Quando quel bambino entrò, spingendo la porta con entrambe le

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Quando quel bambino entrò, spingendo la porta con entrambe le
Diverso senza nome
Quando quel bambino entrò, spingendo la porta con entrambe le mani e accertandosi, una volta dentro, che
si richiudesse dietro di lui, accompagnandola con lo sguardo e, stavolta una mano sola, io stavo finendo di
apparecchiare un tavolo con due coperti. Uno accanto all’altro, non uno di fronte all’altro come sarebbe stata
la norma al di fuori di quel giorno dell’anno. Tre piatti, due bicchieri, una rosa fresca.
Il piccolo si voltò e mi fissò.
Quando la porta si era mossa, avevo alzato lo sguardo verso l’entrata, per guardare chi fosse, ma quando vidi
chi era appena entrato, non riuscii a pronunciare la frase che avrei detto se mi fossi trovata di fronte un
adulto: “Siamo ancora chiusi, posso prendere una prenotazione se desidera, ma la cucina non può ancora
servire la cena”.
Il bimbo si avvicinò, infilandosi una mano nella tasca della giacca blu, esattamente come avrebbe fatto un
uomo d’affari che si avvicini informale a qualcuno.
Aveva capelli scuri e dal leggero riflesso ramato, una rosa evidente sulla fronte che li arruffava un po’, e due
occhi neri e profondi.
<<Tu sei Francesca, vero?>>
Mi tirai su dritta sulla schiena, ancora di più di ciò che avevo appena fatto nel vederlo.
<<Si, tu chi sei?>> domandai, cercando di cogliere nel suo viso qualche tratto famigliare, qualcosa che mi
ricordasse qualcuno che conoscevo e che avesse dei figli. Figli che io non avevo mai conosciuto per altro,
perché il viso di quel bimbo mi era completamente nuovo.
<<Sono Francesco>> rispose candidamente, poi prese fiato, del tutto tranquillo e continuò, <<la mia
mamma chiede se domani sera puoi andare alle sei in questo posto>>.
Estrasse finalmente la mano dalla tasca e mi porse una fotografia.
Appoggiai lo sguardo su quel pezzo di carta lucida che mi stava allungando all’altezza della pancia e poi, di
nuovo, su di lui.
<<Chi è la tua mamma?>>
In tutta risposta il piccolo distese ancora un po’ il braccio, senza muoversi sui piedi e senza dire nulla, come
a rispondermi di non fare domande e di prendere semplicemente la fotografia che mi stava porgendo.
Pizzicai con le dita l’angolo di quel dono inaspettato, lo osservai, senza realmente vederlo e seguii con lo
sguardo il piccolo che usciva dalla porta del ristorante. Il campanello appeso al muro tintinnò leggero e
quella testolina di capelli scuri e la giacca blu scomparvero oltre l’angolo del muro.
Tornai a guardare la foto.
Un prato tagliato perfettamente all’inglese che dolcemente declinava fino a toccare le sponde di un piccolo
lago con alcuni cigni immobili. Delle panchine in lontananza, tra gli alberi e una in primo piano, un tipo che
pedalava in bicicletta assorto sullo sfondo, alberi vestiti di foglie tenere e verdissime e altri di fiori rosati e
bianchi e una fontanella dalla forma inconfondibile, che rese quel posto immediatamente famigliare.
Era un piccolo parco a qualche isolato da dove vivevo. Abitato da scoiattoli invadenti, come quasi tutti i
parchi di Londra, ma pochi turisti fracassoni, a differenza di altri posti del centro.
Voltai quel pezzo di carta. Nulla. Dietro era rigorosamente bianco carta da stampa.
Pensai a uno scherzo. Oppure ad una confusione di persone. Quel bambino doveva aver sbagliato. O meglio,
sua mamma, doveva aver sbagliato. Non ero di certo l’unica italiana immigrata in tutta Londra e Francesca è
un nome molto comune in Italia, per altro. Pasta alla Norma, saltimbocca alla Romana, e fettine di Roastbeef
con olio e rucola fresca. La mia fortuna era stata che i londinesi adorano la cucina italiana.
Eppure, quel bambino aveva qualcosa che mi lasciava perplessa. Tiramisù, nella variante allo zafferano.
Parlava perfettamente italiano.
Ci sono moltissimi bambini a Londra che parlano benissimo l’italiano e i più, sono figli di immigrati, magari
nati in Italia, oppure arrivati nelle pance delle loro mamme. Ma quel bambino, parlava un italiano diverso.
Pulito, cristallino, di chi non ha mai dovuto imparare una seconda lingua e non fa mai confusione di termini
o, senza farlo apposta, di accenti e inflessioni. Quel bambino masticava l’italiano che masticavo anch’io.
Sonoro tanto quanto il mio e non leggermente ferroso, come quello dei miei connazionali in Inghilterra da
tanto tempo.
Un risotto radicchio e taleggio, due porzioni di agnello in crosta.
Che si chiamasse Francesco come me, quella, poteva essere una coincidenza.
Non ci sarei andata. E se fosse stato un tentativo di estorcere qualcosa? O di avvicinare un’italiana per
qualche motivo? Non sempre gli italiani all’estero sono fratelli tra di loro. Molti racconti sono solo
leggende. Non sono uniti in patria, non hanno molti motivi di esserlo lontani da essa.
Due caffè, uno espresso, uno americano. Gli inglesi non amano il caffè. Non come lo amiamo noi.
Perché mandare un bambino a tendere una trappola? Potevano volere qualcosa riguardo alla mia attività.
Soldi. Una società. Degli utili.
Panna cotta con crema di frutti di bosco.
Bastava chiedere a Peter, l’aiuto cuoco, di venire anche lui e stare un po’ più lontano. Che se si fosse accorto
di qualcosa di strano, chiamasse la polizia.
L’avrebbe fatto volentieri, quell’uomo mi adorava.
Le ultime porzioni uscirono dalla cucina e mi pulii le mani sul grembiule ormai esausto.
Si, avrei fatto così.
Ecco un’altra coincidenza.
Il bambino, o sua madre, conoscevano il giorno di chiusura del locale. Perché altrimenti non mi avrebbero
mai dato un appuntamento a quel giorno e a quell’ora.
Ma quello, alla fine, era qualcosa facile da scoprire. Bastava guardare sulla porta del locale la pergamena
con gli orari. Sfiorai l’erba tenera con la punta della scarpa, in un gioco pensieroso a far trascorrere il tempo.
Uno scoiattolo saltellò curioso fino a un metro dai miei piedi. Si tirò dritto sulla schiena, mi fissò, voltò
leggermente la testa, come per mettermi a fuoco meglio anche con un occhio solo, si piegò in avanti e corse
via, rimbalzando nell’erba e sparendo dietro a un tronco.
Mi voltai. Peter era seduto piuttosto lontano, la sigaretta tra i denti, il giornale aperto a fingere disinteresse.
Aveva cercato di convincermi a non andare. Alla fine, avevamo patteggiato per il suo accompagnamento.
Non sarebbe intervenuto. A meno che non avesse intuito qualcosa di strano. Per il resto, sarebbe rimasto su
quella panchina fin quando non mi fossi alzata anch’io per andarmene.
Rigirai tra le mani la fotografia che mi aveva dato Francesco il giorno prima.
Il sole cominciò ad allungarsi sul lago, incendiandolo di un arancione così vivo da mettere quasi in
soggezione e far pensare a un incendio.
Il primo minuto dopo le sei, passò. E l’incendio del lago si fece quasi più acceso.
Poi ancora un minuto. E un altro, che si trascinò via un po’ della mia agitazione, con il sopraggiungere del
pensiero che, forse, era tutto uno scherzo. Che sarei tornata a casa e sarebbe finito lì.
Mi voltai attorno per cercare l’unica cosa che di quel momento conoscevo. Il viso di quel bambino.
Ma vi erano soltanto dei ragazzi che giocavano sullo skate nei vialetti in cemento poco lontano e qualche
fissato del fisico che faceva jogging così distante da me, che nemmeno i colpi delle sue scarpe sul terreno
avevano volume.
<<Francesca?>>
Una voce di donna mi fece sussultare.
La donna fece ancora alcuni passi e si fermò, a qualche metro da me.
Sfiorai i suoi occhi con i miei e mi portai una mano alla bocca, per soffocare una frase che tanto, non
sarebbe mai uscita.
Il cuore cominciò a rimbalzare nel petto, strappando il colore al mio viso e il sangue alle mani e alle gambe.
Mi tremò la voce, forse non troppo, ma quanto bastò a non farmi parlare e a uccidere le parole appena
arrivarono in gola.
Lei rimase immobile. Bella come la ricordavo. Come dieci anni prima, quando, nella città dove eravamo
nate entrambe, aveva deciso di dare un nome al sentimento che stava vivendo, e nel pronunciarlo, aveva
deciso di non viverlo più.
<<Io non capisco dove stia il problema>> e lo dissi mentre già la terra sotto i miei piedi nervosi si prendeva
le prime gocce di una pioggia primaverile e le lacrime che avevano cominciato a cadere dai miei occhi.
Fino a quel giorno avevamo vissuto e consumato assieme l’amore più bello che io avessi mai potuto anche
solo immaginare. Avevamo passato giorni interi a ridere, scherzare, io a insegnare a lei i trucchi che aveva
imparato a scuola di cucina, lei ad insegnarmi l’arte della pittura, la stessa che ogni mattina tentava di
inculcare ai suoi allievi. Avevamo vissuto di baci, di carezze, di sospiri nel buio delle notti passate a casa
mia. Avevamo fatto l’amore nella cucina del ristorante dove lavoravo, poco dopo l’orario di chiusura,
quando ero rimasta soltanto io a lucidare il pavimento e lei a bussare al vetro della finestra che dava sul
viottolo sul retro, aspettato che i suoi andassero via qualche giorno per poterci isolare dal mondo intero e
fare finta di non esistere per nessuno, se non per noi.
Ci eravamo nutrite delle nostre labbra, dei nostri corpi, della pelle, fino a dimenticare lo scorrere delle ore, la
quotidianità, le necessità più impellenti. Per giorni e mesi avevo vissuto di lenzuola, carne, cibo studiato
apposta per sedurre. Lei di colori a olio, l’odore della tela, il mio, passione sussurrata e bugie.
Perché Claudia, di bugie, ne aveva raccontate più di me.
Ai suoi, quando certe sere stava via due ore in più, alle sue amiche, per chiedere di reggere il gioco e fin
quando, chi lo sa. A Matteo. Il fidanzato storico del liceo. Quello che era sicura che avrebbe sposato. Quello
con cui aveva sempre fatto progetti, di casa, di matrimonio, di bambini insieme. Fin quando quella sera di un
anno prima, allo stesso corso di teatro dove andavo anch’io, incontrammo l’una gli occhi dell’altra.
Claudia non aveva mai dato un nome a ciò che provava.
Lo diede quella sera, su quella panchina, esattamente davanti a me.
Ci eravamo viste il giorno prima. Avevamo fatto l’amore a casa mia. E lei sembrava che dovesse mangiarmi
la carne da addosso. Sembrava che avesse fame, fretta, come se uno strano fuoco le stesse consumando la
pelle, ma forse, anche qualcosa in più. L’anima stessa.
L’amavo e non avevo mai osato dirlo. Così mi rubò il tempo, l’istante e lo disse lei a me.
<<Ti amo Francesca>>.
Quelle parole si conficcarono nel legno della panchina, copertosi di ghiaccio all’improvviso. Avrebbero
dovuto incendiarlo, eppure non fu così.
Aveva dato un nome a ciò che provava. Aveva capito che era amore. E che non avrebbe avuto il coraggio di
viverlo per quello che era.
Mi stava lasciando e lo fece così.
<<Scusami. E’ tutto diverso. Diverso da cosa ho provato fino adesso>>.
Il legno schiantò.
<<Non c’è nulla di diverso. Ci siamo io e te>> sussurrai, e l’ultima parola mi sfiorì in gola come una rosa
che incontri una fiammata improvvisa.
Scosse la testa. Avrebbe sposato Matteo. E avrebbero avuto i figli che desideravano.
Il vuoto si aprì sotto i miei piedi. Ingoiò me, la panchina, quel parco nel cuore della mia Torino, la nostra
Torino, i tetti neri delle case, l’acqua cheta del Po in quella stagione, il cinguettio dei passeri che venivano
attorno a cercare cibo, il clacson di una macchina troppo distante per essere d’impiccio.
Una goccia di pioggia la colpì sul naso e Claudia non si asciugò. Un’altra goccia, più calda, le rigò la
guancia e arrivò a terra per prima.
<<Ti amo>>.
Alcune gocce colpirono anche me. Mischiandosi al sale.
Fu la pioggia forse a farla correre via prima che potesse aggiungere altro. Forse invece, aveva già detto tutto
ciò che c’era da dire e cosa si aspettavano le mie orecchie, il mio cuore, la mia anima, restò a languire su
quella panchina, bagnato dalla pioggia fino a dissolversi in vapore.
In quella serata londinese di fine marzo non la riconobbero i miei occhi, ma il mio cuore per primo.
<<Sei proprio tu?>>, la mia voce tradì l’emozione e sperai che non se ne fosse accorta.
Sorrise, per dire si, e all’angolo delle labbra le comparve una piccola ruga che dieci anni prima non aveva.
Si inumidì le labbra passando la punta della lingua su quello inferiore e inspirò.
<<Grazie di essere venuta>> sussurrò.
Sentii il naso pizzicare. E me ne stupii. Non sarebbe dovuto accadere.
<<Hai seguito il tuo cuore>>, cominciò a bassa voce, e fu evidente lo sforzo che fece nel non abbassare lo
sguardo a terra <<…sei venuta a lavorare qui. Era il tuo sogno>>.
<<Io ho sempre seguito il mio cuore>> e mi morsi un labbro appena pronunciai quelle parole, che lei si
aspettò. Tacque.
Peter osservò la scena da lontano. Vide quella donna dai capelli lunghi e scuri arrivare dal viottolo in pietra,
avvicinarsi a me e fermarsi a qualche passo.
Non sentì cosa mi disse, ma mi vide alzarmi in piedi e tenere le mani fuori dalle tasche.
Non colse le frasi, ma capì che stavamo parlando.
Poi, il suo cellulare vibrò.
Francesca: Grazie Peter, torna a casa. E’ un’amica, è venuta a trovarmi. Abbiamo tante cose di cui
parlare. Grazie ancora.
Quando sollevò lo sguardo fece appena in tempo a vederci andare via insieme. Vicine. E a notare l’attimo in
cui Claudia, allungò la mano a stringere la mia.