Primo SouQuaderno Editoriale: Il paradigma della sofferenza

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Primo SouQuaderno Editoriale: Il paradigma della sofferenza
Primo SouQuaderno
Editoriale: Il paradigma della sofferenza urbana
di Benedetto Saraceno
La popolazione urbana è cresciuta significativamente negli ultimi trenta anni: nel
1975 il 26% degli abitanti dell’Africa viveva in città, oggi sono il 39% e nel 2030
saranno il 63%; in Asia il salto sarà dal 29% al 64% e in Europa dal 66% al 79%. I
problemi di salute mentale e di salute in generale saranno dunque sempre piu’
problemi di salute (e sofferenza) “urbana”.
La Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale della Salute stimano che le
malattie mentali rappresentino il 13% del carico totale di mortalità e disabilità
generato da tutte le malattie. In altre parole il contributo delle malattie mentali alla
disabilità e mortalità globali è molto significativo (superiore al cancro o alle malattie
cardiovascolari). Questi dati si riferiscono alle malattie mentali definite dalle
classificazioni internazionali delle malattie e non tengono conto delle numerose
condizioni di sofferenza psicologica e sociale generate dalla povertà, dalla violenza,
dall’insicurezza e dall’abbandono nell’infanzia e adolescenza, dall’emigrazione
forzata, dall’esclusione e che colpiscono individui, famiglie e comunità.
Fra coloro che soffrono per una malattia mentale formalmente
classificata e
riconosciuta e coloro che soffrono per quelle “altre” condizioni di vulnerabilità
psicosociale vi è tuttavia molto in comune: stigma, discriminazione, abbandono,
violazione dei diritti. Inoltre entrambi i gruppi vivono in istituzioni definite, visibili e ad
alta densità come i manicomi, le carceri, i campi per rifugiati oppure indefinite,
invisibili, diffuse, a bassa densità come le strade, le stazioni della metropolitana, le
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favelas. Vi è permeabilità fra il primo gruppo, i malati di mente, e gli “altri” che, per
la natura ed eterogeneità della loro sofferenza, non possono avere altro nome che
‘”altri”.
Carlo Maria Martini ha commentato l’episodio dal Vangelo di Marco ove un uomo
della città di Gerasa, dai comportamenti bizzarri e violenti, interrogato da Gesù che
gli domanda il suo nome (Mc 5, 1-20), risponde: - il mio nome è Legione perchè
siamo tanti-. L’uomo di Gerasa non ha nome perchè ha il nome collettivo della
sofferenza e dell’esclusione.
Gli uni e gli altri sono tutti come l’uomo di Gerasa, il loro nome è legione perchè
sono tanti e non hanno individualità riconosciuta (matti, poveri, rifugiati, immigrati):
una “nazione” trasversale alle Nazioni ufficiali dotate di nome, ove le sofferenze si
incrociano, si confondono, si specializzano o si de-specializzano ma non trovano
risposte.
La città è uno spazio fisico ove la “nazione degli uomini di Gerasa” abita. La città
chiama e attrae, la città nasconde, la città offre pieghe per sopravvivere, per
nascondersi, per relazionarsi. Ma la città non promette nè permette continuità
spaziale, ossia vicinanze vere, comunità umane; le persone vi coabitano e semmai
si aggregano sempre piu' in contiguità gergali, in identità apparenti di etnie,
accomunati dalle esclusioni e spesso dalle illegalità .
La città produce sofferenze e malattie multiple e offre non-risposte oppure risposte
frammentate e frammentanti. La città produce sofferenze e malattie collettive che
colpiscono cioè gruppi vulnerabili ma che pero’ non sono riconosciute come interindividuali: paradosso della città che nega la collettività della vulnerabilità e fornisce
risposte individuali ma in forme de-soggettivanti, ossia che negano l’ individualità.
Dunque la città nega agli individui la loro dimensione collettiva di sofferenza e
risponde agli individui negandone la soggettività.
Abbiamo invece bisogno di risposte in rete semplicemente perché le domande sono
reti e la negazione di questa semplice verità crea risposte unilaterali, falsamente
lineari, verticali, separate, non trasparenti. E' la sofferenza delle persone che è in
rete, perché è la realtà che è una rete di fattori di rischio ed è la risposta alla
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sofferenza che troppo spesso non è in rete. Ed è questo che crea le barriere e
l’ineffettività della risposta.
Malattia fisica, malattia mentale, sofferenza psicologica, sofferenza sociale sono in
realtà nodi di una rete complessa la cui ipersemplificazione può essere forse un
bisogno amministrativo, istituzionale, talvolta anche comprensibile, legittimo. Tuttavia
la risposta deve limitare l’ipersemplificazione, mantenere negli interventi le stesse
connessioni che le domande propongono.
Una malattia è il risultato di un rischio ma il rischio è talvolta anche un'altra malattia.
Ad esempio: povertà, abuso di sostanze, depressione, incidenti automobilistici o
suicidio sono eventi e condizioni in rete, nel senso che i maschi alcolisti (che sono a
rischio, in quanto alcolisti, di suicidio) sono anche spesso autori di violenze in
famiglia. E le donne che subiscono la violenza domestica (dai quei maschi alcolisti
che magari si suicideranno) sono a rischio per una depressione grave. E poi
qualcuno andrà anche con la macchina a morire o a far morire. Tutto questo è una
rete e le risposte non possono essere separate e verticali ma integrate e orizzontali.
Il ruolo egemonico del modello bio-psico-medico, lineare, individualista, a-storico,
permea e colonizza tutti i problemi del vivere; le malattie "aumentano" anche
perchè si chiamano malattie le sofferenze psicologiche e sociali; il modello biopsico-medico si appropria della sofferenza, la classifica, la frammenta e
somministra risposte, una risposta per ogni domanda e se la domanda non trova
risposta sarà necessario ri-formulare la domanda cosicchè non si formino gruppi di
domande senza risposta. Cosi’ si creano gruppi di domande che si combinano con
gruppi di risposte: malati di AIDS, omosessuali, donne, adolescenti, bambini...
diventano gruppi di domande da far incontrare con risposte preformulate da esperti.
Ecco che si formano tribù separate, convinte della loro appartenenza alla tribù e
progressivamente una tribù scompare ed è quella
del noi ossia dei soggetti
accomunati semplicemente dalla loro condizioni di soggetti.
Nascono così le identità, forzate dalla frammentazione delle risposte, create
dall’assenza di diritti.
Certamente le identità si formano a partire da un’urgenza di riconoscimento, dalla
necessità di affermare una differenza: ”siamo donne e solo donne”, “siamo neri e
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solo neri”. Tale processo attraversa tappe diverse e si formano nuove conoscenze,
si costruiscono nuovi linguaggi a partire dalla forza di una identità. Le minoranze
possono essere tali perchè gli individui che le costituiscono sono numericamente
minoritari (le popolazioni indigene) o perché, indipendentemente dalla loro
numerosità, gli individui che le compongono sono diminuiti nell’esercizio dei loro
diritti (i neri sudafricani durante l’apartheid). Certamente ogni processo di
autoidentificazione ossia di costruzione di una identità ne arricchisce i protagonisti.
Ma cosa succede quando l’identità costruita diviene prigioniera di sè stessa, cessa
di essere fonte di interazione e dialogo con gli altri e si limita ad autoaffermarsi
soltanto per autoriprodursi? Cosa succede quando gli individui sono forzati in una e
solo una identità? Se la loro identità non è il risultato di un orgoglioso progetto di
autoriconoscimento ma un vestito che la vita mette loro addosso e solo quel vestito
hanno?
I soggetti che riconoscono in sè una identità fra altre sono ricchi mentre quelli che
vogliono o non possono che assumere una e una sola identità e di essa fanno o
sono costretti a fare il loro marchio di riconoscimento sono fondamentalmente
poveri, sono fondamentalisti nella loro povertà. Di una identità unica si muore e
spesso si uccide.
I Governi possono alimentare e rafforzare le identità uniche costringendo i loro
cittadini ad essere “solamente” mussulmani o “solamente” serbi ma
anche gli
interessi economici possono fare lo stesso costringendo gruppi di individui a essere
“solamente” portatori di una certa malattia e rappresentarsi esclusivamente come
“malati di...”. Anche la disperazione e la miseria forzano i soggetti alle identità
uniche: si diviene "solamente" clandestini o "solamente" immigrati o "solamente"
matti e null’altro.
Il modello lineare psico-bio-medico non tollera la complessità e favorisce le identità
esclusive e separate: le donne maltrattate sono “casi” clinici individuali cosi’ come i
rifugiati diventano casi di stress post traumatico. E’ certamente vero che ogni
singola donna maltrattata puo’ "anche" essere un caso clinico cosi’ come ogni
singolo rifugiato puo' "anche" essere un caso di stress post traumatico ma questa
possibilità/identità si impadronisce del resto e non permette alle risposte di essere
“anche” cliniche e non “solo ed esclusivamente” cliniche.
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I soggetti non si percepiscono piu’ e non sono piu’ percepiti come persone
complesse ma come rappresentanti di una identità unica. Non più uomini e donne
ma hutu o tutsi, serbi o bosniaci, clandestini o legali. Viene a negarsi la ricchezza
delle mille identità esistenti o potenziali dei soggetti, identità per fortuna
contradditorie e generatrici di competenze multiple. Giorgio Agamben in
“La
comunità a venire” suggerisce la possibilita che gli esseri umani, invece che
continuare a cercare una propria identità, possano trasformarsi in “singolarità senza
identità”.
Il processo di deistituzionalizzazione attivato
da Franco Basaglia non è stato
solamente la dinamica che ha posto fine allo scandalo del manicomio ma il
processo che ha fornito le tecnologie umane per la ricostruzione multiidentitaria di
soggetti ridotti a una solo identità (lungodegenti dei manicomi). I cronici del
manicomio erano e sono (dove il manicomio continua a esistere) “solamente”
lungodegenti, tutti uguali come tanti uomini della città di Gerasa, tutti prigionieri di
una sola identità. La deistituzionalizzazione è la denominazione delle diversità,
delle plurime identità, di modo che l’uomo di Gerasa cessi di chiamarsi Legione.
L’istituzione totale (e non solo quella manicomiale) teme la diversità, non tollera la
differenza, teme l’estraneo, lo straniero, teme la corporeità e la sessualità, teme la
produzione di senso perchè deve impiegare tutte le proprie energie per
autoriprodursi.
La nazione trasversale dei malati di mente, degli esclusi, dei fuggitivi, dei
clandestini è costretta in campi, riserve, istituzioni sanitarie, carceri, diagnosi,
aggregazioni sociali, gerghi, fatti in modo da bloccare le frontiere, gli scambi fra le
persone, fra le culture, fra le canzoni, le follie.
In Francia si chiamano “sans papiers” ossia senza documenti, dunque illegali,
coloro che migrano dall’Europa dell’Est o da Africa e Medio Oriente e si installano
senza permessi nelle città.
Vi sono molti modi per essere un “sans papier”: ci sono quelli che le carte che
documentano la loro identità le hanno ma sono in un altro luogo dove si’ sono
poveri e senza lavoro ma hanno pero’ carte che concretamente e metaforicamente
danno loro nome e identità; là sono soggetti e qui cessano di esserlo. Altri invece
non hanno un là perché sono sempre stati qui ma anche loro non hanno carte che li
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definiscano come soggetti perchè non hanno identità oramai né qui né altrove.
Ancora la nazione trasversale che ritorna con tutte le sue similarità. Ancora la città
che nega la soggettività, disconosce il senso prodotto da coloro che sono solo
portatori di identità forzate, esclusive.
Dunque la prima tappa (ben nota a chi si pose il problema nei manicomi di
ricostruire identità individuali) è quella del riconoscimento del senso prodotto dai
ciascuni: ciascuno è produttore di un senso e questa produzione umana ha diritto
ad essere riconosciuta e dotata di dignità e rispetto (il riconoscimento dell’uomo di
Gerasa da parte di Gesu’).
La seconda tappa è quella del lavoro a che tale senso si esprima, si connetta ad
altri, operi scambi affettivi e materiali, impari ad interagire. Si tratta di adattamenti
reciproci fra il soggetto e l’ambiente: soggetti piu’ competenti e ambienti piu’
tolleranti. E’ una dinamica di poteri che si acquisiscono, di contrattualità
psicologiche e sociali, di diritti che che cessano di essere negati. I protagonisti di
questa dinamica urbana? Tutti. Chi ostacola, chi sabota, chi promuove, chi tollera,
chi concede, chi si appropria, chi impara, chi impone. E in questa dinamica ci sono
individui e istituzioni, pubblico e privato, interessi, impegni civili e oblatività.
Ma anche c’è o dovrebbe esserci la democrazia che ha bisogno di poteri pubblici
che attivamente promuovono i diritti di cittadinanza per tutti i soggetti che per il solo
fatto di essere soggetti sono per definizione titolari dei diritti di cittadinanza.
Una democrazia è tale quando invece di normalizzare la diversità diversifica la
norma cogliendo la complessità dei bisogni e non avendo paura della diversità di
essi. I soggetti si liberano allora dalla prigione identitaria e la collettività si libera
dalla
paura
della
diversità:
l’incontro
costituisce
l’abilitazione
dell’esclusione/sofferenza allo statuto di cittadinanza.
Tale processo richiede un lavoro doppio, dei soggetti e della collettività . Chi non ha
una gamba ha bisogno di imparare a camminare con la protesi ma anche di una
citta senza barriere architettoniche e questo presuppone il lavoro del soggetto e
quello della città. La diversità e l’esclusione domandano di essere abilitate ossia
domandano protesi per camminare e regole nuove per potere camminare.
L’inclusione degli esclusi non è l’apprendimento delle regole del gioco degli inclusi
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da parte degli esclusi ma un mutamento delle regole del gioco. Dunque non
lavoriamo per una città senza diversi ma per una città diversa. Luoghi invece che
spazi: Franco Rotelli un giorno ha scritto che non esiste migliore servizio di salute
mentale che un bazaar di una città araba. Ossia: la piazza rinascimentale toscana,
il mercato di Chichicastenango in Guatemala, la spiaggia di Rio de Janeiro sono
luoghi e non semplicemente spazi (come invece le stazioni della metro o i
supermercati) e in essi si incontrano e si sperimentano le diversità, i neg- ozi che
negano l’ozio, le identità che si annullano per dare luogo a incontri e scambi.
La città "ospitale" permette la cittadinanza e la cittadinanza permette di non essere
nella prigione delle mono identità. I diritti di cittadinanza sono ben piu’ che i diritti
“negativi” (non essere escluso, non essere oggetto di violenza, non essere
abbandonato) ma a questi si sommano i diritti “positivi” (essere ascoltato, accolto,
riconosciuto nei propri bisogni). E’ molto probabile che il bisogno di appartenere ad
una e una sola identità sia una scelta forzata che deriva dal non avere cittadinanza,
dal non essere veri cittadini della città. A misura in cui godiamo dei diritti di
cittadinanza pieni e molteplici non abbiamo bisogno di riconoscerci e farci
riconoscere con un marchio piuttosto che un altro perchè la nostra soggettività e la
nostra corporeità sono riconosciute come umane e ricche di bisogni .
Questa è l’utopia della città vivibile e ospitale. Non ho bisogno di essere prigioniero
della mia identità unica di ultrà della curva dello stadio (identità che mi illudo di
avere scelto) nè sono prigioniero della mia identità di immigrante clandestino (che
non ho scelto) perchè posso essere tante diverse identità: padre/madre,
marito/moglie, lavoratore/lavoratrice, cristiano o mussulmano, matto o quant’altro
ma mai solamente una sola di queste identità. E ahimè gli ultras sono pronti a
scontrarsi con gli immigrati perchè entrambi sono portatori della stessa dolorosa
povertà ossia quella di essere prigionieri e ostaggi della città invece che esserne
cittadini.
La tolleranza è il paradigma che ci accompagna dall’Illuminismo; tolleranza como
sforzo morale di accettazione di cio’ che è diverso: “non sono assolutamente
d’accordo con quello che dite voi ma mi battero’ fino alla morte perchè possiate
continuare a dirlo” si dice abbia detto quel furbacchione di Voltaire. Dunque uno
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sforzo morale della maggioranza per accettare la minoranza fu propugnato da una
minoranza di uomini di buona volontà.
Oggi nella città contemporanea si tratta non solo di tolleranza dei ciascuni ma di
affermazione e protezione formale dei diritti da parte della collettività e dei poteri
pubblici. La cittadinanza è la forma contemporanea della tolleranza, non piu’
dinamica nobile fra individui, bensi’ corpo di leggi e di garanzie che definiscono una
nuova etica pubblica secondo cui i soggetti in quanto tali hanno diritto ad accedere
alle risposte appropriate ai loro bisogni. Tolleranza dunque come etica dell’accesso
alle opportunità affettive e materiali: ai servizi sanitari, alle opportunità lavorative,
alla casa, ma anche all’ascolto, all’accoglienza, allo scambio.
Ecco dunque che la sofferenza urbana diviene paradigma nuovo secondo cui:
·
Le sofferenze sono intersecate fra loro
·
Le sofferenze sono metaindividuali
·
Le risposte sono frammentate, frammentanti
·
Non c’è salute/benessere senza diritti
·
Privato e Pubblico insieme e o separatamente possono contribuire a
città invivibili e inospitali o il contrario
·
Tutto cio’ avviene a Milano e a Bombay, a Los Angeles e a Jakarta
ossia non c’è un Nord e un Sud del mondo con problemi diversi ma
ogni Nord, ovunque esso sia geograficamente collocato, ha il proprio
Sud
·
E’ necessaria una pratica della complessità che si caratterizzi non
solo per la virtu’ illuminata e illuminista della tolleranza ma per la
nuova virtu’ della cittadinanza che trascende la virtu’ individuale e
costruisce la virtu’ della Città e non solo quella dei singoli cittadini.
Sappiamo che tutto questo è vero a Milano e a Berlino e a Londra ma anche a
Bombay, a Jakarta e a Lagos. Ossia abbiamo buoni motivi per ritenere che la
frontiera non sia piu' tanto fra Nord e Sud del mondo (accezione simbolica per
definire Ricchi e Poveri) ma passi trasversalmente attraverso i Nord e i Sud e gli Est
e gli Ovest, "internamente" alle grandi metropoli. Dunque esperienze di città
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mortifere e negatrici dei diritti sono ubiquitarie ma ubiquitarie sono anche le "storie"
di coloro che lavorano perchè le città siano abitabili, siano ospitali, siano luoghi di
affermazione dei diritti e non solo spazi di negazione di essi. Storie, esperienze,
gruppi anch’essi costituenti una nazione trasversale di impavidi costruttori di
speranza. Vorremmo essere una "antenna" che fluttua nel cielo e manda e riceve
messaggi per questa nazione trasversale.
Outside –In e Inside – Out: Un approccio alla “Sofferenza” in SudAfrica
di Melvyn Freeman
Andando la’
i) Pane e case
Cerco di pensare alla violenza in maniera diversa
(Non mi piace pensarmi come una vittima)
Sono stata violentata a 6 , 11 anni e poi a 13 a 17 ed a 19
Non sapevo di essere stata violentata perche’
Non avevo idea che cosa fosse la violenza carnale.
La vita e’ un rifugio. La carne fragile del genere umano
Non puo’ sopportare gli estremi. Noi costruiamo noi stessi
Intorno a noi stessi, facendo un rifugio.
Quando costruisci una casa,
Stai attento nel mettere le finestre,
Quando esci da una ferita,
vedi cose attraverso occhi
che sono sopravvissuti.
Io guardo attraverso l’album
Delle mie violenze, esse erano il pane – un catalogo di certezze,
Ringraziavo per questo
Cibo quotidiano di realta’.
Pensa alle memorie cheloidiche dei
Guerrieri e delle guerriere dell’Africa: cicatrici
Inflitte deliberatamente, un dolore breve, un marchio,
un segno di identita’. Le leggo come il Braille.
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ii) Notte e sangue
Questa e’una lettera abbozzata alla luce di candela:
La lascio per tutti coloro che sono ugualmente
Confinati, repressi dolorosamente, aperti a meta’.
Coloro che si tengono stretti nelle proprie mani
E sperano di non versarsi
E scivolare via nella polvere senza senso.
La paura divora la speranza proprio come la notte mangia il giorno
Lasciando soltanto minuzzole di stelle. Troppo lontano
Per essere di alcun aiuto.
iii) polveri di luce
quando mi trovarono ero sporca,
furibonda e muta. Mi chiesero: che cosa
e’ successo? La preoccupazione aprì
la gabbia della memoria, e parole uscirono fuori da me
come minuzzole nella foresta di Gretel, le parole
divennero luce, le parole
mi mostrarono
come tornare a casa.
Adesso sono guarita.
Ma non ho più
La stessa apparenza.
Poesia di Phillippa Yaa de Villiers
Introduzione
Il soffrire e’ probabilmente espresso meglio dai poeti, dagli scrittori, dagli artisti e dai
cantautori, che dagli psichiatri e psicologi. Nonostante sicuramente esista
sovrapposizione con il disturbo mentale, il soffrire non può essere misurato
scientificamente, definito e paragonato e perciò rimane sempre e profondamente
una esperienza personale. D’altra parte, se vogliamo cercare di prevenirlo e
cambiarlo, non possiamo nemmeno lasciare il soffrire esclusivamente nel contesto
dell’espressione artistica e persone appartenenti a discipline e professioni diverse
devono coinvolgersi nell’analisi teorica, nella comprensione della questione, nel
cambiamento delle dinamiche che causano la sofferenza e nell’assistenza di coloro
che ne fanno esperienza. Le avversità materiali e fisiche, l’oppressione, la
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discriminazione, la migrazione, le condizioni sanitarie ed educative carenti, la
violenza e la guerra sono solo alcuni dei fattori che causano la sofferenza umana.
Pertanto, la riduzione della miseria umana ha bisogno di un approccio pluralistico
basato sulla partecipazione di contributi diversi.
Molte persone che si trovano nelle peggiori condizioni, riescono in maniera
sorprendente a superare le difficoltà materiali e fisiche e nonostante le condizioni
che di solito portano verso la disintegrazione psicologica, sono in grado di
mantenere integrità e benessere mentale. Alcune persone con caratteristiche
eccezionali, sembrano addirittura maturare in condizioni estremamente avverse e
mostrano qualità di buona salute mentale, quali la cura, il perdono e l’umiltà che
vanno molto al di là delle aspettative “normali” – relative anche a persone che vivono
in condizioni di vita molto più favorevoli. Tuttavia anche alcuni individui che si
trovano in circostanze fisiche e materiali molto più vantaggiose e comode fanno
esperienza di estrema sofferenza – fino ad arrivare al punto di togliersi la vita.
Pertanto, nonostante non esista alcun dubbio sul fatto che una serie di fattori sociali
avversi provochino la sofferenza, non esiste una relazione causale diretta fra
l’avversità e la reazione interna. La resistenza personale assume un ruolo
importante e la misura in cui la gente si dimostra capace di far fronte alle avversità
dipende anche da una combinazione di fattori biologici, psicologi e sociali.
L’eziologia e le soluzioni nell’affrontare la sofferenza umana si trovano sia al di fuori
che all’interno della persona e anche nelle inter-relazioni fra le persone ed i loro
mondi.
Anche se la sofferenza e’ universale, e si può discutere sul fatto che sia addirittura
una parte integrante della condizione umana, quando si confrontano le aree del
mondo, appare chiaro che la distribuzione delle avversità (per esempio come quelle
misurate dall’Indice dello Sviluppo Umanoi) e la risultante sofferenza, siano
entrambe asimmetriche e ingiuste. Nonostante sia controproducente instaurare una
gerarchia di sofferenza relativamente ai paesi, è comunque da notare che le forze
esterne che influenzano negativamente sul benessere delle persone nei paesi di
sviluppo siano estreme. La maggioranza di noi non è Nelson Mandela o Mahatma
Ghandi per i quali la sofferenza sembra aver rafforzato la “salute mentale”, e per la
maggioranza di noi, il costo psicologico di vivere nelle difficoltà passate e presenti è
estremamente alto.
La psicologia e la psichiatria più tradizionali tendono a localizzare la sofferenza
all’interno dell’individuo e di conseguenza la chiave della sua alleviazione risiede
nella persona stessa. Per apportare cambiamento potrebbe essere necessario
anche modificare modelli e schemi biologici, il modo di pensare delle persone, psicodinamiche individuali ed altri mezzi di cambiamento individuale di comportamento.
Se da una parte il cambiamento personale è importante, questi approcci da soli sono
inadequati a dare una risposta esauriente alla sofferenza umana visto che prendono
in considerazione solo gli effetti e non le cause della sofferenza ed, inoltre, perché
nei paesi di sviluppo la misura della sofferenza in rapporto alle risorse per affrontarla
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saranno inadeguate nell’immediato futuro che si sta profilando. Una risposta
razionale per alleviare la sofferenza richiede che le cause esterne di difficoltà
vengano affrontate e con vigore. Il mettere in risalto le determinanti sociali della
salute, salute mentale inclusa, ultimamente sta ricevendo molta attenzioneii e questo
fenomeno segna un importante passo avanti, ma un intervento di gran lunga
superiore è comunque necessario.
In questo articolo si intende sottolineare che molto del cambiamento esterno
necessario per prevenire la sofferenza dipende esso stesso da individui e comunita’
ben funzionanti. Pertanto alleviare la sofferenza non richiede solo il cambiamento di
fattori socio-economici che hanno un enorme impatto sulle persone, ma anche il
processo di rafforzamento delle capacità personali e di iniziativa individuali per far sì
che gli individui e le comunità possano diventare effettivamente agenti di
cambiamento socio-economico. Tutto ciò richiede affrontare direttamente la
sofferenza personale delle persone e cambiarla. Pertanto, bisogna capire la
sofferenza sia come si manifesta all’esterno che all’interno. Un’ulteriore questione
importante che il testo solleva si riferisce alla possibilita’ o meno di affrontare
simultaneamente i fattori interni ed esterni e le relazioni nella sofferenza.
Fattori di impatto chiave sulla salute mentale e la sofferenza in Sud Africa
E’ molto difficile isolare i principali fattori che causano la sofferenza in Sud Africa (ed
in ogni altro paese), visto che esiste una miriade di fattori che vi contribuiscono e
tutte le determinanti sono indubbiamente inter-connesse le une alle altre. Di seguito
vengono evidenziate 6 variabili inter-relazionate che appaiono come le più
significative: povertà, HIV/AIDS, disumanizzazione, violenza/crimine, abuso di
sostanze e salute mentale.
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Figura 1
Ognuno di questi fattori contribuisce alla sofferenza umana come una variabile a se
stante, anche se è collegato agli altri come un sistema ecologico a pressione ed un
cambiamento in qualsiasi punto ha un impatto a livello generale. Le dinamiche che
mettono in risalto il modo in cui ogni fattore contribuisca direttamente alla sofferenza
e allo stesso tempo ne abbia un impatto e venga influenzato dagli altri fattori, viene
illustrato da una breve analisi di tre delle variabili menzionate dalla matrice qui sopra,
ossia: povertà, HIV/AIDS e violenza/crimine. Sicuramente gli altri 3 fattori avrebbero
illustrato con ugual efficacia lo stesso concetto.
Povertà
La povertà può essere definita come “una condizione di deprivazione materiale
sociale in cui le persone cadono al di sotto di uno standard minimo socialmente
accettabile, o in cui fanno esperienza di deprivazione rispetto agli altri nella
società“iii. In Sud Africa ufficialmente il 23% della potenziale forza lavoro è
disoccupatoiv, anche se sembra molto probabile che questa percenuale sia
maggiore. Si stima che il numero di persone al di sotto della soglia di povertà
raggiunga il 71% nelle zone ruraliv. Il vivere nella povertà diventa un rischio per una
serie di condizioni di salute fisica come tubercolosi, malnutrizione, HIV/AIDS,
malattie respiratorie ed infettive. Allo stesso tempo è anche devastante da un punto
di vista psicologico o “mentale”. Vari studi dimostrano che in proporzione, percentuali
più alte di persone con disturbi di salute mentale vivono in situazioni di povertà
rispetto a persone che si trovano in condizioni economiche più favorevoli. Sarebbe
difficile, seguendo il buon senso, spiegare la situazione inversa. Una breve
illustrazione di un esempio tipico di una famiglia in condizioni di povertà e degli
stress psicologici ai quali è sottoposta viene rappresentata dalla natura ciclica del
seguente nexus.
Anele (nome fittizio), è una donna che vive in una baracca in un insediamento
informale con 4 bambini, nel mezzo della criminalità e della violenza diventando lei
stessa vittima di abusi domestici, con alle spalle una storia di violenza carnale e
furto. Vive con queste cicatrici giorno per giorno. Sperimenta anche la mancanza di
dignità, nel vestire stracci e nell’ essere alla mercè delle intemperie in una situazione
abitativa inadatta. In qualità di madre, si confronta con la spossatezza fisica e
psicologica per l’impossibilità di sfamare e provvedere con un rifugio adeguato ai
propri figli. Nonostante sia incapace di cambiare la propria situazione, si biasima e si
ritiene colpevole per lo stato di deprivazione in cui si trovano i suoi figli. Visto che la
sua identità come donna è inscindibile da quella di madre, essa si identifica con la
sua inadequatezza materna, credendo pertanto di non essere una persona
meritevole. La sua adeguatezza come persona è a rischio. Altre persone al di dentro
ed al di fuori della comunità in cui vive la biasimano, irrazionalmente. Il suo senso di
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colpa e la condanna dall’esterno sono forti nonostante Anele, come tante altre donne
che vivono in povertà, si privi del cibo che riesce a trovare per darlo ai suoi bambini.
La colpa psicologica che essa sente non ha molto a che fare con la realtà, ma il
dolore personale non è una illusione. Anele non ha fatto il test per la sieropositività,
ma ha paura di essere affetta da HIV. Non ha intenzione di farlo, perché ha paura di
un eventuale risultato positivo e nel caso risultasse sieropositiva, teme la reazione
violenta di suo marito. Ogni giorno non smette di pensare con preoccupazione al suo
stato ed a come i suoi figli potrebbero sopravvivere se lei morisse.
La spirale della sofferenza continua e si aggiunge al biasimo che Anele riversa su se
stessa ed a volte sui propri figli. La condizione mentale di Anele è aggravata dalla
debolezza fisica dipendente da malnutrizione. La risultante letargia significa anche
che oltre all’ impossibilità di provvedere al benessere materiale dei propri figli, Anele
è anche incapace di dare loro sostegno e supporto emotivo. La sua debolezza fisica
le preclude anche quelle saltuarie opportunità che si affacciano sulla sua strada
come piccole fonti di guadagno (ad esempio lavori domestici). La sua letargia
aumenta anche il rischio di problemi comportamentali nei confronti dei suoi figli.
Infatti, visto che i bambini si sentono trascurati a casa, dopo la scuola cercano di
trovare comunanza, un senso di appartenenza e di protezione in bande criminali ed
attraverso attività asociali. Questa spirale verso l’abisso, continua con la violenza
che crea nuova violenza, con l’aumento dell’ abuso di sostanze stupefacenti, con
l’aumento di traumi e con sempre meno possibilità di trasformare situazioni di
povertà in prosperità. La mancanza di servizi di salute mentale in grado di assistere
Anele ed i suoi figli riduce ulteriormente le opportunità di invertire la direzione di
questa sorte.
Mandla, il padre dei bambini, crede che sia sua responsabilità provvedere
materialmente alle necessità di tutta la famiglia, ma è disoccupato. Di conseguenza,
si sente sminuito nella sua dignità e nel suo potere personale. I piccoli guadagni che
riesce a mettere insieme vengono impiegati per comprare alcool ed altre sostanze
così da fargli dimenticare I propri problemi. Quando si ubriaca e sentendosi
profondamente senza potere, diventa violento ed abusa di Anele e dei bambini; la
stabilità in casa si riduce sempre più e lui diventa sempre meno disponibile nei
confronti dei bambini. Mandla trova sollievo emotivo con una prostituta e diventa
siero positivo. Non informa Anele del suo stato. Alla fine si sente così male per lo
stato di povertà della sua famiglia che decide di andare a rubare in una casa.
Razionalmente pensa che morirebbe ugualmente di HIV e pone le ragioni della sua
condizione nelle ingiustizie politiche passate e non si preoccupa di essere preso.
Sfortunatamente durante la rapina, trova gli abitanti in casa e senza rimorso si
appropria della pistola del proprietario per ucciderlo. Mandla, capo famiglia
tradizionale in potenza, viene catturato e messo in prigione. La disumanizzazione dei
suoi atti di violenza ha portato anche alla disumanizzazione delle sue vittime. Ma,
ancora una volta, si è ulteriormente disumanizzato all’interno di un circolo vizioso. Le
condizioni di prigionia ed il comportamento delle guardie completano l’opera: la
14
disintegrazione dell’autostima è totale e perde ogni minima convinzione di poter
diventare una persona capace di capire le necessità degli altri, dignitosa ed altruista.
Vi sono altri due fattori in stretta relazione con la povertà in Sud Africa: la
disumanizzazione ed il senso personale di impossibilità, lasciato in eredità
dall’Apartheid. L’Apartheid ha derubato la gente del proprio senso di dignità e così
per molti è andato vanificandosi il credere in se stessi ed il considerarsi individui
capaci di raggiungere autodeterminazione e fiducia. Anche 15 anni dopo l’
Apartheid, per molti questo processo distruttivo non si è arrestato. Tutto ciò ha
lasciato molte persone incapaci di superare la loro povertà anche dove occasioni di
cambiamento si erano manifestate. Di conseguenza per queste persone la miseria e
la sventura, come anche la mancanza di speranza e di aiuto, continuano ad esserci
nonostante ora vivano in una democrazia politica. Le opportunità di un possibile
cambiamento sono ancora limitate per queste persone e queste stesse rimangono
prigioniere di entrambi i loro mondi, interno ed esterno.
La povertà è un fattore rischio riconosciuto per la salute mentale, e d’altra parte la
salute mentale è un fattore rischio per la povertà. Persone con disturbi di salute
mentale spesso si ritrovano senza lavoro, isolate dalle loro famiglie e dagli amici e
cadono in uno stato di povertà. Inoltre, l’alto tasso di degrado della salute mentale
fra i poveri è una conseguenza in ugual misura sia dell’inadequatezza dei servizi, e
sia dello stress da povertà. Il non accesso alla cura per la lontananza fisica dei
servizi stessi o per fattori economici spesso si traduce nel non ricevere cura da parte
dei più poverivi. Questo, pertanto, si manifesta come un ulteriore circolo vizioso fra la
povertà ed il degrado della salute mentale. Da un recente studio nelle zone di
Johannesburg più gravemente colpite dalla povertà si rileva che quasi il 40% degli
intervistati presenta sintomi di comuni disturbi mentalivii. L’educazione e l’impiego
formale sono emersi come i più efficaci fattori di protezione.
HIV/AIDS
Nel 2006, la siero-positività in una clinica prenatale pubblica era arrivata (DOH,
2007) al 28.6%viii. Questo vuol dire che più di una donna incinta su 4 era
sieropositiva. Un Sudafricano su nove (11.4%) di età superiore ai due anni era
segnalato come sieropositivo alla fine del 2007ix. Anche se meno di 3 Sud Africani
su 100 nella fascia di età compresa fra i 10 ed i 14 anni risultano infettati di HIV, si
prevede - sulla base del tasso di infezione attuale - che il 20% della popolazione
sarà sieropositiva prima di raggiungere i 25 anni. Nel 2005 il Rapporto di Sviluppo
Umano ha identificato l’AIDS come il fattore che infligge la più severa inversione di
tendenza nella storia dello sviluppo umano (UNDP, 2005).
Molte persone soffrono a causa dell’HIV. Non si tratta soltanto dell’individuo
infettato, ma anche di suoi figli, della sua famiglia, di coloro che si prendono cura di
lei/lui e di tutta la società sulla quale si ripercuotono conseguenze negative. L’ AIDS
ha un forte impatto sulla povertà e sulla diseguaglianza, sullo sviluppo economico,
15
sulla disponibilità di forza lavoro, sui servizi sanitari, sull’aspettativa alla vita,
sull’educazione e su tutti gli aspetti dell’esistenza sia a livello individuale che
generalex. Nei prossimi 10 anni, ogni persona lavorativa ha una reale aspettativa di
dover provvedere ad una persona che dipenda dal suo stipendio, a causa
dell’epidemia HIV . Le famiglie che vivono nelle zone più povere dovranno farsi
carico di altre 8 persone che si troveranno a dipendere dai già minimi introiti, a causa
dell’AIDSxi.
E’ pertanto chiaro che l’HIV si espande più velocemente in condizioni di poverta’xii.
Sappiamo anche che persone sotto l’influenza di sostanze stupefacenti o alcol sono
più inclini a coinvolgersi in comportamenti sessuali rischiosi e che molte persone,
dopo aver appreso della loro sieropositività, per fuggire dalla loro paura e dal loro
dolore abusano di sostanzexiii.
La reciproca relazione fra HIV/AIDS e salute mentale è complessa. Lo stato di salute
mentale può essere un fattore rischio per contrarre HIV/AIDS, ed inoltre, la
mancanza di salute mentale incide ulterioremente sul corso della malattia ed è, a
sua volta, una sua conseguenzaxiv. Come dimostra la figura 2, la mancanza di salute
mentale, a prescindere che si tratti di schizzofrenia, depressione o altri disturbi,
spesso porta a comportamenti sessuali rischiosi. Inoltre, il modo in cui una persona
reagisce quando è infettato dal virus ha ripercussioni anche sul corso della malattia.
Il virus HIV attacca il cervello e senza terapia può portare alla demenza, e perfino
alla psicosi nei suoi stadi più avanzati. La sieropositività vuol dire quasi sempre uno
shock emozionale e vivere con l’HIV può essere estremamente stressante e
spossante a livello psicologico. Lo stigma e la discriminazione verso la sieropositività
aggravano ulteriormente il già serio stress psicologico. Qualora un individuo soffrisse
di entrambi HIV e disturbo mentale, sarebbe anche afflitto da una “doppia
discriminazione”.
16
Mental health status
and behaviour
affect the course of
the disease
Mental health
status and
behaviour affect
infection rates
HIV/AIDS
Status
Mental health affected by HIV, but also affect HIV status through, for
example poor adherence to medication
HIV/AIDS affects
the Central
nervous System
e.g. dementia
Positive HIV status
has
psychological and
behavioural
impacts
Certain medication
used for AIDS
treatment have negative
mental health side
effects
Nuovamente, questo esempio illustra che tutte le variabili nella nostra matrice si
combinano per contribuire all’espansione dello HIV ed allo stesso tempo ne sono
anche conseguenza. Il 45% di persone che vivono con l’HIV in Sud Africa hanno
diagnosticato anche un disturbo mentalexv. Questo si può spiegare perchè la
mancanza di salute mentale porta a comportamenti rischiosi che possono far
contrarre la sieropositività e perché vivere con l’HIV può portare alla malattia
mentale.
Crimine e violenza
La criminalità e la violenza sono cause principali di sofferenza umana in Sud Africa.
Un terzo di tutti i crimini evidenziati è di natura violenta. Il tasso di morte a causa di
violenza è 6 volte più alto rispetto alla media mondialexvi. Rispetto alla morte
violenta, in particolar modo gli uomini sono più vulnerabili delle donne (in
percentuale, muoiono 6 volte di più rispetto alle donne). Comunque, il tasso di
violenza domestica (contro le donne) è fra i più alti del mondo. Per esempio, basta
pensare che una donna su 4-6 donne viene picchiata dal proprio partner. Inoltre le
violenze carnali sono particolarmente alte, e 55.000 sono le persone che hanno
denunciato atti di abuso. Si calcola, però, che 450.000 violenze carnali non siano
state denunciate, il che vuol dire che in media ogni giorno in Sud Africa avvengono
1300 violenze carnalixvii (su una popolazione di 48 milioni).
Il dolore e la sofferenza causati dalla violenza non sono facilmente misurabili. Ai
tassi di violenza appena menzionati se ne aggiungono altri, calcolati su un campione
di 100.000 abitanti e nell’arco di 1 anno: 1000 assalti, 27 casi di furti di macchine, e
17
560 furti domiciliari. In questa situazione, i cittadini vivono nella paura di diventare la
prossima vittima. Questo inibisce la libera espressione della gente e l’abilità a vivere
vite libere e piene di soddisfazione.
L’abuso di sostanze è un altro fattore che ha un grande impatto sulla criminalità. Uno
studio portato avanti a Cape Town, Durban e Johannesburg, ha evidenziato che il
15% degli arrestati era sotto l’influenza dell’alcol al momento del presunto atto
criminale. Per i crimini violenti, i dati mostrano le seguenti percentuali in riferimento
all’uso di alcol delle persone arrestate: il 25% per crimini a mano armata, il 22% per
abusi sessuali, 17% per omicidio, 14% per assalto e il 10% per furto. I livelli di crimini
relativi all’alcol erano molto alti, raggiungendo il 49% nei casi di violenza familiare.
Alla domanda sul perché avessero assunto ablcol o droga, molti degli arrestati
hanno risposto che avevano fatto uso di queste sostanze per acquisire coraggio nel
compiere tali attixviii.
La relazione fra crimine e violenza e salute mentale è evidente soprattutto quando si
va a valutare la natura degli atti criminali. Per esempio, se la sola povertà fosse l’
unica spinta nel compimento di crimini ci si aspetterebbe che la maggior parte degli
atti criminali non fosse violenta e soprattutto non fosse caratterizzata da violenze
gratuite. Eppure esistono numerosi esempi di azioni criminali che includono l’assalto
alle vittime che vengono addirittura assassinate senza nessun apparente motivo.
Tutto ciò indica che la violenza è stata commessa da persone con una mente
traumatizzata, disturbata o alterata. Hoffman ritiene che spesso siano l’alienazione
ed il bisogno di essere riconosciuti che spinge a commettere violazioni su altre
personexix. La passata e la presente disumanizzazione degli individui rinforza azioni
violente che hanno dato luogo ad una cultura di paura e di auto-protezione invece
che di reciproca assistenza.
Il bisogno di trattare sia le cause che gli effetti della salute mentale
Il benessere umano ha bisogno di meno poverta’, meno HIV/AIDS, meno
disumanizzazione, meno crimine e violenza e ...più salute mentale. Forse si può dire
addirittura che dato l’impatto di fattori socio-economici sulla salute mentale, coloro
che sono seriamente dedicati all’alleviazione della sofferenza umana ed alla
promozione della salute mentale hanno l’obbligo non solo di capire i fattori strutturali
(socio-economici) insieme ad altri aspetti negativi che incidono sulla salute mentale
(come violenza, abuso di sostanze, HIV, disumanizzazione), ma anche di diventare
agenti attivi nel cambiamento di queste forze.
E’ importante, quindi, chiedersi se le persone che sono seriamente impegnate nel
combattere la sofferenza e le sue implicazioni di salute mentale possano e debbano
adoperarsi per identificare le cause invece delle conseguenze dei disturbi mentale.
Questa questione è particolarmente significativa proprio perché la salute mentale
risulta essere ovviamente una conseguenza di variabili socio-economiche. Per
esempio, se l’alleviazione o la riduzione di HIV/AIDS avessero un impatto più
18
significativo sulla salute mentale rispetto anche a interventi psichiatrici o psicologici
– e si può argomentare in maniera molto efficace questa tesi – questo vorrebbe dire
che gli operatori professionali di salute mentale dovrebbero smettere le terapie
curative per poter eliminare le cause? Per gli operatori di salute mentale nel settore
pubblico appassionati al motto “prevenire è meglio che curare”, questa alternativa
rappresenta una tentazione, ma è anche una soluzione che lascia il tempo che trova
per almeno tre ragioni. In primo luogo perché, a meno che lo staff professionale di
salute mentale abbia maturato capacità di riduzione alla povertà, i loro tentativi
darebbero pochi risultati. In secondo luogo, si può sostenere con grande probabilità
che la salute mentale e la sofferenza umana abbiano bisogno di interventi che
agiscano su entrambe le cause e gli effetti dei disturbi. Ma, considerato il fatto che
sicuramente l’enfasi predominante si è concentrata sulla cura invece che sulla
prevenzione, anche nel caso della salute mentale, l’alleviazione della sofferenza
fisica e mentale diventa un intervento umanitario importante. Inoltre, la sofferenza di
molte persone si acuisce in mancanza di interventi adeguati ed in questo caso, la
cura spesso esclude aspetti di prevenzione secondaria e terziaria. In terzo luogo, il
più importante ai fini di questa testimonianza, nel caso avessimo ragione di credere
(e ne siamo convinti) che la mancanza di salute mentale contribuisca
significativamente alla crescita di disagi sociali molto gravi quali la violenza, la
povertà, l’abuso di sostanze, la disumanizzazione e HIV, gli operatori professionali di
salute mentale possono assumere un ruolo sociale importante, aiutando gli individui
ad avere effetti sulle cause che influenzano negativamente le loro vite.
La salute mentale intesa come un fattore fondamentale per lo sviluppo sociale e
politico.
Persone che soffrono di disturbi di salute mentale e molti altri che soffrono
personalmente ma che non ricevono una diagnosi precisa, molto spesso non sono in
grado di contribuire positivamente al benessere personale, familiare e sociale.
Pertanto, invece di partecipare allo sviluppo e alla crescita locale dando il loro
contributo alla riduzione della povertà attraverso l’investimento personale di energia
e impegno, diventano un peso per gli altri membri familiari, comunità, stato.
Interventi di assistenza a livello individuale diventano fondamentali non solo perché
alleviano la sofferenza personale, che è un bene in se stesso, ma anche perchè il
non curare i disturbi mentali molto spesso peggiora la situazione di povertà, fa salire
il numero di persone affette da HIV/AIDS, di persone che abusano di sostanze,
esaspera il processo di disumanizzazione e mantiene il circolo vizioso di
vittimizzazione ed aggressione nella criminalità. Il benessere individuale è pertanto
intrinsicamente legato al benessere della comunità e società, nello stesso modo in
cui il disagio diventa causa e conseguenza di avversità. Visto che problemi di salute
mentale sono agenti di disagio sociale significativo come la violenza, la povertà,
l’abuso di sostanze, la disumanizzazione e HIV (anche se fossero piccoli agenti), gli
operatori professionali di salute mentale possono assumere un ruolo importante
offrendo assistenza a persone con problemi di salute mentale nella cura della salute
19
mentale (un obiettivo in se stesso) e nella funzione strumentale che contribuisce ad
eliminare il disagio sociale. Una buona prassi di salute mentale è pertanto una
componente necessaria per uno sviluppo ottimale socio-economico. Nello stesso
modo in cui individui fisicamente sani sono chiave di prosperità locale, nazionale e
internazionale, la salute mentale e la riduzione della sofferenza interna sono
essenziali per lo stesso motivo. Una buona prassi di salute mentale può essere un
fattore fondamentale di sviluppo sociale e politico.
Modelli di empowerment personale
Il precedente paragrafo suggerisce che, a parità di costi, gli interventi per alleviare i
sintomi di disturbi mentali o sofferenza, sono entrambi accettabili visto che
migliorano e rendono più tollerabile la vita dell’individuo (e probabilmente anche dei
suoi familiari) e contribuiscono al benessere della società attraverso l’empowerment
degli individui che riacquistano la capacità di influire positivamente all’interno del
proprio contesto socio-economico. Nonostante ciò, la maggior parte degli interventi
di salute mentale non ha l’obiettivo di assistere la persona nel capire le complesse
cause della propria sofferenza mentale e/o di aumentare le sue possibilità di
impegno personale e empowerment, al contrario si riduce ad agire e ad alleviarne i
sintomi. La terapia di comportamento cognitivo e il trattamento psicotropico sono
esempi di cura dei sintomi. Nonostante queste terapie siano importanti, in quanto la
ricerca dimostra siano efficaci nella riduzione dei sintomi psichiatrici, allo stesso
tempo questo approccio da solo rappresenta un’occasione persa nell’agire
sull’empowerment della persona che potrebbe portare ad un cambiamento socioeconomico. In tal senso, attraverso il solo intervento sui sintomi, si perde appunto “il
potenziale” di rendere la persona più consapevole di se stessa e dell’impatto che il
contesto circostante ha su di essa. In altre parole, l’opportunità di usare la sofferenza
delle persone per aiutarle a capire e pertanto cambiare i fattori causa dei sintomi
viene ignorata.
Per esempio, una donna può essere depressa perché vittima di violenze da parte del
marito. La terapia la può far sentire meglio senza però mai agire a livello del suo
empowerment personale che invece la porterebbe a prendere decisioni importanti
verso un cambiamento della propria situazione di vita. Senza questo empowerment
personale, l’impatto a livello sociale e politico diventa minimo. Un altro tipo di
“terapia” può essere più utile alle donne nell’aiutarle a capire la loro sofferenza e
metterla in relazione alla discriminazione e oppressione che si verifica sulle basi del
“genere”. In tal modo esse potrebbero diventare agenti decisive nel cambiamento
delle loro vite, attraverso la presa di coscienza e poi l’azione. Questo potrebbe
anche incrementare la partecipazione delle donne in movimenti sociali di attivismo
nella lotta contro l’abuso delle donne e contro la discriminazione di genere. In tal
caso, la sofferenza non è qualcosa solo da alleviare, ma viene recuperata in termini
positivi come strumento di cambiamento. Per molte persone, la vita assume un
significato (a volte per la prima volta) non solo quando si recupera un certo controllo
20
su di essa, ma anche quando si riesce ad impegnarsi attivamente per gli altri che
magari presentano le stesse cause di sofferenza.
Il lavoro con le comunità per il cambiamento
Questa sezione affronta la possibilità di lavorare con i membri delle comunità per
cambiare la loro situazione, cause di sofferenza incluse. La disciplina di psicologia
(critica) di comunità viene esplorata come un alternativa agli approcci che cercano
solo di cambiare l’individuo e/o si adagiano sull’adattamento di quest’ultimo alla
propria situazione senza cercare di cambiarla. La disciplina di psicologia di
comunità è stata sviluppata principalmente come reazione alla mancanza di risorse
umane ed economiche sufficienti a dare attenzione individuale ed inoltre, sotto la
convinzione che molti problemi di salute mentale avrebbero potuto essere risolti
attraverso il cambiamento sociale invece che solo individuale. La disciplina si cala
nelle cause dei problemi invece di concentrarsi sugli effetti. La psicologia di comunità
si differenzia dalla psichiatria di comunità che tende principalmente a offrire servizi
psichiatrici a livello di comunità. La psicologia di comunità si basa su “questioni
sociali, istituzioni sociali, ed altri contesti che influiscono sui gruppi e le
organizzazioni. L’obiettivo è di ottimizzare il benessere delle comunità e degli
individui attraverso interventi alternativi innovativi pensati e programmati con le
comunità colpite”xx. Ci sono diversi modelli di psicologia di comunità che si basano
su vari concetti e che si prefiggono obiettivi differenti, ma esistono anche
denominatori comuni. Questi sono per esempio messi in risalto dal modello di azione
sociale della psicologia di comunità che tende all’emancipazione e l’empowerment
della mente umana attraverso il ribaltamento delle strutture di oppressione che
causano la sofferenza umana.
La psicologia di comunità si basa sulle relazioni ed interazioni fra gli individui ed il
loro ambiente e contesto sociale. Secondo Lazarus, i valori e le supposizioni
fondamentali della psicologia di comunità si rifanno alle dinamiche
dell’oppressionexxi. Inoltre, questa disciplina si concentra anche sul rendere la
persona capace di riacquistare controllo sulla propria vita e sui fattori politici che la
influenzano. Invece di lavorare solo con gli individui per arrivare a tali obiettivi,
questa disciplina opera a livello di tutta la comunità (che può essere intesa come una
comunità nello “spazio”invece che nel “luogo”’) e sostiene il gruppo affinché esso
acquisisca un “senso psicologico di comunità””. Questa azione collettiva dà agli
individui un senso di solidarietà ed aumenta la capacità delle comunità a portare
cambiamento.
Burton e Kagan, sulla base di cio’che e’conosciuta come la Psicologia della
Liberazione sviluppatasi soprattutto in America Latina, identificano 5 elementi
centrali della psicologia critica di comunita’o della liberazionexxii.
i.
Coscientizzazione.
sostiene che la
Questo concetto sviluppato da Paulo Frère
liberazione materiale e psicologica avviene
21
nell’interazione fra due tipi di agenti: agenti catalitici esterni
(intellettuali, organici, attivisti, professionisti impegnati) e la gente
stessa vittima di oppressione. La persona cambia attraverso un dialogo
nel quale la gente afferra i meccanismi dell’oppressione e della
disumanizzazione. La gente diventa più sicura quando capisce le radici
della propria emarginazione e si organizza per agire insieme.
ii.
Realismo Critico e de-ideologizzazione. Per ottenere la “liberazione”
(interna ed esterna) è necessario che le persone “de-ideoligizzino” la
realtà. Le persone vengono letteralmente convinte a versioni di realtà
che fanno comodo a certi tipi di persone, ma che spesso sono
controproduttive per coloro che occupano posizioni vulnerabili.
Pertanto, la gente deve de-costruire l’ideologia che copre la realtà.
iii.
Un orientamento di società. La maggior parte degli approcci psicologici
sono individualistici. Anche quando rappresentata come “verita’”, essa
è una rappresentazione storica e culturale singola. Il potere e la
liberazione vengono raggiunti attraverso un orientamento più sociale
ed attraverso la comprensione.
iv.
Opzione preferenziale per le minoranze oppresse. Sono i problemi reali
delle persone, e non quelli che preoccupano gente in altri spazi e
contesti, a dover essere presi in considerazione. Il soddisfacimento dei
bisogni delle persone dipende dalla loro liberazione dalle strutture
sociali che mantengono l’oppressione.
v.
Eccletticismo metodologico. L’informazione dovrebbe essere raccolta
attraverso vari metodi tra cui i sondaggi, statistiche ufficiali, analisi di
contenuti, rappresentazioni sociali, interviste, analisi di testo,
psicodramma etc. La critica ideologica deve ugualmente informare
tutta la metodologia.
Combattere la sofferenza vuol dire oltrepassare l’individuo ed i sintomi che esso
presenta ed arrivare ad una comprensione di come il sistema sociale si è strutturato
e come funziona. Fenomeni sociali “entrano nella costruzione e nel funzionamento di
attori umani, le loro idee, desideri, pregiudizi, sentimenti, preferenze, abitudini, usi,
costume e cultura”xxiii (pag 25). Pertanto, comprendere una persona vuol dire
comprendere le forze sociali che la costruiscono. La conoscenza delle dinamiche
personali o interpersonali del comportamento umano e delle forze che formano il
modo di pensare e di comportarsi assistono il “facilitatore” nel dare gli strumenti alla
comunità perchè essa stessa possa trovare soluzioni di auto empowerment e di
liberazione dalle forze che la opprimono (anche mentalmente).
Conclusioni
22
Affrontare la sofferenza umana vuol dire cambiare le forze “all’ esterno”ed “all’
interno ”della persona. I cambiamenti esterni influenzeranno quelli interni. Entrambi i
processi sono importanti nel rimuovere la miseria di molte persone che vivono in
povertà, che non hanno le capacità per agire sulle proprie condizioni, che abusano di
sostanze ed alcool, che hanno disturbi di salute mentale e che sono affetti da
HIV/AIDS.
L’approccio di psicologia di comunità cerca di combinare questi processi.
Nell’applicare questo approccio basato sulle reali preoccupazioni della gente, le
persone riacquistano le capacità di agire sui processi di cambiamento delle loro
condizioni di vita e vengono sostenute attraverso relazioni dialogiche così da
apportare cambiamenti reali. In tale processo l’individuo acquista un senso di
benessere e potere personale e la capacità di agire sulle condizioni che bloccano la
propria azione.
Esiste troppa sofferenza umana nel mondo che può essere prevenuta. Noi abbiamo
scegliere se impegnarci nel processo di cambiamento o diventare parte del
problema. Questo testo è iniziato con un riferimento ai poeti, agli scrittori, ai
cantautori e si conclude con una delle frasi più penetranti di Albert Camus
“…così egli non dovrebbe essere uno di coloro che salvaguardano la propria pace,
ma testimoniare a favore delle persone colpite dalla peste; in questo modo la
memoria dell’ingiustizia o del torto fatti loro può durare: e affermare che impariamo
durante i tempi di pestilenza: e che ci sono più cose da ammirare che da odiare
nell’uomo. Potrebbe essere l’unica evidenza di ciò che avrebbe dovuto essere stato
fatto,…nonostante le loro personali afflizioni, da parte di tutti coloro che
nell’impossibilità di essere santi, fanno del loro meglio per diventare guaritori” (The
Plaguexxiv).
Note
i
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iii
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iv
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v
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vi
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vii
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ii
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23
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x
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Geneva.
xi
ibid
xii
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Montero M.(Ed) The Psychology of Liberation. Theory and Application.
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xxiv
Camus A. (1965) The Plague. Mcgraw-Hill London
Pratica in attesa di teoria
24
Interventi per la salute mentale di soggetti gravemente emarginati, italiani e
stranieri, nella strategia di Casa della carità a Milano
di Silvia Landra
Casa della carità a Milano è un contesto vitale con 120 posti-letto e alcuni spazi
diurni che non si propone di generare luoghi simili, ma eventualmente pratiche
analoghe, progetti nuovi e diversificati, occasioni dense per domandarsi come la
psichiatria possa oggi rispondere ai bisogni del contesto metropolitano.
Nasce 5 anni fa da un'intesa del Cardinale Carlo Maria Martini, che ha destinato alla
fase iniziale di questo progetto l'eredità del benefattore milanese Angelo Abriani, e
del Sindaco di Milano, che ha messo a disposizione uno stabile idoneo nella zona di
Crescenzago.
Il Vescovo e il Sindaco, il volto ecclesiale e il volto civico della città, accolgono di
comune accordo la sfida della cura come diritto di cittadinanza. Don Virginio
Colmegna ne assume la presidenza, portando i frutti di un percorso teorico-pratico
per la salute mentale già avviato da anni nella Diocesi milanese.
OBIETTIVI
Accesso alle cure
l
l
l
Concentrarsi sulla salute mentale di coloro che hanno da tempo interrotto i
contatti con i servizi di cura (i“persi di vista”) o dei soggetti che, pur
manifestando una sofferenza marcata, non hanno alcuna predisposizione a
rivolgersi ad un servizio di cura (i “mai visti”).
Garantire a tutti cura e cittadinanza, anche ai più fragili tra gli italiani che
hanno perso la posizione sanitaria poiché la vita di strada ha determinato il
blocco anagrafico, o ai più fragili tra gli stranieri che non sono riusciti ad
attivarsi per regolarizzare la propria posizione giuridica.
Offrire percorsi per favorire la consapevolezza di malattia e la motivazione
alla cura, cercando di non rendere impossibile il processo terapeuticoriabilitativo per coloro “che non si presentano di persona”.
Deistituzionalizzazione
25
Intervenire nelle situazioni di grave emarginazione sia sulla strada che al domicilio,
volendo tradurre in operatività due paradossi del contesto metropolitano: una strada
che può diventare istituzione totale dalla quale è difficile uscire e una casa che può
diventare “non-luogo”, nella quale non si riesce ad entrare con agio.
Protagonismo
Favorire l'autodeterminazione e l'acquisizione di responsabilità di soggetti che si
definiscono perdenti, che materialmente hanno perso beni e legami, che si sono
autorelegati nella “città invisibile”, quella dell'estemporaneità, dell'elemosina, degli
espedienti.
Prevenzione
Essere presenti con soggetti e gruppi che abitano la periferia urbana in condizioni
degradate favorendo strategie di inclusione con un'attenzione particolare per il
monitoraggio della salute di persone non già malate, ma fortemente a rischio di
sviluppare crisi.
STRATEGIE
Nella logica dei cerchi concentrici
Ci rivolgiamo ad un'utenza che tende a sradicarsi, a non fermarsi in un luogo.
Secondo uno schema conosciuto e sensato dei servizi residenziali, dopo tre giorni di
“fuga”, ad esempio, la retta non è più pagata: bisogna dimettere e ricominciare da
capo. Nel caso delle persone homeless la riduzione degli entusiasmi e
l'allungamento dei tempi necessari per trovare una nuova risposta da parte
dell'equipe curante ancor più diventano elementi demotivanti. Pare invece proficuo,
come emerge dalla sperimentazione, promuovere luoghi che consentano una
residenzialità anche discontinua. Ci viene in aiuto l'immagine dei cerchi concentrici: il
soggetto con i suoi bisogni è al centro e può migrare da un cerchio all'altro, ovvero
da una posizione più protetta ad una più autonoma, regredendo e progredendo fino
a che il successivo passo non sia consolidato perchè sostenuto da sufficiente
sicurezza interna. Essenziale è che i cerchi concentrici facciano parte dello stessa
sistema di pensiero, che coinvolga più servizi e spazi: non salti nel vuoto ma
movimenti visti, conosciuti, commentati insieme con il soggetto. Oltre alle tinte forti
delle risposte cliniche, insostituibili, oggi presenti nel panorama psichiatrico della
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regione, promuoviamo sfumature ulteriori, diversi gradi di protezione, residenzialità,
intensità riabilitativa. La logica dei cerchi concentrici riguarda anche il professionista
che sa condurre un'azione combinata tra un intervento esterno, volto a favorire
l'incontro tra bisogno e risposta, e un intervento interno, volto a far incontrare
desideri e bisogni.
Inversione dell'asse direzionale utente-servizio
Mettiamo in discussione che il principale movimento utile nella cura sia quello che
porta chi ha bisogno a dirigersi verso un servizio che offra aiuto. Si vogliono
rappresentare luoghi di cura mobili, visibili, più vicini alle persone, per far sì che
l'unico servizio in arrivo non sia l'autoambulanza e l'unico luogo conosciuto da certe
persone non sia l'ospedale nel reparto che accoglie l'acuzie. Si prova a portare le
competenze professionali sulla strada, in orari insoliti per la reperibilità dei servizi
cittadini, o nell'abitazione, dedicando un tempo prolungato all'osservazione,
all'incontro, alla promozione della consapevolezza di avere bisogno di aiuto.
Affiancamento e accompagnamento
Lavorare sulla strada insegna a muoversi e camminare molto. Percorrere le vie della
grande città per le persone più fragili è talvolta inquetante, dispersivo, desolante.
Abbiamo assistito a sblocchi emozionali e all'emergere di risorse individuali
inizialmente insperate attivando spesso la pratica dell'accompagnamento. Non si
intende solo il movimento dell'operatore che trasporta il soggetto, ma l'affiancamento
dello psicologo che approfondisce la conoscenza potendo vedere anche quali circuiti
l'homeless percorre in città o la disponibilità del consulente legale a stare diverse
ore in coda con una persona straniera negli uffici della questura o la scelta dello
psichiatra di accompagnare ad una visita psichiatrica presso il CPS o la capacità
dell'educatore di intuire e guidare comportamenti vivendo la città insieme con
l'interessato.
Pane e cultura
Promuovere riabilitazione in città e non in un paese, significa considerare che nella
metropoli il territorio ha un volto diverso, vissuto non tanto attraverso contiguità
spaziali (i negozi di fiducia, il cinema più vicino, la vita di quartiere…), ma per luoghi
simbolici e significativi.
Per uscire dalla città invisibile le persone hanno bisogno di poter accedere alla
Milano dei confronti, delle belle vie, delle opere d'arte, dello spettacolo. Lo
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sbilanciamento riflessivo, culturale e artistico con iniziative sia cercate fuori che
promosse dentro la casa risponde al desiderio di abbassare lo stigma dei cittadini e
di accorciare le distanze tra i fragili e i forti.
PRATICHE E NUMERI
Accoglienza residenziale
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·
·
·
Piano Abramo: 50 posti per maschi tardo pomeriggio e notte
Piano Sara: 40 posti per femmine tardo pomeriggio e notte
Comunità Sostare: 10 posti in appartamento interno giorno e notte
Casa Nido: 4 mini-appartamenti interni per madri con figli giorno e notte
Casetta: prefabbricato attiguo per 10 nuclei familiari giorno e notte
Intervento sulla strada
·
Progetto Diogene, equipe multidisciplinare per la salute mentale
Interventi domiciliari
·
·
Progetto Proviamoci Ancora (circa 70 soggetti nel quartiere Molise-Calvairate)
Progetto Rete Appartamenti (10 persone)
Interventi preventivi
(contesti nei quali possono svilupparsi secondo le necessità consulenze sulla salute
o veri e propri percorsi di salute mentale anche se non accompagnati da un posto
letto presso la rete di Casa della carità)
·
·
·
Campi rom (800 persone seguite)
Servizi per le docce agli esterni (200 accessi alla settimana)
Centro di Ascolto (20 nuovi giunti circa alla settimana che chiedono ospitalità)
Teoria in attesa di pratica
Deliri di Città
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di Virginio Colmegna
Dante afferma nel " La Monarchia":"" non dobbiamo essere come una voragine, che
prende senza restituire, ma dobbiamo restituire ciò che c'è stato dato." Così il
grande poeta si opponeva a quanto aveva affermato il suo maestro,Brunetto Latini,
che affermava nel Tesoretto" la cultura è qualcosa che dobbiamo accumulare per noi
perché in tempi tristi-durante l'esilio o in prigionia-nessuno ce la potrà togliere e
potremo goderne". Sogno che queste due realtà,dono e possesso di cultura non si
contrappongano, ma ci sia la capacità di custodire anche pubblicamente memoria e
futuro radicandosi nel presente. Si dobbiamo mantenerci svegli, attenti
all'inatteso.Kejnes, l'economista, nel 1921 in Treatise on probabilitj diceva"
l'inevitabile non accade mai, l'inatteso sempre". Dobbiamo vivere in un mondo, in
una grande metropoli dove le grandi traiettorie di senso, di valori lasciano il posto
all'insicurezza,all’incertezza. Dobbiamo trasformare questo in ricerca, dobbiamo
essere in grado di scrutare i segni di un futuro che non è più una lineare
prosecuzione del presente, ma incombe, arriva improvviso. E dove sta questa novità
che germina dentro il vivere, l'abitare'? Paura e sicurezza chiudono le relazioni tra le
persone, indeboliscono i legami di cittadinanza, di diritti, tutto diventa ingabbiato, si
inchioda e si arresta il tempo, si delira nel presente pieno di paure. Dai tanti
sotterranei della storia, negli scantinati esistenziali di ciascuno dove spesso si
avverte il vuoto noi dobbiamo ricominciare a pensare in grande, a raccogliere la sfida
che questi mondi, che queste storie possono portare con domande cariche di senso.
La città che non pensa produce disuguaglianza, e immettere pensiero chiede tempi
lunghi, capacità di ascolto. Anche la psichiatria senza pensiero, senza ascolto
diventa psichiatria che sancisce le disuguaglianze. Per pensare alla salute mentale
cittadina, metropolitana occorre un coraggioso scambio di pensieri tra soggetti che
autenticamente rappresentino in modi diversi il coraggio di elaborare problemi,
domande, strategie. Quando ciò non accade, la città sforna testi asfittici, scarni,
insensati. Ed allora ritorniamo a letture che possono dare ossigeno, ecologia
mentale e ricominciamo anche a leggere i racconti pieni di dignità di quanti portano
con sé la sofferenza e l'incertezza del vivere. La sofferenza raccontata può diventare
quando è ascoltata sollecitazione al cambiamento, all'incontro, lascia anche spazio a
quel desiderio di felicità che può irrompere quando non si dimentica da indifferenti
ma si trabocca di giustizia. Promuovere salute mentale in una metropoli significa
anche vedere partecipare e vedere crescere individui consapevoli non tifosi, individui
riflessivi. Stare bene significa capire anche che noi del mondo occidentale,
banchettiamo dentro una fortezza, mentre miliardi di uomini, fuori dalla fortezza,
muoiono di fame. L'illusione di una metropoli come Milano che pensa di costruire un
evento per il 2015 che ha il tema" nutrire il pianeta" senza partire dalle fragilità, dalle
debolezze, dai diritti, senza immettere energie di solidarietà, di culture che si
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meticciano, impoverisce questa città .Solo un'audacia piena di indignazione può far
inchinare tutti a raccogliere questa domanda di futuro, possederla e donarla nella
reciprocità di un abitare in una metropoli che abbia come territorio privilegiato la
strada, le piazze notturne, le periferie degradate, i cosiddetti non luoghi. Immagino
operatori pubblici e privati che uniscano le forze per realizzare davvero un servizio
pubblico, spazi pubblici dove ci si permetta di negare le disuguaglianze e
promuovere le differenze. Realizzare percorsi di giustizia sociale per esprimere
maggior libertà di scelte, maggiore soggettività, capaci di mettersi anche fuori
schema pur di moltiplicare il bene e il benessere oltre ogni logica prestazionistica e
custodialistica.
SouqBiblio: bibliografia internazionale annotata
di Benedetto Saraceno
1) CSDH (2008). Closing the gap in a generation: Health equity through action on
the Social Determinants of Health. Final Report of the Commission on Social
Determinants of Health. Geneva, World Health Organization.
La Commissione sui Determinanti Sociali della Salute è stata istituita dalla
Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2005 allo scopo di raccogliere e
ordinare le evidenze scientifiche sui determinanti sociali della salute e
descrivere i nessi fra determinanti sociali e le ingiustizie e inequità corelate allo
stato di salute/malattia delle popolazioni e degli individui.
L’obbiettivo della Commssione durante il suo mandato è stato quello di
promuovere un movimento globale capace di promuovere la giustizia nel campo
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della salute. Il Rapporto presenta una fotografia accurata e documentata delle
variabili sociali, economiche, culturale e politiche connesse con la ingiustizia nel
campo della salute. Il Rapporto formula numerose raccomandazioni strutturate
intorno a tre aree di azione : la urgenza di migliorare le condizioni di vita
quotidiana delle popolazioni con speciale enfasi sui bambini e le donne ;
l’urgenza di affrontare il nodo della iniqua distribuzione del Potere, del Denaro e
delle Risorse ; l’urgenza di creare meccanismi di « sorveglianza » dell’ingiustizia
focalizzati sulle iniquità nel campo della salute e dell’accesso ai servizi sanitari
per le popolazioni piu’ povere e vulnerabili.
2) KNUS (2007). Our cities, our health, our future: acting on social determinants
for health equity in urban settings. Final Report of the Urban Settings
Knowledge Network of the Commission on Social Determinants of Health.
Geneva, World Health Organization.
Un Rapporto che illustra il ruolo della urbanizzazione e del setting urbano come
dterminanti sociali di salute e malattia. L’enfasi del Rapporto è sugli aspetti
molteplici della patologia ambientale generata dalla Città e sull’impatto che tale
patologia ha sui gruppi vulnerabili. Il Rapporto offre uno spettro ampio e radicale
di possibili correttivi sia direttamente connessi ad una diversa prianificazione dei
servizi sanitari urbani sia (ed è forse la parte piu’ innovativa del Rapporto) sulle
possibili innovazioni nei processi di governance della città e sulle forme di
partecipazione dal basso alla programmazione e gestione dei servizi da parte
dei gruppi vulnerabili.Una parte del Rapporto è dedicata alle esperienze di
microfinanziamento e di investimenti locali.
3) Mercado S et al. (2007). Urban as a determinant of Health. Journal of Urban
Health 84 (Suppl.1) 7-15.
L’articolo sintetizza in modo eficace e documentato la recente letteratura sui
nessi fra contesto urbano, povertà, salute e malattia. L’articolo enfatizza
l’importanza di politiche innovative di sanità pubblica per affrontare le questioni
di « sofferenza urbana » che non possono essere analizzate, capite e
affrontate in una prospettiva esclusivamente economica.
4) Pridmore P et al. (2007). Social Capital and Healthy Urbanization in a
Globalized World. Journal of Urban Health 84 (Suppl. 1) 130-143.
Si tratta di una esaustiva revisione critica della nozione di capitale sociale come
risorsa per promuovere la equità nel campo della salute nei contesti
urbani.L’articolo offre una rivisitazione molto aggiornata del concetto di « social
capital » mostrando come gli interventi in campo sanitario possano essere
vanificati in assenza di un serio investimento sulla promozione del social capital
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nel contest ove si interviene. In altre parole l’articolo promuove la ide ache di
non sia possibile sviluppare serie riforme di carattere sanitario in una comunità
data senza che tale comunità non sia messa nelle condizioni di sviluppare in
forma partecipativa il proprio capitale sociale.
5) Furtos J (2008). Les cliniques de la précarité. Issy-les- Moulineaux, Elsevier
Masson.
Un libro collettivo scritto da professionisti della salute mentale dei servizi
pubblici francesi. Si tratta di una riflessione intelligente sulle implicazioni per la
psicopatologia tradizionale delle tante e nuove forme di precarietà psico sociale.
Gli autori enfatizzano che la buona pratica dei servizi di salute mentale non puo’
esaurirsi in una semplice « buona psichiatria clinica ». I contesti sono sempre
piu’ complessi e cosi’ le forme che la sofferenza individuale viene assumendo.
Gli autori introducono la nozione di clinica psicosociale come teoria e pratica del
fare psichiatria nei contesti della precarietà urbana. Anche se fortemente
influenzato dall’inevitabile e immodificato modello psicoanalitico francese, il libro
offre spunti innovatori sia sul piano della comprensione delle nuove forme di
sofferenza psicologica determinate dalle specificità della precarietà ma anche
suggerisce forme di intervento « a tutto campo » di interesse per operatori che
lavorano in territori e contesti urbani difficili.
Milano, 1 Aprile 2010
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