IGOR CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo. Metamorfosi di

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IGOR CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo. Metamorfosi di
Dal Novellino a Basile
1 • 2016
ISSN 2531-5218
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(Accademia dell’Arcadia), Pasquale Stoppelli (Sapienza, Università di Roma), Franco Tomasi (Università di Padova).
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Gerhard Regn (LMU München)
James W. Simpson (Harvard University)
H. Wayne Storey (Indiana University, Bloomington)
Susanna Villari (Università di Messina)
Indice
RENZO BRAGANTINI, Editoriale – Introduction
Saggi
p. 3
IGOR CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo. Metamorfosi di un genere tra
antico e moderno
p. 8
TERESA NOCITA, Decameron X 10. Una lettura di Griselda secondo l’autografo
hamiltoniano
p. 29
GIOVANNI FERRONI, L’idea di fortuna nelle Novelle di Molza
p. 48
CARLO ALBERTO GIROTTO, Novelle, facezie, apoftegmi: ancora sul tessuto
narrativo della Seconda libraria di Anton Francesco Doni
p. 68
VICTORIA KIRKHAM, The First English Translator of Straparola, Masuccio, and
Ser Giovanni: William George Waters in his Victorian World
p. 114
Testi
Diavoli, esorcismi e possessioni: una storia inedita del secondo Quattrocento
(ms. Antinori 130), a cura di Angela Maria Iacopino
Archivio
GABRIELE BALDASSARI, Vicende della fortuna umanistica della novella di
Cimone (Decameron V 1). La traduzione di Filippo Beroaldo il Vecchio
Note, Discussioni, Rassegne
CHRISTOPHER KLEINHENZ – ELSA FILOSA, Rassegna critica dell’anno
boccacciano (2013)
p. 165
p. 223
p. 266
Recensioni e Schede
TESTI E STUDI PER EDIZIONI DI TESTI
GIOVAN FRANCESCO STRAPAROLA, The Pleasant Nights, ed. with an introduction by p. 290
D. Beecher, Toronto, University of Toronto Press, 2012, 2 vols, I, viii + 764 pp.;
II, vi + 665 pp. (MICHAEL PAPIO)
VOLUMI E SAGGI
The Decameron. Third Day in Perspective, eds. Francesco Ciabattoni - Pier p. 299
Massimo Forni, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press, 2014,
268 pp. (ERMINIA ARDISSINO)
Giovanni Boccaccio in Europa, Studien zu seiner Rezeption in Spätmittelalter p. 304
und Frü her Neuzeit, Hrsg. Achim Aurnhammer u. Rainer Stillers, Wiesbaden,
Harrassowitz Verlag, 2014 (ALESSANDRA ORIGGI)
IGOR CANDIDO
Boccaccio sulla via del romanzo.
Metamorfosi di un genere tra antico e moderno
Le pagine che seguono rappresentano il primo risultato di un progetto di ricerca più
ampio e ambizioso, che ancora una volta mira, da presupposti rinnovati, a riannodare le
fila interrotte del genere romanzo, dalle antiche origini occidentali, greche e latine, alla
sua rinascita premoderna e massima fioritura moderna, un progetto che potrebbe intitolarsi La preistoria del romanzo. Studi sull’origine e sulla trasmissione silenziosa di un
genere tra Medioevo e Rinascimento. Fondamento di questo studio è la convinzione che
al centro della storia secolare del genere, divenuto la forma letteraria dominante dell’età
moderna e contemporanea, si trovi l’opera del massimo narratore occidentale, Giovanni
Boccaccio, il quale non soltanto sperimentò per primo il romanzo nel volgare di sì, ma
che in quasi tutta la sua produzione volgare si è interrogato, con straordinaria consapevolezza critica e in anticipo sui tempi, sulle potenzialità espressive e di ricognizione intellettuale del genere. Inoltre, come cercherò di dimostrare, fu proprio Boccaccio a
gettare le basi teoriche per l’epocale trasformazione del romance in novel. Al fine di
contestualizzare l’intervento storico del Boccaccio romanziere, converrà offrire qui i
principali lineamenti teorici di questa preistoria del romanzo.
Un importante punto di partenza si trova nella definizione di romanzo (qui già inteso
come novel) come «moderna epopea borghese» («die moderne bürgerlische Epopöe»),1
fornita da Hegel nelle sue Vorlesungen über die Ästhetik. Nella precedente analisi della
struttura comico-narrativa del romanzo d’avventura, il filosofo individuava, nell’era di
transizione alla fine del mondo feudale cristiano, la dissoluzione dall’interno della letteratura cavalleresca sotto l’influsso fortemente innovatore di Ariosto, Cervantes e Shakespeare.2 Nel successivo paragrafo, Das Romanhafte (il romanzesco), egli arrivava poi a
considerare la nascita del romanzo come conseguenza della dissoluzione della forma
d’arte “romantica”.3 Conviene riportare per intero l’argomentazione hegeliana le cui importanti conseguenze ermeneutiche sono state colte solo in parte.
Il romanzesco
In terzo luogo, a questa dissoluzione del romantico nella forma fin qui esaminata, si aggiunge infine il romanzesco nel senso moderno del termine, che è stato preceduto in ordine di
tempo dal romanzo cavalleresco e da quello pastorale. Questo romanzesco è la cavalleria presa
di nuovo sul serio, divenuta un contenuto reale. L’accidentalità dell’esistenza esteriore si è trasformata in un ordinamento stabile e sicuro della società civile e dello Stato, cosicché ora polizia, tribunali, esercito, governo, hanno preso il posto dei fini chimerici che i cavalieri
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perseguivano. Perciò si trasforma anche la cavalleria degli eroi che agiscono nei romanzi moderni. Come individui con i loro fini soggettivi dell’amore, dell’onore, dell’ambizione o con i
loro ideali di un mondo migliore, essi stanno di contro a quest’ordine sussistente ed alla prosa
della realtà che pone loro difficoltà da ogni parte. Allora i desideri e le esigenze soggettive si
innalzano smisuratamente in questa opposizione. Infatti ognuno trova dinnanzi a sé un mondo
stregato, per lui del tutto inappropriato, che deve combattere perché gli si oppone e, nella sua
intrattabile stabilità, non cede alla sua passione, ma gli impone come ostacolo la volontà di un
padre, di una zia, i rapporti sociali ecc. Questi nuovi cavalieri sono in particolare dei giovani
che devono scontrarsi con il corso del mondo, il quale si realizza al posto dei loro ideali, e che
ritengono una disgrazia che vi siano famiglia, società civile, Stato, leggi, professioni ecc., perché queste sostanziali relazioni della vita si oppongono crudelmente con le loro barriere agli
ideali e al diritto infinito del cuore. Si tratta dunque di aprire una breccia in quest’ordine delle
cose, di mutare il mondo, migliorarlo, oppure di tagliarsi a suo dispetto per lo meno una fetta
di cielo sulla terra: cercare e trovare la propria fanciulla, quale deve essere, e toglierla, portarla
via, strapparla ai suoi cattivi parenti o ad altre relazioni nefaste. Ma queste lotte nel mondo
moderno non sono altro che l’apprendistato, l’educazione dell’individuo alla realtà esistente,
ed acquistano cosí il loro vero senso. Infatti la fine di tale apprendistato consiste nel fatto che
il soggetto mette giudizio, tende a fondersi, insieme con i suoi desideri e opinioni, con i rapporti
sussistenti e la loro razionalità, si inserisce nella concatenazione del mondo e vi acquista un
posto adeguato. Per quanto uno possa essere venuto a lite con il mondo ed esserne stato respinto, alla fine per lo piú trova la fanciulla adatta e un posto qualsiasi, si sposa e diviene un
filisteo come gli altri: la donna si occupa del governo della casa, i figli non mancano, la moglie
adorata che prima era l’unica, un angelo, si comporta piú o meno come tutte le altre, l’impiego
dà fatica e noia, il matrimonio le croci domestiche, e insomma subentra, come d’uso, l’amaro
risveglio. Qui vediamo il medesimo carattere dell’avventurosità, solo che ora questa ritrova il
significato giusto ed il fantastico vi deve sperimentare la necessaria correzione.4
Nel capitolo Della verità dell’invenzione de La prosa d’arte (1961), Viktor Šklovskij
offre un interessante commento a questa pagina hegeliana. Se il filosofo si accosta qui
alla sostanza stessa del problema da lui esaminato, in definitiva non fa che dichiararlo insolubile. Se, come vorrebbe Hegel, la vita in quanto sostanza della scrittura romanzesca
non si arresta mai, ma si trasforma e si adatta per superare il limite imposto dalle convenzioni sociali della nuova borghesia, di fatto si arresta come ricerca di un ideale di vita.
Per il critico russo, invece, il processo così ben descritto da Hegel può avere un esito diverso: il nuovo tema dell’arte sarà dato dalle condizioni sociali e dalla posizione della
persona che appartiene a una nazione oppressa e che reagisce allo stato delle cose. E se
il desiderio dell’uomo di lottare contro la prosa della vita per la sua poesia non cessa, le
soluzioni più consuete (come il classico epilogo del matrimonio borghese) divengono
presto le più inverosimili attirandosi l’ironia dei narratori. Il realismo della vita tradotto
nella nuova letteratura borghese aveva così la meglio sulla teoria estetica.5 In un caso e
nell’altro, si assisteva all’ennesima metamorfosi del romanzo.
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CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo
Questa pagina di Hegel e il commento di Šklovskij mettono entrambi in evidenza, da
prospettive diverse, la continuità tra il romanzo cavalleresco e quello moderno. Soltanto
negli ultimi vent’anni, tuttavia, ci si è soffermati sul problema della continuità storica del
genere con i modelli antichi, medievali e cavallereschi. Lavori di ampio respiro come quelli
di Margaret Anne Doody, The True Story of the Novel (1996), e Steven Moore, The Novel.
An Alternative History (2010), e ancor di più la serie dei cinque volumi einaudiani dedicati
al romanzo, a cura di Franco Moretti, sono esempi paradigmatici di questo nuovo filone
della ricerca che del problema del romanzo mira a offrire una spiegazione poligenetica.6
Si reagiva sotto traccia al modello critico dominante, cioè quello che collega la nascita
del romanzo al sorgere della borghesia europea e all’impatto che questo ha avuto sullo
sviluppo delle tradizioni letterarie europee e particolarmente quella dell’Inghilterra del
Settecento. Questo epocale cambiamento storico-sociale ha indotto gli interpreti a riconoscere un legame genetico tra il romanzo moderno (novel) e i primi capolavori riconosciuti come appartenenti al genere, i romanzi inglesi del Settecento. Sarà qui sufficiente
prendere in considerazione il classico studio di Ian P. Watt su Defoe, Richardson e Fielding, che continua a rappresentare un modello interpretativo forte, soprattutto nel mondo
di cultura anglosassone. The Rise of The Novel (1957) si apre con una serie di domande
che ci interessano da vicino:
Il romanzo è una forma letteraria nuova? E, se supponiamo, come generalmente avviene che lo
sia, e che sia stato iniziato da Defoe, Richardson e Fielding, in cosa differisce dalle narrazioni in
prosa del passato, da quelle della Grecia, ad esempio, o del Medioevo o della Francia del diciassettesimo secolo? E quale può essere la ragione di queste differenze e la causa per cui apparirono
in un certo tempo e luogo?7
Watt considera non casuale la comparsa sulla scena letteraria dei primi tre romanzieri
inglesi nell’arco di una sola generazione, attribuendo la novità delle loro opere alle favorevoli condizioni sociali e culturali del tempo.8 Per il critico, il romanzo è la forma letteraria
che riflette con maggior pienezza l’innovativo riorientamento individualista della filosofia
cartesiana, secondo la quale la ricerca della verità è totalmente indipendente dalla tradizione
del pensiero precedente. Questa la ragione per cui la cultura del romanzo ha posto un valore
senza precedenti sull’originalità e sull’esperienza dell’individuo. Watt crede pertanto che
il romanzo non dovrebbe essere valutato, come ogni altro genere, secondo l’abilità dell’autore nel maneggiare appropriate convenzioni formali e che, in definitiva, la sua mancanza di una forma stabilita sia il prezzo che dobbiamo pagare per il suo realismo.9 Nel
Settecento il declino della visione idealistico-platonica del cosmo è all’origine in letteratura
di un nuovo interesse per la rappresentazione realistica della vita, che Watt denomina formal realism. Questa rappresentazione è qualcosa di diverso da quella tipica delle precedenti
finzioni narrative che ritraevano gli aspetti più bassi della vita e che sono generalmente
incluse nella preistoria della forma romanzo. Il realismo del romanzo, in ultima analisi,
non risiede nel tipo di vita che rappresenta, ma nel modo in cui la rappresenta.10
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Le domande e gli argomenti avanzati da Watt ci interessano direttamente. Che il romanzo sia nato prima del Settecento è stata la risposta che alcuni interpreti hanno dato a
The Rise of the Novel, tra i quali Margaret Anne Doody fa risalire l’invenzione del genere
a duemila anni fa.11 Ma il saggio di Watt va forse considerato da una diversa prospettiva.
Due sono qui le principali caratteristiche costitutive dell’identità del genere in quanto
prodotto della nuova cultura settecentesca: la nozione introdotta di formal realism adottato
dai romanzieri inglesi e la relazione tra scrittura e ricezione che lega questi al nuovo pubblico borghese. Sulla prima, che rappresenta una consapevole scelta autoriale, ritornerò
alla fine di questo saggio cercando di mostrare come il tipo di realismo identificato da
Watt sia già ben conosciuto e usato da Boccaccio e come il suo pubblico “borghese”
(come quello di Apuleio del resto) non differisse così tanto,12 a cominciare dall’ideologica
apertura alle lettrici, da quello che avevano in mente i nuovi scrittori realisti del Settecento.
Della seconda conviene parlare subito data la stretta rilevanza teorica per lo studio dell’evoluzione della forma romanzo.
Se il paradigma ermeneutico di Watt può dar conto del romanzo e della sua lettura
pubblica come fenomeno sociale, esso non ci dice molto sulle origini del genere nel contesto della tradizione letteraria occidentale (prendendo qui il nostro punto di partenza dal
romanzo greco-latino), né da una prospettiva della storia delle idee. Come chiarito, del
resto, ciò avviene intenzionalmente perché si ipotizza che il romanzo moderno sia slegato
da tradizioni e modelli. Watt, in altre parole, giustifica la nascita del romanzo basandosi,
oltre che sulla scoperta del moderno realismo, sull’apprezzamento delle più fortunate
opere del Settecento inglese, ovvero su quella che in filologia si chiama “tradizione vivente” o “tradizione caratterizzante”.13 Benché in alcuni casi la tradizione caratterizzante
può fornire all’interprete prove di fatti letterari, in altri casi può indurre al fatale rovesciamento della relazione storica tra causa ed effetto. In altre parole, rilevare l’apprezzamento di una certa opera letteraria, o d’arte in genere, da parte di un certo pubblico in un
certo tempo non ci dice necessariamente come e per quale pubblico fu realmente concepita
e realizzata. Nel secondo Novecento, per fare un esempio per noi rilevante, proprio l’interpretazione del Decameron è stata in parte condizionata da questo rovesciamento del
rapporto tra causa ed effetto: il fatto che l’opera sia stata apprezzata nel contesto borghese-mercantile del tardo Medioevo non dimostra necessariamente che sia stata scritta
per quel determinato pubblico o che rifletta l’ideologia di quel determinato ceto o gruppo
sociale o, meno che meno, che gli intenti artistici dell’autore siano quelli che il pubblico
si sarebbe aspettato.14
Spostando l’attenzione dal pubblico dei lettori all’immaginario inventivo autoriale,
non dovremo dimenticare che la letteratura è (per lo più) fatta di letteratura e pertanto la
spiegazione di fatti letterari dovrebbe ricercarsi (anche, se non primariamente) nel vasto
regno della tradizione letteraria.15 Come osserva Thomas G. Pavel, infatti, la preistoria
del genere non dovrebbe essere vista semplicemente come mera preparazione al fiorire
del romanzo nel Settecento, come chiarito in modo significativo dall’analisi della stessa
tecnica compositiva di uno dei capifila della tradizione inglese:
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Samuel Richardson, scrittore autodidatta, si rende conto che le caratteristiche migliori degli antichi
sottogeneri narrativi possono essere mescolate. Gli eroi sublimi e le molteplici avventure del romanzo greco, le umili origini sociali dei personaggi picareschi e gli eventi drammatici della novella possono essere combinati in un’unica narrazione – accattivante come un romanzo antico,
fedele alla vita quotidiana come una narrazione comica e pregnante come una novella. In Pamela
il personaggio principale è una giovane donna la cui virtù e capacità di resistenza di fronte al pericolo sembrano uscire da un antico romanzo greco. Pamela, tuttavia, conduce una vita modesta
e del tutto ordinaria nella provincia inglese. La sua straziante condizione di serva perseguitata da
un ignobile padrone, inoltre, si adatterebbe benissimo a una novella rinascimentale. Mescolando
tali elementi, Richardson è in grado di edificare i lettori senza doverli trasportare in un regno
completamente inverosimile, di raccontare una storia avvincente come una novella ed estesa
come un romanzo picaresco e, cosa fondamentale per la sua epoca, di mostrare la parità morale
delle persone a al di là dalla loro posizione sociale.16
Inoltre, che la possibilità di fornire spiegazioni basate sul contesto storico e spiegazioni
di carattere letterario non implichi per un autore contraddizione, e dunque una necessaria
scelta di campo, è nozione intuitiva, ma finemente chiarita ancora da Hegel nella sua trattazione del concetto di originalità:
Nel romanzo, che si svolge in una determinata epoca prosaica, certamente tali cose [scil. tratti singoli che non scaturiscono dal contenuto] sono maggiormente ammissibili, specialmente quando
si procede con l’abilità e la grazia di un Goethe. Inoltre un’opera d’arte non può liberarsi completamente della cultura del proprio tempo; ma una cosa è riflettere tale cultura, un’altra ricercare e
riunire esteriormente i materiali in modo indipendente dal contenuto vero e proprio della rappresentazione. L’originalità autentica dell’artista e dell’opera d’arte consiste solo nell’essere animati
dalla razionalità del contenuto in se stesso vero. Se l’artista si è interamente appropriato di questa
ragione oggettiva, senza mescolarla e renderla impura dall’interno e dall’esterno con particolarità
estranee, solo allora egli dà nell’oggetto configurato anche se stesso nella sua più vera soggettività,
che vuole essere solo il vivente punto di passaggio all’opera d’arte in se stessa conchiusa. Infatti
in ogni vero poetare, pensare ed agire, la libertà autentica fa agire il sostanziale come una potenza
in sé, che al contempo è tanto la potenza più intima del pensiero e della volontà soggettiva, che
nella conciliazione completa di entrambi non può più restare alcun dissidio. Così l’originalità dell’arte si alimenta certo di ogni particolarità accidentale, ma l’assorbe solo perché l’artista possa
seguire interamente i tratti e lo slancio dell’ispirazione del suo genio riempita soltanto dall’argomento, e, invece del capriccio e di un vuoto arbitrio, possa rappresentare il suo vero Io nel suo argomento realizzato secondo verità. Non avere maniera fu sempre l’unica grande maniera, e solo
in questo senso sono da chiamare originali Omero, Sofocle, Raffaello, Shakespeare.17
Quest’importante principio di estetica offre uno dei fondamenti metodologici alla base
di uno studio sulla preistoria del romanzo che miri a esplorare sia il contesto storico sia
la tradizione letteraria all’interno dei quali un’opera letteraria è stata prodotta. Riferendoci
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qui propriamente all’analisi entro i parametri della tradizione letteraria, quando ci occupiamo della preistoria del romanzo, così come delle sue moderne ramificazioni, una delle
questioni più rilevanti è quella molto dibattuta della definizione del genere moderno in
relazione all’antico, o, da una diversa prospettiva, del romanzo antico come predecessore
del moderno. La difficoltà di questa ricerca ermeneutica deriva, credo in gran parte, dal
fatto che i filologi antichi non abbiano mai fornito una chiara definizione del romanzo
antico in quanto genere. La loro descrizione di un genere abbandonato e allevato dalla
retorica (Šklovskij),18 privo di una sua forma propria e dipendente da altri generi che avevano già stabilito la propria reputazione, ha fatto sì che sia molto difficile per il moderno
lettore stabilire un saldo collegamento storico tra il romanzo moderno e l’antico.19
Per questa ragione, l’analisi comparativa del genere romanzo con gli altri generi in
competizione sarà un necessario punto di partenza, laddove di particolare interesse si mostrano, anche nel caso di Boccaccio, le affinità tra romanzo ed epica. Ben. E. Perry ha
dato una suggestiva definizione del romanzo come «the latter-day epic for Everyman»,
arrivando a considerare i due generi come sostanzialmente identici, con l’unica eccezione
rappresentata dal diverso pubblico cui questi in periodi storici diversi si rivolgono.20 Allo
stesso modo, nella letteratura francese medievale chiara è la filiazione del romanzo, e
nello specifico dei romans d’antiquité (Roman de Thèbes, 1152-1154, Roman d’Énéas,
1156, Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure, 1160-1165), dal poema epico secondo
i modelli dell’Eneide di Virgilio e della Tebaide di Stazio, e la stessa espressione mettre
en roman deriva dall’impresa letteraria di tradurre, volgarizzare.21 Se Hegel aveva ragione
a dire che Ariosto e Cervantes, così come Shakespeare da una diversa prospettiva, portano
a compimento il processo storico di dissolvimento dell’epica cavalleresca, l’iniziatore di
questo ideale canone è Apuleio di Madaura, il cui romanzo, unico modello antico arrivato
sino a noi completo e nella sua forma originale, assunse lo stesso compito in relazione
all’epica antica. L’Asino d’oro, rappresentando il viaggio di Lucio-asino come parodia
dell’Odissea omerica (II 14), ha aperto la via all’invenzione del genere moderno, prima
del riemergere dei cinque antichi romanzi greci in Occidente. Che il romanzo di Apuleio
svolga un ruolo decisivo nella costruzione identitaria del genere moderno è nozione intuitiva, ma credo debba ancora essere spiegato quale sia tale ruolo sul piano storico-letterario, nel tentativo di chiarire come sin dalle origini questo “supermodello” sia stato in
grado di dare forma e stile al genere romanzo e quali relazioni il genere così costituito
intrattenga con gli altri generi dal tardoantico all’età moderna. Non è un caso, allora, che
molte delle caratteristiche del romanzo moderno si trovino in nuce già nelle Metamorfosi
apuleiane, per cui sarà sufficiente richiamare qui le più rappresentative, che sono, non a
caso, anche le più influenti nella formazione del Boccaccio narratore: una struttura narrativa che alterna le esperienze del personaggio alle sue riflessioni; la parodia del poema
epico; l’inserimento di racconti autonomi o episodi (le fabulae milesiae) all’interno della
generale struttura narrativa; il plurilinguismo e l’uso espressivistico del linguaggio. Accanto a quello apuleiano si colloca poi un altro romanzo che ci è pervenuto integro, il più
diffuso e influente nel Medioevo, l’Historia Apollonii regis Tyrii, testo che rappresenta
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probabilmente l’epitome di un originale greco perduto e forse risalente al II-III secolo.22
Soprattutto sul secondo di questi due autorevoli testimoni del genere antico, entrambi ben
noti a Boccaccio, dovremo soffermarci nelle pagine che seguono.
Piero Boitani ha scritto giustamente che «sin dalle sue prime esperienze letterarie, il
Boccaccio mostra per il romanzo una predilezione particolare».23 La sperimentazione sul
romanzo si inserisce nell’ambizioso progetto boccacciano di dotare la letteratura italiana
dei modelli dei generi letterari ancora mancanti,24 ma costituisce anche uno dei contributi
più rilevanti offerti dal Certaldese alla tradizione della narrativa occidentale. In altra sede
ho cercato di mostrare come l’ordinamento delle opere di Boccaccio secondo la tassonomia
classica metta al centro del nuovo canone l’imitazione del cosiddetto “romanzo antico”, e
come verso questo centro ideale convergano tutte le precedenti sperimentazioni letterarie
e come da questo centro dipendano in parte le successive.25 Una veloce ricognizione delle
opere mostrerà come quasi tutta l’attività scrittoria di Boccaccio fino al Decameron si interroghi di fatto sulle pressoché infinite possibilità inventive di questo genere senza identità,
cioè senza una forma e contenuti specifici, senza una tradizione riconosciuta. Nel Filocolo
e nel dittico di Filostrato e Teseida, Boccaccio dialoga rispettivamente con i modelli del
romanzo greco, dell’epica latina e del roman d’antiquité, modelli differenti che rappresentano tappe successive di una storia poligenetica del genere romanzo. Da queste esperienze egli muove all’invenzione del romanzo psicologico con la Fiammetta (sulla scorta
dell’Eroidi ovidiane) e della moderna forma narrativa decameroniana. Lasciando per il
momento da parte Filostrato e Teseida, intendo tracciare la parabola evolutiva dell’arte
narrativa boccacciana tra Filocolo e Decameron, attraversando quella nuova configurazione “realistica” della Fiammetta che di lì a poco condurrà al capolavoro.26
Sin dagli anni giovanili Boccaccio imita il modello del romanzo greco nel Filocolo,
come evidente nella scelta del motivo dell’amore di due giovani alla prova di ostacoli e
peripezie, così come nella predilezione per inserti fabulistici non sempre in stretta relazione con la trama principale (si pensi soltanto alle Questioni d’amore del libro IV). Se
si può concordare con l’ultimo editore del testo, secondo il quale «non è corretto leggere
il Filocolo come un romanzo moderno», laddove «la dimensione della vicenda coerente
o realistica è un’illusione ottica», un punto nodale su cui dovremo ritornare, è forse riduttivo considerare l’opera come un semplice «centone di tipo medievale, la cui ossatura
ricorda sia l’impianto dei romanzi d’avventura e d’amore dell’epica due e trecentesca di
estrazione europea, sia le enciclopedie e i florilegi di cultura scolastica in cui si stipano
con fonti classiche aneddoti, leggende, proverbi dell’età di mezzo».27 Una definizione più
aderente alla natura letteraria dell’opera mi sembra quella secondo cui «il Filocolo, attraverso uno sviluppo elegiaco (innamoramento, separazione, lontananza, ecc.) s’impenna,
lungo le peripezie di un romanzesco d’impronta alessandrina, verso responsabilità d’ordine epico».28 Del resto, come ci ha insegnato Ernesto Parodi,
lo spirito del Boccaccio fu venato d’alessandrinismo fin dalla nascita, e l’amore del peregrino,
del lussuoso, del complicato, del sovrabbondante si mescolava in lui in indissolubile unione col
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più puro e schietto realismo, minacciando sempre di trionfarne. Sulla sua anima borghese-mercantile di fiorentino un’altra misteriosamente se ne accendeva di un Ovidio-Apuleio.29
E se, come ha colto infine Giorgio Padoan, «Ovidio e Apuleio innescarono [in Boccaccio] il gusto di racconti romanzeschi»,30 sarà il dialogo segreto tra le due anime del
Certaldese a condurre il lettore sino alle soglie del romanzo moderno con la scrittura del
Decameron, che, come vedremo, di alcuni nuclei inventivi del Filocolo offriva non a caso
una nuova configurazione in chiave realistica.
La proposta di leggere il Filocolo come romanzo “alessandrino” ci aiuta a intendere
meglio l’enigmatico finale dell’opera allusivo alla stesura delle vicende dei due amanti
da parte del greco Ilario.31 «Il quale prima in quella [Roma] non giunse, che con ordinato
stile, sì come colui che era bene informato, in greca lingua scrisse i casi del giovane re»
(V 96, 3). Non credo che il passo, come autorevolmente sostenuto,32 intenda ricalcare
l’espressione apuleiana «fabula graecanica incipimus» (Met. I 1), ma l’ipotesi critica, se
non vera, è certo ben trovata: è probabile infatti che Boccaccio voglia qui alludere, se
non direttamente ad Apuleio, a un modello di narrazione tipica del romanzo greco, da cui
discende anche l’Asino d’oro. Lo conferma la scelta da parte di Boccaccio di uno stile
medio, caratteristico della prosa romanzesca che nel Filocolo è definita, in contrasto con
quello sublime dell’epica (tanto di Virgilio, Lucano e Stazio quanto di Dante), come la
«mezzana via» della letteratura nuova (V 97, 7).33 Ma il passo del Filocolo corrisponde
all’espediente tipico del romanzo di autenticazione della narrazione attraverso un collegamento diretto a materiale di natura autobiografica34 e per questa ragione, oltre che per
la maggiore aderenza dei due testi, rimanda piuttosto a una fonte non ancora segnalata,
la chiusa dell’Historia Apollonii nella redazione B: «Casus suos suorumque ipse descripsit
et duo volumina fecit: unum Dianae in templo Ephesiorum, aliud in bibliotheca sua exposuit».35 Se, come credo, è questa la fonte del passo, significa che Boccaccio non ignorava che l’Historia molto probabilmente altro non era che un’epitome di un romanzo
greco andato perduto. Di diversa natura, e allusivo a un antecedente epico, è il riferimento
all’«istoria antica» di Tes. I 2, 2, che a norma della relativa glossa «non è stata di greco
translatata in latino». Oltre a Stazio e al Roman de Thèbes, il passo potrebbe alludere al
bizantino Digenis Akritas.36 Se Boccaccio era a conoscenza delle correlazioni storiche
esistenti tra epica e romanzo, a lui si deve il recupero della forma propria del romanzo
greco e la distinzione, sia nei contenuti sia nello stile, tra i due possibili modelli. Una distinzione che, rispetto a un’idea ancora in formazione del genere, veniva a tradursi nella
differenza tra un tipo di narrazione romanzesca in prosa e una epico-cavalleresca in versi,
la cui doppia sperimentazione veniva condotta nello stesso novero d’anni e che sarà all’origine della costituzione di due fortunati generi nella tradizione letteraria italiana.37
Entrambe queste tipologie narrative venivano infine superate con l’invenzione di un
genere nuovo tratto dall’Eroidi ovidiane, rappresentato da quell’Elegia di Madonna Fiammetta in cui invano si cercheranno «favole greche ornate di molte bugie né troiane battaglie sozze per molto sangue, ma amorose, stimolate da molti disiri» (Prologo 3). Per
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CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo
segnalare la novità tematica dell’opera, Boccaccio rifiuta i precedenti modelli romanzeschi in nome di una nuova forma di realismo psicologico che oblitera l’azione narrativa,
sostituendola con l’ipertrofico soliloquio della protagonista che prende coscienza della
propria condizione di donna abbandonata. Un residuo di narrazione tuttavia riaffiora, in
modo significativo, nel ricordo dell’innamoramento dei protagonisti, tempo memoriale
in cui, non a caso, Boccaccio confina metanarrativamente anche il contenuto erotico dell’ormai non più attuale modello inventivo del romanzo greco.38 Gli stessi nomi di Fiammetta e Panfilo sono epiteti fittizi che rimandano allo stesso universo di riferimento
letterario, così come i travestimenti fisici e retorici del lusus amoris:
Oimè! quante volte già in mia presenzia e de’ miei più cari, caldo di festa, di cibo e d’amore, fingendo Fiammetta e Panfilo essere stati greci, narrò egli come io di lui e esso di me primamente
stati eravamo presi, con quanti accidenti poi n’erano seguitati, e a’ luoghi e alle persone pertinenti
alla novella dando convenevoli nomi! Certo io ne risi più volte, e non meno della sua sagacità,
che della semplicità degli ascoltanti; e tal volta fu ch’io temetti che troppo caldo non trasportasse
la lingua disavedutamente ove essa andare non voleva; ma egli, più savio ch’io non pensava,
astutissimamente si guardava dal falso latino. O pietosissime donne, che non insegna Amore a’
suoi suggetti, e a che non gli fa egli abili ad imparare? Io, semplicissima giovane e a pena potente
ad isciogliere la lingua nelle materiali e semplici cose tra le mie compagne, con tanta affezione i
modi del parlare di colui raccolsi, che in brieve spazio io avrei di fingere e di parlare passato ogni
poeta; e poche cose furono, alle quali, udita la sua posizione, io con una finta novella non dessi
risposta decevole (I 23, 7-9).
I due amanti alla corte angioina, come già il Florio-Filocolo delle Questioni d’amore,39
si fingono greci per narrare il loro amore come nei romanzi alessandrini, che scopriamo
essere allora quelle «favole greche ornate di molte bugie», le stesse fabule milesiae di cui
erano intessuti tanto i romanzi greci quanto l’incredibile storia di Lucio asino. I numerosi
«accidenti», i nomi fittizi dati a luoghi e persone, l’inserto di finte novelle sono gli ingredienti del romanzo antico40 e confermano come nella Fiammetta Boccaccio intendesse
distaccarsi da quel preciso modello. È interessante notare, a questo punto, che il rifiuto
delle favole greche in quanto genere e la creazione del nuovo realismo psicologico siano
fatti derivare dalle conseguenze della stessa finzione letteraria: il passo riflette infatti
l’amara consapevolezza della protagonista che il lusus greco metaforicamente altro non
era che la finzione dei sentimenti da parte dell’amato. Il genio boccacciano trasforma così
la lettera della storia di due amanti in un genere nuovo in parte estraneo agli stessi modelli
antichi, con l’eccezione dell’onnipresente Ovidio a confermare la regola. All’interno del
predecameroniano circolo femminile della corte angioina, il novellare offre a Fiammetta
il sollievo di una temporanea evasione dal rovello dei ragionamenti amorosi, un’evasione
garantita da «storie diverse, le quali quanto più erano di lungi dal vero, come il più così
fatte genti le dicono, cotanto parea ch’avessono maggiore forza a cacciare i sospiri e a
recare festa» (III 11, 1). Se la letteratura ha qui funzione di terapia per le intendenti, le in16
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CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo
namorate deluse come Fiammetta, nel Decameron il piacere della narrazione si farà profilassi amorosa, ovvero piacere che nasce al contrario dal racconto realistico, come prescrive Orazio (Ars poetica, vv. 335-340) e come enunciato, non a caso, dal personaggio
che porta il nome di Fiammetta: «il partirsi dalla verità delle cose state nel novellare è
gran diminuire di diletto negl’intendenti» (Dec. IX 5, 5).41
Ora, se è corretto ipotizzare nell’Elegia una presa di distanza dai modelli antichi dell’epica e del romanzo, è più che probabile, e coerente con il progetto di creazione di un
nuovo canone in volgare di sì, che con l’uso di «favole greche» e «troiane battaglie sozze
per molto sangue» Boccaccio intenda riferirsi rispettivamente al Filocolo e al Filostrato.42
Nel primo, come nell’Elegia, troviamo una programmatica dichiarazione di estraneità al
contenuto epico: argomento saranno allora non «i crudeli incendimenti dell’antica Troia,
né le sanguinose battaglie di Farsalia», ma «i pietosi avvenimenti dello innamorato Florio
e della sua Biancifiore» (I 2, 3). Questi avvenimenti costituiscono la trama canonica del
romanzo greco e pertanto i «nuovi versi» del Filocolo devono rappresentare proprio le
«favole greche» condannate nella Fiammetta.43 Se la sperimentazione romanzesca di Boccaccio muove dall’epica del roman d’antiquité al modello del romanzo greco al romanzo
elegiaco, si potrà forse trarre un ulteriore argomento a favore dell’anteriorità del Filostrato
rispetto al Filocolo. La sequenza di ideazione e scrittura delle tre opere sarebbe allora Filostrato, appartenente per li rami romanzi al genere epico, Filocolo, ispirato al genere romanzesco greco e arricchito di inserti elegiaci sulla scorta del modello ovidiano, e infine
la Fiammetta, che fonda il nuovo romanzo elegiaco. Con l’ultimo approdo, che sancisce
il distacco dal modello greco, Boccaccio compie il primo ma decisivo passo nella trasformazione del romance in novel, sostanzialmente acquisita nella creazione del realismo decameroniano, ma che ancora oggi si considera scoperta della moderna estetica letteraria.
Se il romanzo greco non costituisce per il Filocolo soltanto un generico modello di riferimento, è doveroso chiedersi su quali testi Boccaccio si sia formato un’idea del romanzo
antico e se qualcuno di questi possa considerarsi una fonte diretta o indiretta dell’opera.
Escludendo a rigore i cinque romanzi dell’antica tradizione greca, la cui trasmissione è
più tarda, l’Asino d’oro può aver fornito indicazioni soprattutto formali, laddove una salda
conoscenza e consapevole imitazione del testo apuleiano è testimoniata con certezza soltanto nelle tre epistole latine del 1339 e nel Teseida; senza contare che il Filocolo corrisponde solo in parte all’antecedente apuleiano, laddove quest’ultimo inclina verso una
rivisitazione ironica della tradizione del romanzo greco cui già guarda in retrospettiva.44
Non di meno, i lontani echi apuleiani del Filocolo meritano certamente attenzione e si
dovrà verificare in via preliminare se si tratta di prelievi diretti dal testo dell’Asino d’oro
o di allusioni mediate, se è vero, secondo lo studio delle fonti di Joachim H. Reinhold, che
il Floire sarebbe una rielaborazione delle Etiopiche e dell’Historia, in combinazione con
materiali tratti dal libro di Ester e dalla fabula di Amore e Psiche.45 Se consideriamo inoltre
che le relazioni tra Etiopiche e Historia precedono la scrittura del Floire46 e che l’Historia
era ben nota a Boccaccio, un esame di questo tipo potrebbe forse arrivare anche a spiegare
le certo sorprendenti affinità tematiche tra le Etiopiche e il Filocolo.47
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CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo
Nel contempo, si dovrà registrare l’insufficiente attenzione riservata dagli studiosi all’altro testimone sopravvissuto al naufragio del genere antico, ampiamente circolante nel
Medioevo e noto a Boccaccio: quell’Historia Apollonii regis Tyri che, come probabile
epitome di un perduto antecedente del romanzo greco, ne conserva tutti i tratti caratteristici. Rilevante è la presenza dell’Historia nel Filocolo, se la sua struttura
non solo costituì il ‘prototipo’ su cui si modellò il romanzo francese, ma esercitò anche una funzione di tramite fra la cultura classica e l’orizzonte medievale, trasmettendo il pattern narrativo
del romanzo erotico greco al Conte de Floire et Blancheflor e alla chanson de geste dedicata a
Jourdain de Blaye.48
Difficile pensare che a un orecchio come quello di Boccaccio, così sensibile a risonanze ed echi letterari, siano sfuggiti i possibili prestiti dell’Historia al Floire (la finta
tomba dell’eroina, il nome di Licoris, ecc.) ed è certo ipotesi affascinante quella secondo
cui nel Filocolo l’uso di entrambe le fonti miri a riannodare le fila interrotte della tradizione del romanzo greco. La sequenza narrativa che descrive i primi studi di Florio e
Biancifiore alla scuola del maestro Racheo rimanda con ogni probabilità all’antecedente
di Tarsia avviata allo studio delle arti liberali con la figlia di Dionisiade e Stranguillione,
cui la stessa Tarsia è stata affidata dopo la presunta morte della madre. Come Biancifiore,
Tarsia è vittima dell’odio della matrigna la quale riuscirà, se non a ucciderla, ad allontanarla e a metterne a repentaglio l’incolumità. I paralleli si moltiplicano poi nelle peripezie e agnizioni tipiche del romanzo antico. Rimandando ad altra sede un esame
sistematico della presenza dell’Historia nel Filocolo, converrà concentrarsi su alcuni
nuclei tematici che dalle due opere migrano verso il Decameron, tenendo sempre a mente
quanto la struttura inventiva e compositiva del Centonovelle dipenda anche dall’imitazione delle Metamorfosi di Apuleio.
Dei caratteri distintivi del romanzo antico il Decameron condivide con il Filocolo la
strategia narrativa che alterna una trama principale, la cosiddetta cornice o novella portante, agli inserti fabulistici. La grande novità della cornice moltiplica i livelli di significazione all’interno dell’opera, venendo a costituire così l’elemento decisivo dell’alchimia
romanzesca, come chiarito dalla felice definizione datane da Austin Warren (ma spesso
erroneamente attribuita a René Wellek): «the frame-story enclosing other stories is, historically, a bridge between anecdote and novel».49 Che Boccaccio sia stato poi il padre
della novella o meno,50 le Metamorfosi di Apuleio rappresentavano allora un possibile
modello per l’innovativa struttura decameroniana, nella misura in cui la narrazione di
tipo milesio intrecciava fabulae anche molto diverse tra loro (i racconti di Aristomene e
di Telifrone, la favola di Amore e Psiche) all’interno di uno stesso racconto-cornice che
garantiva dell’unità narrativa dell’opera. I primi a notarlo devono essere stati Filippo Beroaldo nel suo commento ad Apuleio e Paolo Giovio nella sua biografia di Boccaccio inclusa nell’Elogio degli uomini illustri: da entrambi le novelle decameroniane sono
considerate come appartenenti allo stesso genere delle milesie, come provano le due storie
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CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo
d’adulterio dell’Asino d’oro che offrono la materia a Dec. V 10 e VII 2.51 Del genere narrativo milesio Apuleio offriva un manifesto nell’appello al lettore che apre l’opera: «At
ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram auresque tuas benivolas lepido susurro permulceam» (I 1); un passo che Boccaccio glossava nel codice apuleiano Laur.
29.2 («a mileto insula milesius», c. 24vb) verso la fine degli anni Trenta.52 Ma Apuleio
poteva offrire anche un interessante modello plurilinguistico, in virtù del quale, come
suggerito da Erich Auerbach,
il livello stilistico del Decamerone ricorda molto da vicino l’antico genere che gli corrisponde,
la fabula milesiaca. Questa non è poi cosa sorprendente, poiché la posizione dello scrittore riguardo al suo oggetto, e il ceto a cui l’opera è destinata, si corrispondono quasi perfettamente
nelle due epoche.53
Un modello di linguaggio e un pubblico che giocheranno un ruolo decisivo nella nascita del romanzo moderno, a dimostrazione dell’esistenza di forti linee di continuità tra
il romanzo antico e quello moderno, la cui sopravvivenza è stata garantita dall’arte narrativa di Boccaccio.
Viktor Šklovskij e Carol Gesner hanno indicato paralleli tematici tra i romanzi antichi
pervenutici e le novelle della Seconda e della Quinta Giornata soprattutto,54 laddove, non
a caso, risultano ben più stringenti quelli che presuppongono una conoscenza diretta dell’Asino d’oro di Apuleio e dell’Historia Apollonii, conoscenza che Boccaccio ebbe certamente. Ho già avuto modo di osservare come il primo vero soggetto narrativo del
Centonovelle sia il motivo ispiratore della Seconda Giornata, la fortuna, tema caro sia al
mondo classico sia a quello medievale, laddove la lettura datane da Boccaccio inclini decisamente verso la concezione classica.55 Da una simile scelta consegue anche l’orientamento dell’inventio verso il romanzo antico, primo modello narrativo e inesauribile
serbatoio di motivi e di possibili variazioni tematiche. Per il furto nella tomba della II 5
(Andreuccio da Perugia) e per le (dis)avventure mediterranee della II 7 (Alatiel), Vittore
Branca rimanda, giustamente con riserva, all’Abrocome e Anzia di Senofonte Efesio, «una
delle “favole greche” menzionate nella Fiammetta?»; nella struttura narrativa della II 10
(Bartolomea e Paganino) Nella Giannetto ha visto un puntuale rovesciamento parodico
degli schemi del romanzo antico avanzando paralleli con il plot del Cherea e Calliroe di
Caritone.56 Anche in un simile esame, però, conviene partire dall’ipotesi più economica
e cioè che esista una fonte latina intermedia di sicuro nota a Boccaccio. Le prime due novelle, come ho mostrato altrove, derivano molti elementi dall’Asino d’oro e la II 7 può
essere a ragione considerata un rovesciamento parodico della favola di Amore e Psiche.57
Ma la tessitura della novella rimanda anche all’Historia, che a sua volta mostra evidenti affinità sia con la fabula apuleiana (l’incipit ne è quasi una trascrizione letterale)
sia con il romanzo di Senofonte Efesio.58 I travagliati itinerari mediterranei di Alatiel,
tipici delle milesie, sono spia quanto mai evidente della presenza del romanzo antico, a
cominciare dal naufragio della protagonista che richiama quello della figlia di Archi19
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CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo
strate, così come di Apollonio suo marito (forse già modello del naufragio di Florio alle
porte di Partenope, Fil. IV 7). Nella novella precedente, quella di Madonna Beritola, se
non assistiamo a un vero e proprio naufragio, poco manca, laddove è soprattutto il motivo
della perdita del figlio durante il viaggio per mare a segnalare la traccia dell’Historia.59
Ciò lascia supporre che le due novelle siano state composte insieme e la seconda, come
di consueto nella narrazione decameroniana, come risarcimento comico della precedente,
sulla cui necessità il preambolo della II 7 non lascia dubbi: «Forse non molto più si sarebbe la novella d’Emilia distesa, che la compassione avuta dalle giovani donne a’ casi
di madama Beritola loro avrebbe condotto a lagrimare» (§ 2). Se il capovolgimento comico della II 7 trasforma la Tarsia dell’Historia, e in parte l’apuleiana Psiche, in Alatiel,
ciò dipende in ultima analisi dalla parodia della struttura canonica e oltremodo ripetitiva
del romanzo antico. Mi riferisco al tema della separazione degli amanti e sposi promessi,
di cui si ricorderà Manzoni, alla fine riuniti dopo mille peripezie e mille prove felicemente superate. Un primo elemento che rivela la parodia del modello greco è il fatto che
il matrimonio di Alatiel avvenga per procura, condizione che prepara, e giustifica secondo la prospettiva femminile, la ripetuta violazione di una fede, quella di Alatiel, mai
promessa ma nata invece dalla scelta paterna di far prevalere la ragion di stato. A questa
prima violazione della libertà femminile ne seguono molte altre a opera dei diversi
amanti di Alatiel, violazioni che fanno del personaggio l’insuperato emblema della cattività della donna, privata della stessa capacità di comunicare, se non con il proprio
corpo; personaggio cui Boccaccio, come poi a Zinevra e Griselda,60 offre consolazione
attraverso l’imitazione della favola apuleiana, raccontata a consolazione di Carite durante
la sua prigionia nelle mani dei briganti.
Se consideriamo che nell’antico romanzo greco le prove di fedeltà cui gli amanti sono
sottoposti sono essenzialmente prove di verginità, sarà del tutto scoperta l’operazione parodica sottesa alla creazione di un personaggio, quello di Alatiel, che non può né vuole resistere alle tentazioni della carne e che alla fine ritornerà vergine con l’astuzia del ben
congegnato racconto di Antigono.61 Per questa ragione, il contrappunto con la figura di
Tarsia è così preciso e puntuale che si può considerare Alatiel come il perfetto antitipo del
personaggio dell’Historia. All’eloquenza di Tarsia, da giovanissima avviata agli studi liberali, si contrappone l’assoluta mancanza di eloquio di Alatiel, una differenza che ha una
forte rilevanza narrativa poiché è l’abilità retorica di Tarsia che consente alla fanciulla di
conservare la verginità durante la segregazione nel lupanare di Mileto. Se di fronte ad Atenagora, primo potenziale amante, Tarsia con la sua eloquenza «confudit hominem et avertit
a libidine» (p. 65, 1-2), al contrario, per la muta bellezza di Alatiel era acceso smisuratamente e «più s’accendeva l’ardore di Pericone» (§ 22), come quello dei successivi amanti.
L’inventio della novella doveva allora germogliare sulla descrizione che la vergine Tarsia
offre di sé al padre Apollonio, la cui identità le è ancora ignota: «Salve, quicumque es, laetare. Non enim aliqua ad te consolandum veni polluta, sed innocens virgo, quae virginitatem meam inter naufragium castitatis inviolabiliter servo» (p. 70, 15-17). Il naufragium
castitatis è metafora realizzata, procedimento tipico dell’inventio decameroniana,62 che
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CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo
nella novella di Alatiel diviene sia naufragio vero e proprio sia successivo naufragio metaforico della passione amorosa. Non è un caso allora che Boccaccio usi ironicamente il
secondo termine nella finta esortazione che Alatiel, ormai decisa a fare tutt’altro, rivolge
alle compagne «confortandole a conservare la loro castità, affermando sé avere seco proposto che mai di lei se non il suo marito goderebbe» (§ 22). A questo si aggiunga come
nella novella decameroniana sia riletta in chiave erotica anche la singolare capacità di Tarsia di apportare lietezza spirituale: laetari è la parola spia che contraddistingue il personaggio e ritorna anche nei versi cantati per Apollonio con l’ironica allusione all’impossibile
godimento della propria condizione di schiava («Sed contemptum habeo et iubeor adeoque
laetari!», p. 71, 1), che è ciò che effettivamente accade ad Alatiel.63 Dall’insistito infinito
laetari, comicamente risemantizzato rispetto alla fonte, potrà allora derivare il nome stesso
di Alatiel, di quello quasi perfetto anagramma.64 Ma non è tutto. Il racconto fittizio di Antigono al re di Cipro ricalca esattamente la trama che nell’Historia vede Tarsia protagonista:
«[Alatiel] ha, per servare la sua onestà, grandissimo disagio sofferto lungamente, e al presente è in povero stato e disidera di tornarsi al padre» (§ 103). Il racconto di Alatiel al sultano, che gli fa credere di aver castamente soggiornato in un monastero, riprende invece
la storia della figlia di Archistrate, la quale, fatto anch’essa naufragio, si ritrova a Efeso e
lì diviene sacerdotessa della vergine dea della caccia: «Erat enim effigie satis decora et
omni castitatis amore assueta, ut nulla tam grata esset Dianae nisi ipsa» (p. 78, 17-19). Di
una studiata e paradossale ironia è la scelta di Boccaccio di far coincidere il discorso di
Tarsia ad Apollonio in elogio della preservata verginità con quello di Alatiel al sultano di
Babilonia. In entrambi i testi, infine, lo scioglimento narrativo è quello tipico delle favole,
ma nella ripresa della fonte («Regnavit et tenuit regnum Antiochiae et Tyri et Cyrenensium;
et quietam atque felicem vitam vixit cum coniuge sua», p. 82, 9-10) Boccaccio rende ancora una volta esplicito il tema della lietezza di Tarsia, ora condiviso dalla rinata Alatiel,
la quale «reina con lui [il re del Garbo] lietamente poi più tempo visse» (§ 122).
Se non proprio di autoparodia si tratta, la riscrittura decameroniana di alcuni nuclei
tematici del Filocolo, come quella, presuppone da parte di chi scrive il distacco necessario
a «misurare in tutta la sua ampiezza l’evoluzione del suo stile dall’alessandrinismo degli
esperimenti giovanili all’arte matura e complessa del capolavoro».65 Un’evoluzione che
consente a Boccaccio di incamminarsi sulla strada nuova che condurrà al romanzo moderno, il novel; strada aperta dall’estetica apuleiana, ma che, con la separazione di realismo e fantastico, gli è alternativa nei suoi esiti più moderni. Nell’Elegia di Madonna
Fiammetta, il modello ovidiano delle eroidi, come abbiamo visto, ha la meglio sia sullo
stile milesio sia sull’epica. Nel Centonovelle, all’«historia magna et incredunda», cui
Lucio intensamente crede (Met. II 12), e al piacere estetico del sermo milesius (cfr. ancora
Met. I 1) è preferito il principio di verosimiglianza enunciato da Fiammetta. Capiamo allora quale strategia inventiva spinga Boccaccio a rielaborare in chiave realistica i modelli
delle Questioni d’amore del Filocolo nelle novelle decameroniane della Decima Giornata.
Giorgio Padoan ne ha offerto la descrizione più precisa:
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Già si è accennato al fatto che due novelle della Decima Giornata sono riprese e rielaborate dal
Filocolo. Il confronto puntuale tra i testi ha permesso di stabilire, sulla base di una serie di piccole
spie, che la rielaborazione è stata condotta dal Boccaccio puntualmente proprio su quelle pagine
giovanili, ed ha indicato tra le linee principali seguite dal nuovo modo del narrare boccacciano
appunto la sostituzione delle collocazioni crono-geografiche vaghe e nebulose con precise caratterizzazioni, segnando il passaggio da una atmosfera profondamente intrisa di letterarietà al tentativo di inserire il più possibile anche quei racconti, che pur trovano la loro ragion d’essere
proprio in un fatto meraviglioso e straordinario, entro la scena concreta del mondo italiano trecentesco. L’elemento meraviglioso viene pertanto ridotto all’indispensabile, mentre si accentuano
per quantità e importanza i particolari realistici e psicologici.66
Se il realismo boccacciano si nutre anche di precise suggestioni letterarie,67 questa riduzione dell’elemento fantastico a favore di quello realistico assume ben altra portata se
inserita nel contesto più ampio e complesso della preistoria della forma romanzo. Il caso
delle due novelle in esame, la X 4 e la X 5, è prezioso per la sua natura autocommentatoria,
ma non isolato e un esame sistematico delle fonti rivelerà come operante, pressoché ovunque nel testo decameroniano, il generale principio della rielaborazione narrativa in chiave
storico-realistica. Si considerino a titolo d’esempio ancora le seguenti riscritture: della novella della donna di Guascogna dal Novellino (LI) al Decameron (I 9); di quella delle
“donne-demoni” (Novellino XIV) in quella delle “donne papere” (Intr. IV, §§ 12-29); dell’episodio della condanna al rogo di Florio e Biancifiore dal Filocolo (IV 126) a Dec. V 6
(Gian di Procida); delle apuleiane novelle di adulterio nelle decameroniane V 10 e VII 2.68
Le autoriscritture del Filocolo si concentrano su materiali inclusi nel quarto libro (§§ 31,
67, 126) e che dipendono in larga parte dall’Historia e da Apuleio, il che garantisce della
continuità inventiva sulla base del modello del romanzo antico, modello che con il Decameron approda infine alla creazione di una forma nuova. Tra il dato descrittivo nel Filocolo,
«quanto di meno realistico e più fantastico il Boccaccio abbia voluto lasciare sulla pagina»,69 e il romanzesco decameroniano non esiste reale contrasto, come garantito appunto
dagli adattamenti dall’una all’altra opera. Come ha scritto bene Mario Baratto:
Le suggestioni culturali e tematiche dei romanzi greci e dei racconti orientali e oitanici si rinnovano, nel Decameron a contatto con una realtà meno remota, che conserva il gusto per uno scenario vasto e romanzesco ma provoca anche l’impulso a una geografia più precisa. Il mondo
italiano ed europeo descritto nel Decameron è sempre meno quello battuto dagli antichi cavalieri,
rappresentanti del vecchio mondo feudale, ed è sempre più il campo d’azione della nuova classe
di mercanti e di banchieri.70
È proprio questa, continua lo studioso, la vera «novità del Decameron, la prima conquista di un Boccaccio, che crede al meraviglioso della vita terrena».71 Il riferimento alla
sostituzione della figura del cavaliere con il nuovo eroe borghese rimanda alla pagina di
Hegel citata in apertura, ovvero, per fare l’esempio forse più emblematico, al personaggio
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di Federigo degli Alberighi (Dec. V 9) che incarna alla perfezione la transizione tra il tipico carattere cortese e quello del romanzo moderno, un personaggio che alla fine, come
vuole Hegel, «si sposa e diviene un filisteo come gli altri». Nella novella, l’ideale della
cortesia allude non solo alla corte federiciana, ma sotto traccia al mondo sociale e culturale
delle corti francesi e all’antecedente del romanzo medievale, o romance, che rappresenta
uno dei prodotti letterari più raffinati di quell’ambiente. Sebbene Boccaccio abbia assorbito molta cultura francese,72 è certo significativo che i suoi diversi esperimenti all’interno
del genere romanzo si tengano a una certa distanza di sicurezza dal romance francese.
Sarà sufficiente ricordare a tal proposito che già nel Filocolo è impostato e risolto il problema, già dantesco, dei pericoli della lettura dei testi erotici del Medioevo francese: dal
«santo libro di Ovidio» (I 45, 6) procedono i casti amori di Florio e Biancifiore, che trasformano in commedia quelli tragici di Paolo e Francesca (Inf. V 88-142) e preparano il
terreno per «il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto». Anche nell’ovidiana Elegia di Madonna Fiammetta si avverte lo stesso scetticismo verso «li franceschi romanzi» (VIII 7, 1), che nel Corbaccio saranno infine le letture predilette della
famigerata vedova (§ 316).73 Come ha scritto Auerbach, nella Francia dei secoli XII e
XIII vennero elaborati un ethos e un ideale ritratti in un’esistenza al di fuori della storia,
come creazione estetica assoluta. Per questa ragione,
l’irradiazione ampia e durevole del romanzo cortese ebbe un influsso importante, e precisamente
limitatore, sul realismo letterario, ancora prima che la dottrina classica dei diversi piani stilistici
agisse in modo analogo.74
Ma il realismo di Boccaccio non supera soltanto le categorie narrative del fantastico e
dell’ideale, la cui rappresentazione letteraria era stata codificata dal romance, ma offre,
attraverso il Decameron, la prima chiara attestazione di quel realismo che sarà tipico del
romanzo moderno. Una novità questa che possiamo misurare significativamente sulla
base della definizione di realismo introdotta da Watt, scoprendo come quest’ultimo si
trovi in realtà già espresso in Boccaccio.
La preistoria della forma “romanzo” è stata così descritta come qualcosa di continuo rispetto a
tutte le forme precedenti di narrativa che rappresentavano la vita comune. Così la storia della matrona di Efeso è “realistica” perché mostra l’appetito sessuale più forte del dolore vedovile, e il fabliau o la storia picaresca sono “realistici” perché motivi economici o carnali hanno la preminenza
nello spiegare il comportamento umano. Secondo questa stessa premessa implicita, i romanzieri
inglesi del diciottesimo secolo insieme ai francesi Furetière, Scarron e Lesage vengono considerati
il momento conclusivo di tale tradizione. Così, il “realismo” dei romanzi di Defoe, Richardson e
Fielding viene a essere associato al fatto che Moll Flanders è una ladra, Pamela una ipocrita e Tom
Jones un fornicatore. Quest’uso del termine “realismo” ha tuttavia un grande difetto: quello di
oscurare la caratteristica probabilmente più distintiva del romanzo. Se il romanzo fosse realistico
semplicemente perché vede la vita nei suoi aspetti più spiacevoli, esso sarebbe semplicemente un
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romance capovolto. In effetti esso cerca di ritrarre tutte le varietà dell’esperienza umana e non solamente quelle che si adattano a una particolare prospettiva letteraria: il realismo del romanzo non
consiste nel tipo di vita che esso presenta ma nel modo in cui la presenta.75
Se la peculiarità del realismo moderno come forma sostanziale del novel non coincide
allora con la semplice descrizione realistica della vita più umile e degradata, non estranea
alla preistoria del genere, è innegabile che la narrazione decameroniana e il suo stile mirino proprio, soprattutto attraverso la lezione dantesca,76 a restituire artisticamente l’infinita varietà dell’esperienza umana, ovvero, secondo la famosa definizione desanctisiana,
a offrire il resoconto non di una divina ma di un’umana commedia.77 La stessa definizione
di György Lukács del romanzo come epica di un mondo abbandonato da Dio, usata da
Watt per segnare i confini di intervento del romanzo entro la sfera dell’azione umana,78
richiama, ancora nei temini desanctisiani e in origine hegeliani, l’antimetafisica adesione
di Boccaccio alle humanae res, come realizzata artisticamente nel Decameron e dichiarata
a chiare lettere nella Collocutio Fortune et auctoris che introduce il VI libro del De casibus.79 E considerando infine il riferimento alle lettrici come nuovo pubblico del romanzo
moderno, l’opinione di Joseph Addison in merito (The Guardian, CLV, 1713) sembra
quasi scritta sulla falsa riga del proemio decameroniano:
Vi sono alcune ragioni per le quali il sapere è più consono al mondo delle donne che a quello
degli uomini. In primo luogo, esse hanno più tempo libero e conducono vita più sedentaria […].
Un’altra ragione per la quale le donne, specialmente donne di rango, dovrebbero applicarsi alle
lettere è che i mariti ne sono generalmente estranei.80
Mi sembra chiaro a questo punto come Boccaccio abbia contribuito in maniera significativa alla trasmissione silenziosa del genere romanzo riorientandone il percorso storico.
Attraverso il proprio filtro inventivo e culturale, il Decameron inaugura il realismo moderno ripensando, tanto rispetto ad Apuleio quanto al romanzo cortese, la relazione tra il
fantastico (fabula) e il verosimile (historia). In modo diverso e complementare a Petrarca,
Boccaccio avvia così la transizione storica dalla fabula all’historia nel dominio dell’arte
narrativa e la sua lezione sarà messa a frutto dai novellieri cinquecenteschi, il cui contributo alla fondazione del romanzo moderno sarà decisivo.81 Se, come ha scritto Branca, il
capolavoro nuovissimo di Boccaccio segna il destino della narrativa europea tra Apuleio
e Cervantes,82 lo fa accogliendo e trasmettendo le diverse forme del romanzo sotto veste
nuova e ponendo così solide basi per la trasformazione del genere dal romance al novel.
24
1•16
CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo
Note
1
G. W. F. HEGEL, Estetica, trad. it di N. Merker e N. Vaccaro, Torino, Einaudi, 1967, p. 1223 [ed. orig.: Ästhetik, mit einem
einführenden Essay von Georg Lukács, Berlin, Aufbau-Verlag, 1955, p. 983]. Rimando alla classica edizione tedesca a cura
di Friederich Bassenge perché usata nella traduzione einaudiana di Merker e Vaccaro, così che si possa trovare perfetta corrispondenza rifacendosi al testo originale.
2
Cfr. ivi, p. 661 [ed. orig.: p. 556].
3
Per Hegel, alla forma classica, in cui l’arte come rappresentazione sensibile del bello raggiunge la propria perfezione in
quanto sintesi di interiorità ed esteriorità operata dallo spirito, succede la forma romantica, da intendersi come più alto stadio
evolutivo in cui lo spirito si appropria della propria interiorità. Cfr. HEGEL, Estetica, pp. 581-582 [ed. orig.: pp. 495-496].
4
Ivi, pp. 663-664 [ed. orig.: pp. 557-558].
5
Cfr. V. ŠKLOVSKIJ, Lettura del Decameron, Bologna, Il Mulino, 1969, pp. 98-99. Si tratta non di un’opera organica ma di
selezioni da La prosa d’arte pubblicato a Mosca nel 1961.
6
Cfr. M. A. DOODY, The True Story of the Novel, New Brunswick (N.J.), Rutgers University Press, 1996; S. MOORE, The
Novel. An Alternative History. Beginnings to 1600, New York, Continuum, 2010; Il romanzo, a cura di F. Moretti, 5 voll., Torino, Einaudi, 2001-2003 (i primi due volumi sono apparsi anche in inglese per i tipi della Princeton University Press, 2006).
7
I. P. WATT, Le origini del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson e Fielding, Milano, Bompiani, 2009, p. 7 [ed.
orig.: The Rise of the Novel: Studies in Defoe, Richardson and Fielding, Berkeley, University of California Press, 1957, p.
9]. Il titolo del volume in traduzione è interpretativo e non riflette necessariamente l’approccio di Watt, per cui per the rise
of the novel s’intenderà più precisamente la nascita del romanzo moderno.
8
Cfr. ibid.
9
Ivi, p. 11.
10
Ivi, pp. 8-9.
11
Cfr. DOODY, The True Story, pp. 1-2.
12
Sulla novità storica della novella come riflesso della diversa temperie storico-culturale e sul ruolo anticipatore di Boccaccio,
cfr. E. MALATO, La nascita della novella italiana: un’alternativa letteraria borghese alla tradizione cortese, in La novella
italiana: Atti del convegno di Caprarola, 19-24 settembre 1988, 2 voll., Roma, Salerno, 1989, I, pp. 3-45. Su Apuleio si vedano più avanti le fini osservazioni di Erich Auerbach.
13
Cfr. V. BRANCA, Copisti per passione, tradizione caratterizzante, tradizione di memoria, in Studi e problemi di critica testuale, Convegno di studi di filologia italiana nel centenario della Commissione per i testi di lingua (Bologna, 7-9 aprile
1960), Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1961, pp. 69-83; ID., Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio. I.
Un primo elenco e tre codici, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1958, pp. XIII-XXVI; M. CURSI, Tradizione caratterizzante
e tradizione di memoria. Note sulla tradizione manoscritta del Decameron, «Critica del testo», 1/2, 1998, pp. 751-774.
14
Le fini osservazioni di Marco Cursi hanno dimostrato, infatti, che esisteva una circolazione al di fuori delle cerchie mercantili-borghesi, mettendo in discussione la tesi di Vittore Branca sul ruolo predominante della borghesia mercatantesca
nella prima diffusione del Decameron. Cfr. M. CURSI, Il Decameron: scritture, scriventi, lettori. Storia di un testo, Roma,
Viella, 2007, pp. 134-142.
15
Sarà sufficiente ricordare i classici lavori di E. R. CURTIUS, Letteratura europea e Medioevo latino, a cura di R. Antonelli,
Firenze, La Nuova Italia, 1992 [ed. orig.: Europaische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern, A. Francke, 1948];
ID., Studi di letteratura europea, a cura di L. Ritter Santini, Bologna, Il Mulino, 1963 [ed. orig.: Kritische Essays zur
europaischen Literatur, Bern, A. Francke, 1950], rist. con diversa scelta di saggi in Letteratura della letteratura, Bologna,
Il Mulino, 1984.
16
T. G. PAVEL, Le vite del romanzo, a cura di M. Rizzante, trad. di D. Biagi, C. Tirinnanzi De Medici, Milano, Mimesis,
2015, p. 23 [ed. orig.: The Lives of the Novel. A History, Princeton, Princeton University Press, 2013, p. 5]. Il volume esce
per la prima volta in francese come La pensée du Roman, Paris, Gallimard, 2003. Ringrazio Daria Biagi per la trascrizione
del passo proposto nel testo.
17
HEGEL, Estetica, pp. 334-335 [ed. orig.: p. 305].
18
Cfr. ŠKLOVSKIJ, Lettura del Decameron, p. 132.
19
Cfr. L. GRAVERINI, Una visione d’insieme, in Il romanzo antico. Forme, testi, problemi, a cura di L. Graverini, W. Keulen,
A. Barchiesi, Roma, Carocci, 2006, p. 22.
20
Cfr. B. E. PERRY, The Ancient Romances: A Literary-historical Account of Their Origins, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1967, pp. 44-54, a p. 48. Che il romanzo sia evoluzione dell’epica, il cui cosmo rimane nel primo
soltanto allo stadio di ricerca e nostalgia, è il grande tema di G. LUKÁCS, Teoria del romanzo, Milano, SE, 1999 [ed. orig.:
1916]: per cui cfr. A. BERARDINELLI, Discorso sul romanzo moderno. Da Cervantes al Novecento, Roma, Carocci, 2016, p. 39.
21
Cfr. A. VARVARO, I romanzi della Romania medievale, in Il romanzo, III, pp. 38, 33 nota 1.
22
Cfr. C. GESNER, Shakespeare and the Greek Romance. A Study of Origins, Lexington, The University of Kentucky Press,
1970, p. 14; E. ARCHIBALD, Apollonius of Tyre in the Middle Ages and the Renaissance, in Latin Fiction. The Latin Novel
in Context, ed. by H. Hofmann, London-New York, Routledge, 1999, pp. 229-237, a p. 229; W. KEULEN, Il romanzo latino,
in Il romanzo antico, p. 132; G. GARBUGINO, Introduzione a La storia di Apollonio re di Tiro, a cura di G. Garbugino, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, 2010, p. 16. Da questa edizione, redazione A con segnalazione di lezioni di B (cfr. nota 63),
provengono i passi citati dall’Historia senza ulteriore rimando bibliografico.
25
1•16
CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo
P. BOITANI, Romanzo, in Il romanzo, a cura di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2002, III, pp. 141-153, a p. 149. Cfr. anche V.
BRANCA, Giovanni Boccaccio, rinnovatore dei generi letterari, Atti del Convegno di Nimega sul Boccaccio (28-30 ottobre
1975), a cura di C. Ballerini, Bologna, Patron, 1976, pp. 13-35, a p. 18.
24
Un accenno a questo anche in P. ORVIETO, Boccaccio mediatore di generi o dell’allegoria d’amore, «Interpres», II, 1979,
pp. 7-104, a p. 8.
25
Cfr. I. CANDIDO, Boccaccio rinnovatore di generi classici, in Boccaccio 1313-2013. Proceedings of the Second Triennial
American Boccaccio Association Conference, Georgetown University, October 4-6, 2013, a cura di F. Ciabattoni, E. Filosa
and K. Olson, Ravenna, Longo editore, 2015, 225-236, e in partic. la tabella 2 a p. 229.
26
È lo stesso percorso scelto dalla Doody, che riserva a Boccaccio un ruolo d’onore nella sua ricostruzione storica della
forma romanzo (cfr. EAD., The True Story, pp. 192-193).
27
A. E. QUAGLIO, Introduzione a G. BOCCACCIO, Filocolo, a cura di A. E. Quaglio, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio,
a cura di V. Branca, Milano, Mondadori, I, 1967, pp. 50, 53. Da questa edizione delle opere di Boccaccio sono tratti, senza
ulteriore rimando bibliografico, i successivi passi citati nel testo.
28
L. SURDICH, Introduzione a G. BOCCACCIO, Filostrato, Milano, Mursia, 1990, p. 20.
29
E. G. PARODI, Poeti antichi e moderni. Studi critici, Firenze, Sansoni, 1923, p. 161.
30
G. PADOAN, Sulla genesi del Decameron, in Boccaccio. Secoli di vita. Atti del Congresso Internazionale: Boccaccio 1975,
Università di California, Los Angeles, 17-19 ottobre 1975, a cura di M. Cottino-Jones, E. F. Tuttle, Ravenna, Longo, 1977,
pp. 143-176, a p. 166 (ora in ID., Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, Firenze, Olschki, 1978).
31
A tal proposito, Bruno Porcelli rimanda a una possibile lettura mediata del romanzo di Senofonte Efesio, Anzia e Abrocome.
Cfr. ID., Strutture e forme narrative nel Filocolo, «Studi sul Boccaccio», XXI, 1993, pp. 207-233, alle pp. 207-209.
32
Cfr. G. BILLANOVICH, Prime ricerche dantesche, Roma, Storia e letteratura, 1947, p. 25; M. MCLAUGHLIN, Literary Imitation in the Italian Renaissance: the Theory and Practice of Literary Imitation from Dante to Bembo, Oxford, Clarendon
Press, 1997, p. 61; J. USHER, “Desultorietà” nella novella portante di Madonna Oretta (Dec. VI, 1) e altre citazioni apuleiane
nel Boccaccio, «Studi sul Boccaccio», XXIX, 2001, pp. 67-103, a p. 86. Più stringente mi sembra il parallelo con alcuni
versi dell’Alda, commedia elegiaca di Guglielmo di Blois trascritta nello Zibaldone laurenziano (Laur. 33.31), per cui cfr.
F. BRUNI, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 86.
33
Cfr. ivi, passim.
34
Cfr. GARBUGINO, Introduzione, pp. 25 e 159 nota 26.
35
Sembrerebbe dunque che Boccaccio avesse sotto gli occhi la redazione B, ma la possibile presenza di lezioni uniche
della A (per cui cfr. nota 63) lascia propendere per un testo ibrido che fonde le due principali recensioni (cfr. GARBUGINO,
Introduzione, p. 23).
36
Cfr. H. KAHANE – R. KAHANE, Akritas and Arcita: A Byzantine Source of Boccaccio’s Teseida, «Speculum», XX, 1945,
pp. 415-425; V. BRANCA, Giovanni Boccaccio. Profilo bibliografico, Firenze, Sansoni, 1977, p. 49, che rimanda a A. PERTUSI,
La poesia epica bizantina e la sua formazione: problemi sul fondo storico e la struttura letteraria del Digenis Akritas, in
La poesia epica e la sua formazione, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1970, pp. 481-543; R. BEATON, Boccaccio
and the Greek World of his Time: a Missing Link in the ‘True Story of the Novel’, in Renaissance Encounters: Greek East
and Latin West, ed. by M. S. Brownlee, D. M. Gondicas, Liden-Boston, Brill, 2013, pp. 211-220, alle pp. 212-213. Sul Digenis, cfr. ID., Il romanzo greco medievale, Soveria Mannelli, Rubettino, 1997, pp. 63-96 [ed. orig.: The Medieval Greek
Romance, Cambridge, Cambridge University Press, 1989].
37
Boccaccio è dunque consapevole della dinamica storica delle forme letterarie. Si veda a tal proposito l’illuminante pagina
di Northrop Frye: «Epos and fiction first take the form of scripture and myth, then of traditional tales, then of narrative and
didactic poetry, including the epic proper, and of oratorial prose, then of the novels and other written forms. As we progress
historically through the five modes, fiction increasingly overshadows epos, and as it does, the mimesis of direct address
changes to a mimesis of assertive writing. This in its turn, with the extremes of documentary or didactic prose, becomes
actual assertion and so passes out of literature». (N. Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays, Princeton, Princeton University
Press, 1957, p. 250).
38
Si veda a conferma la suggestiva ipotesi di Edgar Mass che ha messo in relazione «le favole ornate di molte bugie» del
prologo della Fiammetta con l’espressione apuleiana fabula graecanica e, in modo ancor più pregnante, con un altro luogo
apuleiano. Qui l’oracolo caldeo riservato a Lucio è trasformato in un modernissimo discorso metanarrativo sulla natura
stessa del romanzo milesio: «Mihi denique proventum huius peregrinationis inquirenti multa respondit et oppido mira et
satis varia; nunc enim gloriam satis floridam, nunc historiam magnam et incredundam fabulam et libros me futurum» (II
12). Cfr. E. MASS, Tradition und Innovation in Romanschaffen Boccaccios. Die Bedeutung des “Goldenen Esel” für die
Erneuerung des Prosaromans durch die Elegia di Madonna Fiammetta, in Groningen Colloquia on the Novel, ed. by H.
Hofmann, Groningen, Egbert Forsten, 1988, II, pp. 87-107, alle pp. 100-101.
39
Sulla trasformazione di Florio in Filocolo, a partire dal suo nome parlante, come riferimento all’antico romanzo greco,
cfr. DOODY, The True Story, p. 199.
40
Cfr. anche BRANCA, Tradizione delle opere di G.B., p. 193 nota 4; R. BEATON, Boccaccio and the Greek World, p. 216:
«Panfilo and Fiammetta, within the story, turn their story into the plot of a Greek novel».
41
Sulla verosimiglianza della narrazione, cfr. P. M. FORNI, Realtà/verità, in Lessico critico decameroniano, a cura di R.
Bragantini, P. M. Forni, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 300-319 (il riferimento a Orazio a p. 301).
42
Anche secondo Francesco Bruni quella di Boccaccio è una riflessione metapoetica, forse limitata ai suoi due romans d’antiquité, sebbene, premette lo studioso, «le favole greche e soprattutto le troiane battaglie non possono riferirsi senz’altro al
Filostrato e al Teseida» (cfr. ID., Boccaccio, p. 157). Un timido accenno al fatto che l’espressione «favole greche» dell’Elegia
23
26
1•16
CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo
potrebbe riferirsi al Filocolo è anche in DOODY, The True Story, p. 203. Che Boccaccio voglia alludere proprio a Filocolo
e Filostrato sembra convinta invece D. PORCIATTI, Boccaccio e il romanzo greco. La fortuna delle “favole ornate di molte
bugie”, in Intorno a Boccaccio / Boccaccio e dintorni, Atti del Seminario Internazionale di Studi (Certaldo Alta, Casa di
Giovanni Boccaccio, 25 giugno 2014), a cura di G. Frosini e S. Zamponi, Firenze, Firenze University Press, 2015, pp. 127137, a p. 136, cui si rimanda anche per una rassegna della critica sul tema.
43
Allo stesso modo, il genere elegiaco cui appartiene un’opera certamente più tarda, la Comedia delle ninfe fiorentine, si
distanzia allusivamente non solo dall’epica, ma anche da altri generi in competizione: «non i triunfi di Marte, non le lascivie
di Bacco, non l’abondanze di Cerere, ma del mio prencipe le vittorie mi si fa di cantare» (I, 11).
44
Cfr. a tal proposito E. PARATORE, La novella in Apuleio, Palermo-Roma, Sandron, 1928, pp. 24 sgg.; GARBUGINO, Introduzione, pp. 7-8. Di diverso avviso KEULEN, Il romanzo latino, p. 132.
45
Cfr. J. H. REINHOLD, Floire et Blancheflor. Étude de Littérature Comparée, Paris, Larose, 1906, pp. 119-145; ID., Quelques
remarques sur les sources de Floire et Blancheflor, «Revue de philologie française», XIX, 1905, pp. 153-175.
46
Cfr. KEULEN, Il romanzo latino, p. 132.
47
Cfr. DOODY, The True Story, p. 198.
48
GARBUGINO, Introduzione, pp. 18-19, che rimanda rispettivamente a M. DELBOUILLE, Apollonius de Tyr et les débuts du
roman français, in Mélanges Rita Lejuene, II, Grembloux, Editions J. Duculot, 1969, pp. 1171-1204; A. PIOLETTI, La fatica
d’amore. Sulla ricezione del “Floire et Blancheflor”, Soveria Mannelli, Rubettino, 1992, pp. 22-31; ID., Il modello narrativo
dell’Apollonio di Tiro e alcune versioni romanze, in Medioevo romanzo e orientale. Oralità, scrittura, modelli narrativi (Il
Colloquio Internazionale, Napoli, 17-19 febbraio 1994), a cura di A. Pioletti, F. Rizzo Nervo, Soveria Mannelli, Rubettino,
1995, pp. 11-27. Ma cfr. anche A. PUNZI, Materiali per la datazione del Tristan di Thomas, «Cultura neolatina», XLVIII,
1988, pp. 9-71, a p. 62.
49
R. WELLEK – A. WARREN, Theory of Literature, New York, Harcourt, Brace and Company, 1949, p. 230. La citazione è
nel cap. XVI, a cura di Warren.
50
Lo è certamente secondo la definizione, offerta da Francesco Bruni (Boccaccio, p. 241), di uno «scrittore che ha impresso
il giro narrativo e concettuale della novella a un vasto, eterogeneo ventaglio di discorsi i piú svariati», tra cui fabliaux, vidas,
exempla, ma anche i racconti dell’Asino d’oro. Su Boccaccio padre della novella, cfr. il volume classico di H. J. NEUSCÄFER,
Boccaccio un der Beginn der Novelle, München, Fink, 1969. Per una discussione, cfr. L. BATTAGLIA RICCI, Giovanni Boccaccio, Roma, Salerno, 2000, p. 132.
51
Cfr. Apuleius cum commento Beroaldi: & figuris nouiter additis, Venetiis, In aedibus Ioannis Taciuni de Tridino impressum,
1516, c 116r: «Iohannes Boccatius eloquio uernaculo disertissimus: condidit centum fabulas argumento et stilo lepidissimo
festiuissimoque: inter quas Apuleianam hanc inseruit: transposuitque commodissime: non ut interpres: sed ut conditor: quam
foeminae nostrates non surdis auribus audiunt: neque inuitae legunt»; P. GIOVIO, Elogi degli uomini illustri, a cura di Franco
Minonzio, Torino, Einaudi, 2006, pp. 33-34: «Le famose novelle raccontate in dieci giornate, a imitazione di quelle milesie,
composte con assoluto intento ludico, vengono tradotte in tutte le lingue, e senza alcun dubbio sulla loro futura vitalità, superano tutte le altre nel favore dei lettori, che ne sono entusiasti». Devo a Elsa Filosa il riferimento a Giovio, che, come
quello a Beroaldo, conferma quanto da me ipotizzato in Boccaccio rinnovatore, p. 235.
52
Laur. 29.2 = MS Firenze, Biblioteca Laurenziana, Cod. Plut. 29.2 (φ). Per una lettura del prologo delle Metamorfosi, cfr.
Il romanzo antico, p. 25.
53
E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946), 2 voll., Torino, Einaudi, 1956, I, p. 235. Sul ruolo
del plurilinguismo nella nascita del romanzo, cfr. M. BAKHTIN, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, pp. 407-444.
54
Cfr. ŠKLOVSKIJ, Lettura del Decameron, p. 221, che indica della Seconda Giornata le novelle 4-9, della Quinta le 1-3 e 57; GESNER, Shakespeare, pp. 19-33. Sulla novella di Cimone (V, 1) come «perfetta sintesi del romanzo greco nel Decameron»,
cfr. M. PICONE, Il romanzo di Alatiel, «Studi sul Boccaccio», XXIII, 1995, pp. 197-217, alle pp. 199-201, con cit. a p. 201
(l’articolo è stato poi raccolto in ID., Boccaccio e la codificazione della novella: letture del Decameron, Ravenna, Longo,
2008, pp. 137-154).
55
Mi permetto di rimandare al mio Boccaccio umanista. Studi su Boccaccio e Apuleio, Ravenna, Longo, 2014, p. 75; mentre,
per un primo orientamento su problemi che vengono di seguito approfonditi, alle pagine di un altro mio saggio: Boccaccio
rinnovatore, pp. 234-236.
56
G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. Branca, 2 voll., Torino, Einaudi, 1992, I, pp. 176 nota 1, 225 nota 3. E cfr. anche
PICONE, Il romanzo di Alatiel, pp. 208-210 e note 17-21. Per la possibile presenza del modello senofonteo anche nel Filocolo,
cfr. PORCELLI, Strutture e forme, pp. 207-209. Più scettico S. DELIGIORGIS, Boccaccio and the Greek Romances, «Comparative
Literature», XIX, 2, 1967, pp. 97-113. Sulla II, 10 e le sue possibili fonti antiche, cfr. N. GIANNETTO, Parody in the Decameron: ‘A Contended Captive’ and Dioneo, «The Italianist», I, 1, 2013, pp. 7-23.
57
Non mi soffermo su quanto da me già esposto in Boccaccio umanista alle pp. 86-93, cui mi permetto di rimandare il lettore.
Quanto segue sulla novella di Alatiel è inteso a completare quell’analisi. La definizione della II, 7 come rovesciamento parodico della fabula è di L. VAGHETTI, La filosofia della natura in Boccaccio, «Nuova antologia», 585, 2000, pp. 283- 302.
58
Cfr. GESNER, Shakespeare, pp. 6-7; KEULEN, Il romanzo latino, p. 172.
59
Lo notava già GESNER, Shakespeare, pp. 27-28. Tra le fonti della II, 6 Branca menziona non a caso anche il Cantare dell’Apollonio di Tiro e i suoi antecedenti latini (cfr. BOCCACCIO, Decameron, I, p. 200 nota 2).
60
Sulla triade Alatiel-Zinevra-Griselda, mi permetto di rimandare ancora a Boccaccio umanista, pp. 89-111. Anche BRUNI,
Boccaccio, p. 271, trova interessanti paralleli tra i tre personaggi, senza però indicare come fonte comune la favola apuleiana.
61
È questa l’innovazione decisiva del Boccaccio anche per Cesare Segre (Comicità strutturale nella novella di Alatiel, in
ID., Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974, pp. 145-159, a p. 149), che non manca di notare che si tratta di un comico
27
1•16
CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo
rovesciamento del modello alessandrino.
62
Sulla metafora realizzata o letteralizzazione dell’astratto, si veda l’importante saggio di P. M. FORNI, La metafora realizzata,
in ID., Parole come fatti. La metafora realizzata e altre glosse al Decameron, Napoli, Liguori, 2008, pp. 53-84 [ed. orig.:
Adventures in Speech: Rhetoric and Narration in Boccaccio’s Decameron, Philadelphia, The University of Pennsylvania
Press, 1996].
63
Si noterà per inciso che il verso è contenuto soltanto nella redazione A e non nella B, che invece legge: «atque iubente
deo quandoque dolore levabor» (cfr. La storia di Apollonio, p. 111, 17).
64
Bruno Porcelli ha avanzato l’ipotesi che il nome di Alatiel sia anagramma di «La lieta» (cfr. ID., I nomi in 20 novelle del
Decameron, in ID., Il nome nel racconto: dal Novellino alla Commedia ai novellieri del Trecento, Milano, Franco Angeli,
1997, pp. 32-58). Il preciso riferimento testuale all’interno del romanzo latino ne offre ora una spiegazione più precisa.
65
C. DELCORNO, Ironia/parodia, in Lessico critico decameroniano, pp. 162-191, a p. 186.
66
PADOAN, Sulla genesi del Decameron, p. 163.
67
Sulle nuove configurazioni del realismo decameroniano, cfr. FORNI, Parole come fatti.
68
Cfr. rispettivamente M. BARATTO, Realtà e stile nel Decameron, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 145-146 (con bibliografia
pregressa a p. 146 nota 9); G. GUARDIANI, Boccaccio dal Filocolo al Decameron: variazioni di poetica e di retorica dall’esame di due racconti, «Carte italiane», VII, 1985-86, pp. 28-46; R. BRAGANTINI, Lectura Boccaccii, Day X, tale 4, ed. M
Papio, Toronto, University of Torornto Press, i.c.s; DELCORNO, Ironia/parodia, p. 186; J. L. BERTOLIO, Da Filocolo a Gian
di Procida (Dec. VI, 1): un caso di auto-riscrittura, in Boccaccio 1313-2013. Proceedings of the Second Triennial American
Boccaccio Association Conference, Georgetown University, October 4-6, 2013, ed. by F. Ciabattoni, E. Filosa and K. Olson,
Ravenna, Longo editore, 2015, pp. 129-138; L. BATTAGLIA RICCI, Introduzione a Il Novellino, a cura di V. Mouchet, Milano,
BUR, 2008, pp. 5-25, a p. 17; L. SANGUINETI WHITE, Boccaccio e Apuleio: caratteri differenziali nella struttura narrativa
del Decameron, Bologna, EDIM, 1977.
69
A. QUAGLIO, Introduzione, p. 55.
70
BARATTO, Realtà e stile, p. 27. Cfr. anche E. MALATO, La nascita della novella italiana.
71
BARATTO, Realtà e stile, p. 93.
72
Cfr. D. DELCORNO BRANCA, Boccaccio e le storie di re Artù, Bologna, Il Mulino, 1991; BRUNI, Boccaccio, p. 14.
73
Mi permetto di rimandare al mio “Legere quod scripserunt primi, scribere quod legant ultimi”: itinerari della lettura (e
della scrittura) tra Petrarca e Boccaccio, in C’è un lettore in questo testo? Rappresentazioni letterarie della lettura in Italia,
a cura di G. Rizzarelli e C. Savettieri, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 43-67, alle pp. 57-67.
74
AUERBACH, Mimesis, I, pp. 152-153.
75
WATT, Le origini del romanzo borghese, pp. 8-9 [ed. orig.: pp. 9-10].
76
Cfr. T. S. ELIOT, Dante (1920), in ID., The Sacred Wood. Essays on Poetry and Criticism, New York, Alfred Knopf,
1921, pp. 144-155, a p. 152: «Dante’s is the most comprehensive, and the most ordered presentation of emotions that has
ever been made».
77
Cfr. F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, introd. di G. Ficara, Torino, Einaudi Gallimard,
1996, pp. 312, 413. Sulla varietà dell’esperienza umana nel Decameron e nel romanzo, cfr. G. ZACCARIA, Giovanni Boccaccio. Alle origini del romanzo moderno, Milano, Bompiani, 2014, p. 81: «A emergere, nelle novelle, sarà quindi la molteplice variabilità dei casi del reale, che l’autore dispone come una serie finita di elementi potenzialmente infiniti. Il
Decameron consente così di recuperare una dimensione di ‘totalità’ che Franco Moretti ha individuato anche nelle potenzialità del romanzo contemporaneo, e di certo, se di ‘opera mondo’ è possibile parlare, il capolavoro boccacciano ne è
l’esempio più alto, il più rappresentativo per vastità di casi e possibilità di sviluppi».
78
Cfr. WATT, Le origini del romanzo borghese, p. 79 [ed. orig.: p. 83]. Cfr. G. LUKÁCS, Die Theorie des Romans. Ein
geschichtsphilosophischer Versuch über die Formen der großen Epik, Berlin, Cassirer, 1920, p. 84.
79
«Restabat igitur avido ut ad gremium tuum humanarum rerum confertissimum devenirem et unde vates egregii atque hystoriographi illustres, tam canendi quam scribendi indeficientem materiam iam sumpsere, ego etiam summerem, non quod
optassem, sed quod digerere possem» (11-12). Cfr. G. BOCCACCIO, De casibus virorum illustrium, a cura di P. G. Ricci e V.
Zaccaria, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. Branca, Milano, Mondadori, IX, 1983, p. 470. Come ha
scritto bene Carlo Ossola, Boccaccio «è soprattutto padre della modernità per aver osato considerare il solo orizzonte che
sappiamo misurare, il mero ambito terreno» (ID., Boccaccio anima laica, «Il Sole 24 ore», 29 gennaio 2012, p. 33).
80
WATT, Le origini del romanzo borghese, p. 40 [ed. orig.: pp. 42-43].
81
Su fabula e historia in Petrarca e Boccaccio, cfr. ancora Boccaccio umanista, pp. 141-158 e, per una prospettiva cronologicamente più ampia, E. MENETTI, La realtà come invenzione. Forme e storia della novella italiana, Milano, Franco
Angeli, 2015, pp. 114-124. Su novella e romanzo, cfr. V. ŠKLOVSKIJ, Teoria della prosa, Torino, Einaudi, 1925, pp. 91-95;
R. BRAGANTINI, Il Decameron e l’esperienza narrativa del Cinquecento, in Poeti, filologi, traduttori alla prova del Decameron. Proceedings of the 7th Seminar on Italian Literature, Helsinki, Oct. 29, 2013, Helsinki, Publications romanes de
l’Université de Helsinki, 2014, pp. 9-31; E. MENETTI, La fucina delle finzioni: le novelle e le origini del romanzo, «Heliotropia», VIII-IX, 2011-12, pp. 17-34.
82
Cfr. V. BRANCA, Boccaccio medievale e nuovi studi sul Decameron, Firenze, Sansoni, 1996, p. 44.
28
1•16
CANDIDO, Boccaccio sulla via del romanzo