been invited in internationals artist in residency program in New York, Seoul and Berlin; He has collaborated
with theater.
Prizes:
“Premio Nazionale delle Arti 2003”, Roma; “Premio Iceberg 2005”, Bologna; “Premio Accademia Olimpica Nazionale 2006”,
Roma; “XXIII Premio Oscar Signorini 2006”, Milano; “Premio San Fedele 2007”, Milano; “Premio d’Arte Rugabella 2011”,
Milano.
Since 2010 he is a founding member of the no profit association scatolabianca.
selected solo exhibitions:
2012 “Manuale per la perfetta gestione delle emozioni”, MARS, Milan
2011 “Inventario perenne”, curated by Martina Cavallarin, Visual Art center La Pescheria, Pesaro; “{to} PUZZLE”, curated
by Alberto Zanchetta, Otto gallery, Bologna
2010 “Intermittenza”, curated by Martina Cavallarin, Changing Role-Move Over Gallery, Naples; “Paper Heroes”, curated by
Martina Cavallarin, Gaya Art Space, Bali (Indonesia)
2009 “Poena Cullei”, curated by Alberto Zanchetta, Basilica Palladiana, Vicenza
2008 “Settantasette centesimi”, curated by Martina Cavallarin, Galleria Michela Rizzo Project Room, Venice
selected group exhibitions:
2012 “Undici allunaggi possibili”, curated by Martina Cavallarin, Palazzo Zenobio per l’arte, Venice
2011 “Round the Clock”, curated by Martina Cavallarin, a collateral event of the 54ª Esposizione Internazionale d’Arte
- La Biennale di Venezia, Spazio Thetis, Venezia
2010 “Show V”, MMX, Berlin (Germany), “Open”, curated by Jiyae Choi, Mongin Art Space, Seoul (South Korea)
2009 “Big in Japan”, curated by Doreen Uhlig and Alida Speler, Arcus Studio, Ibaraki (Japan), “Italian Artists New York”,
ISCP, New York (USA), “The Goldberg’s Variations”, curated by Martina Cavallarin, 91mQ, Berlin (Germany)
www.giannimoretti.com
La prima stanza, 2011, tessuto, carta, carta
velina, forex, metallo / fabric, paper, tissue
paper, forex, metal, dimensioni variabili /
variable dimensions
Monumento al mantenimento delle regole della
casa, 2011, collages, legno, plexiglas / collages, wood, plexiglas, 760x81x98 cm, photo by
davidelovatti.com
Primo esercizio di approssimazione al grande
amore, 2010, Foglia d’oro zecchino su plexiglas / pure gold leaf on plexiglas, 28 x 2 cm
l’uno / each
Quindici esercizi di salvataggio, 2009, carta
velina / tissue paper, 160 x 280 cm, photo by
davidelovatti.com
L’incontro con l’imponente Mobydick di
Robert Gligorov è un continuo circuitare lo sguardo tra altezza e ampiezza
dell’arco dell’animale che giace molle
e inerte, concavo, sul parallelepipedo
dorato di 3 metri. La forma ha una storia artistica sviluppata dall’artista
macedone che controlla un arco temporale in cui la sua nascita e la sua
crescita, le variazioni di scala, di
colori e di rapporto con lo spazio si
sono evolute dalla serie Endo del 1998
passando per una gamma di varianti e
approdare con Mobydick - selfportrait
Robert Gligorov
(il peso delle cose), piedistallo in
Mobydick – selfportrait (il peso delle cose), 2012,
piedistallo in legno di 280x70x70 cm e scultura in ferro con
200 kg di argilla polimerica di vari colori, 380 x 200 cm.
legno e armatura in ferro ricoperta
di materiale gommoso polimero, nella
straripante sala degli specchi di Cà
Zenobio a maggio 2012. Un allunaggio
Mobydick – selfportrait (the weight of things), 2012,
wooden stand of 280x70x70 cm and iron sculpture with 200 kg
of various colors polymer clay, 380 x 200 cm.
non programmato eppure evidente, muto
quanto invadente e macro. La linea
della Carpa mutuata da un codice che
appartiene all’architettura di Frank
O. Gehry è una struttura dinamica
che secondo Gligorov rappresenta la
tipologia scultoria ideale. Se la
corazza metallica del Golem è la
naturale immagine plastica che Gligorov ha ossessivamente modellato
e riformulato tra tentativi e materiali, i colori impiegati stendendo differenti panetti di pongo rappresentano valori segnici.
Ciascuna zona di colore notifica
un interesse peculiare o la percentuale di valore che Gligorov
associa a cose, impegni, hobby,
persone della sua vita. Si tratta
quindi di un vero e proprio grafico tridimensionale costituito
da sport, arte, amore, amicizie,
cultura, cinema, musica, denaro.
Tale
presupposto
rende
questo
elemento monumentale una mappa
biografica esplicata attraverso
un’estetica
ta
relazionale
basa-
sull’intersoggettività
che
s’instaura tra artista e opera creata mentre le connessioni controllano e alimentano le
percezioni
dello
spettatore
che è portato a circumnavigare
con seducente e diffusa curiosità intorno all’installazione. L’organismo Golem procede senza indugi verso la sua
destinazione
entropica
che
si esplica nello scuoiamento
della
superficie
pellicola-
re per lasciare territori di
spazio ferito sempre più ampio e non arginabile in cui
l’armatura in ferro traluce
in tutta la sua evidente nudità. Attratto da sempre da
una ricerca sistematica e
meticolosa sulla relazione
tra immagine e artificio,
sull’impatto culturale e il
potere
che
l’iconografia
ha sulla coscienza umana,
Gligorov ancora una volta
sceglie di mettersi in gioco in prima persona unificando
sguardo
prismatico
dell’artista a quello del
fruitore
dell’opera
per
una partita sempre aperta
tra zone chiare e ombre,
allucinazioni programmate e focus preciso, condizione termica alta e
bassa.
10
Robert Gligorov
L’opera di Robert Gligorov (Macedonia 1960) è un’accattivante miscela d’impatto visivo e delicatezza estetica, il tutto
unificato da una decisa vena ironica. Utilizza il video, la fotografia, l’installazione e la pittura piegandoli alle
esigenze di una ricerca che sempre si misura con i limiti e le ambiguità della rappresentazione e, attraverso questi
strumenti, Gligorov conduce una ricerca sistematica e meticolosa sulla relazione tra immagine e artificio, e sull’impatto culturale e il potere che l’iconografia ha sulla coscienza umana. Ha tenuto mostre personali nelle principali città
europee come Parigi, Berlino, Madrid, Milano e Roma. Le sue opere sono presenti nelle maggiori collezioni pubbliche e
private. Gligorov, dopo un lungo studio di disegno e pittura, è arrivato alla conclusione che un media ideale per lui non
esiste. I suoi due punti fermi sono: che l’opera non sembri un’opera d’arte (intesa in senso tradizionale) e il secondo,
quello più importante, è di non avere una cifra stilistica e non riconoscere le sue opere per un’ossessiva ripetizione
di un modulo, ma che lo stile sia la forza e l’efficacia penetrativa della singola opera da scollegare a qualsiasi sua
passata o futura produzione. L’arte per Gligorov non può e non deve diventare un lavoro ma un puro gesto di lucida ed
eroica follia.
Robert Gligorov’s artwork (Macedonia 1960) is a captivating blend of visual impact and aesthetic delicacy, all united by
a strong vein of irony. He uses video, photography, installation and painting by bending them to the demands of a search
that must measures itself against the limits and ambiguities of representation and by these means, Gligorov conducts a systematic and meticulous
investigations into the relationship between image and artifice, and into
the cultural impact and the power iconography holds over the human conscience. He has held solo exhibitions in major European cities like Paris,
Berlin, Madrid, Milan and Rome. His works are in major public and private
collections. Gligorov after a long study of drawing and painting has come
to the conclusion that there is not an ideal medium for him.
His two fixed points are, that artwork should not seem a work of art (in
the traditional sense) and the second and more important is not to have
a signature style and not recognize his work for obsessive repetition of
a module, but the style is the strength and effectiveness of individual
penetrating work disconnected by any of his past or future production. Art
for Gligorov cannot and must not become a job but a pure and lucid gesture
of heroic folly. “Gligorov’s ideas, shimmer like bright shoals of fish in
an ocean, turning this way and that way, swirling, transforming, evolving
in the unforeseen, the unexpected. The master of disguise hastricked and
delighted us once again, and surprise is the essence of his art.”
www.galleriapack.com
Endo, 1999, c-print
Dalla terra alla luna, 2007, scultura in corda
c-squared bianca e blu di 16.000 mt. intrecciata / sculpture made of c-squared white and
blue rope, 16.000 mt. long
ceres, 2003, c-print
big one, 2008, c-print
<Il primo Novembre 2011 il deputato del Partito Democratico Giapponese (DPJ) Yasuhiro
Sonoda ha bevuto un bicchiere d’acqua proveniente dai reattori 5 e 6 della Centrale di
Fukushima. L’atto è stato compiuto davanti
agli obiettivi di una gremita sala stampa,
con i giornalisti di tutto il mondo pronti
a immortalare l’atto scenico; si è trattato
di una vera e propria performance con tanto di bicchiere vuoto alzato a conclusione
dell’impresa.>
Entrare nell’atmosfera semibuia abitata dagli auroraMeccanica significa rimbalzare in
una porzione di mondo in cui il confron-
auroraMeccanica
to tra realtà e virtualità, comprensione e
Come bere un bicchiere d’acqua, 2012, Videoinstallazione
interattiva, cemento, vetro, luci e ombre.
apparenza, opera fisica e rimando del suo
significato nel filmato che scorre in un
piccolo schermo, è qualcosa che dissocia e
Like drinking a glass of water, 2012, interactive video
installation. concrete, glass, lights and shadows.
sprofonda. Collettivo torinese composto da
Fabio Alvino (classe 1988) Roberto Bella
(classe 1983) e Carlo Riccobono (classe
1982), auroraMeccanica, dopo un’accurata
formazione storica incentrata sulla genesi della video arte e lo studio dei
suoi padri fondatori, ha cominciato a focalizzare la sua ricerca sul concetto di
mistificazione e di falsa percezione che
ciascuna immagine o azione può generare
sulle persone. La riflessione sull’utilizzo della materia - che nel caso di Come
bere un bicchiere d’acqua è costituita da
un tavolino che accoglie un bicchiere riempito a metà - e la sua commistione con
l’immaterialità del video - che rimanda
a un fatto realmente accaduto - diviene
il punto di partenza per “un pensiero
responsabilmente artistico”. Il risultato finale di tale processo si concretizza nella realizzazione di un’opera
interattiva in cui l’intervento degli
spettatori diviene fondamentale per il
completamento del lavoro. La tecnologia
da un lato e la presenza fisica degli
oggetti si compenetrano per assurgere a simbolo di un’adesione condivisa
sotto il segno della partecipazione cosciente, un allunaggio dedicato a una
coscienza civica nella quale lo spettatore è chiamato a essere garante e
presente. In “Come bere un bicchiere
d’acqua” il processo di rielaborazione della realtà è reinterpretato nel
rapporto tra l’oggetto reale e la sua
ombra: l’oggetto metonimico è proprio
un bicchiere d’acqua poggiato al centro di un piccolo tavolo. Il bicchiere è illuminato dall’alto da una non
definita fonte luminosa mentre l’ombra visibile sul tavolo si comporta
in modo eccentrico: è instabile, si
muove e si frastaglia. L’ombra del
bicchiere
risponde
costantemente
alle variazioni di emissioni di radiottività rilevate nei dintorni di
Fukushima Daiichi. Il dato preciso
e oggettivo - rilevato in Giappone
e diffuso in tempo reale tramite la
rete - viene reinterpretato per fornire una versione della rappresentazione del vero che si trasforma ad
ogni minima variazione. Il caso del
deputato Sonoda è soltanto un esempio concreto di come ogni giorno la
realtà venga raccontata e teatralizzata in molteplici maniere. La
volontà di approfondire è il punto
di partenza per l’analisi critica
dei dati, per tentare di sfuggire
alla mistificazione condotta dai
media e dall’informazione globale, per avvicinarsi al bicchiere
e scoprire che le ombre possono
anche scomparire.
14
auroraMeccanica
auroraMeccanica
Vive e lavora a Torino. collettivo composto da: Fabio Alvino (1988), Roberto Bella (1983) e Carlo Riccobono (1982).
Nel 2012 vince il Premio PAV 2012 ed è chiamato a partecipare a Hidden Places and Identities, Parallel Events di Manifesta9
tra le personali:
2012 “Dance me to the end of love / Artefiera OFF”, Spazio Blue, Bologna
2011 “Svegliare le idee”, Weber & Weber, Torino
2010 “Bolle d’aria”, Ohne Tilel Lab, Torino
tra le collettive:
2012 “Undici allunaggi possibili”, Palazzo Zenobio per l’arte, Venezia
2011 “Nei Limiti”, Castiglia di Saluzzo, Saluzzo (CN); “Shingle22”, Biennale di Anzio e Nettuno, Anzio (ROMA)
2010 “Guardiani del tempo”, Gemine Muse, Museo arte orientale, Torino
2008 “Terre e Cieli”, Invideo 2008, Spazio Oberdan, Milano
auroraMeccanica
Lives and works in Turin. collective formed by Fabio Alvino (1988), Roberto Bella (1983) and Carlo Riccobono (1982).
In 2012 auroraMeccanica has won the 2012 PAV Prize and is invited to participate in Hidden Places and Identities, Parallel Events of Manifesta9.
selected solo exhibitions:
2012 “Dance me to the end of love /Artefiera OFF”, Spazio Blue, Bologna
2011 “Svegliare le idee”, Weber & Weber, Torino
2010 “Bolle d’aria”, Ohne Tilel Lab, Torino
selected group exhibitions:
2012 “Undici allunaggi possibili”, Palazzo Zenobio per l’arte, Venezia
2011 “Nei Limiti”, Castiglia di Saluzzo, Saluzzo (CN); “Shingle22”, Biennale di Anzio e Nettuno, Anzio (ROMA)
2010 “Guardiani del tempo”, Gemine Muse, Museo arte orientale, Torino
2008 “Terre e Cieli”, Invideo 2008, Spazio Oberdan, Milano
www.aurorameccanica.it
www.affiche.it
George 1.0, 2011, installazione interattiva /
interactive installation, 150x75 cm
E se ti regalassi la luna?, 2010, videoinstallazione interattiva / interactive video
installation, 400x300 cm
La Gabbia, 2012, videoinstallazione interattiva, dimensioni dettate dall’ambiente /
interactive video installation, site specific
dimensions
George 1.0, 2011, installazione interattiva /
interactive installation, 150x75 cm
Nelle opere scultorie e installative
di Alessandro Bergonzoni permane una
solitudine
perdita
bensì
immobile,
che
una
non
un
produce
meccanica
luogo
della
sottrazione,
gestaltica
nella
quale “il tutto è più della somma delle
singole parti”. In questo dedalo di materiali - separati in frammenti e ridati a nuova vita attraverso altre forme e
altri anfratti dell’esistere - materiali
provenienti da una memoria privata e insistita, ciò che più interessa all’artista
Alessandro
Bergonzoni
è ciò che non si vede, è il portare come
un traghettatore contemporaneo il dolore
nella sfera del possibile e il possibile
TELI DEI RESUSCITANTI PER SVENTOLAR BANDIERA BIANCA,
RITROVATI SOTTOSUOLO, 2012, materiali vari, dimensioni variabili.
in tutte le sfere, attraverso un processo artistico in cui la scrittura accompagna
sempre il lavoro anche quando è celata. I
suoi organismi si alimentano dell’espansio-
SHEETS OF RESURRECTED TO WAVE WHITE FLAG, UNDERGROUND
RECOVERED, 2012, various materials, variable dimensions.
ne dell’errore sia nella fase realizzativa,
che in quella espositiva, quando tutto appare
fermo eppure è soggetto a un costante, pro-
Dei resuscitanti: come Dei appunto, che stanno ritornando e
che hanno cucito, passato e futuro (a sutura memoria).
Due bandiere su cui posare e riposare, posare e riposare.
La terra cicatrizza luna e l’altra.
Ecco l’incombenza: portare sulla luna tutto ciò,
che “incombe”, che è posato sopra.
Nessun muro sulla luna? Se ce ne sono ancora, crepano, si
stanno sgretolando a vista, ma vi si può leggere riflesso,
l’elenco dei reperti trovati sulla e nella terra:
il ritrovato, cavato e ricavato.
Il ricavato sarà devoluto alla causa: l’evoluto.
gressivo e inesorabile processo. Se covare e
allacciare la dimensione del dubbio è compito
dell’arte contemporanea, in ogni era e stagione, così nelle sue opere il dubbio è, come
in TELI DEI RESUSCITANTI PER SVENTOLAR BANDIE-
RA BIANCA, RITROVATI SOTTOSUOLO, installazione
di accumulo di terra, reperto, archivio intriso
di emerso, cavato impuro, visione dell’arte per
trovare nella semi-autobiografia di questa stanza
l’acrobatica sperimentazione di ellissi e iperboli gergali del pensare. Nello studiato compimento
Alessandro Bergonzoni
dell’installazione, sublimazione di ufficio archivistico d’esperienza vissuta in altra dimensione,
bisogno di oltrepassare i confini anche dell’atmosfera terrestre, allucinazione programmata di un
esule, l’artista porta sulla sua Luna una bandiera
bianca deposta sotto un cumulo di terra, e un’altra
bandiera bianca che accoglie gli oggetti reperti,
sempre superfici ruvide e contaminate, ritrovati affioranti tra polvere e uno sguardo pronto a cogliere
l’inciampo con il prossimo incontro. Ciascuno di questi residui è catalogato e la scoperta, l’atto che lo
spettatore è portato a compiere, è quello di andare a
ritrovare la corrispondenza tra l’oggetto numerato su
bandiera e il suo significato scritto sulla “lavagna
bianca” a parete, cartongesso a muro che interconnette
i fili del senso, per tracciare una mappa di mondi che
s’incrociano e dimensioni intercambiabili.
Quella com-
piuta da Bergonzoni è l’epifania della rivelazione dei
contenuti, un’autopsia eseguita nella e sulla stanza e
le cui tracce sono verificate dalle sculture, ma anche
dai punti di sutura che dalla parete sconnessa scendono a
pavimento per arginare il flusso della polvere che sgorga
dalle viscere stesse del terreno lunare. In questo spazio
si verifica l’incontro tra arte e vita, tra spettatore e
opera, tra sguardo orizzontale e sguardo prismatico.
Nell’opera di Bergonzoni l’impressione è che non sarà mai
dato modo di tornare a una presenza tranquilla essendo
estremamente labili i confini tra entità ed eventi. La natura
indeterminata della polvere solleverà altri spazi e altri intervalli, la percezione sarà sempre allertata e le potenzialità estese in una disarmonia jazzistica continua e battente.
Il disagio da “Memorie dal sottosuolo” (5) che l’installazione
di Bergonzoni contiene nell’imbuto della progressiva scoperta
che intercorre tra lo svelare e lo svelato, è consapevolezza
di poter convertire i fattori, squadernare il vero e il falso,
è consapevolezza di “un umano da moltiplicare al sovrumano” e
che l’incidente con l’arte può aumentare o spingere a suturare.
L’artista non teme l’inazione che tale estrema consapevolezza
può apportare e ci sposta oltre, ci incoraggia all’inevitabile
e allo stupefacente, ci spinge a guardare senza preoccuparsi di
pressione, temperatura, altitudine, tempo. Senza indugio Bergonzoni compie l’allunaggio e non soffre l’andata o il ritorno
perché riconosce essere, questi, la stessa cosa, essere un’unica
vasta possibilità.
Molti vorrebbero semplicemente dimenticare il tempo, perché il
tempo nasconde il “principio di morte” (tutti i veri artisti lo
sanno). In questa corrente temporale fluttuano i resti della storia
dell’arte, con un “presente” che non può difendere né le culture
dell’Europa né tantomeno le civiltà primitive o arcaiche; e deve, in
compenso, esplorare lo spirito pre- e post-storico, andando là dove
i lontani futuri incontreranno i lontani passati. (6)
18
Alessandro
Bergonzoni
Alessandro Bergonzoni, Bologna 1958
Autore, Attore, Artista / Author, Actor, Artist
mostre personali / solo exibitions:
2011 “Maceria prima (accuse mosse)”, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Pordenone Armando Pizzinato, a cura di
/ curated by Marco Minuz; “Grembi: soglie dell’inconcepibile”, Sala delle Colonne, Cittadellarte-Fondazione Pistoletto,
Biella; “Ai tuoi piedi (gli appallottolati)”, installazione / performance all’interno della notte bianca di Arte Fiera off
2010 “Proporzioni occulte (gli antipodi)”, Otto Gallery, Bologna
2008 “Cardanico”, Galleria Mimmo Scognamiglio, Napoli
mostre collettive / group exibitions:
2012 “undici allunaggi possibili”, Cà Zenobio, Venezia, a cura di / curated by Martina Cavallarin; “Arte Fiera Bologna”,
Galleria Michela Rizzo
2011 “Arte Fiera Bologna”, Otto Gallery
2010 “Mostra Installazione, Bologna si rivela - Artefiera”, San Giorgio in Poggiale, a cura di / curated by Philippe
Daverio; Mostra Installazione, Festival Poiesis, Spedale Santa Maria del Buon Gesù, Fabriano; “fortu-nati”, Festivalfilosofia, Galleria Paggeriarte, Sassuolo
2008 “Arte Fiera Bologna”, Galleria Mimmo Scognamiglio Artecontemporanea
2007 “Arte Fiera Bologna”, Galleria Mimmo Scognamiglio Artecontemporanea
2006 “Fresco Bosco”, Certosa di Padula, a cura di / curated by Achille Bonito Oliva
2005 “il Ritratto interiore, da Lotto a Pirandello”, Museo Archeologico di Aosta, a cura di / curated by Vittorio Sgarbi
teatro / theater:
2010 URGE
2007 NEL
2004 Predisporsi al micidiale
1999 Madornale 33
1997 Zius
1994 La cucina del frattempo
1992 Anghingò
1989 Le balene restino sedute
1987 Non è morto né Flic né Floc
1985 La saliera e l’ape Piera
1984 La regina del Nautilus
1983 Chi cabaret fa per tre
1982 Scemeggiata
libri / books
2009 Bastasse grondare
2005 Non ardo dal desiderio di diventare uomo finché posso essere anche donna bambino animale o cosa
1999 Opplero Storia di un salto
1997 Silences - Il teatro di Alessandro Bergonzoni
1995 Il Grande Fermo e i suoi piccoli andirivieni
1992 Motivi di soddisfazione accampati nel deserto
1992 E’ già mercoledì e io no
1989 Le Balene restino sedute
premi / prizes
2009 Premio UBU 2009 per la migliore interpretazione maschile nel teatro Italiano
2008 Premio Hystrio-Teatro Festivale di Mantova
2004/2005 Premio della Critica dell’associazione nazionale critici di teatro
www.alessandrobergonzoni.it
www.michelarizzo.net
www.ottogallery.it
www.mimmoscognamiglio.com
Testa prima dell’invenzione del volto, 2011,
legno, acciaio / wood, steel, Courtesy Museo
della Città di Bologna
Maceria prima (accuse mosse), 2011, Galleria
d’Arte Moderna e Contemporanea di Pordenone
“Armando Pizzinato”, Pordenone
Veduta della mostra / exhibition view
Frantum, 2011, terra battuta, biglie d’acciaio
/ clay, steel balls, Courtesy dell’artista
Grembi: soglie dell’inconcepibile, 2011, Sala
delle Colonne, Cittadellarte-Fondazione Pistoletto, Biella, Veduta della mostra / exhibition view
pagina accanto / previous page;
Incubatoi per libri Innati, 2007, Courtesy
dell’artista
Oggi, negli anni ’50, l’attenzione
di tutti è rivolta verso l’alto,
verso il cielo. E’ la vita sugli
altri mondi che interessa la gente.
Eppure, in ogni momento, il terreno
può aprirsi sotto i nostri piedi e
razze strane e misteriose possono
riversarsi nel cuore del nostro mondo. Vale la pena di farci un pensiero, e proprio qui in California, a
causa dei terremoti, la situazione è
particolarmente all’ordine del giorno. Ogni volta che c’è una scossa di
terremoto io mi domando: “E’ questa
Ester Maria
Negretti
che aprirà una falla nel terreno e che
DIALOGO TRA SORDI, 2012, ferro, legno, calcestruzzo, gesso
sintetico, catrame, cementite, colori ad olio, colori
metallici, cera, resina, dimensioni di ogni scultura
pittorica 285x95x95 cm.
alla fine rivelerà il mondo interiore?
Sarà questa la scossa decisiva?. (7)
Il rapporto tra spazio, opera, fruitore s’intensifica nel calore concettuale
che pervade l’allunaggio di Ester Maria
DIALOGUE BETWEEN THE DEAF, 2012, iron, wood, concrete,
synthetic plaster, tar, cementite, oil colors, metallic
colors, wax, resin, dimensions of each painting sculpture
285x95x95 cm.
Negretti artista lirica, suggestiva, empatica e pittorica pur nella mole imponente delle sue monolitiche sculture. I
fasci di luce che ammantano ferro, legno,
calcestruzzo, catrame, cemento e pittura a olio di cui trasudano i DIALOGO TRA
SORDI si mescolano a un rumore sommesso e
ossessivo, un respiro che dialoga in forma
d’illusione con l’opera fisica. In questa
installazione la sensazione è di trovarsi
nel mezzo di una coniugazione perpetuata
tra le energie corporali, mentali e morali
dell’artista e l’identità del movimento del
viandante atteso. La fantasia di Negretti
non è una rinuncia al rimescolamento circolare della posizione esistenziale a favore dell’apparire dell’opera, bensì una traccia apparente e affermativa dell’osmosi e del
continuo travaso di energia dalla struttura
individuale dell’opera a quella del mondo e
viceversa. L’allunaggio di Negretti sta nella
possibilità di sfuggire al destino entropico
attraverso la congiunzione di arte e vita, la
loro assoluta permanenza in uno stato di quiete
apparente, di finta morte, di atto scenografico
che asseconda e aiuta l’inganno necessario di cui
si appropria ogni singola esistenza. I tre giganti maestosi e protettivi stringono con la loro
presenza ogni flusso, ogni atteggiamento, ogni
entrata e uscita memorizzando con la loro circolarità la possibilità di contenere tutti i mondi che
solo li sfiorano e mai li attraversano. I lavori
di Negretti “suonano” come interrogativi e moniti
sociali; nelle sue sculture le idee circolano rumorose, insistenti, insinuanti. Si percepisce un
senso di disagio, una consistenza data dalla materia
della scultura ma anche da una reale e impegnata partecipazione, una speranza di rianimazione del mondo.
Il rimettere in forma i reperti della realtà esalta
la necessità di riportare il caos nell’ordine della
cultura. Il processo creativo dell’artista è un circuito chiuso che rimanda con nostalgia a un’espansione
traumatica della nostra società. Stratificata, bruciata e scolpita la materia della quale è costituita
la superficie pellicolare delle sentinelle di ferro
racconta di antichi resti riammessi allo sguardo, riaffiorati alla superficie, ma sempre inaccessibili come
aculei che respingono il contatto, il dialogo, metafora
potente dell’incomunicabilità esistenziale. E qui si fa
ancora più presente l’ascolto del respiro di fondo che
ci sussurra di un dolore sopito e mai superato, il dolore incommensurabile che ciascuno di noi si porta dentro
di sé e che l’artista cerca di esorcizzare attraverso la
rappresentazione e la presentazione all’altro della sua
nuda opera. Nel caso di Negretti l’allunaggio è un atto di
possibile condivisione di un destino che personalmente non
ritengo mai casuale e mai misurabile, una manifestazione
primordiale di una civiltà che si sente accresciuta senza
mai evolvere, almeno non nelle sfere di cui abbiamo bisogno davvero, ma che l’arte può aiutare a colmare non senza
contagio, non senza malattia, non senza il virus infetto di
un malessere certamente più vertiginoso e dissestante, ma
certamente molto più vivo e vitale.
22
Ester Maria
Negretti
Ester Maria Negretti, 1978, Como.
Dopo aver conseguito il diploma presso l’I.T.I.S. Setificio di Como, seguendo la buona tradizione rinascimentale forma
la sua tecnica pittorica nella “bottega” di pittori esperti dai quali apprende I segreti del mestiere.
Ha partecipato fin da giovanissima a numerosi concorsi tra cui ricordiamo:
2012 finalista Premio Combat Prize; premiata al Premio Bice Bugatti
2010 vince il Premio Brambati
2008 invitata al premio La Fenice et des Artistes, Venezia
2006 vince il 2°premio Carlo dalla Zorza 2006, Milano
2005 finalista al Premio Arte Mondadori
Dopo aver lavorato presso diversi studi di disegno tessile, a partire dal 2005 si dedica interamente alla pittura.
mostre personali recenti:
2011 “Essenza e Materia”, Palazzo del Broletto, Como
2010 “Landscape”, Galleria Cortina, Milano
2008 “Morte e rinascita della materia”, Palazzo Pretorio, Sondrio
2007 “Ester Negretti”, Libreria Bocca, Milano
mostre collettive recenti:
2012 “Undici allunaggi possibili”, Palazzo Zenobio per l’arte, Venezia; “Energheia” Miniartextil, Galerie Lisette Alibert, Parigi e Museo di Palazzo Mocenigo, Venezia
2011 “Energheia” Miniartextil ex chiesa di San Francesco-Fondazione Ratti, Como; “DumpingArt” progetto nell’ambito del
Festival della Scienza, Genova
2010 “Artisti della Permanente”, Museo La Permanente, Milano; “Discaricart”, Museo Navale di Genova Pegli
2009 “Ecomondo” Rimini Fiera.
Nel 2012 partecipa al “Simposio di pittura”, Austevoll, Norvegia
Ester Maria Negretti, 1978, Como.
After graduating at the I.T.I.S. of Como, following the good tradition of the Renaissance she works in expert painters’
studios to learn their secrets.
Since she was very young, she participated in numerous competitions, among which we remember:
2012 Combat Award Finalist Prize; awarded at the Bice Bugatti Prize
2010 wins the Brambati Prize
2008 invited to the La Fenice et des Artistes Prize, Venice
2006 she wins the 2nd Carlo Zorza Prize 2006, Milan
2005 finalist for the Arte Mondadori Prize
After working in different studies of textile design, from 2005 she devoted herself entirely to painting
recent solo exhibitions:
2011 “Essence and Matter”, Broletto Palace, Como
2010 “Landscape”, Cortina Gallery, Milano
2008 “Death and Rebirth of matter,” Praetorian Palace, Sondrio
2007 “Ester Negretti” Bocca Library, Milan
recent group exhibitions:
2012 “Eleven possible lunar landings” Ca’ Zenobio , Venice; “Energheia” Miniartextil, Lisette Alibert Gallery, Paris and
Mocenigo Palace Museum, Venice
2011 “Energheia” Miniartextil former church of St. Francis- Ratti Foundation, Como, “DumpingArt” project by the Science
Festival, Genoa
2010 “Artists of The Permanent”, The Permanent Museum, Milan; “Discaricart”, Naval Museum of Genoa Pegli
2009 “Ecomondo” Rimini Fiera
In 2012 she takes part in the “Symposium of Painting”, Austevoll, Norway
www.esternegretti.com
morte e rinascita della materia, 2007, materiali vari / various materials, 100x100 cm.
Orizzonti sovrapposti, 2011, materiali vari /
various materials, 100x100 cm.
Momenti preziosi, 2012, materiali vari / various materials, 120x100 cm.
Un’unica stanza vive di sole pareti occupate,
fitte e intense, degli ERRATA CORRIGE di Ekaterina Panikanova, artista raffinata, dalla mano
intelligenza d’artista, pittrice e disegnatrice
di segni controllati tra inchiostri e pagine
stampate. La metafora usata per sostenere il
lavoro è quella dell’ostrica e della perla: in
seguito all’ingresso della sabbia nella conchiglia il granello, l’elemento di stress, innesca l’espulsione attraverso la produzione della capsula, il virus dall’apparenza preziosa.
Allo stesso modo l’intrusione del suo segno
all’interno delle pagine di libri assemblati
e intersecanti tra di loro, condiziona la vi-
Ekaterina
Panikanova
sione dell’opera concentrata prevalentemen-
ERRATA CORRIGE, 2012, libri antichi e non, inchiostro,
chiodi, legno, 109x129 cm ciascuno.
ERRATA CORRIGE, 2012, video, 15 min.
te su scene familiari e animali montani tra
i quali spicca in prevalenza la figura del
cervo. L’insieme di elementi estetizzanti e
rimandi concettuali si condensa nel video
ERRATA CORRIGE, 2012, antique and new books, ink, nails,
wood, 109x129 cm each.
ERRATA CORRIGE, 2012, video, 15 min.
centrale in cui lo scorrere incessante delle
pagine che si srotola danno vita a differenti narrazioni che intervallano i piani e i
limiti emotivi. Ciò che distoglie e cattura
non sono gli slanci cromatici - il cui salto è minimo e incentrato su poche tonalità,
nero, il giallastro delle pagine consunte,
accenni di rosso, tranne quando il supporto è un giornalino colorato - quanto la
sensazione di avere davanti una storia da
classificare ogni volta senza soluzione di
continuità. Un lavoro psichico d’indagine
su sensazioni e percezioni, un allunaggio
da avvicinare con la controllata paura di
svolgere un’operazione chirurgica in cui
lo scambio di ruoli tra medico e paziente è sconcertante e vertiginoso. Si può
cogliere nelle installazioni a parete di
Panikanova
un’altalena
di
possibilità
sempre sul bilico della soglia, una corrispondenza tra passato e futuro, tra
segno contemporaneo di bestiario annerito sulla carta e libro antico, memoria
di fogli lisi e riemerso d’immaginario pubblicitario da riviste americane
degli anni Cinquanta in cui il papà
stringe la figlia, il bambino vestito
da marinaretto forse attende una carezza, mentre sta contrito e immobile
in un ritratto di famiglia da “lessico familiare” e poco distante casette
ossessive stilizzate e senza finestre
si ripetono a cicli continui. Altri
elementi iconografici sono un cavallo
a dondolo con corna d’alce su fondo
scuro, le torte che appaiono e scompaiono, dei fiori da tappezzeria vintage per composizioni uniche in cui
i singoli elementi si mescolano per
ritrovarsi assieme solo nello scorrere del video. Alcune pagine hanno
solo gocce provenienti da altri requisiti, altre sono intrise, pregne
sino ai confini della capacità di
resistenza della materia, quasi sudice di segreti, immobili nell’attesa di mostrare il loro lato nascosto candido o inaccettabile. La
capacità di questa interessante e
assolutamente
originale
artista,
sta proprio nell’innesto del vi-
rus, nell’intrusione silente del
principio che infetta la quotidianità apparente, la sicurezza
fittizia, la famiglia come simbolo di solidità e bellezza che
nasconde tra le sue pieghe bourgeois le più spietate e accanite resistenze dell’essere umano
e del suo relazionarsi con il
mondo che lo circonda. Lo diceva
Leonardo che la “pittura è cosa
mentale”.
26
Ekaterina
Panikanova
Ekaterina Panikanova è nata a San Pietroburgo nel 1975, città dove si è laureata presso l’Accademia di Belli Arti.
Attualmente vive e lavora a Roma.
principali esposizioni:
2012 “undici allunaggi possibili”, Palazzo Zenobio per l’arte, Venezia
2011 “Mostra dei finalisti Premio Celeste”, The Invisible dog Art Center, New York; “Artisti contemporanei russi a Roma”,
Museo della Civiltà Romana, Roma; “SYNTHESIM”, Mostra Centro Elsa Morante, Roma; “Adrenalina 1.2”, Musei Capitolini,
Centrale Montemartini, Roma
2007 “Premio Michetti”, Francavilla al Mare
Ekaterina Panikanova was born in St. Petersburg in 1975. City where graduated from the Academy of Fine Arts.
She actually lives and works in Rome.
selected exibitions:
2012 “undici allunagi possibili”,Ca’ Zenobio,Venice
2011 “Celeste Prize finalist Show”, The Invisible Dog centre, New York; “Contemporary Russian artists in Rome”, Museo
della Civiltà Romana, Rome; “SYNTHESIM”, Elsa Morante Centre, Rome; “Adrenalina 1.2”, Capitolini Museums, Rome
2007 “Michetti Prize”, Francavilla al Mare, Italy
www.ekaterinapanikanova.com
errata corrige 8, 2012, inchiostro di china su
libri antichi / china ink on antique books,
110X130 cm.
errata corrige 6, 2012, inchiostro di china su
libri antichi / china ink on antique books,
110X130 cm.
errata corrige 1, 2012, inchiostro di china su
libri antichi / china ink on antique books,
110X130 cm.
errata corrige 7, 2012, inchiostro di china su
libri antichi / china ink on antique books,
110X130 cm.
Più egli contempla, meno vive; più
accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il
suo proprio desiderio. (8)
Il rapporto che si attiva nell’entrare
nello spazio di Mauro Ghiglione porta
immediatamente a uno stato di disagio
silente in cui si cerca di trovare dei
punti cardinali necessari all’orientamento. L’installazione è pulita: sulla
parete di fondo quattro lavori, stampa digitale su plexiglas, sono montati
ciascuno su quattro calibri, strumenti
di
precisione
adoperati
con
Mauro Ghiglione
geometria
Debito di Ossigeno, 2010, opera a muro, 40x30x250 cm.
“Finalmente mi vedo...”, 2012, installazione, dimensioni variabili.
perfetta al centro di ciascun lato, che
stringono i supporti e li inchiodano al
muro. Debito d’ossigeno è un’installazio-
Oxygen Debt, 2010, work on the wall, 40x30x250 cm. “Finally I
see myself...”, 2012, installation, variable dimensions.
ne che si concentra sul tratto distintivo
del percorso artistico di Ghiglione, ovvero l’indagine del rapporto tra l’immagine
fotografica e il reale. Interesse che gli
consente da un lato di proseguire la sua
ricerca sui meccanismi mentali che sottostanno l’opera e dall’altro, di affrontare tematiche maggiormente contemporanee con
una ricerca linguistica tesa a sottrarre lo
specifico fotografico all’immagine, per affrontare la sua messa in crisi. La figura
centrale di ogni pannello è apparentemente
una statua - stampata sul Nuovo Testamento
assemblato insieme - e posta in differenti
angolazioni. In realtà si tratta di uno scatto operato al Tourture Garden, organizzazione
inglese itinerante e nomade e in cui è possibile farsi sottoporre a pratiche masochistiche
oppure guardare coloro che le subiscono. In
questo caso la persona è messa “sotto vuoto” e
la respirazione è resa possibile solo da un foro
all’altezza della bocca che consente l’entrata
all’aria esterna. La fascinazione della merce
teorizzata da Guy Debord è tradotta in opera
dall’artista genovese attratto dal concetto di
feticcio seducente che riguarda il ”prodotto oggetto” allo stesso modo del “prodotto uomo”, allo
stesso modo del “prodotto arte”. Nella stanza in
cui avveniva questo rituale un uomo stava fermo
ed eccitato, sedotto dalla sofferenza, catturato
dalla linea estrema tra vita e morte, Eros e Thanatos. In tal modo il rapporto sociale tra individui
si sviluppa con una metodica che porta all’alienazione profonda e a un costante inganno. Il medesimo pensiero Ghiglione lo estende nei confronti del
Sistema Arte che pur beneficiando di un’indiscussa
dimensione umanistica si spinge costantemente e inesorabilmente verso una dimensione funzionale in cui
è necessario quindi che l’opera divenga merce.
Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine. (9).
Sulle due pareti laterali piccole superfici specchianti moltiplicano la presenza di un teschio umano
appeso a soffitto e piombato sulla parte finale del
filo che lo regge da un pendolo rosso anch’esso direzionato su un piccolo specchio. L’opera s’intitola Finalmente mi vedo, installazione site specific il
cui accento si pone sempre su una falsa percezione,
sull’inganno totale di un’entropia che non è elusa non
rispondendo più il soggetto estetico a un’affermazione
tautologica come accadeva quando l’arte era ciò che si
definiva arte. Ora il valore autonomo dell’opera viene a
scomparire per lasciare il posto a un valore equiparabile
a quello di ciascun mercato applicato a qualsiasi prodotto. Quello lanciato da Mauro Ghiglione è lo spettro del
sospetto che l’arte stia divenendo solo un’altra piccola
zona del nostro piccolo mondo anziché, in senso davvero
esteso, rimanga un allunaggio possibile, quel territorio
in cui solo la macchina dell’arte può trasportare, quel
progetto possibile di alchimia, immaginazione, ridefinizione moltiplicativa. Scrive un grande critico, il cui
pensiero è così affine a Ghiglione: Gli uomini, un giorno,
scompariranno, ma resteranno le loro immagini demoltiplicate, che si ricorderanno di loro. E piangeranno senza più
sapere perché. (10)
30
Mauro Ghiglione
Mauro Ghiglione. Genova 1959.
Artista di derivazione concettuale, la sua ricerca dal 1985 al 1993 mira ad indagare le possibilità espressive di materia e simbolo in contrapposizione all’effimero artistico (Galleria Zenith, Torino 1990; Studio Alaya, Genova 1993; Galleria A’PERT, Amsterdam, 1989). In seguito il suo lavoro si fa più mentale e la sua ricerca si focalizza sullo studio
dei meccanismi mentali del pensiero e della percezione, in relazione alla spazialità e alla memoria, (Galleria A’PERT,
Amsterdam, “Doppio invisibile”, 1994; galleria Leonardi V/Idea, Genova, “Sospensioni tra la memoria e l’oblio”, 1997;
Galleria Silvy Bassanese, Biella, “Trasfigura”, 1998; Galleria Martano, Torino, “Sum over histories”, 1999).
Dal 2000 entra nel suo lavoro, quale tratto distintivo del suo percorso, il rapporto con l’immagine fotografica, che
gli consente da un lato di proseguire la sua ricerca sull’indagine dei meccanismi mentali che sottostanno all’opera e,
dall’altro, di affrontare problematiche maggiormente contemporanee.
Tratto distintivo, che si trova nelle esposizioni realizzate alla Galleria Bassanese di Biella (“Shhmt – Passencore”,
2000; “My hands, my mind”, 2005), al CACT di Bellinzona (“Sottili Rivelazioni”, 2000) nel Foyer del teatro della Corte di
Genova (“My Heart, my shoes”, videoinstallazione 2001), a Torino “Manifest To” manifesto d’artista a cura della GAM, a
Milano PAC (“Utopie quotidiane”, 2002), a Modena Galleria S.Salvatore (“Game over”, 2003), Venezia alla Galleria Michela
Rizzo (“Fresh and Clean”, 2005). Dal 2005, pur mantenendo intatto il linguaggio individuato, il suo lavoro si orienta al
mondo delle idee, testimonianza di questo operare rimangono le mostre a Gavi Ligure (“Polemos”, 2006, a cura di Angela
Madesani), Genova Unimediamodern (“Doppio gioco”, 2005; “Sta una fuga fra noi”, 2008; “Autobiografica”, 2011), Venezia
Galleria Michela Rizzo (“Paso doble” con Franco Vaccari), a Bellinzona Galleria Balmelli (“Ad est dell’equatore”), Ca’
Zenobio, Venezia (“undici allunaggi possibili”).
Mauro Ghiglione. Genoa 1959.
Artist of conceptual derivation, his research from 1985 to 1993 aims to investigate the expressive possibilities of
matter and symbol, as opposed to artistic ephemeral (Zenith Gallery, Torino, 1990; Studio Alaya, Genova,1993; A’PERT
Gallery, Amsterdam, 1989). Subsequently his work becomes more mental, and his research focuses on the study of mental
mechanisms of thought and perception, in relation to spatiality and memory, (A’PERT Gallery, Amsterdam, “Doppio invisible”, 1994; Gallery Leonardi V/Idea, Genova, “Sospensioni tra la memoria e l’oblio”, 1997; Silvy Gallery Bassanese,
Biella, “Transfigura”, 1998; Martano Gallery, Torino, “Sum over histories”, 1999).
Since 2000 the relationship with the photographic image get into his work as a distinguishing feature of his journey.
This fact allows Ghiglione to continue his research about the survey of mental mechanisms which underlie the work, and
secondly, deal with more contemporary issues. Distinctive trait found in the exhibitions held at the Bassanese Gallery,
Biella (“Shhmt - Passencore”, 2000; “My hands, my mind”, 2005), the CACT Bellinzona (“Sottili Rivelazioni”, 2000) in the
foyer of the theater of the Court of Genoa (“My Heart, my shoes”, video installation, 2001), in Turin “Manifest To” artist manifest curated by GAM, Milan PAC (“Utopie Quotidiane”, 2002), in Modena S.Salvatore Gallery (“Game Over”, 2003),
Venice, Michela Rizzo Gallery (“Fresh and Clean”, 2005). Since 2005, while keeping untouched the identified language,
his work orients itself to the world of ideas, evidence of this activity are the exhibitions in Gavi Ligure (“Polemos”,
2006, curated by Angela Madesani), Genoa Unimediamodern (“Doppio Gioco”, 2005; “Sta una fuga fra noi”, 2008; “Autobiografica”, 2011), Venice Michela Rizzo Gallery(“Paso doble” with Franco Vaccari), in Bellinzona Balmelli Gallery (“Ad est
dell’equatore”) and Ca’ Zenobio, Venice (“eleven possible lunar landings”).
www.galleriamichelarizzo.net
Accanimento terapeutico, 2010, installazione
site specific, stampe fotografiche su plexiglas, cranio umano / site specific installation, photografic print on plexiglas, human
skull, 100 x 270 x 30 cm.
Liberté, Difference, Fraternité, 2011, alluminio specchiante inciso a laser, fotografia,
compasso / aluminum mirror laser engraved,
picture, caliper, dimensioni variabili / variable dimensions
Liberté, Fraternité, 2011, multistrato marino
inciso a laser, stampa fotografica su piombo
/ wood laser engraved, photographic print on
plumb (Parigi, collezione privata / private
collection)
Un’improvvisa
immersio-
ne nel buio e l’incanto di
una rivelazione, una caduta libera nello spazio con
le sue volte, i suoi vuoti
ed espansioni di pieni che
dilatano i confini del proprio
privato
immaginario.
Eric Winarto è un pittore che
stende molteplici strati di
colore non prima di aver studiato con occhio e intelletto da architetto il luogo che
la sua opera abiterà. Ciò che
Eric Winarto
gli interessa è trasportare il
BLACKLIGHT SELVA, 2012, acrilico su muro, tubi di luce nera,
190 x 600 cm ca.
viandante nella dimensione del
visibile quando l’ombra è totale e attraversata solo dalla
BLACKLIGHT SELVA, 2012, acrylic on wall, blacklight tubes,
190 x 600 cm around
studiata luce nera detta luce di
Wood e, al contrario, liquidare
l’opera a luci accese, laddove
di solito si comprende, si studia, si assapora, s’incespica, si
ammala e si dialoga con l’arte.
Winarto
dipinge
degli
elementi
nodali della scultura della mente
nei suoi tatuaggi a parete, elementi e tracce filamentose o dense, spesso simmetriche e precise
come se usasse squadra e compasso.
La struttura intera del suo allu-
naggio si regge su un susseguirsi di fasi, bianco su bianco che
poi accoglie blu, azzurro e nero per
aprire un vocabolario estetizzante
quasi struggente, ma altamente concettuale. Il project specific è la
sua cifra stilistica assommata a pazienza da orientale, quale in parte è
la sua genia, avendo Winarto un albero
genealogico per parte indonesiano e
per parte svizzero. In questo incrocio risiede, presumo, una parte importante della sua ossessione, di una
necessità reiterata in apnea di lavorare la notte, quando la realtà viene
incontro al suo operare, quando il silenzio si sfracella fragoroso su muri
che potrebbero non denunciare mai, se
non munita la stanza di apposita illuminazione, di accogliere tanto coraggio,
tanta minuziosa simmetria mescolata a uno
strabismo da artista sincero e assoluto
che riconosco sommesso, ma concreto, nel
suo passo intellettuale e manuale, lirico
e artistico. Il suo allunaggio possibile
ha una genesi di nove anni, tanta strada
temporale ha percorso il suo ciclo di dipinti fluorescenti Blacklight Selva. Tutto
questo tempo, quest’attesa, questo processo inesorabile e ininterrotto per creare
un’opera a muro o su tela, non permanente.
La sensazione poetica è profondamente ricercata nell’opera ed è sempre riferita alla
metafora del destino umano. Il termine Selva
deriva dalla Divina Commedia, retaggio europeo forte e presente e significa il labirinto
della vita, concetto guida per Winarto in questa serie di lavori. Un labirinto manierista
dove il senso della perdita è assoluto, dove
non c’è possibilità di intravedere o tornare
al centro, dove lo straniamento regna sovrano, dove il ciclo “dell’eterno ritorno” (11) è
una possibilità intrapresa con sfida calibrata
e inaudita, laggiù dove i limiti dell’assurdo
chiamano in gioco il sistema percettivo dello
spettatore mettendo in stato di crisi la sua
dimensione affettiva e contemplativa.
Questa è <l’entificazione del niente>, e questa
gigantesca contraddizione è ciò in base a cui sostengo che nel pensiero contemporaneo esiste una
capacità inarrestabile di distruggere ogni forma
della tradizione filosofica, e cioè ogni modo di
evocare e di edificare strutture eterne. (12)
34
Eric Winarto
Eric Winarto è nato a Kuala Lumpur (Malesia) nel 1980. Vive e lavora a Ginevra, Svizzera.
Eric Winarto is born in Kuala Lumpur (Malaysia) in 1980. LIves and works in Geneva, Switzerland.
formazione / education:
2004 - 2011 mentor: Roman Opalka
2000 - 2005 Haute Ecole d’Art et de Design, HEAD, Ginevra
mostre personali / solo exhibitions:
2012 “Blacklight Selva”, a cura di / curated by Dominique Truco, Abbaye de Noirlac, Bruère-Allichamps, Francia; “Heidi
Linck e Eric Winarto”, Galerie Maurits van de Laar, Den Haag
2011 “Eric Winarto”, Galerie Charlotte Moser, Ginevra; “L’art dans les chapelles”, a cura di / curated by Olivier Delavallade, Emilie Ovaere-Corthay, Karim Ghaddab, Chapelle Saint- Gildas, Bieuzy-les-Eaux, Bretagna, Francia
2010 “Blacklight Selva”, Galerie Metropolis, Parigi; “Eric Winarto”, Galerie Metropolis, Parigi
2008 “Blacklight Selva”, 2008, a cura di / curated by Alexia Turlin, Milkshake Agency, Ginevra
2007 “Blacklight Selva”, 2007”, Initialraum, Stadthausgalerie, Münster, Germania, durante / during Skulptur Projekte
Münster ‘07
2006 “Eric Winarto”, Galerie Charlotte Moser, Ginevra
tra le recenti collettive / recent group exhibitions:
2012 “Fernelmont Contemporary Art – FCA’12”, Château de Fernelmont, Belgio; “Eternal Tour”: Cosmotopia, a cura di / curated by Donatella Bernardi, Hadrien Dussoix, Ulrich Fischer, BAC, Bâtiment d’art contemporain, Ginevra; “Undici Allunaggi
Possibili”, a cura di / curated by Martina Cavallarin, Palazzo Zenobio per l’Arte, Venezia
2011 “Ad Curiosatati”, Galerie Charlotte Moser, Ginevra; “Personality”, a cura di / curated by Martina Cavallarin, Galleria Michela Rizzo, Venezia
2011 “Contre-Façon”, White Canvas Gallery, Nanjing, Cina; “A vos papiers II”, Galerie Charlotte Moser, Ginevra
2009 “Rideau Obscur”, Nord, Ginevra; “ArtBrussels”, Galerie Charlotte Moser, Bruxelles
2007 “Korea International Art Fair”, Galerie Charlotte Moser, Seoul
2006 “Open House”, a cura di / curated by Karine Tissot, Musée Rath, Ginevra
2004 “Lasko: un panorama de wallpainting en Suisse”, a cura di / curated by Gauthier Huber, CAN, Centre d’Art Neuchâtel,
Svizzera
pubblicazioni / publications:
2012 testi di / texts by Alberto Manguel, Marino Buscaglia, Dominique Truco, Abbaye de Noirlac, Bruère-Allichamps, Francia (catalogo / catalogue)
2011 “L’art dans les chapelles”, Pontivy, Bretagne, Francia (catalogo / catalogue)
www.ericwinarto.net
September, 2011, Galerie Charlotte Moser, Geneva, Switzerland
October, 2011, Gallerie Michela Rizzo, Venice,
Italy
MAISON BLANCHE, 2011, olio e acrilico su tela,
tubi di luce nera / oil and acrylic on
canvas, blacklight tubes, 110 x 220 cm.
(Geneva, collezione privata / private
collection), courtesy Galerie Charlotte
Moser, Geneva, Switzerland
October, 2011, White Canvas Gallery, Nanjing,
China
Uno stato di trasparenza, una segnalazione rarefatta di odori mescolati
che
impregnano
le
narici e un tintinnio che
comincia
solo
spettatore
quando
mette
in
lo
al-
lerta con il suo passaggio
i
sensori.
La
percezione
dell’opera sinuosa di Tamara Repetto comincia con
queste
segnalazioni
sinestetiche
ventole
e
quasi
totali.
vibranti
di
Le
Tamara Repetto
Ano-
smia, installazione di tubi
Anosmia, 2012, plexiglas, ventole, bacchette di vetro,
cialde olfattive, cavo, dimensioni variabili.
di plexiglass che contengono
ciascuno una cascata di bacchette di vetro che si muo-
Anosmia, 2012, plexiglas, fans, glass rods, olfactory pods,
cable, variable dimensions.
ve sotto azione motorizzata
scuotendo le cialde olfattive,
sono
degli
“informatori
dell’anima”, degli impulsi che
inducono le regioni della mente oltre la tautologia del “ciò
che si vede, è ciò che si vede”
(13), ovvero oltre la realtà
stessa. Tale dicotomia abbisogna dell’immaginazione, di una
dilatazione che solo l’allunag-
gio dell’arte può apportare, per
misurarsi con il grado zero e
far dialogare con abbandono apparenza e profondità. Dal greco
“σημεῖον semeion”, la semiotica è
la disciplina che studia i segni
e il modo in cui questi formano
una significazione, quella relazione che, a memoria, attiva in
noi una conoscenza che scatena le
sinapsi.
Tale
processo
è
insito
nell’approccio che l’uomo applica
alle cose della vita, ma sfugge ai
codici dell’arte che sono allargati e sempre estremamente possibili,
elastici sotto la spinta di una potenza inaudita, la forza dell’opera che ci rimbalza di continuo tra
istinto e istintualità, tra comprensione e straniamento, in uno spazio
in cui il virus della contaminazione
altera le incrostazioni statiche in
cui tendiamo a barricarci. Identità,
connettività e collettività s’incontrano
sull’instabilità
del
frattale
per concepire un pensiero necessariamente multiplo, sia dal punto di vista
degli incroci del linguaggio multidisciplinare e tecnologico impiegato da
Repetto, sia dal punto di vista di un
focus puntato su un interesse psichico e
sociale che interviene sullo spettatore.
Una via lattea che propone procedimenti creativi plurali in bilico tra lirica
e technè, tra la temperatura calda del
coinvolgimento dei sensi e la temperatura
fredda del vetro, della limpidezza, della
delicatezza formale e incisiva, quasi statica, degli elementi trasparenti. Installatrice site specific, Tamara Repetto si
concentra sulle caratteristiche del luogo
con il quale l’opera convivrà, a cominciare
dal tracciato degli odori presenti e insiti nel territorio d’accoglienza del lavoro
e con il quale instaura un rapporto empatico particolarmente dedicato a una mappa
olfattiva e talvolta uditiva. La specificità
della sua ricerca verte sulla considerazione
del cambiamento che tali accadimenti mettono in atto, sullo sfalsamento delle percezioni mutabili mediante piccoli inserimenti,
scarti, progressioni e abilità d’inganno che
con complicità disarmante la geometria tra la
chimica e l’architettura dell’opera aiuta ad
accendere.
38
Tamara Repetto
Tamara Repetto nasce a Genova nel 1973. Vive e lavora a Voltaggio (AL).
ha studiato all’Istituto d’Arte Jona Ottolenghi di Acqui Terme e alla scuola Arte e Messaggio del Castello Sforzesco di
Milano
Partire da sé per raggiungere l’altro, mettersi in contatto e a confronto, attraverso la capacità di allargare il campo
di operatività formale, ottenuto con l’uso trasversale dei media. L’installazione, attraverso l’uso di odori, suoni,
luci, elementi interattivi e cinetici, la scultura, il disegno, le permette di creare ambientazioni multisensoriali dove
il fruitore è immerso in mondi percettivi in cui si innescano momenti di consapevolezza
Tra le ultime mostre:
“Sguardi sull’Italia-dall’immagine al suono contemporaneo”, Fondazione Giovanna Piras Asti; “Volta”, New York; “Inside
Outside”, Guidi&Schoen Genova; “Ten”, Guidi&Schoen, Genova; “Soap opera”, al Castello di Rivara Torino; “Condotti Cronoarmonici”, galleria Mario Mazzoli, Berlino; “Selection”, Yvonne Artecontemporanea, Vicenza; “Senso-Orario”, residenza
artistica, a cura di Valentina Tanni, Voltaggio (AL)
Opere in permanenza:
Castello di Rivara, Torino; Museo galleria civica di Alessandria; Biblioteca civica Alessandria; Museo dei lumi Casale
Monferrato
Tamara Repetto is born in Genoa in 1973. Works and lives in Voltaggio (AL).
She graduated at the Jona Ottolenghi Art Institutes of Acqui Terme and studied at the Arte e Messaggio school of Milan,
Castello Sforzesco.
Starting from oneself in order to join, contact and confront with somebody else, enhancing the field of formal operativeness through a transversal use of media. The installation matches olfactory components, sound, light, interactive
kinetic elements, sculpture, drawing, creating multisensory environments, where the visitor is immersed living an experience that provokes moments of consciousness.
selected exhibitions:
“Sguardi sull’Italia-dall’immagine al suono contemporaneo”, Fondazione Giovanna Piras Asti; “Volta”, New York; “Inside Outside”, Gallery Guidi&Schoen, Genoa; “Ten”, Gallery Guidi&Schoen; “Soap Opera”, Castello di Rivara, Rivara (TO);
“Condotti Cronoarmonici”, gallery Mario Mazzoli, Berlin; “Selection” Yvonne Artecontemporanea, Vicenza; “Senso-Orario”,
artist in residency program curated by Valentina Tanni, Voltaggio (AL).
Works permanently in public and private collections: Castello di Rivara (Turin); Communal Museum of Alessandria; Communal
Libray of Alessandria; Museo dei lumi, Casale Monferrato.
www.tamararepetto.com
Evocazioni Ataviche, 2011, scultura multisensoriale a sospensione, ferro, legno,
plexiglas, speaker, cialde olfattive, cavo,
MP3, amplificatore / suspended multisensory
sculpture, iron, wood, plexiglas, speaker, olfactory pods, cable, MP3, amplifier, diametro
/ diameter 80 cm.
Insonnia, 2010, installazione luminosa interattiva, reti da letto, lampadine, computer,
sensori, cavi, microcontrollori / interactive
light installation, bed wires, bulbs, computer, sensors, cables, microcontroller, misure
variabili / variabile dimensions
Inside Outside (Tamara Repetto Roberto Pugliese), 2011, installazione sonora, sfere di
vetro, speaker, cavo, computer, amplificatori,
microfono / sound installation, glass spheres,
speaker, cable, computer, amplifiears, microphone, misure variabili / variable dimensions
Il tempo delle piogge, 2011, installazione multisensoriale, acqua, pompa idraulica,
tubi, ferro, plexiglas, cialde olfattive /
multisensory installation, water, hydraulic
pump, cables, iron, plexiglas, olfactory pods,
250x250cm.
Penetrare
nella
stanza
lu-
minosa e dal pavimento scuro
di Gino Sabatini Odoardi proietta in una visione la cui
prima
sensazione
restituita
è quella di immergersi in un
luogo di culto, inginocchiatoi bianchissimi e senso della
perdita. Nella messa a fuoco
dello sguardo però il labirinto
si fa mentale perché i dodici elementi - Senza titolo in
wireless
-
sono
sparpagliati
e scompaginati e sopra di essi
Gino Sabatini
Odoardi
un oggetto che si fonde alla
Senza titolo in wireless, 2012, termoformatura in
polistirene, legno, smalto, olibano, 50x50x85 cad.
(12 elementi)
struttura lignea attraverso una
termoformatura
in
polistire-
ne si rivela essere la copia di
un gamepad playstation. L’arti-
Untitled wireless, 2012, thermoformed polystyrene, wood,
enamel, frankincense, 50x50x85 each. (12 items)
sta di Pescara ci ha condotto
attraverso l’artificio plastico
tecnologicamente
avanzato
del-
la contraffazione dei contenuti
reso attraverso la forma, in un
inganno perpetrato dalla ricontestualizzazione delle condizioni
d’esistenza
degli
oggetti
sim-
bolo e degli oggetti giocattolo.
Incrementata
dalla
dislocazione
temporale di un luogo asettico e
imprevisto, la messa in discussione di temi indiscutibili raggiunge
il limite estremo tra elasticità e
punto di rottura. L’allunaggio di
Sabatini Odoardi si rapporta con
la mistificazione e con un innesto di possibilità che la società
civile non contempla e il potere
rifugge perché incanalare in infinite sfaccettature alternative la
sacralità immobile della religione
e della secolare tradizione che si
trascina appresso, rappresenta uno
scardinare le certezze e riabilitare
il possibile. Da sempre sul confine
pericoloso e pericolante tra sacro e
ludico la ricerca di questo interessante
artista,
cresciuto
giovanis-
simo alla “bottega” di Fabio Mauri,
squaderna ideologie e attiva minuziosi programmi alterati misurandosi con
un’opera sempre raffinata e preziosa - fluidità estetica inseparabile
da
un’interrogazione
sull’autonomia
dell’opera - (14), contraltare concettuale importante nella sua programmata deterritorializzazione di geografie
precostituite
e
quotidianamente
mai in discussione. Una dimensione del
dubbio stesa con la grammatica precisa
di un atteggiamento agnostico e basato
sulla ferma convinzione che l’assoluto
in verità sfugge alla mente umana e, di
conseguenza, non è plausibile parlare
di ciò che non si conosce. L’intenzione
per Sabatini Odoardi semmai è quella
di mettere in forse le certezze - anche
quando si tratta di scomodare la storia
- per contestare l’accettazione passiva
dei fatti. Sabatini Odoardi innesca attraverso l’arte un processo di metonimia
mentale i cui presupposti risiedono nel
verosimile e nella verosimiglianza, in
piccoli spostamenti parziali che implicano un pack di progressione per derive
orizzontali come unica soluzione possibile, come superamento di un darwinismo
linguistico e intellettuale immobilizzato
e reso vulnerabile da un fare e pensare
l’arte solo procedendo in altre direzioni
e sconosciute regioni per una reale impresa di allunaggio inteso come territorio
esistenziale eterogeneo e fluido.
42
Gino Sabatini
Odoardi
Gino Sabatini Odoardi, Nato a Pescara nel 1968. Vive e lavora tra Pescara e Roma.
Si è diplomato al Liceo Artistico di Pescara e successivamente in Pittura all’Accademia di Belle Arti di L’Aquila. Negli
anni del Liceo ha conosciuto il lavoro di Ettore Spalletti, docente di Discipline pittoriche. Durante gli studi accademici, determinanti sono stati gli incontri con Fabio Mauri, docente di Estetica (con il quale è stato performer in “Che
cosa è il fascismo” nel 1997 alla Kunsthalle di Klagenfurt in Austria e successivamente assistente), Jannis Kounellis
(di cui è stato allievo nel 1998 all’Aquila nell’ambito del Seminario-Laboratorio curato da Sergio Risaliti). Nel 2010 è
uscito il suo grande volume monografico a cura di Francesco Poli e Massimo Carboni nelle ed. Logos. Nel 2011 è invitato
alla 54ª Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia.
mostre personali selezionate:
2012 “III° Dis/Ordine”, a cura di Martina Cavallarin, Museo Archeologico, Cannara (PG)
2010 “Liturgie dell’ineffabile”, Bastione Romano Torre Bruciata, Teramo
2007 “Senza titolo con fantasmi”, Arte Nova, Fuori Uso, Ex Mattatoio, Pescara; “Via Tacendo”, Sala Petruccioli, a cura di
Alessandra Di Clemente e Marianna Fazzi, Facoltà di Architettura Valle Giulia, Università degli Studi “Sapienza”, Roma
mostre collettive selezionate:
2012 “Undici allunaggi possibili”, a cura di Martina Cavallarin, Palazzo Zenobio per l’Arte, Venezia
2011 “L’arte non è cosa nostra”, a cura di Vittorio Sgarbi, 54ª Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Padiglione Italia, Arsenale, Venezia; “Su Nero Nero – Over Black Black”, a cura di Franz Paludetto, Castello di
Rivara, Rivara (TO); “Centocinquanta”, a cura di Daniela Cotimbo, Museo MACO’, Lizzano (TA); “Eppur si muove”, galleria
Cesare Manzo, Pescara
2010 “Unbroken beat of soul, Ininterrotto battito d’anima”, Terzo Festival Mediterraneo della Laicità, a cura di Antonio Zimarino, Ex Aurum, Pescara; “Maga Circe” Biennale di Scultura, a cura di Vittoria Zileri Dal Verme, Giardini di
Vigna La Corte, San Felice Circeo (LT); “Premiata Officina Trevana”, a cura di Maurizio Coccia, Matilde Martinetti e Mara
Predicatori, Centro D’Arte Contemporanea Palazzo Lucarini Contemporary, Trevi (PG)
Gino Sabatini Odoardi, Born in Pescara in 1968. Lives and works in Pescara and Rome.
He studied at the Pescara school of Art and later graduated in Painting from the Academy of Fine Arts, L’Aquila. When
attending High School he met the work of Ettore Spalletti as Art teacher. During his studies at the Academy he met Fabio
Mauri, Aesthetics professor and artist, that has been a fundamental encounter (he worked as a performer with him in “What
is fascism” in 1997 at the Kunsthalle of Klagenfurt in Austria and later as an assistant), then met Jannis Kounellis (he
has been his student in 1998 in L’Aquila, during a seminary-workshop edited by Sergio Risaliti). In 2010 Logos editions
released his great monographic book with critical essays by Francesco Poli and Massimo Carboni. In 2011 he was invited
to the 54th Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia.
selected solo exhibitions:
2012 “III° Dis/Ordine”, Curated by Martina Cavallarin, Museo Archeologico, Cannara (PG)
2010 “Liturgie dell’ineffabile”, Bastione Romano Torre Bruciata, Teramo
2007 “Senza titolo con fantasmi”, Arte Nova - Fuori Uso, Ex Mattatoio, Pescara; “Via Tacendo”, Sala Petruccioli, curated
by Alessandra Di Clemente e Marianna Fazzi, Facoltà di Architettura Valle Giulia, Università degli Studi “Sapienza”,
Roma.
selected group exhibitions:
2012 “Undici allunaggi possibili”, curated by Martina Cavallarin, Palazzo Zenobio per l’Arte, Venezia
2011 “L’arte non è cosa nostra”, curate by Vittorio Sgarbi, 54ª Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Padiglione Italia, Arsenale, Venezia; “Su Nero Nero – Over Black Black”, curated by Franz Paludetto, Castello di
Rivara, Rivara (TO); “Centocinquanta”, curated by Daniela Cotimbo, Museo MACO’, Lizzano (TA); “Eppur si muove”, galleria
Cesare Manzo, Pescara
2010 “Unbroken beat of soul - Ininterrotto battito d’anima”, Terzo Festival Mediterraneo della Laicità, curated by Antonio Zimarino, Ex Aurum, Pescara; “Maga Circe” Biennale di Scultura, curated by Vittoria Zileri Dal Verme, Giardini di
Vigna La Corte, San Felice Circeo (LT); “Premiata Officina Trevana”, curated by Maurizio Coccia, Matilde Martinetti e
Mara Predicatori, Centro D’Arte Contemporanea Palazzo Lucarini Contemporary, Trevi (PG).
www.ginosabatiniodoardi.com
Senza titolo + cubo con rumore segreto, 2010,
termoformatura in polistirene, mdf, smalto /
thermoformed polystyrene, mdf, enamel, 210 x
210 x 16 cm. photo by Gino Di Paolo, Courtesy
galleria Oredaria, Roma
Senza titolo, 2010, termoformatura in polistirene / thermoformed polystyrene, 70 x 70
cm. cad. (rilievi variabili cm 4/10), photo
by Gino Di Paolo, Courtesy galleria Oredaria,
Roma
Senza titolo, 2010, termoformatura in polistirene / thermoformed polystyrene, Coca-cola, 70
x 70 x 20 cm. photo by Gino Di Paolo, Courtesy
galleria Oredaria, Roma
Senza titolo con ciotola, 2007, legno, ciotola
in alluminio, smalto / wood, aluminum dish,
95 x 105 x 100 cm. photo by Gino Di Paolo,
Courtesy galleria Oredaria, Roma
Entrando nel refettorio ottocentesco di Cà Zenobio si sente uno
stridere di ferro accompagnato da
una sorta di belato, una litania
conosciuta ma resa irriconoscibile
dalla lentezza con la quale è fatta girare, 16 giri anziché 33, del
Don Giovanni di Mozart e improvvisa
appare la Giostra di Francesco Bocchini che gira, maestosa. Per il suo
allunaggio Bocchini ha realizzato una
struttura cominciata nel 1991 - ma
mai compiuta dato il grande impiego di
ferro, lamiere, meccanismi, comples-
Francesco
Bocchini
si ingranaggi e 5 metri di larghezza
Giostra, 2012, ferro, smalto, olio, meccanismi,
diametro 5 mt. altezza 3.50 mt.
per altrettanta altezza - costruita in
un capannone di Gambettola in svariati
mesi di lavoro. Il codice stilistico
Carousel, 2012, Iron, enamel, oil, mechanisms,
diameter 5 mt. height 3.50 mt.
di Bocchini è inusuale e coraggioso. E’
fuori da mode e tendenze e inflessioni
e suggestioni. Il suo segno si propone
intenso e incessante rispetto alla realtà
dell’opera. Nei suoi lavori le implicazioni sono metafisiche e surreali grazie
ad assemblaggi e saldature e la resa finale è una composizione di una complessa,
intensa,
lucida
espressività
simbolica.
L’ossessione si rivolge a giunzioni, margini, bordi, ingranaggi, tutti i punti in cui
una cosa ne tocca un’altra. L’impianto non è
mai formale, mai statico o lineare caricandosi di una sorta d’incantamento paradossale
e ricco di stimoli, impregnato di memoria,
affidato alla stranezza e arbitrarietà degli
accostamenti e alla libertà felice dell’invenzione. Quello compiuto dall’artista romagnolo
non è però più un ribaltamento e una parodia
della scultura tradizionale, ma una pratica
del contemporaneo che si avvale per necessità
esistenziale di concettualismo impastato di un
velato sarcasmo, citazione recondita riferita
al sociale, alla politica, all’immaginario teatrale e ad azzardi possibili. André Breton in un
noto scritto sul Dadaismo, riferendosi in particolare al Grande Vetro, ne descrive l’abbondanza
di trovate come “interpretazione meccanicistica
dell’amore”. E riconoscibile sebbene velata, riscontro nei meccanismi di Bocchini, in questa Gio-
stra con i cavallini di ferro decorati che girano
più a vuoto che per gioco, una carica sensuale,
erotica e autoerotica, un confronto che si basa sul
dualismo tra maschile e femminile, tra ingranaggio
e manovella, ferro e lamiera, scritta e colore, tra
opera che sale e circolarità della pedana rotante,
essendo, verticale e orizzontale, ancora una volta,
parte integrante dei principi maschile e femminile.
Bocchini nel suo percorso intellettuale vissuto in
maniera totale e sincera, sotto il segno di un codice poetico e artistico preciso, originale, assoluto,
aderisce al processo della creazione come il Pollicino
sognante di Rimbaud “sgrana rime” per ritrovare la casa
paterna. Bocchini allo stesso modo dissemina segni e
simboli, traccia degli alfabeti che comprimono storie
e racconti, amalgama insieme geografie distanti alle
quali, nel tempo, si aggiungono elementi grammaticali
trasversali. Ai meccanismi a parete e su scaffali, alle
grandi mensole ferrose ora Bocchini somma un altro grado
di complessità, una profondità fisica e visuale apportata
da superfici specchianti, anch’esse naturalmente “object
trouvé” e consumate dal tempo, che offrono e incrementano
nuovi punti di vista. In questo senso l’opera “Giostra” si
fa hortus conclusus di un’esperienza di tracce e di luoghi in cui sono condensati tutti i tempi antropologici, i
cammini di diversi uomini, sconosciuti e famosi scritti sul
basamento per un dialogo con il visitatore che plana in una
stanza di felliniana memoria e circolare tensione verso il
prossimo allunaggio. Il recupero è di documentazioni stratificate e di codici di accesso che sfuggono all’ordinaria interpretazione del riemerso per porsi sul piedistallo di ferro
come il cavallo colorato o un re sul suo trono. Ogni lavoro di
Bocchini mi sembra un der kommende gott, il dio che deve ar-
rivare (15) accompagnato da quel rumore di denti d’ingranaggio
che sferraglia e una lirica mozartiana tradotta e traghettante.
46
Francesco
Bocchini
Francesco Bocchini, Nato a Cesena (Italia) nel 1969. Vive e lavora a Gambettola (Cesena).
La sua operatività si è concentrata su latte e ferri smaltati per produrre macchine di marchingegni elementari. Meccanismi, installazioni, teche e altro: lamiera di ferro dipinta a olio, un lavoro in equilibrio tra ironia, mistero e dramma.
Dalla metà degli anni ’90 il suo lavoro è stato esposto in mostre personali e collettive in Italia e all’estero.
Nel 2011 è stato invitato a partecipare a “Round the Clock”, Evento Collaterale della 54ª Esposizione Internazionale
d’Arte - La Biennale di Venezia, a cura di Martina Cavallarin.
Negli anni precedenti, tra le mostre collettive in spazi pubblici ricordiamo: “Playstation”, Kunstart, Merano, a cura di
Valerio Dehò (2009); “Steellife”, Triennale di Milano, a cura di Elisabetta Pozzetti (2008); “Fresco Bosco”, Certosa di
Padula, Salerno, a cura di Achille Bonito Oliva (2008); “15ª Quadriennale d’Arte”, Roma (2008);”Bologna Contemporanea
1975 - 2005”, Galleria d’Arte Moderna, Bologna, a cura di Peter Weiermair (2005); “XIV Quadriennale, Anteprima”, Promotrice delle Belle Arti, Torino (2004).
Mostre personali selezionate:
2010 “La Storia Naturale”, Galleria l’Affiche, Milano, testo di Roberta Bertozzi
2010 “Tutti vivi, tutti morti, tutti rivivi, tutti rimorti”, AndreA Arte Contemporanea, Vicenza, a cura di Martina Cavallarin, testi di Martina Cavallarin e Alberto Zanchetta
2009 “Un braccio ruminante”, Galleria Il Segno, Roma, testo di Roberta Bertozzi
2008 “Domino Blumen Falene”, Mel Gallery Contemporary, Vienna, testo di Roberta Bertozzi
2007 “Gloriette”, Galleria L’Affiche, Milano, a cura di Martina Cavallarin
2006 “Francesco Bocchini”, Galleria Scilla Cicognani, Colonia, testo di Roberta Bertozzi
2003 “I primi asini pensavano per conto proprio”, Galleria De’ Foscherari, Bologna, testi di Valerio Dehò e Alberto
Zanchetta
2001 “Lés funenbrés”, Galleria L’Affiche, Milano, testo di Rosalba Paiano
1998 “Anima Patata”, Galleria L’Affiche, Milano, testo di Enzo Fabbrucci
1996 “Partito preso”, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, a cura di Anna Mattirolo
Francesco Bocchini, Born in Cesena, Italy, 1969. He lives and works in Gambettola (Cesena).
His work has been focused on tin and enamelled irons, to produce machines of elementary devices. Mechanisms, installations, cabinets and more: iron tin oil painted, a working balance between irony, mystery and drama.
Since 1996 his work has been exhibited in solo and group shows in Italy and abroad, in private galleries and public
spaces.
In 2011 he was invited to participate in “Round the Clock”, Collateral Event of the 54th Esposizione Internazionale
d’Arte - La Biennale di Venezia, curated by Martina Cavallarin.
In previous years, among the most interesting group exhibitions in public spaces: “Playstation”, Kunstart, Merano, curated by Valerio Dehò (2009); “Steellife”, Triennale di Milano, curated by Elisabetta Pozzetti (2008); “Fresco Bosco”,
Certosa di Padula, Salerno, curated by Achille Bonito Oliva (2008); “15ª Quadriennale d’Arte”, Roma (2008); “Bologna
Contemporanea 1975 - 2005”, Galleria d’Arte Moderna, Bologna, curated by Peter Weiermair (2005); “XIV Quadriennale, Anteprima”, Promotrice delle Belle Arti, Torino (2004).
selected solo exhibitions:
2010 “La Storia Naturale”, Galleria l’Affiche, Milano, essay by Roberta Bertozzi
2010 “Tutti vivi, tutti morti, tutti rivivi, tutti rimorti”, AndreA Arte Contemporanea, Vicenza, curated by Martina Cavallarin, essays by Martina Cavallarin and Alberto Zanchetta
2009 “Un braccio ruminante”, Galleria Il Segno, Roma, essay by Roberta Bertozzi
2008 “Domino Blumen Falene”, Mel Gallery Contemporary, Vienna, essay by Roberta Bertozzi
2007 “Gloriette”, Galleria L’Affiche, Milano, curated by Martina Cavallarin
2006 “Francesco Bocchini”, Galleria Scilla Cicognani, Colonia, essay by Roberta Bertozzi
2003 “I primi asini pensavano per conto proprio”, Galleria De’ Foscherari, Bologna, essays by Valerio Dehò and Alberto
Zanchetta
2001 “Lés funenbrés”, Galleria L’Affiche, Milano, essay by Rosalba Paiano
1998 “Anima Patata”, Galleria L’Affiche, Milano, essay by Enzo Fabbrucci
1996 “Partito preso”, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, curated by Anna Mattirolo
www.affiche.it
www.galleriamichelarizzo.net
Blumen, 2010, ferro, vetro, specchio, colore
a olio / iron, glass, mirror, oil paint, 200
x 210 x 40 cm. Particolare dell’opera esposta a Round the Clock - evento collaterale /
collateral event 54ª Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia. Spazio
Thetis, Venezia
Carnera, 1997/2000, installazione a parete.
Smalto sintetico e olio su lamiera di ferro /
wall installation, synthetic enamel and oil
paint on iron sheet, 300 x 450 cm. Artefiera,
Bologna, 2002 (con Galleria l’Affiche)
Limbo Pink, 2010, meccanismo a parete, smalto
su lamiera di ferro / mechanism on wall, enamel on iron sheet, 220 x 125 x 29 cm.
Tutti vivi, tutti morti. Tutti rivivi, tutti
rimorti, 2010. meccanismo a parete, smalto su
lamiera di ferro / mechanism on wall, enamel
on iron sheet, 220 x 150 x 27 cm.
Opere esposte alla mostra personale / exhibited on solo show “La Storia Naturale”, Galleria l’Affiche, Milano, 2010
Un cervello così aguzzo, 2008, meccanismo a
parete, lamiera di ferro, colore a olio / mechanism on wall, iron sheet, oil paint, 300 x
250 x 28 cm. Opera esposta alla / exhibited on
15ª Quadriennale d’Arte, Roma, 2008
La qualità sostanziale della nuova
e appropriata ricerca contempora-
UNDICI ALLUNAGGI
POSSIBILI
nea che la mia predisposizione di
critica sta approfondendo in questi anni, risiede nel presupposto
stesso delle più variegate pratiche
artistiche impiegate come un coro
di voci sole in questa esposizione
di artisti mutanti. Infatti, se il
Allunaggi Possibili | Possible Lunar Landings
by Martina Cavallarin
critico si esprime attraverso i tre
livelli di scrittura (16) - scrittura
Il faut être nomade, traverser les idées comme on
traverse les pays et les villes. (1)
saggistica, scrittura comportamentale, scrittura espositiva - è quest’ultima che è stata da me impiegata per
While the artist’s creation inhabits a private art
room during its germinal phase, when it is finished
it is placed in relation to the viewer in a public
room, a place of exchange and listening, a place
of possibilities and real enchantment. In the encounter between the dragonfly-like, prismatic perspective of the changing artist (2) and the generally horizontal perspective of the viewer, the room
becomes a possible lunar landing, a form of human negotiation between narrative and understanding, described by Marcel Duchamp as the “art
coefficient”. This negotiation generates a fertile,
pale and seemingly distant humus, but one which
is as possible as any lunar landing interpreted as a
need to expand thought and thinking, to overturn
the game of parts. I like to think of every room
in an exhibition, particularly in this exhibition of
possible lunar landings, as a place of suspension,
not necessarily silent and not necessarily noisy. It
is the confidential space of the work of art, which
coexists and communicates with the individual places, taking the visitor by the hand along a shared
path. In contemporary art, I believe that the lunar
landing is neither soft nor perhaps hard, because
the machine that makes it plausible is not a mechanical device comprised of pistons and metal,
but that undefinable machine that leads to the creation and epiphany of the work. The possible lunar
landing is my expository writing contribution, permitting the accidental interference of the expected
stranger, the traveller on the edge of a threshold,
with the work and the amazement generated by its
presence. This exhibition attempts to establish a
casual harmony, seeking to put itself forward as a
natural sign of a planned artifice, the one developed by each artist, with its gestaltist relationship
with space, entering into an empathic mechanism
through all-consuming and unrestrained works of
art.
While the liminal is a fact or phenomenon on the
threshold of consciousness and perception, the
eleven possible lunar landings connect the combinations of surpassable and expandable limits
through the linguistic assumptions employed by
artists in their works and engage with an idea of
executive complexity. The rooms are halls of wonders, featuring warm appropriations and cold approaches; they are wunderkammer, a region accessible to the eye through the horizontal transitions
of our steps and our even more complex vertical
perspectives of the wall and floor, the ceiling and
the next corner which is yet to take shape.
intercettare gli allunaggi possibili
tra presenza dell’opera e attenzione
dello spettatore. Occorre lavorare, pur
nella apparente disgiunta resa formale
che rende ciascun artista autentico e imprevisto, sulla trasparenza e sul bilico
dell’inframince (17) - spazio estremo,
incatalogabile e impercettibile - esplorando una zona irrintracciabile che si
avvale
attraverso
l’ossimoro
agnettiano
del dimenticare a memoria di vertiginosa
simulazione ed eccessi di verità. L’invenzione di undici allunaggi possibili è scaturita quindi proprio dalla scrittura espo-
sitiva, che nella sua fase di assemblaggio
di una collettiva complessa di personalità
specifiche e distinte, mi ha incanalato nel
mio allunaggio che il tradimento - nel senso
etimologico, di tradere, tradurre, traghet-
tare - operato dagli undici artisti protagonisti della mostra e dell’inciampo tra le loro
opere e lo sguardo dello spettatore, ha reso
compiuto e vitale, e possibile.
1. Francis Picabia, bisogna essere nomadi, at-
traversare le idee come si attraversano i paesi
e le città
2. Artisti Mutanti, dalla conferenza sulla Transavanguardia Italiana, MART di Trento e Rovereto,
11.11.2011, intervento di Martina Cavallarin
3. Martin Heidegger, L’arte e lo spazio, Il Nuovo
Melangolo, Genova, 1997
4. André Gide
5. Fëdor Michailovic Dostoevski, Memorie dal sotto-
suolo, Feltrinelli[1864], 1995: l’uomo, sofferente
e antilluminista di Dostoevskij, recita: <Vi giuro,
signori, che l’esser troppo consapevoli è una malattia, un’autentica, assoluta malattia>
6. Robert Smithson
7. Philip k. Dick, Confessions of a Crap Artist, 1959
8. Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano,
Baldini Castoldi Dalai, 2001
9. Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano,
Baldini Castoldi Dalai, 2001
10. Jean Claire
The entrance to the exhibition is marked by the
obsessive, glittering vibration of a thousand little
bells, an alarm created by Gianni Moretti in his “La
Seconda Stanza” [“The Second Room”]. This fragile and energy-packed installation is a Poor Art
construction that captures the experiences of fear
and protection. Flashes of light reveal the shiny
gold metal of the spheres driven wild by the thrust
of small motors that only impress their rhythm
on the intersecting pieces of wood when someone
approaches, triggering the sensors. What Moretti
manages to achieve in this work and in this lunar
landing is an act of indicating existence, bringing
its private dimension into relation with the world,
although not without being armed with tools. The
work metaphorically recalls the sticks equipped
with jingling bells used by peasants to drive away
serpents and other dangers as they walk through
the fields. The movement, the sound, the blinding
flash of gold and the epileptic dance of the elements hanging on invisible nylon threads subjected
to exaggerated centrifugal tension, take the entire
structure to the very point of collapse. The slim
wooden bones which form the corners and the
11. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura
di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, tr. di Mazzino
Montinari, Adelphi, Milano 1968
12. Emanuele Severino, Tratto dall’intervista Nietzsche
e l’eterno ritorno - Brescia, abitazione Severino, venerdì 16 dicembre 1994
13. Georges Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze. La
dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea, Fazi
editore, 2008
14. Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia Books, 2010, pg 92
15. Dioniso di Friedrich Hólderlin
16. Achille Bonito Oliva
17. Marcel Duchamp
50
imperceptible lateral filaments are the repositories of a trembling and noisy army, a saturated and
condensed universe in which the sense of loss is a
necessary prediction and something to be hoped
for. The delimitation studied by Moretti corresponds to Heidegger’s “Raum” (Rum traditionally meant
“a cleared out space fit to receive a settlement of
colonists or a camp” (3)). Just as the Greeks understood the word “péras”, this limit does not mark
the end of something, but a beginning, a subjective
environment in which man learns to live with himself and get to know himself. Inside the space is
empty, disarming in its transparency, a sacred and
inaccessible place regarding which it is difficult to
understand the meaning of the defence without
accepting the assumption that this place is the
Raum, metaphorically corresponding to the body
of the artist, his existence in life as in art. Here
reigns security and marginalisation, distance from
seeing and hearing, immersion in private vision, in
the lunar region of thought into which it is perhaps
always possible to enter and which it is perhaps always possible to leave. This journey poses a hazard
like all those routes that lose sight of the shore and
only courage permits us to follow (4), taking on the
abyssal, universal and uncoordinated waters of art,
where discovery and its unknown quantities exist,
where art cradles and sinks, washes and burns.
The encounter with Robert Gligorov’s imposing
“Mobydick” demands the eyes of the viewer to travel continuously around the height and breadth of
the animal, which lies slack and inert, concave, on
a gilded parallelepiped of 3 metres high. Its form
has its own artistic history developed by the Macedonian artist, covering a period of time during
which its birth and growth, variations of scale,
colours and its spatial relationship evolved out of
the “Endo” series of 1998. It progressed through
a range of different variants, culminating in “Mobydick -self-portrait (il peso delle cose) [the weight
of things]”, a wooden pedestal and iron framework
clad in a rubbery polymer material, installed in
the stunning hall of mirrors in Cà Zenobio in May
2012. An unplanned and yet evident lunar landing,
which is both as silent as it is invasive and large.
The line of the Carpa [Carp] borrowed from the architecture of Frank O. Gehry is a dynamic structure
that represents the ideal sculptural type according
to Gligorov. The metallic armour of the Golem is
the natural plastic image obsessively modelled and
reformulated by Gligorov during various attempts
in different materials, while the colours achieved
by rolling out several blocks of plasticine represent symbolic values. Each area of colour signifies
a particular interest or the degree of importance
Gligorov associates with things, commitments,
hobbies and people in his life. It is a real piece of
three-dimensional graphics comprised of sport,
art, love, friendships, culture, cinema, music and
money. This assumption makes this monumental
element an explicit biographical map through relationship aesthetics based on the intersubjectivity
installed between the artist and the created work,
while the associations control and fuel the viewer’s
perceptions, leading him to circulate the installation with seductive and pervasive curiosity. The Golem organism proceeds without delay towards its
entropic fate, explicated in the flaying of the skin
to leave increasingly large and unbridgeable wounds, in which the iron framework can be seen in all
its evident nudity. Ever drawn by systematic and
meticulous research into the relationship between
image and artifice, cultural impact and the power
of iconography on human consciousness, Gligorov
once again chooses to put himself into play, combining the prismatic perspective of the artist with
that of the viewer in an open match between illuminated and shady zones, deliberate hallucinations
and precise focus, high and low thermal conditions.
’On 1 November 2011, Yasuhiro Sonoda, MP for the
Democratic Party of Japan (DPJ), drank a glass of
water from reactors 5 and 6 at Fukushima nuclear
plant. He did so in full view of a packed press room,
occupied by journalists from all over the world ready to immortalise this dramatic deed. At the end of
this great performance, the empty glass was raised
for all to see.’
Entering the semi-dark atmosphere inhabited by
the auroraMeccanica means coming into contact
with a portion of the world in which the encounter
between the real and the virtual, understanding
and appearance, physical work of art and reference
to its meaning in the film played on a small screen,
is something that both disorientates and bewilders.
Following detailed historical training focused on the
genesis of video art and the history of its founding
fathers, the Turin-based collective auroraMeccanica, comprised of Fabio Alvino (born in 1988),
Roberto Bella (born in 1983) and Carlo Riccobono (born in 1982), began to focus its research on
the concept of mystification and false perception
that each image or action can generate in people.
The reflection on the use of the material – which,
in the case of “Come bere un bicchiere d’acqua”
[“How to Drink a Glass of Water”], consists of a
small table supporting a half-filled glass – combined with the intangibility of the video - which refers
back to an actual event - is the starting point for
a “responsibly artistic thought”. The end result of
this process materialises in the creation of an interactive work in which the contribution of the viewer
is fundamental in order to complete it. Technology,
on the one hand, and the physical presence of the
objects, on the other, permeate one another to create a symbol of a shared adhesion marked by conscious participation, a lunar landing dedicated to a
civic conscience in which the viewer is called upon
to be a guarantor and witness. In “Come bere un
bicchiere d’acqua” the process of reworking reality is reinterpreted in the relationship between the
real object and its shadow: the metonymic object
is a glass of water placed in the middle of a small
table. The glass is lit from above by an undefined
light source, while the shadow visible on the table
behaves eccentrically: it is unstable, it moves and it
breaks up. The shadow of the glass constantly responds to the variations in radioactivity emissions
detected in the areas around Fukushima Daiichi.
The accurate and objective measurements, made
in Japan and published on the web in real time, are
reinterpreted to provide a version of the truth which
is transformed with the slightest change. The case
of the Japanese MP Sonoda is simply a concrete
example of how reality is conveyed and dramatised
in many different ways on a daily basis. The desire
to examine things more closely is the starting point
for the critical analysis of the data, in an attempt to
escape the mystification implemented by the media and global information, drawing closer to the
glass and discovering that the shadows can even
disappear.
A motionless solitude lingers in the sculptures and
installations by Alessandro Bergonzoni; a place of
loss that does not lead to subtraction, but instead
to a gestaltist mechanism in which “everything is
more than the sum of the individual parts”. In this
labyrinth of materials from a private and emphatic memory, separated into fragments and given
new life through other forms and other recesses
of existence, that which most closely concerns the
artist is what is not seen, transporting pain into
the sphere of the possible and the possible into
all spheres like a contemporary ferryman, by means of an artistic process in which writing always
accompanies the work even when it is concealed.
Its organisms are fuelled by the expansion of error
both during the creative phase, and during the expository phase, when everything appears still and
yet is subject to a constant, progressive and inexorable process. While harbouring and establishing
the dimension of doubt has always been one of
the tasks of contemporary art, in every era and season, in his works doubt is a vision of art, finding
the acrobatic experimentation with ellipses and
jargon-based hyperboles of thought in the semiautobiography of this room. This is certainly true
of TELI DEI RESUSCITANTI PER SVENTOLAR BANDIERA BIANCA, RITROVATI SOTTOSUOLO [Waving
the White Flag with the Sheets of the Resurrected,
Underground Finds], an installation comprised of
a mound of earth, finds, an archive infused with
what has surfaced, been excavated and is impure.
In the studied completion of the installation, the
sublimation of archives of experience in another
dimension, the need to overstep the boundaries
of the terrestrial atmosphere, and the deliberate
hallucination of an exile, the artist takes a white
flag to his Moon and places it beneath a mound
of earth, while another white flag is laid out with
the found objects, all with rough and contaminated
surfaces, discovered sticking up out of the dust by
a chance glance ready to grasp the association with
the next encounter. Each of these residual items
is catalogued and the discovery, the act that the
viewer is driven to make, is one of uncovering the
association between the numbered object on the
flag and its meaning written on the “whiteboard” on
the wall. The wall-mounted plasterboard brings the
threads of meaning together, tracing out a map of
interconnected worlds and interchangeable dimensions. Bergonzoni achieves an epiphany of the revelation of the contents, an autopsy performed in and
on the room, the traces of which are verified by the
sculptures, but also by the stitches that descend
from the disconnected wall to the floor to shore the
flow of the dust that rises up from the very bowels
of the lunar terrain. In this space we can observe
the encounter between art and life, between viewer
and work of art, between horizontal perspective
and prismatic perspective.
In Bergonzoni’s work, we have the impression that
we will never again have the opportunity to return
to a calm presence, the boundaries between entities and events being extremely transient. The
indeterminate nature of the dust will raise other
spaces and other intervals, perception will always
be alert and the potential extended in a jazz-like
discord that continues to beat. The unease generated by “Notes from Underground” (5), echoed by
Bergonzoni’s installation in the funnel-like process
of progressive discovery that unfolds between the
act of revealing and the revealed, is an awareness
of being able to convert the factors, to display the
true and the false, it is an awareness of a “man in
need of a superhuman being”, which can be increased or locked away as a result of the encounter
with art. The artist does not fear the inaction that
this extreme awareness can bring and moves us
beyond, encouraging us towards the inevitable and
the amazing, forcing us to look without worrying
ourselves about pressure, temperature, altitude or
time. Bergonzoni makes the lunar landing without
delay and does not suffer the outward journey or
the return, because he recognises that they are the
same thing, a single vast opportunity.
“Many would like to forget time altogether, because
it conceals the “death principle” (every authentic
artist knows this). Floating in this temporal river
are the remnants of art history, yet the “present”
cannot support the cultures of Europe, or even the
archaic or primitive civilisations; it must instead
explore the pre- and post-historic mind; it must go
into the places where remote futures meet remote
pasts.” (6)
“Today, in the 1950s, everyone’s attention is turned
upward, to the sky. Life on other worlds preoccupies people’s attention. And yet, any moment, the
ground may open up beneath our feet, and strange
and mysterious races may pour out into our very
midst. It’s worth thinking about, and out in California, with the earthquakes, the situation is particularly pressing. Every time there’s a quake I ask
myself: is this going to open up the crack in the
ground that finally reveals the world inside? Will
this be the one?”“ (7)
The relationship between space, work of art and
viewer is intensified in the conceptual heat that pervades the lunar landing of Ester Maria Negretti, a
lyrical, evocative, empathic and pictorial artist even
in the imposing mass of her monolithic sculptures. The beams of light that cloak the iron, wood,
concrete, tar, cement and oil paint which form the
“Dialogo tra sordi” [“Dialogue of the deaf”] are mixed with a subdued and obsessive noise, a breath
which dialogues in the form of an illusion with the
physical work of art. In this installation the sensation is one of finding oneself in the middle of a
conjugation perpetuated between the bodily, mental and moral energies of the artist and the identity
of the expected traveller’s movement. Negretti’s
creation does not renounce the circular reworking
of the existential position in favour of the appearance of the work, but instead displays an apparent
and affirmative trace of the osmosis and ongoing
brimming-over of energy from the individual structure of the work to that of the world and vice versa. Negretti’s lunar landing lies in the possibility of
escaping entropic fate through the conjunction of
art and life, their absolute permanence in a state
of apparent calm, fake death, a dramatic act that
supports and aids the necessary deception appropriated by every single existence. The three maje-
stic and protective giants encompass every flow,
every attitude, every entrance and exit with their
presence, while their circular design memorises the
possibility of containing all the worlds that simply
touch upon them and never pass through them.
Negretti’s works “sound” like questions and social
admonitions. Noisy, insistent and insinuating ideas
circulate in her sculptures. We can perceive a sense
of unease, a consistency generated by the material
of the sculpture but also by a real and committed participation, a hope for the reanimation of the
world.
Restoring form to the findings of reality highlights
the need to restore chaos to the order of culture.
The artist’s creative process is a closed circuit which
looks back with nostalgia at a traumatic expansion
of our society. Layered, burnt and sculpted, the
material used to create the film-like surface of the
iron sentinels tells of ancient remains brought to
light, emerging on the surface, but ever inaccessible like spines that reject contact and dialogue, in a
powerful metaphor of existential incommunicability. Listening to the undercurrent of breathing becomes even more evident here, whispering of a pain
suffered and never overcome, the incommensurate
pain that each of us carries within and which the
artist seeks to exorcise through the representation
and presentation of her naked work of art to the
other. In Negretti’s case, the lunar landing is an act
of possible sharing of a fate that I personally do
not believe to be ever random or measurable. It is a
primordial manifestation of a civilisation that feels
itself to have grown without ever evolving, at least
not in the spheres we really need, but which art can
help to bridge. However, this cannot be achieved
without contagion, illness, the infected virus of a
malaise that, while it is staggering and upsetting,
is also very much alive and dynamic.
A single room is brought to life solely by the packed
and intense walls of “Errata Corrige” by Ekaterina
Panikanova, a sophisticated artist, with the intelligent hand of an artist, painter and designer of
controlled symbols formed by ink and printed pages. The work is based on the metaphor of the oyster and the pearl: after the sand enters the shell,
the grain of sand, the element of stress, triggers
its expulsion through the production of a capsule,
a virus with an attractive appearance. In the same
way, the intrusion of her mark into the pages of books, assembled together and intersecting one another, conditions the vision of the work concentrated
primarily on family scenes and mountain animals,
particularly the figure of the deer. The ensemble of
embellishments and conceptual references are condensed in the central video, in which the incessant
flicking through the unrolling pages gives life to different narratives which break up the planes and the
emotive limits. That which distracts and captures
the attention are not the chromatic outbursts - whose differences are minimal and focused on a few
tones, such as black, the yellow of the worn pages,
and hints of red, except when the support is a colour magazine - as much as the sensation of being
faced with a story to be seamlessly classified each
time. A psychic investigation into sensations and
perceptions, a lunar landing to be approached with
the controlled fear of performing surgery in which
the roles of doctor and patient are disconcertingly
swapped. Panikanova’s wall installations reveal a
seesaw of possibilities always poised on the very
edge of the threshold, a correspondence between
past and future, between the contemporary image
of a blacked-in creature on paper and an old book,
memories of worn pages and the re-emergence of
advertising images from 1950s American magazines in which the father hugs his daughter, while
the boy in a sailor suit perhaps awaits a caress,
standing contrite and motionless in a “familiar style” family portrait, with obsessively stylised, windowless houses repeated in endless cycles nearby.
Other iconographic elements include a rocking horse with moose horns against a dark background,
cakes which appear and disappear, vintage tapestry flowers in unique compositions in which the individual elements merge to reappear together only
in the running of the video. Other pages have only
drops commandeered from others, others still are
soaked, impregnated to the very limits of resistance of the material, almost drenched with secrets,
motionless as they wait to display their pure or
inacceptable hidden side. The ability of this interesting and highly original artist lies precisely in
the grafting of the virus, in the silent intrusion of
the principle that infects apparent everyday life, the
fictional security, the family as a symbol of solidity
and beauty which conceals beneath its bourgeois
folds the most pitiless and relentless aspects of the
human being and his relationship with the world
around him. Leonardo himself said that “painting
is a mental occupation”.
“The more he contemplates, the less he lives; the
more he identifies with the dominant images of
need, the less he understands his own life and his
own desires.” (8)
The relationship formed upon entering Mauro Ghiglione’s room leads immediately to a state of silent
unease, in which one searches for cardinal points in
order to orientate oneself. The installation is clean
cut: four works - digital prints on Plexiglas - are
mounted on the rear wall, each by means of four
calibres, precision instruments employed with perfect geometry in the middle of each side, gripping
the supports and securing them to the wall. “Debito d’ossigeno” [“Oxygen Debt”] is an installation
that concentrates on the distinctive traits of Ghiglione’s artistic process, that is to say the examination of the relationship between the photographic
image and what is real. On the one hand, this interest permits him to pursue his research into the
mental mechanisms underlying the work, while on
the other to tackle more contemporary themes with
linguistic research designed to subtract the photographic details from the image, in order to face its
moment of crisis. The central figure in each panel
is apparently a statue - printed on pages of the New
Testament assembled together - and positioned at
different angles. In reality, it is a picture taken at the
Torture Garden, a travelling and nomadic English
organisation which allows people to subject themselves to masochistic practices or watch others undergoing them. In this case, the person is placed
in a “vacuum” and breathing is only made possible
only by a hole at the level of the mouth which allows the external air to enter. The fascination of the
commodity theorised by Guy Debord is translated
into a work of art by the Genoese artist attracted
by the seductive fetish concept that regards “object
products” in the same way as the “human product”
and the “art product”. In the room in which this
ritual was performed, a man stood still and excited,
seduced by the suffering, captured by the extreme
line between life and death, Eros and Thanatos.
In this way, the social relationship between individuals is developed with a method that leads to
profound alienation and constant deception. Ghiglione extends the same thought to the Art System
which, while benefitting from an undisputed humanist dimension, is driven constantly and inexorably
towards a functional dimension in which the work
of art necessarily becomes a commodity.
“The spectacle is capital accumulated to the point
that it becomes image.” (9).
On the two side walls, small mirrored surfaces
create multiple images of a human skull hanging
from the ceiling, with a red pendulum plumbed on
the end of the string that supports it, also directed
over a small mirror. The work is entitled “Finalmente mi vedo” [“Finally I See Myself”] and is a sitespecific installation, focused entirely on false perceptions, the total deception of an entropy which
is not eluded by the fact that the aesthetic subject
no longer responds to a tautological affirmation as
was the case when art was what was defined as art.
The autonomous value of the work now disappears,
making way for a value comparable to that which
each market applies to any given product. Maurio Ghiglione has created the ghost of a suspicion
that art is becoming just another small part of our
small world rather than, in a truly extended sense,
remaining a possible lunar landing, that region to
which only the art machine can transport us, that
possible project of alchemy, imagination and multiple redefinition. A great critic, whose pattern of
thought is very close to that of Ghiglione, wrote:
“Men will one day disappear, but their simplified
images will remain, recalling them. And they will
cry without any longer knowing why.” (10)
Sudden immersion into darkness and the enchantment of a revelation, free falling in space with its
many aspects, voids and expansions of solids that
push the boundaries of our own private imagination. Eric Winarto is a painter who applies multiple
layers of colour, although not before having studied
the place that his work of art will inhabit with his
own eyes and intellect as an architect. He is inte-
rested in transporting the traveller into the dimension of the visible when the shadow is total and
permeated only by the black light, also known as
Wood’s lamp and, on the contrary, in liquidating the
work when the lights are on, there where the viewer
usually understands, studies, savours, stumbles,
falls sick and dialogues with the art. Winarto paints
nodal elements of the sculpture of the mind in his
wall tattoos, thread-like or dense elements and traces, often as symmetrical and precise as if he had
used a set square and compass. The entire structure of his lunar landing is supported by a succession of phases, dominated by white on white and
then going on to encompass blue, light blue and
black, opening up an almost all-consuming, but highly conceptual aesthetic vocabulary. The project
specific is its signature style, pieced together with
Eastern patience, which in part is bred into him,
Winarto having a part Indonesian and part Swiss
ancestry. I presume that this crossover accounts
for an important part of his obsession, a reiterated need to work by night, when reality encounters
his method of working, when silence is smashed
thunderously against the walls that might never
report, unless the room is equipped with specific
lighting, that it houses so much courage, so much
detailed symmetry combined with the strabismus
of a sincere and absolute artist whom I recognise
as being subdued, yet substantial, in his intellectual, manual, lyrical and artistic touch. His possible lunar landing had a nine-year genesis, which is
how long it took to create his cycle of fluorescent
paintings “Blacklight Selva” [“Blacklight Forest”].
All this time, this waiting, this inexorable and uninterrupted process to create a temporary work of
art on a wall or canvas. The sensation of poetry
is profoundly researched in the work and always
refers to the metaphor of human destiny. The term
Selva [Forest] derives from the Divine Comedy, a
strong and omnipresent European legacy, representing the labyrinth of life, a guiding concept for
Winarto in this series of works. A Mannerist labyrinth in which the sense of loss is absolute, where
there is no possibility to glimpse or return to the
centre, where alienation reigns supreme, where the
cycle “of eternal recurrence” (11) is a possibility
undertaken with calibrated and unprecedented daring, there where the limits of the absurd bring the
viewer’s perception into play, placing his affective
and contemplative dimension into a state of crisis.
“This is the ‘entification of nothing’, and this huge
contradiction underlies my insistence that in contemporary thought there is an unstoppable capacity to destroy every form of philosophical tradition,
that is to say every way of evoking and building
eternal structures.” (12)
A state of transparency, a rarefied signal of mixed
odours that fill the nostrils and a jangling that only
begins when the viewer triggers the sensors with
his presence. The perception of this sinuous work
by Tamara Repetto begins with these almost synaesthetic and total signals. The vibrant impellers
of “Anosmia”, an installation of tubes of Plexiglas
each containing a cascade of glass rods that are
driven by a motorised thrust, moving the olfactory
wafers, are “soul informers”, impulses that drive the
regions of the mind beyond the tautology of “what
you see is what you get” (13), thereby going beyond
reality itself. This dichotomy requires some imagination, an expansion that only the lunar landing of
art can provide, in order to measure itself against
the zero degree and cause appearance and depth
to communicate freely. From the Greek “σημεῖον
semeion”, semiotics is the discipline which studies
signs and the way in which they form a meaning,
that relationship which, through memory, activates an awareness in us that triggers synapses. This
process is an inherent part of the approach which
man applies to the things of life, but escapes the
codices of art which are enlarged and made possible and elastic under the drive of an unprecedented
power, the strength of the work which continuously
bounces us between instinct and instinctiveness,
between understanding and alienation, in a space
in which the virus of contamination alters the static
incrustations in which we tend to barricade ourselves. Identity, connectivity and collectivity meet in
the instability of the fractal object in order to conceive a necessarily multiple thought, both from the
point of view of the crossovers of the multidisciplinary and technological language employed by
Repetto, and from the point of view of a focus on
a psychic and social interest that intervenes in the
viewer. A milky way of plural creative procedures
poised between lyricism and technology, between
the warm temperature of the involvement of the
senses and the cold temperature of glass, the clarity and the formal, incisive, almost statistic delicacy
of transparent elements. A site-specific installation
artist, Tamara Repetto concentrates on the characteristics of the place with which the work will coexist, beginning with the odours present and inherent
to the place that will house the work and with which
she builds an empathic relationship particularly
focused on an olfactory and sometimes auditory
map. The specific nature of her research revolves
around the consideration of the change that these
events bring about, the parrying of changeable perceptions by means of small insertions, omissions
and developments and the deceptive ability which
the geometry between the chemistry and architecture of the work of art help to create with disarming complicity.
Penetrating Gino Sabatini Odoardi’s brightly lit
room and dark floor projects one into a vision
which generates an initial sensation of entering a
holy building, with pure white kneelers and a sense
of loss. However, when everything comes into focus, the labyrinth becomes a mental one because
the twelve elements Senza titolo in wireless (Untitled wireless) are scattered about and muddled up
and above them is a “thermoformed polystyrene”
object that blends in with the wooden structure and
reveals itself to be the copy of a “PlayStation gamepad”. The artist from Pescara has led us through the technologically advanced plastic artifice
of counterfeiting the contents through form, in a
deception perpetrated by the re-contextualisation
of the existence of the symbolic objects and the
gaming objects. Boosted by the temporal dislocation of an aseptic and unexpected location, the
questioning of indisputable issues reaches the extreme limit between elasticity and breaking point.
Sabatini Odoardi’s lunar landing regards mystification and grafted possibilities that civilised society
fails to contemplate and the powers-that-be avoid,
because channelling the motionless sacredness
of religion and the age-old tradition that drags it
along into infinite alternative aspects represents
the unhinging of certainties and the restoration
of possibilities. Ever poised on the dangerous and
perilous verge between sacred and playful, the research carried out by this interesting artist, who
grew up from a young age in the “workshop” of Fabio Mauri, displays ideologies and activates detailed and adulterated programmes, measuring itself
against an ever sophisticated and beautiful work
of art (aesthetic fluidity inseparable from questions regarding the autonomy of the work (14)),
an important conceptual counter-attraction in his
planned de-territorialisation of established geographies, which are never questioned on a daily basis.
A dimension of doubt installed with the precise
grammar of agnosticism, based on the firm belief
that absolute truth escapes the human mind and,
as a result, it is not plausible to talk about what
one does not know. If anything, Sabatini Odoardi’s
intention is to call certainties into question - even
when this means upsetting history - in order to dispute passive acceptance of events. Through his
art, Sabatini Odoardi triggers a process of mental metonymy, the prerequisites for which reside in
probability and likelihood, in small partial moves
that imply progress towards horizontal detours as
the only possible solution. This is like overcoming a
linguistic and intellectual Darwinism, immobilised
and made vulnerable by creating and conceiving
art only by means of proceeding in other directions
and into unknown regions as part of a real lunar
landing, understood as a heterogeneous and fluid
existential region.
When entering the 19th-century refectory of Cà
Zenobio one hears the rasping of iron accompanied by a sort of bleating, the well-known litany of
Mozart’s Don Giovanni made unrecognisable by
the slowness at which it is played, at 16 rpm rather than 33 rpm. Suddenly Francesco Bocchini’s
“Giostra” [“Carousel”] appears, majestic and revolving. For his lunar landing, Bocchini has developed
a structure begun in 1991 - but never completed
given the huge amount of iron, sheet metal, mechanisms, complex gears and measurements of 5
metres wide by 5 metres high - built in a unit in
Gambettola over the course of many months. Bocchini has an unusual and courageous style. It is out
of fashion, not matching any of the latest trends,
inflections and suggestions. His mark is intense
and incessant compared to the reality of the work
of art. His works have metaphysical and surreal
implications achieved by means of assemblies and
soldering, and the final result is a composition of
a complex, intense and lucid symbolic expressivity.
His obsession is focused on joints, margins, edges
and gears, all the points at which one thing touches
another. The installation is in no way formal, static
or linear, being charged with a sort of paradoxical enchantment packed with stimuli, impregnated
with memory, entrusted to the strange and arbitrary nature of the juxtapositions and the happy
freedom of invention. However, the artist from Romagna has not overturned and created a parody of
traditional sculpture. His is a contemporary practice which avails itself, for reasons of existential necessity, of conceptualism containing a veiled sarcasm, a hidden statement regarding society, politics,
the theatrical imagination and possible hazards. In
a note on Dada, making particular reference to the
“Large Glass”, André Breton describes the abundance of finds as a “mechanistic interpretation
of love”. I can observe a recognisable yet veiled
sensual, erotic and autoerotic charge in Bocchini’s
mechanisms, in this Carousel with its iron horses
that revolve emptily rather than for fun. This comparison is based on the dualism between male and
female, between gear and crank, iron and sheet
metal, writing and colour, the work of art which rises and the circular design of the revolving footboard. Everything is vertical and horizontal, forming
an integral part of the male and female principles.
Bocchini adheres to the process of creation during
his total and sincere intellectual journey, under the
auspices of a precise, original and absolute poetic
code, just as Rimbaud’s Tom Thumb the dreamer
“churns out rhymes” to find his paternal home. In
the same way, Bocchini disseminates signs and
symbols, traces of alphabets that compress stories and tales, amalgamating distant geographies
together and adding transversal grammatical components to them over time. Bocchini adds a further
degree of complexity, a physical and visual depth
to the mechanisms on the walls and shelves, and to
the large iron brackets, in the form of mirrored surfaces, which are naturally also “objets trouvés” and
worn by time, offering added new points of view.
In this sense, the “Carousel” is the hortus conclusus of an experience of traces and places in which
all anthropological times, the journeys of different
men, unknown and famous writings are condensed
on the pedestal to install a dialogue with the visitor
who glides through a Fellini-like room packed with
memories and circular tension as regards the next
lunar landing. The recovery that takes place here
is one of layered documentation and access codes
which escape the ordinary interpretation of what
has re-emerged, then presenting themselves on the
iron pedestal like the coloured horse or a king on
his throne. Every work by Bocchini appears to me
to be a “der kommende gott, the god who has to
arrive” (15) accompanied by that grinding noise of
indented gears and an interpretation of an opera
by Mozart that ferries one along.
The substantial quality of the new and appropriate
contemporary research that my predisposition as
a critic is furthering over the course of the years,
lies in the prerequisite itself of the most varied
artistic techniques employed like a choir of individual voices in this exhibition of changing artists.
In fact, while the critic expresses himself through
three levels of writing (16), namely essay writing,
behavioural writing, expository writing, I have used
the latter to intercept the possible lunar landings
between the presence of the work of art and the
focus of the viewer. Work needs to be done, albeit
in the apparent disjointed formal result that makes each artist authentic and unexpected, on the
transparency and the fulcrum of the inframince
(17) - an extreme and imperceptible space which
cannot be catalogued - exploring an untraceable
zone that avails itself of staggering simulation and
excesses of truth through the Agnettian oxymoron
of forgetting by heart. The invention of eleven lunar
landings therefore arose out of expository writing,
which during the assembly of a complex collective of specific and separate personalities, led me
to my lunar landing, made complete, vibrant and
possible by the translation produced by the eleven
artists involved in the exhibition and the link between their works and the perspective of the viewer.
1. Francis Picabia, One must be a nomad, traveling
through ideas as one travels through countries and
cities.
2. Artisti Mutanti [Changing Artists], from the conference on the Italian Transavantgarde, MART di
Trento e Rovereto, 11/11/2011, talk by Martina
Cavallarin.
3. Martin Heidegger, L’arte e lo spazio [Art and
Space], Il Nuovo Melangolo, Genoa, 1997.
4. André Gide.
5. Fyodor Dostoevsky, Memorie dal sottosuolo [Notes from Underground], Feltrinelli[1864], 1995:
Dostoevsky’s suffering and anti-Enlightenmant
man recites: “I swear, gentlemen, that to be too
conscious is an illness - a real thorough-going illness.”
6. Robert Smithson.
7. Philip k. Dick, Confessions of a Crap Artist,
1959.
8. Guy Debord, La società dello spettacolo [Society
of the Spectacle], Milan, Baldini Castoldi Dalai,
2001.
9. Guy Debord, La società dello spettacolo [Society
of the Spectacle], Milan, Baldini Castoldi Dalai,
2001.
10. Jean Claire.
11. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
[Thus Spoke Zarathustra], edited by Giorgio Colli and Mazzino Montinari, translated by Mazzino
Montinari, Adelphi, Milan 1968.
12. Emanuele Severino, Passage from the interview
Nietzsche and the eternal recurrence - Brescia,
home of Severino, Friday 16 December 1994.
13. Georges Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze. La dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea, Fazi editore, 2008.
14. Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale [Relational Aesthetics], Postmedia Books, 2010, pg 92.
15. Dionysus by Friedrich Hólderlin.
16. Achille Bonito Oliva.
17. Marcel Duchamp.
in collaborazione con
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ringraziamenti
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finito di stampare a luglio 2012
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