Dalla Cronaca del Cammino dei Santi Innocenti

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Dalla Cronaca del Cammino dei Santi Innocenti
Dalla Cronaca del Cammino dei Santi Innocenti.
Brindisi, il giorno 28 del mese di ottobre dell’anno 1212 d.C.
Mi chiamo Leone. Sono un monaco. O forse non lo
sono più. Se mi guardo indietro, vedo il mio passato dissolversi in polvere. Memento, homo, quod pulvis es et in
pulverem reverteris. Ora so a che cosa si riferisce. Non
tanto alla carne, quanto a ciò che siamo stati nello spirito;
agli atteggiamenti e alle convinzioni, alle conoscenze e all’insieme di tutte le qualità e i vizi che ci definiscono come
esseri umani unici e originali.
Polvere, solo polvere di ciò che sono stato. Eppure sono ancora vivo. Non è la morte a renderci polvere, ma la
vita. Poi la polvere s’impasta con l’acqua che lava via i ricordi e tra le mani abbiamo una palla di creta che possiamo rimodellare. Una nuova vita.
Ecco a che cosa si riferiscono le parole della Genesi: in
ogni vita ci sono più vite e ogni volta che moriamo da vivi
possiamo rinascere per affrontare nuove strade di saggezza.
Questo mi ha insegnato il viaggio che mi ha portato a
Brindisi, dove ora mi trovo. Sono seduto al porto e attendo di imbarcarmi.
Forse queste sono le ultime cose che scrivo. Forse. Oh,
quanta consolazione mi danno le parole che meno delle altre hanno un’identità! Forse... dubito... ignoro... non so con
certezza...
Se mi guardo indietro, mi rivedo bambino di pochi anni
affidato ai monaci di Chartres da un mercante disperato:
aveva appena perso la moglie in un agguato e con lei tutti
i suoi averi. Un mese prima si era accodato a quanti avevano già trovato nelle fiere della Champagne, la ricca re-
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gione della Francia, occasioni di buoni affari, ma nei pressi di Troyes due banditi avevano ridotto in polvere le sue
ambizioni. Pulvis es...
Il mercante non godeva di alcun credito in una regione
dove nessuno lo conosceva e aveva dovuto tornarsene in
Italia. I monaci mi avrebbero custodito fino al suo ritorno,
che però non avvenne mai. Morì? Forse di dolore? Sì, morì
sulle Alpi, ma questo lo si venne a sapere solo due anni
dopo. Io, affidato alla misericordia divina, fui allevato nella dottrina cristiana, imparai a fare il costruttore di edifici
e divenni monaco benedettino a Cloyes, un borgo di nemmeno duecento anime a sud di Chartres.
La mia vita era semplice. Possedevo già tutte le conoscenze che mi servivano per lodare Dio ogni giorno e non
sospettavo che altre, devastanti, ne avrei acquisite sulle
strade del mondo.
Ciò che ero non lo sarò mai più, ma questo ha smesso
di angosciarmi. Ciò che sarò non lo so ancora, ma nemmeno questo mi angoscia. Ogni istante della mia vita è
stato scandito dalla regola benedettina e dall’autorità delle
scritture sacre e dei miei superiori. Ma in questo viaggio
io, muratore di Dio, ho edificato regole nuove, che a volte
completano le vecchie a volte invece le soppiantano. Altre
volte, una regola stride contro l’altra e io non ho sufficiente saggezza per operare una scelta giusta e consapevole.
In questi casi mi sento davvero uomo e l’accettazione
dei miei limiti mi procura serenità, non frustrazione.
Non tutto mi è chiaro di ciò che sono stato, di ciò che
sono e che sarò, ma di questo ringrazio Dio perché si fa carico delle mie contraddizioni. A lui è affidata la verità, e a
lui solo.
Da Cloyes sono partito quattro mesi fa per scortare Stefano, l’oblato che aveva parlato con Gesù. Durante questi
mesi (solo quattro! ma il mondo ha fatto in tempo a cambiare faccia) ho scritto una cronaca del cammino dei pueri
da Cloyes verso Gerusalemme.
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I pueri... Continuo a chiamarli così: fanciulli. Ma lo
riconosco senza vergogna e anzi con orgoglio: tra i fanciulli c’erano donne e uomini fatti, e non tutti onesti e di
santi intendimenti. A condurre la nostra peregrinatio, il
nostro pellegrinaggio, è stata l’umanità varia che si trascina penosamente per le strade del mondo. Quella vera, non
quella ipocrita che frequenta tanti palazzi e perfino tante
chiese.
Che cosa ho voluto testimoniare con la mia cronaca?
Non lo so, non so più niente. Mi ha spronato la convinzione che se tanti hanno voluto imbavagliare le voci di Stefano e di coloro che lo hanno amato e seguito almeno uno
doveva gridare al mondo la verità su un pellegrinaggio simile al calvario.
Ora affiderò il manoscritto a una gentile persona che ho
conosciuto in città. Si chiama Guccione. Una persona con
la quale ho avuto lunghi colloqui, così che ne ho approfondito le qualità rare dell’animo generoso e onesto. Anche lui, come il padre che non ricordo nemmeno più, fa il
mercante, a dimostrazione che non tutti i mercanti sono
votati solo al gretto incremento dei propri affari.
In primavera Guccione dovrà recarsi a Reims. Passerà
da Cluny e sarà all’abate Guglielmo che consegnerà le mie
parole di illetterato sincero. A lui o al suo successore.
Poi, l’abate deciderà se bruciare queste pagine o seppellirle in un angolo della biblioteca o darle da copiare ai
suoi monaci.
La sua volontà rispecchierà quella di Dio.
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Guccione da Firenze bussò al monastero di Cluny all’inizio dell’aprile del 1213. Consegnò a Guglielmo II d’Alsazia, l’abate, il plico di un monaco di nome Leone che
aveva conosciuto a Brindisi nell’ottobre dell’anno precedente.
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“Leone di Cloyes?” domandò l’abate visibilmente stupito.
“Proprio lui.”
Che cosa ci fa a Brindisi? pensò, impaziente di ascoltare la risposta. Ma represse la curiosità, fece accomodare
il mercante, gli offrì un boccale di birra e solo dopo gli rivolse la domanda.
“Come mai Leone è finito a Brindisi? E tutti quei fanciulli? Che fine hanno fatto?”
E Guccione raccontò il poco che sapeva.
“Tutto il resto” disse quando ebbe finito di raccontare
“è scritto qui. Non proprio tutto, ahimé. Avevo lasciato i
bagagli in una locanda vicino a Milano, ed ero poi uscito
con un conoscente, mercante come me. Era un giorno di
festa e la locanda si era svuotata. Anche l’oste era in strada a osservare i giocolieri. Così alcuni malandrini entrarono nelle camere incustodite e a me rubarono cose di valore, oltre a rovinarne o distruggerne altre, come alcune coppe di vetro di Murano a cui tenevo in modo particolare.
Lanciarono poi dalla finestra il manoscritto di Leone, Dio
solo sa per quale motivo. Avevano in odio i libri? Le strade erano piene di gente festante e molti fogli andarono
persi. Ma ritengo che l’opera nel complesso sia comunque
integra e che riesca ugualmente a trasmettere al lettore il
pensiero del monaco.”
A compieta, ritiratosi nella cella, l’abate iniziò a leggere alla luce di una candela.
Il mercante aveva ragione. Non gli fu difficile colmare
con l’immaginazione i vuoti delle pagine mancanti. A un
certo punto non capì più se stava leggendo o piuttosto immaginando. Le parole e i pensieri di Leone si amalgamarono con parole e pensieri suoi, come sabbia e cemento fissati l’una all’altro dall’acqua.
Sulle pareti spoglie ebbe l’impressione che si agitassero i volti di migliaia di pueri. E ognuno di loro fece sentire la propria voce per pregare, cantare, supplicare, imprecare, maledire, singhiozzare e piangere una pena infinita.
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Quella notte l’abate non dormì.
Anche lui pianse.
A giorno fatto uscì per sfuggire ai fantasmi che aveva
evocato, lasciando la candela accesa accanto alle pergamene. Fu un bagliore di breve durata, sufficiente a mutare
in cenere buona parte della cronaca del monaco Leone.
L’abate per qualche tempo pensò che si era manifestata la volontà di Dio. Un libro come quello era opportuno
che non venisse letto da nessun altro. La chiesa andava difesa sempre e comunque. Ma come placare i fantasmi che
tutte le notti lo visitavano?
Alla fine cedette e interpretò in modo diverso la divina
volontà: che la cronaca del monaco venisse trascritta a memoria e completata; e poi conservata per sempre in un angolo oscuro della biblioteca, dove nessuno l’avrebbe mai
cercata perché nessuno avrebbe mai saputo della sua esistenza.
L’abate morì, della sua riscrittura della cronaca di Leone nessuno aveva mai saputo nulla, ma poi qualcuno trovò
il manoscritto. Ed era passata una grande quantità di tempo. Il libro risultava redatto in lingua antica e chi lo trovò
lo fece tradurre e chi lo tradusse lo accomodò per convertirlo alla modernità e soprattutto alle proprie idee.
Un’altra quantità enorme di tempo passò e un altro studioso volle recuperare lo spirito genuino della stesura originale e si adoperò in tal senso con passione e ansia di giustizia e verità. Aveva quasi concluso la fatica quando la
guerra, una delle tante, lo costrinse a fuggire lasciandosi
alle spalle le macerie della sua casa, sotto le quali scomparve ogni suo scritto.
Lo studioso non ebbe l’animo di ricominciare e pubblicò
solo una sintesi della crociata dei bambini. Fece scalpore,
tanto che nel giro di pochi anni furono editi ben sette libri
di contenuto simile, di autori atei e credenti, con punti di
vista molto diversi. Alcuni ebbero successo, altri no.
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In seguito, sette studiosi tra filologi, storici e teologi scrissero sette testi sulle crociate dei fanciulli esponendo interpretazioni contrastanti.
Dopo due secoli, il particolare clima politico consacrò
l’unico testo da considerarsi storicamente, filologicamente
e teologicamente veritiero, ed era solo uno dei tanti stesi
sull’argomento. Ma qualche tempo dopo, la rivoluzione
(una delle tante) bruciò quel testo e ne impose un altro, il
cui autore godette di grande considerazione presso le tre
generazioni successive.
Altre ventisette cronache, nei tempi che seguirono, furono scritte. Ogni autore aggiunse e tolse a seconda dell’estro, della fede politica e di quella religiosa. Ci fu chi scrisse alla maniera antica, chi utilizzò il codice poetico, chi
elaborò una riduzione teatrale, chi aumentò o diminuì il numero dei personaggi, chi raccontò in prima persona e chi
in terza.
Dire ora dove si ponga questo libro tra i tanti che sono
stati scritti non è facile.
L’unica cosa certa è che è uno dei tanti. L’autore, come
quelli che l’hanno preceduto e quelli che lo seguiranno,
finge di conoscere per filo e per segno persone e fatti, territori e città, ragioni del cuore e della mente, motivazioni
e pretesti, passioni e pregiudizi.
Insomma, la verità.
Ma la verità che non si trova nei documenti storici tantomeno si può sperare di scorgerla, seppure da lontano, nei
racconti dell’immaginazione. Essi sono però meno bugiardi della storia, a meno che non vogliano ribadire le bugie
del passato, come spesso succede quando queste bugie
sono i paramenti sontuosi degli uomini di potere o gli abiti
decorosi della gente di piccola virtù.
Se l’immaginazione è onesta e libera, ciò che nasce falso potrebbe risultare vero.
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