Marco Minniti

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Marco Minniti
10. Le implicazioni per
l’intelligence della
minaccia jihadista*
Marco Minniti (Presidenza del Consiglio)
*
Questo capitolo fa parte del RAPPORTO ISPI L’Italia e la minaccia
jihadista. Quale politica estera?, a cura di Stefano M. Torelli, Arturo
Varvelli, maggio 2015.
La minaccia jihadista
Il terrorismo islamico continua a rappresentare una minaccia primaria alla sicurezza internazionale e, anche alla luce di quanto avvenuto nel 2014, costituisce una sfida con cui dovremo confrontarci ancora per un lungo periodo.
L’anno scorso si è assistito, infatti, all’affermazione dello Stato
Islamico (IS) nel mondo. Ciò ha segnato un assoluto cambio di
passo, determinando quella che i filosofi chiamano una rottura
epistemologica, perché, per la prima volta, un’organizzazione terroristica si è dotata di un territorio ed è diventata “stato”. In questo
modo l’IS è stato in grado di realizzare ciò in cui nessuno era riuscito in passato: avere la capacità di muoversi, da un lato secondo i
canoni tipici di una guerra simmetrica, conducendo una campagna
militare con un vero e proprio esercito, conquistando una parte
della Siria, una parte dell’Iraq, mettendo in discussione il Kurdistan, dall’altro su un piano tipicamente asimmetrico come ogni
gruppo terroristico. A questo si aggiunge anche il raggiungimento
di una capacità economica senza precedenti tra i gruppi terroristici, ottenuta attraverso molteplici attività a partire dal controllo di
risorse petrolifere.
L’IS rappresenta pertanto una minaccia irriducibile, non gestibile diplomaticamente e che va sconfitta anche militarmente; questo è il senso della grande coalizione internazionale cui l’Italia
partecipa.
Oltre all’IS, un elevato indice di rischio è legato ad al-Qaida
tanto in relazione al tentativo dell’organizzazione terroristica di
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L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?
riaffermare il proprio ruolo di leader nel jihad globale, quanto per
eventuali convergenze con lo Stato Islamico in un’ottica antioccidentale.
In questo quadro, le azioni terroristiche compiute a Parigi nel
gennaio 2015 e a Copenaghen nel mese di febbraio hanno ulteriormente evidenziato sia l’attualità e la concretezza della minaccia jihadista in Europa sia la pericolosità per il nostro continente
del fenomeno degli homegrown terrorists e dei foreign fighters.
I foreign fighters sono cittadini europei o immigrati che risiedono stabilmente in Europa, i quali spesso radicalizzatisi su internet e, di sovente, inseriti in contesti di disagio personale, familiare
e socio-economico decidono di raggiungere i teatri di jihad per
“unirsi alla causa”, anche in un’ottica di riscatto personale.
È evidente la grande pericolosità dei militanti di ritorno
dall’esperienza combattente (returnees) che, rafforzatisi nelle proprie posizioni estremiste e acquisito il know how necessario, possono alimentare circuiti estremisti o realizzare progettualità offensive.
Tanto i returnees quanto i terroristi homegrown (singoli individui o micro-cellule) che decidono di attivarsi (selfstarters) hanno
un tasso di pericolosità aggiuntiva dovuta all’elevata imprevedibilità delle loro azioni. Manca, infatti, una centrale strategica, una
catena di comando che assegna l’obiettivo da colpire e poi ci sono
le cellule che eseguono. Al contrario c’è, a livello individuale, il
riconoscimento in un riferimento politico-culturale radicale con la
decisione di passare all’azione.
È il terrorismo molecolare, realizzato da piccoli gruppi o individui, con una forte connotazione di spontaneismo. Proprio questo, se ci si ferma a riflettere, è il comune denominatore che accomuna gli attacchi terroristici dell’ultimo anno in Occidente. Gli
attentati di Ottawa, Bruxelles, Sidney, Parigi e Copenaghen sono
azioni terroristiche fra loro profondamente diverse, ma che tuttavia
hanno un filo conduttore, costituito dal singolo individuo o dal
singolo gruppo che si attiva sulla scorta di un riferimento ideologico.
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In quest’ottica sono di estrema pericolosità, proprio per il rischio di essere recepiti da una vasta platea di internauti radicali, i
numerosi messaggi di propaganda jihadista diffusi sul web in cui
si invitano i musulmani d’Occidente a raggiungere i teatri di jihad,
o a colpire i “miscredenti”, con ogni mezzo, nei loro paesi attraverso azioni di jihad individuale.
A tal proposito, il “successo” di azioni terroristiche attuate con
i più disparati strumenti (dall’arma da taglio all’automobile lanciata contro un bersaglio) possono stimolare fenomeni emulativi, peraltro estremamente difficili da prevenire anche perché fuori dagli
schemi tradizionali di valutazione delle capacità organizzative e
operative delle formazioni terroristiche.
Un profilo di particolare attenzione rimanda, inoltre, al flusso
di jihadisti che raggiungono il teatro siro-iracheno dal Nord Africa, ma che – per personali trascorsi in Europa, per collegamenti
con soggetti residenti nel vecchio continente o per contatti maturati sul campo di battaglia – potrebbero raggiungere il territorio europeo.
Anche per questi aspetti il quadrante nordafricano è costantemente monitorato dall’intelligence, specie per quel che concerne la
Libia, la cui situazione di sicurezza già fortemente critica, si è ulteriormente deteriorata per la presenza di una multiforme galassia
jihadista, nel cui ambito l’IS sta cercando di ritagliarsi visibilità e
spazi sul terreno.
Il peggioramento della situazione con il rischio di una “somalizzazione” della Libia accresce il livello di rischio per il nostro
paese. Ciò impone l’obbligo per la comunità internazionale, e in
primis per l’Europa, di un forte impegno in ambito Onu finalizzato
a spingere le parti a creare un governo di unità nazionale capace di
stabilizzare il paese e di fare fronte comune contro l’IS.
La minaccia verso l’Italia
L’Italia rientra tra i potenziali obiettivi dell’azione terroristica, oltre che per la sua partecipazione alla coalizione internazionale
contro l’IS, soprattutto per la sua centralità per il mondo cristiano.
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Esemplificativo in tal senso come la “conquista di Roma” sia
un tema ricorrente nella violenta campagna mediatica di IS e dei
suoi sostenitori. In proposito, tra gli altri, si ricordano: l’audiomessaggio postato a luglio 2014 in cui l’autoproclamato califfo
dello Stato Islamico al Baghdadi invita i suoi seguaci a combattere
sotto la sua bandiera, così seguendo il suo consiglio «conquisterete
Roma e diventerete padroni del mondo, con la volontà di Allah»;
la copertina della rivista dello Stato Islamico, Dabiq, di ottobre
2014 con la foto della bandiera nera di IS che sventola
sull’obelisco di piazza San Pietro; il video postato sul web
all’indomani dell’attentato parigino alla rivista Charlie Hebdo in
cui si susseguono le immagini di campi di addestramento e quelle
di Roma (piazza San Pietro, Colosseo, Pantheon) con minacce
profferite in lingua araba; il messaggio del 26 gennaio 2015 del
portavoce di IS Abu Muhammad al-Adnani, in cui vengono incitati i jihadisti a colpire in Europa e viene dato “appuntamento a Roma”; il video dell’IS postato il 15 febbraio 2015 che mostra la decapitazione di 21 ostaggi e contiene minaccia all’Italia «Ci avete
visto in Siria, ora siamo qui a sud di Roma»; il documento di minaccia postato online dall’IS nel mese di febbraio in cui, tra l’altro,
s’incitano i lupi solitari a colpire.
Al momento, nel nostro paese sono sottoposti alla particolare
attenzione d’intelligence e Forze di polizia una cinquantina di foreign fighters partiti dal territorio nazionale e comunque a vario
titolo collegati con l’Italia. Sono numeri contenuti rispetto al panorama europeo, dove si stimano alcune migliaia di combattenti. In
ogni caso, però, il rischio di reducismo va valutato anche in relazione all’arrivo nel nostro paese di foreign fighters partiti per la
Siria da altri paese europei o nordafricani.
Nonostante queste considerazioni, a oggi, non sono emersi
concreti segnali di pianificazioni offensive contro il nostro paese
da parte di IS, di al-Qaida o di homegrown terrorists.
In sostanza, a fronte di tre livelli di rischio terrorismo (possibile, probabile, concreto), il nostro paese si colloca al livello del
“possibile”. Può, cioè, essere oggetto di un attentato terroristico. Il
livello di guardia è, però, altissimo, si ragiona quanto a dispositivi
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di sicurezza come se ci si trovasse di fronte a concrete e precise
situazioni di rischio. Questo è il modo per garantire il massimo
della prevenzione, stando, peraltro, molto attenti a non cadere nella sindrome della paura che costituisce proprio un obiettivo delle
organizzazioni terroristiche.
Lo Stato Islamico, infatti, punta all’opinione pubblica attraverso un’attenta strategia comunicativa volta a seminare insicurezza,
terrore e soggezione psicologica e culturale. Si tratta di professionisti della comunicazione, che operano scelte raffinate anche su
dettagli come il taglio delle fotografie: nulla è lasciato al caso. La
violenza esibita delle decapitazioni e, più in generale, delle esecuzioni è un pezzo di tutto ciò: ostentare spregio e sicurezza per
spargere terrore.
L’intelligence nell’attività di prevenzione e contrasto
La risposta al terrorismo deve avvenire su più piani.
In primo luogo, a livello militare nei confronti di IS. In tal senso, come sopra ricordato, l’Italia fa parte della coalizione internazionale contro lo Stato Islamico.
Il secondo livello di risposta si trova sul terreno della prevenzione e, in tale ambito, è di primaria importanza il ruolo
dell’intelligence.
In materia di prevenzione l’Italia costituisce un punto di riferimento, siamo tra i pochi che mettono in condivisione in tempo
reale tutte le informazioni di cui si sia in possesso. In particolare è
eccellente il coordinamento interno al comparto informativo, è stata ulteriormente rafforzata la cooperazione internazionale
d’intelligence e, attraverso il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo (Casa), viene assicurata una perfetta sinergia tra Servizi
e Forze di polizia. Il Casa è un esercizio ormai consolidato nel nostro paese e potrebbe tranquillamente essere esportato come modello a livello europeo.
Nell’attività di prevenzione è massimo lo sforzo
dell’intelligence che deve avere la capacità d’impiegare al meglio
tutti gli strumenti di cui può disporre. Il contrasto al terrorismo
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molecolare passa sicuramente attraverso l’utilizzo della tecnologia, specie in relazione al web (sulla cui centralità nelle dinamiche
di radicalizzazione individuale mi sono sopra soffermato), ma assumono grande importanza l’Osint (Open Source Intelligence) e la
Humint (Human Intelligence). Quanto alla prima, oggi, su internet
è disponibile una grande quantità d’informazioni e l’intelligence
deve avere la capacità di enucleare quelle utili; per quel che concerne la Humint, è fondamentale avere la conoscenza del territorio, essere in grado d’infiltrarsi negli ambienti sospetti, avere un
controllo diretto in funzione preventiva di coloro che sono potenzialmente sospetti, conoscere le persone e avere anche la piena
collaborazione dell’opinione pubblica. Ciò non significa istituzionalizzare la delazione o vivere in un clima di sospetto, ma la risposta della società civile è un’arma in più nella lotta al terrorismo. In
questo l’Italia ha già dato prova di grande maturità negli anni ’70’80 contro le Brigate Rosse. Un contributo di rilievo potrebbe venire dall’attivazione dell’islam moderato. In questo senso, è importante promuovere il culto nelle moschee, in ambienti pubblici
trasparenti, perché i rischi maggiori si annidano nel culto catacombale o peggio sul web.
Dunque all’attività di prevenzione e contrasto messa in atto da
servizi, magistratura e forze dell’ordine devono contribuire anche i
singoli cittadini, magari segnalando eventuali situazioni sospette.
Nell’ambito di tali attività, particolare impegno viene profuso
dall’intelligence anche in merito alle forme di finanziamento delle
formazioni jihadiste, mirando a individuare fonti e canali di trasferimento delle risorse finanziarie.
Importante è anche l’adozione di provvedimenti normativi a livello nazionale ed europeo in grado di rafforzare il sistema di contrasto e prevenzione.
Pienamente aderenti a tale principio sono le misure che il Governo italiano ha adottato il 10 febbraio scorso, prevedendo nuove
condotte delittuose (tra cui la punibilità dell’auto-addestramento e
quella di reclutatori e reclutati), un’integrazione delle misure di
contrasto delle attività terroristiche condotte con mezzi informatici
e telematici, nuove norme in materia di misure di prevenzione per-
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sonali e di espulsione dello straniero per motivi di prevenzione del
terrorismo, nuove norme sui precursori di esplosivi, provvedimenti che ampliano il perimetro giuridico entro cui l’intelligence italiana può operare nell’attività di contro-terrorismo.
A livello europeo, è fortemente auspicabile l’adozione di provvedimenti che garantiscano la libera circolazione all’interno
dell’UE, ma al contempo rafforzino il controllo sulle frontiere
esterne. Tra gli strumenti che possono sicuramente contribuire ad
agevolare il controllo di coloro che vogliono raggiungere le zone
di guerra e di coloro che tornano da tali aree e possono potenzialmente condurre azioni violente, rientrano l’implementazione del
Sistema d’informazione Schengen di seconda generazione (Sis II)
e la Direttiva Pnr (Passenger Name Record). Tale iniziativa, presentata dalla Commissione europea nel 2011, obbligherebbe i vettori aerei a fornire alle autorità competenti (Forze di polizia e Servizi d’informazione) degli Stati membri i dati dei passeggeri che
entrano in Europa o che lasciano il territorio dell'Unione, per contrastare i reati gravi e il terrorismo, garantendo allo stesso tempo la
tutela della privacy. L’analisi dei dati forniti consentirebbe di focalizzare la ricorrenza di voli di determinati passeggeri, ovvero di
tratte ripetutamente utilizzate, in modo da individuare le tratte potenzialmente a rischio o i soggetti suscettibili di ulteriore interesse
informativo. Un segnale importante in questa direzione è rappresentato dalla risoluzione sulla lotta al terrorismo adottata, a larghissima maggioranza, l’11 febbraio scorso dal Parlamento europeo che prevede, tra l’altro, l’adozione della Direttiva Pnr entro
l’anno.
Il terzo livello di risposta al terrorismo jihadista – necessariamente congiunto agli altri due (militare e prevenzione) – si pone
su un piano politico e dei valori. Deve essere sviluppata un’accorta
politica che eviti facili strumentalizzazioni e muova, al contrario,
verso una dimensione inclusiva e in grado di alleviare frustrazioni
o risolvere problemi di parti della popolazione che possono alimentare scelte estremiste al di là della spinta puramente religiosa.
Il tutto affiancato da programmi di deradicalizzazione per insegnare ad apprezzare i valori europei.
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Conclusioni
Il terrorismo jihadista, come detto in esordio, è una minaccia irriducibile con cui dovremo confrontarci per un lungo periodo.
L’Europa deve avere la capacità di rispondere come una grande
democrazia, non limitando drasticamente le libertà fondamentali
(come quella di movimento), ma usando tutte le armi tipiche della
democrazia, compresa l’opinione pubblica che, a mio parere, non
rappresenta un punto di debolezza – come ritenuto dalle organizzazioni terroristiche – ma un punto di forza.
La risposta al terrorismo deve, al contempo, muoversi sul terreno militare, della prevenzione e dei valori, puntando a isolare e
colpire la minaccia quando è ancora nel suo stato d’incubazione;
bisogna cioè anticipare la soglia di prevenzione per diminuire il
tasso d’imprevedibilità.