Anno 1 N°2 - CRS Amplifon

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Anno 1 N°2 - CRS Amplifon
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DIRETTORE RESPONSABILE
Antonio R. De Caria
COMITATO DI DIREZIONE
Eleonora Carravieri
Antonio R. De Caria
Maria F. Montuschi
COMITATO SCIENTIFICO
Sandro Burdo – Varese
Delfo Casolino - Cesena
Antonio Cesarani - Milano
Domenico Cuda – Piacenza
Francesco Galletti - Messina
Giuseppe Gitti – Firenze
Antonio Quaranta - Bari
Nicola Taurozzi – Mantova
LOGOPæDIA
Rivista Italiana
di Logopedia
SEGRETERIA DI REDAZIONE
ASSOCIAZIONE
LOGOPEDISTI LOMBARDI
Servizio di Logopedia
Policlinico di Milano
Via Pace n. 9 - 20136 Milano
tel. 02 55035344 – fax 02 700410117
e-mail [email protected]
[email protected]
[email protected]
Progetto grafico della copertina:
Lamberto Radaelli
Consulenza legale:
Avv. Aldo De Caria
via L. Boccherini 3, 00198 Roma
tel. 06 84242470
Fotocomposizione e Stampa:
GECA SpA
via Magellano 11
20090 Cesano Boscone (MI)
Si ringrazia
Periodico Semestrale
Anno 1° - N. 2
per la preziosa collaborazione
Luglio-Dicembre 2003
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INDICE
Le ragioni di esistere
E. Carravieri, A.R. De Caria, M. Montuschi
pag.
5
Ricordo di Paola Casadio
R. Formisano
pag.
7
A Paola
M. C. Caselli
pag.
9
pag.
11
pag.
22
pag.
38
pag.
49
La sicurezza del logopedista
P. Consolmagno
pag.
54
Comunicazioni
pag.
58
Eventi scientifici
pag.
60
Dalla diagnosi alla valutazione: il questionario
“Il primo vocabolario del bambino – PVB”
in rapporto ad altri strumenti per una diagnosi precoce
P. Casadio, M. C. Caselli
Agnosia visiva associativa risultante da una disconnessione
tra memoria visiva intatta e sistemi semantici
G. A. Carlesimo, P. Casadio,
M. Sabbadini, C. Caltagirone
La riabilitazione del soggetto in età evolutiva
con gravi disturbi della coscienza
R. Formisano, F. Piras, P. Casadio,
P. Franco, F. Penta, D. Passafiume
La Tinnitus Retraining Therapy
nel trattamento degli acufeni
S. Passi, M. Pace
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LE RAGIONI DI ESISTERE
Carissimi colleghe e colleghi,
come alcuni di Voi già sanno a fine luglio è stato pubblicato il primo numero di
LOGOPaeDIA.
LOGOPaeDIA è una rivista di logopedia, a pubblicazione semestrale, indirizzata a
tutti i logopedisti, gestita da logopedisti, distribuita gratuitamente ai logopedisti e
da essi traente fonte.
Come recita la presentazione, LOGOPaeDIA sorge dall’esigenza di avere uno strumento di divulgazione scientifica a carattere nazionale, che pubblica articoli di
Logopedia, ma anche di Audiologia, Foniatria, Otorinolaringoiatria, Psicologia e
Neuropsichiatria.
LOGOPaeDIA nasce con mille difficoltà, soprattutto di carattere economico, superate grazie alla collaborazione preziosa di un’importante sponsor. In ogni caso, nonostante il notevole impegno economico, chi ha finanziato l’iniziativa, non è stato né
mai sarà coinvolto in alcuna decisione riguardante le caratteristiche editoriali, la scelta degli articoli e la composizione del comitato scientifico di LOGOPaeDIA.
Questa avventura editoriale, è iniziata soprattutto per passione e interesse culturale,
con l’intento di poter dare voce a quei lavori scientifici, che nascono come studio e
riflessione e sono fondamentali per l’aggiornamento e la formazione professionale.
La nostra idea e volontà era ed è quella di dare una rivista ai logopedisti e alle
Associazioni di Logopedia.
Nessuno è proprietario di LOGOPaeDIA, la rivista vuole essere un patrimonio per
tutti gli specialisti del settore. Non cerchiamo né abbiamo bisogno di tutors.
Come tutti noi sappiamo, la formazione del logopedista avviene in sedi universitarie diverse, inserite in realtà cliniche e territoriali multiformi, all’interno di équipe
multidisciplinari e multiprofessionali, che possono variare o privilegiare l’intervento logopedico rispetto alle patologie della comunicazione, del linguaggio e della
voce. Questa ricchezza deve essere descritta e divenire oggetto di scambio mediante articoli, linee guida di lavoro, protocolli nati all’interno della disponibilità delle
singole Associazioni Regionali che dovranno essere sorgente di utile aggiornamento e riflessione.
Questa era e rimane l’idea originale.
Il primo numero è nato rapidamente con l’intenzione di dare visibilità, di farci
conoscere. Non è esente da critiche, come tutte le “prime” ed è pertanto soggetto
ad ulteriori miglioramenti e modifiche, che prenderanno spunto da chiunque voglia
dare suggerimenti. Esprimere dissenso e/o critica quando è genuina e va al di là
degli interessi di parte, quando supera le logiche di “partito”, è sempre molto positivo. Abbiamo il “coraggio dell’imperfezione” insieme alla voglia e al desiderio di
raccontare la profondità e la ricchezza del nostro lavoro.
Alle varie Associazioni, a tutti Voi spetta il compito di vivere con Noi questo entusiasmante momento.
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Poiché LOGOPaeDIA viene distribuita gratuitamente, spetterà ad ogni Presidente
o Responsabile di Associazione, qualora lo ritenga opportuno e nel rispetto della
volontà di tutti gli iscritti, richiedere al Comitato di Redazione il numero di copie
idoneo alle esigenze territoriali.
Tutti i Presidenti delle diverse Associazioni Italiane di Logopedia hanno già da
diverso tempo ricevuto questa lettera, numerosi hanno risposto favorevolmente alla
nostra iniziativa richiedendo il numero di copie necessario a raggiungere tutti gli
iscritti.
Diversi Presidenti non hanno ritenuto opportuno richiederci le copie, la loro decisione ci ha profondamente rammaricato. A loro spetta naturalmente, rispondere e
spiegare ai propri iscritti i motivi di tale gesto. A noi spetta il compito di raggiungere il maggior numero di professionisti interessati al nostro lavoro.
Aspettiamo con ansia i vostri suggerimenti ma soprattutto la vostra preziosa collaborazione.
Perché LOGOPaeDIA continui a vivere, nello spirito con cui è nata.
Per finire rimandiamo alle parole del ministro della salute prof. G. Sirchia nella sua
gradita presentazione “Ben venga, dunque, uno strumento di informazione a livello nazionale come LOGOPaeDIA, luogo di comunicazione dello stato della ricerca, di confronto sulle problematiche di questa disciplina, di riflessione sul cammino percorso e da percorrere. Con i migliori auguri di buon lavoro”.
Questo secondo numero esce in concomitanza con il Congresso FLI di Firenze, con
l’augurio di buon lavoro da parte di tutti noi a tutti i partecipanti.
Cari colleghi, il secondo numero di LOGOPaeDIA era già pronto per andare in
stampa, quando ci è pervenuta la dolorosa notizia che Paola Casadio non avrebbe
partecipato al Congresso FLI, perché non è più tra noi.
Ci sembra giusto ricordarla pubblicando alcuni suoi articoli, ringraziamo Serena
Bonifacio che si è dedicata con sollecitudine alla raccolta dei documenti.
Comitato di Redazione
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Ricordo di
Paola Casadio
Rita Formisano
Primario Unità Post-Coma
Fondazione Santa Lucia, Roma
Non è ancora facile parlare di Paola come di una persona che non tornerà più, perché ancora ogni giorno mi aspetto di vederla sulla porta sempre piena di entusiasmo e di energia nuova, alla ricerca di quella qualità assistenziale che per lei non era
mai abbastanza. E quello che più mi manca è la sua ferma convinzione e le sue certezze sulle possibilità di cambiare tutto quello di cui non eravamo soddisfatte.
È per questo che in qualche modo mi sono sentita abbandonata nel lavoro che da
oltre 10 anni condividevo con Paola nella nostra Unità Post-Coma. Ma non voglio
parlare solo della mia nostalgia. Quando si dice di Paola che era una persona speciale, non è solo un modo di dire. Chiunque l’abbia conosciuta sa infatti che il dono
più grande che aveva era la capacità di condivisione e di “simpatia”, nel senso greco
della parola di “sentire” insieme.
Nelle nostre riunioni di equipe non smettevo mai di stupirmi di come Paola riuscisse a immedesimarsi in quel paziente, in quella famiglia e nel loro futuro. Tutta questa umanità riusciva comunque a non scadere mai nel coinvolgimento affettivo,
mantenendo inalterata la sua professionalità e la sua lucidità nel giudizio prognostico. Posso solo dire che più infausta era la prognosi e più Paola riusciva ad affinare la sua capacità di accoglienza del familiare e la sua disponibilità alla soluzione
di problemi anche pratici e concreti.
Questa combinazione di umanità e professionalità è sempre stata la dote che ho
ammirato di più in Paola e che le consentiva di essere comunque sempre molto
amata dai familiari dei nostri ragazzi post-comatosi. E anche questo manca molto a
tutti noi.
Quando nel ’90 iniziammo insieme ad accogliere i primi pazienti post-comatosi
presso l’Ospedale Santa Lucia, ero appena tornata da Innsbruck, e mi commuoveva la sua sete e l’impazienza nel voler migliorare le sue conoscenze e il suo sapere
sull’argomento. Dopo oltre 10 anni, nonostante l’enorme esperienza e le competenze specifiche acquisite, la sua umiltà non era cambiata, ancora mi chiedeva, in
qualità di suo Primario, di poter partecipare a questo o a quel corso di aggiornamento o di poter invitare questo o quel relatore. Questo suo desiderio costante di
confronto faceva parte della sua unicità e della sua capacità di mettersi sempre in
discussione e di non dare mai nulla per scontato.
Mia consigliera preferita, è stata la prima tra i miei collaboratori a leggere la guida
che avevo scritto per i familiari del paziente post-comatoso, e la sua approvazione,
insieme a quella di una mamma, mi convinse che valeva la pena di pubblicarla e diffonderla. Paola sapeva infatti essere un giudice molto severo, persino spietato,
quando si trattava di un servizio offerto ai pazienti e ai loro familiari.
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In una delle nostre ultime chiacchierate, quando mi vedeva schiacciata dagli impegni, dalle pressioni quotidiane del nostro lavoro e dalle continue risorse emozionali dedicate ai nostri pazienti e alle loro famiglie, mi guardava con quel suo sorriso
nordico, tra l’affettuoso e il complice e mi diceva: “ce la puoi fa!” cercando di parlare persino in romanaccio, unica cosa che davvero non le riusciva bene.
Eppure nonostante tutto questo affetto e intimità, ha voluto vivere la sua lunga
malattia con una riservatezza e una discrezione, che non ci ha permesso la vicinanza che avremmo voluto farle sentire. Forse era il suo modo di continuare a vivere
nel presente, sapendo di non avere un futuro lungo.
E allo stesso modo, la sua sincera preoccupazione del futuro dei pazienti che le
venivano affidati per la terapia cognitiva, era il suo modo di guardare avanti, sapendo forse che lei non ci sarebbe più stata.
Nel mio ultimo messaggio che le ho inviato al telefonino, dopo la perdita della sua
mamma, e appena qualche giorno prima che ci lasciasse, le scrivevo di non dimenticare mai che ero sua amica prima di essere il suo Primario, ma sono convinta che
lo sapesse già.
Ora credo che a Paola non piacerebbe un ricordo più lungo di quanto ho già scritto, so che avrebbe invece molto apprezzato lo sforzo dei suoi colleghi di dedicarle
un numero di questa rivista con i suoi scritti e so bene che nel nostro lavoro quotidiano possiamo continuare ad averla con noi.
Infatti il nostro impegno di sempre deve ancora più tenere conto di tutto quello per
cui Paola si è sempre battuta, come il lavoro di equipe e l’uso della cartella riabilitativa, su cui ha lavorato tanto negli ultimi anni. Un altro dei suoi ultimi sforzi, a cui
ha dedicato ogni sua energia residua, è stato il corso di aggiornamento sulla riabilitazione del paziente post-comatoso, che si è tenuto presso la Fondazione Santa
Lucia, accreditato ECM. Vorremmo tanto, con l’aiuto di tutti i relatori di questo
corso, raccogliere i diversi contributi scientifici in un libro, per trasformarlo in uno
strumento di consultazione in cui ci sia almeno qualcuna delle risposte che Paola
tanto cercava.
La mia promessa a Paola è che ci sarà sempre un po’ di lei nel nostro lavoro, così
che chi non ha avuto la gioia di conoscerla, possa comunque godere di una parte
della sua umanità e delle sue conoscenze, che ha lasciato in tutti noi. Solo così Paola
continuerà a vivere nelle cose in cui credeva.
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A Paola
Ho molto riflettuto su quale contributo scegliere fra quelli che ho pubblicato insieme a Paola e alla fine ho deciso non sulla base della rilevanza teorica o della diffusione sul piano applicativo, non ho scelto il mio preferito, né quello più bello, né
quello più noto.
Ho invece scelto, sulla base della “nostra” (di Paola e mia) storia comune, un capitolo che riflette al tempo stesso il nostro passato, il nostro presente e certamente il
nostro futuro di ricerca. Ho deciso così perché so che a Paola piaceva pensare “in
avanti” e le piaceva “trascinarmi” con calma e grande pazienza, ma inesorabilmente, verso nuove cose che io, senza di lei, non avrei potuto portare avanti.
È nata e continuata con questo stile la nostra collaborazione sul lavoro che ha dato
a entrambe molte soddisfazioni e visibilità a livello nazionale. Abbiamo lavorato
tanto insieme nel progetto MacArthur, per la realizzazione del questionario “Il
primo vocabolario del bambino -PVB”. Abbiamo iniziato intorno al 1982, mi sembra, con una versione assai preliminare, molto diversa da quella attuale e siamo poi
andate avanti, in parallelo con il gruppo americano (per molto tempo coordinato
da Liz Bates) fino ad arrivare alle schede attuali pubblicate nel 1995 insieme al
manuale. Negli ultimi anni i nostri sforzi sono stati indirizzati su due fronti: la realizzazione delle forme brevi del questionario PVB (con quella relativa alla scheda
Parole e Frasi abbiamo già raccolto dati su circa 600 bambini) e, sulla base dei dati
normativi del PVB, la costruzione di una Prova Lessicale per bambini molto piccoli. Con Paola abbiamo discusso ogni scelta relativa agli items da includere nelle
schede, una scelta che richiede decisioni di carattere teorico e precise assunzioni
sullo sviluppo comunicativo e linguistico dei bambini. Analogamente, abbiamo
scritto a “quattro mani” diversi articoli, portando ciascuna il proprio contributo di
sapere e di pratica, condividendo la conoscenza e la passione per i bambini, nelle
loro innumerevoli diversità. È stato fondamentale questo tipo di confronto tra noi,
che partivamo da prospettive e background diversi ma complementari, quello della
ricerca e quello della clinica. E questo ci ha ancora guidato nella costruzione della
nuova Prova Lessicale, in cui è stato necessario agire secondo esigenze di tipo
metodologico ma anche (e soprattutto) tenere in mente i bimbi (quelli con sviluppo tipico e quelli con difficoltà) che avrebbero “giocato” con le nostre fotografie.
Abbiamo per questo scelto un materiale e una modalità di somministrazione che
piacessero ai bambini, rispettassero i loro interessi e le loro capacità attentive e
garantissero la relazione e la naturalezza dell’interazione. Aspetti verso i quali Paola
aveva una sensibilità speciale.
I nuovi progetti intrapresi mi appaiono oggi ancora più impegnativi e sarà difficilissimo portarli avanti senza Paola. Una sfida che affronto quotidianamente con un
grande senso di solitudine, nonostante i preziosi collaboratori che mi sono accanto.
Paola non è mai stata solo una collega di lavoro, ma per me anche un’amica e un’insostituibile punto di riferimento. Temevo il suo giudizio severo, le sue osservazioni
critiche, la sua ironia. Ero affascinata dalla sua serietà, dalla coerenza delle sue scel9
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te, dalla sua generosità e bontà, troppo spesso solo intuite per quella sua grande
riservatezza che non mi ha permesso di starle abbastanza vicino nei momenti più
difficili. E di questo avrò sempre un rimpianto.
Maria Cristina Caselli
Roma 23 ottobre 2003
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LOGOPaeDIA 2003; vol.2: pag. 11 - 21
La specificità logopedica:
valutazione e bilancio
Atti del V Convegno Nazionale
della Federazione Logopedisti Italiani
Padova, 19-20-21 novembre 1998
EDIZIONI DEL CERRO
1999
DALLA DIAGNOSI ALLA VALUTAZIONE:
IL QUESTIONARIO “IL PRIMO VOCABOLARIO
DEL BAMBINO-PVB.” IN RAPPORTO AD ALTRI
STRUMENTI PER UNA DIAGNOSI PRECOCE
P. Casadio*, M.C. Caselli* *
* Logopedista IRCCS, S. Lucia - Roma
** Ricercatore Istituto di Psicologia, CNR - Roma
Con l’intervento di oggi intendiamo focalizzare l’attenzione su due aspetti della valutazione del disturbo comunicativo che reputiamo sostanzialmente interdipendenti:
– quello relativo all’esigenza frequentemente espressa dagli operatori di conoscere e fruire di affidabili strumenti di valutazione del primo sviluppo comunicativo e linguistico;
– quello, altresì importante, di riflettere sulla necessità di condurre l’osservazione
del bambino, avvalendosi sì di diversi strumenti, sottesi però da una comune
“filosofia”, attraverso cui poter costruire un profilo diagnostico del bambino
armonico ed esaustivo.
In relazione all’obiettivo da osservare, l’adeguatezza di uno strumento si valuta sul
fatto che sia stato costruito su un modello teorico di sviluppo linguistico che abbia
consentito previsioni e scelte metodologiche circa le strutture comunicative caratteristiche per una certa età. Inoltre, perché le prove siano interpretabili nel senso
atteso, occorre che queste risultino adeguate al soggetto e non influenzate ad es.
dalla scarsa comprensione delle consegne, da eccessiva complessità e così via.
Nella scelta di una determinata prova, anche correttamente organizzata, occorre
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tener presenti questi ed altri aspetti ancora. Si fa spesso riferimento ad un concetto
di “normalità” dello sviluppo troppo astratto, che va invece definito e valutato con
grande prudenza. Molte ricerche hanno messo in evidenza che riconoscere tendenze generali di comportamento non significa ancora descrivere il singolo bambino:
l’età evolutiva è infatti caratterizzata da una grande variabilità individuale e da rapidi cambiamenti nei processi di acquisizione (Bretherton, McNew, Snyder, Bates,
1983; Bates et al., 1988).
Inoltre è opportuno ricordare come diversi contesti di osservazione e/o elicitazione, e quindi tipi di prove, facciano emergere competenze o livelli differenti della
stessa capacità. In un medesimo bambino, ad esempio, possono evidenziarsi discrepanze nell’uso delle flessioni verbali tra un compito di rievocazione spontanea di
eventi, una descrizione libera di figure o una prova di ripetizione. Per questo l’interpretazione dei risultati di ogni singola prova deve riferirsi alle tendenze “normali”, (fattore “esterno”) e, contemporaneamente, alle prestazioni del bambino nei
diversi contesti, liberi e/o strutturati.
Presenteremo l’applicazione pilota del prototipo di un test di comprensione lessicale per bambini a partire dal secondo anno di vita.
Disporre di nuove prove e metodologie per studiare la comprensione in età precoci permette di operare in modo preventivo o impostare un intervento riabilitativo
nei tempi e con le modalità più adeguati, quando ancora il processo di acquisizione del linguaggio è nel suo pieno svolgimento. Infatti, come sottolinea Bates:”…la
maggior parte degli eventi di modellamento cerebrale hanno luogo entro un”
ristretto’ periodo di tempo, una “finestra di opportunità che raggiunge il suo massimo fra 8 e 48 mesi, precisamente il periodo in cui il linguaggio è normalmente
acquisito...” (Bates, 1995).
Studiare la comprensione nei prini anni di vita è inoltre cruciale alla luce dei risultati di alcune ricerche che hanno evidenziato come questa capacità possa funzionare da indice predittivo per la produzione lessicale nei periodi successivi (Bates et al.
1988; Thal et al., in stampa).
Valutare il repertorio lessicale di un bambino in comprensione, anche prima che
produca le prime parole, non è però semplice. In generale, per la rilevazione dei
dati si utilizzano metodi osservativi o sperimentali (Taeschner, Volterra, 1986).
Tra le tecniche osservative i questionari che chiedono ai genitori di fornire informazioni circa le abilità comunicativo-linguistiche dei loro figli (Camaioni et al.
1992; Caselli, Casadio 1995) e la cui attendibilità è stata accertata con indagini
comparative (Dale et al. 1989; Camaioni et al. 1991).
È però importante riflettere sul fatto che per un genitore valutare la comprensione non
è cosa semplice perché deve operare in qualche modo un’inferenza sull’immagine che
egli stesso ha del proprio figlio, mentre può basarsi su comportamenti più espliciti ed
immediatamente osservabili nel riportare se il bambino dice o no una determinata cosa.
Sembra dunque molto importante affiancare a questo tipo di strumenti prove strutturate che consentano una valutazione più obiettiva, circoscritta e soprattutto replicabile.
In Italia sono per lo più utilizzati adattamenti di strumenti nati in altri contesti lin12
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guistici. La versione italiana del “Peabody picture vocabulary test”, ad es. è in
sostanza una traduzione dall’inglese senza un vero adattamento alla realtà linguistica del nostro Paese. La scelta e la seriazione degli items, probabilmente effettuati su
vocabolari di frequenza della lingua inglese, risultano dunque casuali in Italiano e
ciò mette in dubbio la validità e l’affidabilità che tale strumento può avere nella
valutazione delle abilità lessicali di bambini italiani. Inoltre non esistono fino ad
oggi dati normativi su soggetti italiani (alcuni valori di riferimento per l’Italia,
cominciano solo di recente ad essere disponibili - Stella 1993; Pezzini, Volterra,
Ossella, Sabbadini 1994).
Una prova di vocabolario per l’analisi funzionale dei disturbi del linguaggio, in
bambini dai due anni e mezzo ai quattro anni e mezzo, è stata elaborata presso
l’Istituto di Neuropsichiatria Infantile di Roma (Levi, 1974) Questa prova ha il pregio di essere costruita per la lingua italiana, tuttavia essa fa riferimento per la scelta
e seriazione degli items, agli indici d’uso e frequenza nella lingua italiana calcolati
sulla lingua scritta e degli adulti (Bortolini et al., 1971 - citaz. in Levi 1974), fatto
salvo un “...particolare riferimento al linguaggio infantile ed alla esigenza di rappresentazione grafica” (Levi, 1974).
Particolarmente interessante è il “Test del Primo Linguaggio”, uno strumento italiano per la valutazione diretta del primo sviluppo linguistico (Axia, 1995). La
prova si compone di tre scale, ciascuna delle quali ha lo scopo di indagare un aspetto specifico del linguaggio ed in particolare a) lo sviluppo comunicativo e pragmatico; b) lo sviluppo del vocabolario; e) il primo sviluppo sintattico. Queste ultime
due scale valutano rispettivamente la produzione e comprensione di nomi (scala b)
e la produzione e comprensione di verbi (scala e) considerati come “...il primo
passo dello sviluppo sintattico...” (Axia, 1994). Il Test del Primo Linguaggio, standardizzato su un campione di bambini tra i 12 e i 36 mesi, si è dimostrato uno strumento utile ed affidabile nella valutazione di bambini normali e a rischio; sono state
infatti provate la sua validità di costrutto, la validità concorrente delle scale e la validità di contenuto.
Pur riconoscendo l’importanza del lavoro appena citato, abbiamo tuttavia ritenuto
legittima l’esigenza di compiere ulteriori sforzi che tendano alla costruzione di altri
strumenti per la prima infanzia, sviluppando una prova di comprensione lessicale
per bambini di età compresa tra i 12 e i 24 mesi.
Nostri obiettivi erano:
1) condurre una prima somministrazione pilota della nuova prova linguistica a
bambini tra i 12 e i 24 mesi d’età, al fine di:
a) far emergere eventuali difetti di costruzione della prova stessa e verificare se
tale test discrimina correttamente i soggetti per età (validità di costrutto);
b) accertare il comportamento effettivo dei soggetti di fronte alla prova, per
ottimizzarne le condizioni di somministrazione ed individuare l’età minima
per l’utilizzo del test stesso (validità ecologica).
2) Confrontare i dati raccolti tramite la somministrazione diretta del test ai bambini, con i dati forniti dai loro genitori, tramite la compilazione del questionario
“II primo vocabolario del bambino” (validità concorrente).
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METODOLOGIA
Hanno partecipato allo studio 30 bambini, 15 maschi e 15 femmine, tutti frequentanti asili nido della provincia di Roma, di età compresa tra i 12 e i 24 mesi e suddivisi in 5 gruppi di età (12, 15, 18, 21, 24 mesi). In ogni gruppo l’età effettiva dei
bambini variava di 15 giorni, in più o in meno, rispetto all’età base. Tutti i bambini
erano di lingua italiana, non esposti in modo significativo ad altre lingue. La maggioranza proveniva da famiglie di livello socioeconomico medio (21 bambini), con
una minoranza di bambini provenienti da famiglie di livello socioeconomico alto (5)
e basso (4). I bambini presentavano un normale processo di sviluppo psicofisico.
STRUMENTI
Per la rilevazione dei dati sono stati utilizzati due strumenti: a) il questionario “II
primo vocabolario del bambino” b} la prova di comprensione lessicale.
Il questionario è quello per i genitori “Il primo vocabolario del bambino”
(MacArthur), di cui sono previste due forme: la prima scheda, denominata Gesti e
parole, viene utilizzata per la raccolta di informazioni con bambini tra gli 8 e i 18
mesi: La seconda scheda, denominata Parole e frasi viene utilizzata per la raccolta
di informazioni con bambini tra i 16 e i 30 mesi (Caselli, Casadio 1990 a e b; 1995),
anche se le sezioni che riguardano aspetti più strettamente morfosintattici non sono
state prese in considerazione in questo lavoro.
LA PROVA DI COMPRENSIONE LESSICALE
II test, elaborato da Caselli e da Casadio presso l’Istituto di Psicologia del C N R.
di Roma, si componeva di due “libri”.
Il primo libro: i nomi, con coppie di disegni, raffiguranti nomi relativi a diverse categorie semantiche (ad es. animali, alimenti, parti del corpo, oggetti d’uso familiare).
Il secondo libro: i predicati, con coppie di disegni raffiguranti azioni (ad es. dormire, mangiare, ballare) oppure aggettivi (ad es. grande, malato, felice).
Gli items sono stati ordinati per livelli di difficoltà. Ogni livello contiene 6 coppie
di parole fra loro bilanciate, una costituisce il target, l’altra il distrattore.
Sia per il primo che per il secondo libro, il bambino deve indicare la figura che rappresenta la parola pronunciata dall’adulto, scegliendo tra le alternative presentate
contemporaneamente.
La scelta e l’assegnazione degli items (target/distrattore), a livelli di crescente difficoltà e stata condotta sulla base delle informazioni raccolte tramite la somministrazione dei questionari “Il primo vocabolario, del bambino” che hanno permesso di
stabilire i valori normativi. Poiché si dispone dei dati relativi alla comprensione solo
fino ai 18 mesi di età dei bambini, per costruire i livelli più diffìcili si è dovuto ricorrere ai dati di produzione. La procedura è giùstificata dal fatto che numerose ricerche hanno dimostrato come tutte le parole che compaiono nel repertorio produtti14
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vo del bambino, sono precedentemente o contemporaneamente comparse nel
repertorio recettivo.
Si sono dunque ricavate le percentuali di bambini che comprendono (per le età più
precoci) e producono (per le età successive) ognuna delle parole previste nel questionario. Sono quindi state considerate come più facili le parole che risultavano
comprese da un’alta percentuale di bambini più piccoli, “più difficili” le parole
comprese o prodotte da una bassa percentuale di bambini più grandi.
PROCEDURA
Dopo un primo incontro per farsi conoscere da tutti i bambini del nido, il ricercatore familiarizzava con il gruppo cui avrebbe somministrato il test, dopo aver avuto
l’assenso dei bambini ad andare in un’altra stanza per “vedere dei bei libri con tante
figure”.
È stata seguita tale procedura poiché si ritiene di primaria importanza porre attenzione, oltre alla costruzione degli strumenti, anche agli elementi contestuali all’applicazione dei medesimi: uno strumento, per quanto perfetto, non servirà a molto
se viene applicato “nel momento sbagliato”. Inoltre, se questo è vero per tutti i
bambini, lo è in modo particolare per quelli molto piccoli.
Per questo motivo, seppure di norma il bambino era solo con l’operatore, in una
minoranza di casi (6) gli si permetteva, se intimorito, di essere accompagnato da
un’educatrice e di svolgere il test in sua presenza. Per tale evenienza era stato precedentemente preparato, per le educatrici, un foglio di descrizione del test che conteneva anche alcune semplici istruzioni circa i comportamenti opportuni e non
(“evitare giudizi sulle risposte date; non “tradurre” le parole target in linguaggio
infantile, non utilizzare gesti o altri segnali non verbali”).
Lo stesso giorno in cui si somministrava il test al bambino, si consegnava anche il
questionario ai genitori, raccomandando loro di compilarlo entro una settimana. In
questo modo l’intervallo tra la somministrazione della prova e la compilazione del
questionario restava lo stesso per tutti i bambini.
In base all’età dei bambini gli strumenti sono stati così somministrati:
a) II questionario “Gesti e parole” (scheda rossa) è stato somministrato ai genitori di bambini di 12, 15, 18 mesi;
b) II questionario “Parole e frasi” {scheda verde) è stato somministrato ai genitori
di bambini di 21 e 24 mesi.
e) II “Primo libro di comprensione verbale” {nomi) è stato somministrato a tutti i
bambini dei gruppi considerati e cioè di 12, 15, 18, 21, 24 mesi;
d) II “Secondo libro di comprensione verbale” {predicati) è stato somministrato ai
bambini di 18, 21, 24 mesi.
Dunque tutti i genitori dei bambini hanno avuto un solo questionario (“rosso”
fino ai 18 mesi, “verde” dai 21 ai 24) senza sovrapposizioni, mentre per quanto
riguarda il test, il secondo libro si aggiungeva al primo per i bambini dai 18 ai 24
mesi.
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RISULTATI
Discuteremo i dati alla luce della valutazione degli strumenti utilizzati, piuttosto che
in riferimento ai profili individuali dei soggetti, poiché li abbiamo utilizzati per
apportare modifiche alla struttura e alle modalità di somministrazione della prova
stessa. Riferendoci agli obiettivi che ci eravamo posti:
I OBIETTIVO
a) far emergere eventuali difetti di costruzione del test somministrato e verifìcare
se esso discriminasse correttamente i soggetti per età,
b) il comportamento effettivo dei soggetti di fronte alla prova, per ottimizzarne le
condizioni di somministrazione ed individuare l’età minima per l’utilizzo del test
stesso.
Abbiamo calcolato il numero totale di parole comprese nel primo libro (nomi) e nel
secondo libro (predicati). Abbiamo inoltre codificato i questionari ricavando per la
scheda “rossa” il numero totale di parole comprese e prodotte e, al loro interno, il
totale di nomi e di predicati; per la scheda “verde”, i dati relativi alla sola produzione di parole e al totale di nomi e di predicati
Dall’analisi dei risultati si evidenzia che le medie dei punteggi totali, al primo ed al
secondo libro, aumentano al crescere dell’età con un incremento significativo sia
per il primo libro che per il secondo.
MEDIE DEI PUNTEGGI
AL TEST DI COMPRENSIONE
PER GRUPPI DI ETÀ
ETÀ
TOT 1
TOT 2
12
15
18
21
24
1.17
10.5
25.33
34.33
38.33
7.72
9.17
29.5
Età: espressa in mesi
Tot. 1: punteggio totale al primo libro di comprensione di nomi
Tot. 2: punteggio totale al secondo libro di comprensione di predicati
Il test dunque discrimina tra i soggetti appartenenti ai diversi gruppi d’età individuati se si eccettuano le fasce più alte per il primo libro e quelle più basse per il
secondo libro (obiettivo l.a).
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Questi dati possono trovare una spiegazione nell’ipotesi che il primo libro diventi
relativamente facile per i bambini di 21-24 mesi d’età che ottengono tutti punteggi
elevati ed abbastanza vicini tra loro; nel caso del secondo libro invece i punteggi a
18 mesi potrebbero essere simili a quelli ottenuti dai bambini di 21 mesi per più
specifici problemi di seriazione degli items. Ciò ha suggerito che questa parte del
test doveva essere ricontrollata con attenzione: vedremo in seguito alcuni dei problemi specifici che solleva questo secondo libro di comprensione di predicati rispetto al primo libro, relativo alla comprensione dei nomi.
Allo scopo di fornire una prima risposta al quesito circa l’età minima di somministrazione del test (obiettivo l.b), ci è sembrato interessante fare un ulteriore spoglio
dei dati, per verifìcare quanti bambini, all’interno di ogni gruppo di età erano effettivamente partiti dal livello base (4 risposte consecutive corrette).
Schematicamente essi sono:
• a 12 mesi: 0 (su 6) per il primo libro dei nomi
• a 15 mesi: 3 (su 6) per il primo libro dei nomi
• a 18 mesi: 6 (su 6) per il primo libro dei nomi; 1 (su 6) per il secondo
libro dei predicati
• a 21 mesi: 6 (su 6) per il primo libro dei nomi; 5 (su 6) per il secondo
libro dei predicati
• a 24 mesi: 6 (su 6) per il primo libro dei nomi; 6 (su 6) per il secondo
libro dei predicati.
Dai risultati emerge dunque che il libro dei nomi è improponibile ai bambini di 12
mesi e di dubbia applicabilità per quelli di 15: infatti il test risulta troppo difficile per
loro. A partire dai 18 mesi invece, tutti i bambini hanno raggiunto un livello-base.
Per quanto riguarda il libro dei predicati, a 18 mesi solo un soggetto raggiunge il
livello-base. Tale problema è sostanzialmente risolto intorno ai 21 mesi: questa sembra quindi l’età minima consigliabile per la somministrazione di tale parte del test.
RISPOSTE POSITIVE PER LIVELLO
NELLE DIVERSE FASCE D’ETÀ DEI BAMBINI
LIBRO DEI NOMI
15 Mesi: 3 (su 6)
18 Mesi: 6 (su 6)
21 Mesi: 6 (su 6)
24 Mesi: 6 (su 6)
LIBRO DEI PREDICATI
18 Mesi: 1 (su 6)
21 Mesi: 5 (su 6)
24 Mesi: 6 (su 6)
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II OBIETTIVO
Abbiamo verifìcato quanto il punteggio al test di comprensione di parole concordi
con quanto riferiscono i genitori circa lo sviluppo linguistico dei loro figli nella compilazione del questionario, confrontando i punteggi (in produzione e comprensione)
ottenuti con il questionario “rosso”, con i punteggi ottenuti con il primo libro di
comprensione verbale ed i punteggi (relativi alla produzione) ottenuti al questionario “verde”, con i punteggi al primo e al secondo libro di comprensione verbale.
Analizzando la correlazione tra il primo libro ed i punteggi relativi alla comprensione e produzione del questionario “rosso”, per la fascia 12-18 mesi, abbiamo
osservato che essa risulta più alta per la classe dei nomi rispetto a quella dei predicati (pur se significativa). Poiché la prova del 1° libro riguarda la sola classe dei
nomi non stupisce che correli meno con i punteggi che nel questionario registrano
le competenze linguistiche in altre categorie grammaticali come ad esempio quella
dei verbi e degli aggettivi.
Nella fascia 21-24 mesi troviamo correlazioni significative tra il punteggio totale al
primo libro dei nomi e i punteggi del questionario “verde” (soprattutto predicati e
totale della produzione), mentre non risultano tali, le correlazioni con i punteggi
relativi al totale della comprensione nel secondo libro dei predicati.
DISCUSSIONE
I nostri risultati sembrano suggerire che con questo strumento, una volta messo a
punto, si potranno valutare bambini a partire da circa 18 mesi, utilizzando il primo
libro; il secondo libro sembra invece somministrabile a partire dai 21 mesi.
Questo risultato ci sembra particolarmente soddisfacente se si considera che la
maggior parte delle prove sperimentali disponibili non permettevano quasi mai di
valutare bambini al di sotto dei 30 mesi circa.
Relativamente al confronto tra i due strumenti, come detto, avevamo rilevato:
– Per i bambini dai 12 ai 18 mesi, il punteggio al primo libro di comprensione
nomi correla più con i punteggi di produzione che con quelli di comprensione,
ottenuti dalle risposte al questionario “rosso”.
– Per i bambini di 21 e 24 mesi, le valutazioni di produzione fornite dal questionario “verde” correlano in modo significativo con il primo libro dei nomi, ma
non con il secondo libro riguardante i predicati.
Ci sembra che tali dati possano trovare un’univoca spiegazione alla luce della consapevolezza che i due strumenti, pur volendo misurare entrambi la capacità linguistica, lo fanno inevitabilmente da prospettive molto differenti. Riteniamo infatti
che, nel primo caso “rispondere al test” e “produrre parole” siano risultati correlati in quanto entrambi sono comportamenti emergenti nelle fasce di età considerate;
mentre nel secondo caso, “rispondere agli items del primo libro” (più facile del
secondo) e “produrre parole” mostrino una correlazione più alta poiché entrambi
sono comportamenti già stabilizzati tra i 21 e i 24 mesi di età.
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In altre parole: il genitore che ha una visione completa delle competenze del figlio,
ma entro contesti familiari e in interazioni altamente significative, può ritenere
acquisite (e forse sovrastimare) anche abilità che il bambino ancora non riesce ad
espletare in pieno in altri contesti. Viceversa possiamo aspettarci che il test somministrato da un operatore, chiamando in causa abilità metalinguistiche (comprensione di parole meno contestualizzata, facendo riferimento ad immagini, piuttosto che
ad oggetti reali che il bambino manipola) e metacognitive (il compito era effettivamente stato compreso?, il bambino era interessato a partecipare?) tenda a sottostimare le abilità del bambino.
Esiste inoltre un problema di rappresentabilità dei predicati: verbi e aggettivi sono
più difficili da raffigurare rispetto ai nomi.
Infine l’analisi dei risultati ha messo in luce che il test, in particolare il libro dei predicati, è una prova molto impegnativa soprattutto per i bambini più piccoli.
Una delle difficoltà principali è stata proprio quella di ottenere l’attenzione
prolungata al compito. Per evitare di stancare il bambino è stata infatti necessaria
una considerevole elasticità circa le modalità di somministrazione: ai primi evidenti segnali di insofferenza è stata sospesa per essere ripresa, dopo una pausa in cui si
era cambiata attività, quando il bambino appariva nuovamente interessato ai disegni.
Nel suo complesso la prova presenta altri “punti deboli” che possono avere avuto
un effetto di disturbo sui dati ottenuti. In particolare alcuni bambini, alle prese con
un compito impegnativo sembravano adottare delle strategie di risposta “non linguistiche” (ad es. indicare un disegno prima di averli guardati tutte e 2 o che il target fosse stato denominato dall’operatore).
Sulla base di questi risultati è stata condotta una revisione dello strumento che ora
prevede:
a) degli items di addestramento;
b) materiale fotografico e non disegni che riproducono più fedelmente la realtà.
Foto omogenee per grandezza, colorazione e grafica, poiché la prova è diretta a
bambini molto piccoli o con particolari problemi di attenzione. Le foto sono
plastificate perché il bambino possa eventualmente manipolarle.
e) ciascun item prevede oggi due distrattori, scelti uno per vicinanza semantica e
di frequenza d’uso, l’altro solo sulla base della frequenza, ma appartenente ad
altra categoria semantica (es. cane - gatto - bicchiere).
La prova attuale, pronta per quanto riguarda la parte sui nomi (la prova relativa ai
predicati deve infatti essere messa a punto nella sua forma definitiva), è stata somministrata recentemente a 40 bambini di 15, 18, 21 e 24 mesi, contemporaneamente alla compilazione dei questionario MacArthur da parte dei genitori.
Allo scopo di verifìcare la validità di costrutto della nuova prova, i bambini sono
stati suddivisi in due sottogruppi: al primo sono stati somministrati tutti gli items
target, per l’altro il target era costituito dal distrattore vicino semanticamente e per
frequenza, per dimostrare il bilanciamento corretto e l’intercambiabilità dei due
target (alcuni bambini ricevevano cane, altri gatto). I risultati hanno confermato che
le due liste sono corrispondenti.
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Per controllare se il test è sensibile alle diverse età si sono calcolate le percentuali di
risposte corrette dei bambini rispetto all’intera prova.
I bambini di 15 mesi rispondono correttamente al 49.3 degli items; quelli di 18 mesi
al 62; quelli di 21 al 68; quelli di 24 al 75 degli items. Naturalmente le risposte corrette dei bambini più piccoli si concentrano sui primi items.
Stiamo ora valutando la sensibilità dei singoli livelli per fascia di età e le correlazioni alle diverse età fra risposte al test e al questionario.
Rispetto alla somministrazione della prova precedente (88 di risposte corrette), i
bambini di 24 mesi commettono più errori dovuti probabilmente all’introduzione
del secondo distrattore che abbassa la probabilità di risposta casualmente corretta.
La prova è risultata di facile somministrazione anche se a 15 mesi i bambini hanno
talvolta avuto bisogno di sospendere brevemente il test. Il tempo medio per tutti è
stato di circa 20 minuti, e i bambini hanno mostrato buona partecipazione al compito, buona capacità di attenzione e coinvolgimento nella manipolazione del materiale fotografico.
In ogni caso si deve partire dal presupposto che è necessario in primo luogo salvaguardare la relazione tra chi somministra il test e il bambino, in modo che la prova
sia vissuta dal bambino medesimo come conseguenza della relazione instaurata, e
non come l’unico motivo di interazione con l’operatore.
Questa impostazione è particolarmente appropriata con i bambini più piccoli, esposti potenzialmente a maggiori frustrazioni, dovute per esempio alla difficoltà del
compito, che possono essere tollerate solo con un attento sostegno sul piano relazionale.
L’osservazione tramite test non deve tuttavia deresponsabilizzare l’operatore circa
la valutazione del bambino in toto. Al contrario egli è chiamato a controllare la validità ecologica della prova, che non riguarda solo il momento di costruzione dello
strumento, ma anche le modalità di somministrazione ai soggetti, entro contesti specifici.
Ci preme sottolineare che una prova “sperimentale” non è di per sé più oggettiva
ed attendibile di un’osservazione; si può infatti “osservare” anche tramite la somministrazione di una prova di tipo sperimentale, per verifìcare per esempio se le
informazioni ottenute sono congruenti tra loro ed evidenziare non solo ciò che il
bambino sa o non sa fare dal punto di vista del test, ma anche le strategie che mette
in atto per risolvere il compito, al fine di valorizzare le sue potenzialità.
BIBLIOGRAFIA
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LOGOPaeDIA 2003; vol.2: pag. 22 - 37
Agnosia visiva associativa risultante
da una disconnessione
tra memoria visiva intatta
e sistemi semantici
1
1
1
di Giovanni A. Carlesimo , Paola Casadio , Maurizio Sabbadini ,
2
Carlo Caltagirone
1 I.R.C.C.S. S. Lucia, Roma, Italia
2 Clinica Neurologica, Università di Roma “Tor Vergata”, Italia
da G. A. Carlesimo, P. Casadio, M. Sabbadini, and C. Caltageroni.
Associative visual agnosia resulting from a disconnection between intact visual memory and
semantic systems. Cortex 1998; 34: 563-576
Traduzione per gentile concessione di neuropsy.it
INTRODUZIONE
L’agnosia visiva è una sindrome clinica relativamente rara, caratterizzata da un
danno nel riconoscimento degli oggetti attraverso la visione. Generalmente, i
pazienti agnosici non presentano deficit neurosensoriali elementari, non soffrono di
un deterioramento cognitivo globale e sono in grado di denominare velocemente
attraverso la modalità tattile o su definizione i medesimi oggetti che non riescono a
riconoscere visivamente.
Lissauer (1890) ha proposto per primo una distinzione tra due forme di agnosia
visiva. La prima, che egli definì appercettiva, è dovuta a un deficit nella costruzione di un percetto visivo coerente di un oggetto. In questo caso, un paziente agnosico appercettivo è incapace di copiare disegni di linee semplici, di tracciare i contorni delle figure e di dare giudizi visivi semplici (ad es. il confronto di figure). Il
secondo tipo di agnosia visiva identificato da Lissauer è definito associativo, ed è
caratterizzato da un’incapacità ad assegnare il significato corretto a stimoli visivi
che, comunque, sono adeguatamente percepiti (come dimostrato da una performance normale in compiti di copia, di ricerca e di confronto).
Seguendo la prima descrizione di Lissauer (1890), sono stati riportati in letteratura
un certo numero di casi che si adattavano ai criteri diagnostici per l’agnosia apper22
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cettiva, (es. Benson e Greenberg, 1969; Campion e Latto, 1985) e, meno frequentemente, per l’agnosia associativa (es. Mack e Boller, 1977; Riddoch e Humphreys,
1987; Rubens e Benson, 1971). (Per una rassegna, v. De Haan, Heywood, Young e
al., 1995).
Un avanzamento nella comprensione dei meccanismi di base dell’agnosia visiva è
stato possibile a seguito dello sviluppo di modelli cognitivi che forniscono una
descrizione di stadi computazionali coinvolti nella processazione delle informazioni visive. Il più influente di questi modelli è, senza dubbio, quello proposto da Marr
(1980,1982). A seguito di una preliminare estrazione delle caratteristiche visive elementari per formare un’immagine visiva del percetto (primal sketch), questo autore distingue un cosiddetto stadio 21/2 D, all’interno del quale viene formata una rappresentazione coerente dell’oggetto centrata sull’osservatore, da un successivo stadio 3 D, in cui, attraverso una sorta di rotazione mentale dell’immagine visiva o
basandosi su una precedente “conoscenza del mondo”, si ottiene una visione centrata sull’oggetto dello stimolo. Questa ricostruzione 3 D dell’immagine visiva è poi
confrontata con le rappresentazioni delle strutture visive degli oggetti precedentemente immagazzinate (magazzino della memoria visiva); quando avviene un confronto tra l’immagine immediatamente percepita e la rappresentazione immagazzinata, viene attivato un nodo nel sistema semantico per l’accesso al significato.
Tornando alla terminologia di Lissauer, un’agnosia appercettiva può risultare da un
danno a livello degli stadi 21/2 D e 3 D del modello di Marr. Diversamente, un disturbo o una distruzione del magazzino di memoria della struttura visiva degli oggetti o la sua disconnessione dagli stadi precedenti di analisi visuopercettiva o dal sistema semantico, può risultare in una forma di agnosia visiva associativa.
Sono stati fatti diversi tentativi di interpretare i meccanismi di base dell’agnosia visiva alla luce dei modelli cognitivi sopra menzionati. Il paziente descritto da Benson
e Greenberg (1969) che, a dispetto delle buone performance in compiti di valutazione delle funzioni visive elementari, era incapace di fornire semplici giudizi di tipo
visivo sulle forme, è stato riconsiderato come sofferente di un deterioramento nella
capacità di costruire un’adeguata rappresentazione centrata sull’osservatore (Ellis e
Young, 1988). In contrasto, il paziente JL (Humphreys e Riddoch, 1984, 1985), specificamente danneggiato nel riconoscimento di oggetti osservati da punti di vista
inusuali, era verosimilmente incapace di eseguire le computazioni mentali necessarie a generare un’adeguata rappresentazione 3 D. Infine, Riddoch e Humphreys
(1987), hanno riportato il caso di HJA, il quale, benché riportasse una severa forma
di agnosia, era normalmente abile nel confronto di oggetti osservati da diversi punti
di vista, dimostrando così di essere in grado di formare in modo efficiente delle rappresentazioni centrate sull’oggetto. Il paziente era anche particolarmente capace nel
disegno a memoria di oggetti, particolare che suggeriva un normale accesso al
magazzino della memoria visiva attraverso il sistema semantico. Dal momento che
il riconoscimento di oggetti da parte del paziente era migliore quando le figure stimolo erano povere di dettagli rispetto a quando venivano utilizzate figure più realistiche, Riddoch e Humphreys (1987) suggerirono che una difficoltà nell’integrazione di dettagli locali in un percetto coerente prima di accedere alle rappresenta23
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zioni nel magazzino della memoria visiva potesse essere alla base del deficit di HJA
nel riconoscimento visivo.
In questo articolo, si riporta il caso di un paziente (RC) sofferente di una grave
forma di agnosia visiva, dovuta a un’ischemia nel territorio dell’arteria cerebrale
posteriore sinistra. I risultati di un’indagine sperimentale condotta da 5 a 7 mesi
dopo lo stroke ischemico suggerivano una disconnessione unidirezionale tra la
memoria visiva normalmente funzionante e i magazzini di memoria semantica.
Un’analisi del processamento visivo di facce umane suggeriva un simile livello di
danno funzionale, sulla base dei deficit di riconoscimento di oggetti e persone di
RC. Infine, si descrivono i risultati di indagini di follow-up, condotte rispettivamente 11 e 16 mesi dopo l’ischemia, che dimostrano un miglioramento nel riconoscimento e nella denominazione di oggetti.
CASO CLINICO
RC era un uomo di 69 anni, destrimane, con una scolarità superiore. Egli aveva una
lunga storia come fumatore ed era in trattamento per un’ipertensione di lunga data
e un’insufficienza renale cronica. Il 19 settembre del 1995, dopo il risveglio il
paziente si presentava confuso, non riusciva a riconoscere sua moglie e presentava
una lieve emiparesi destra. A seguito della persistenza di questi sintomi, il paziente
venne ospedalizzato una settimana dopo.
Al momento dell’ammissione, era allerta, orientato rispetto allo spazio ma non
rispetto al tempo. Gli esami motori e somato-sensoriali si rivelarono nella norma.
L’esame clinico rivelò un’emianopsia laterale destra senza risparmio della visione
centrale, come confermato dalla perimetria di Goldman (figura 1).
Figura 1 - La perimetria di Goldman eseguita su RC nel settembre 1996; evidenzia un’emianopsia laterale destra senza risparmio della visione centrale.
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Il linguaggio spontaneo era fluente, con sporadiche parafasie. La comprensione era
nella norma. Un severo deficit nella denominazione e utilizzazione di oggetti suggeriva la presenza di un’agnosia visiva.
Una RM cerebrale eseguita nel maggio del 1997 mostrava un’estesa area infartuata
nella regione dell’emisfero sinistro corrispondente alla distribuzione dell’arteria
cerebrale posteriore (figura 2). La lesione coinvolgeva il polo occipitale e le superfici mesiali dei lobi temporale e occipitale, estendendosi in avanti verso il talamo
posteriore e la corteccia limbica. Una mappatura topografica secondo Damasio e
Damasio (1989), rivelava che le regioni corticali coinvolte nella lesione ischemica
erano la porzione mesiale del lobulo parietale superiore (area 7 di Broadman), la
metà posteriore del giro del cingolo e la corteccia limbica (aree 23 e 31), la regione
calcarina (area 17), il giro linguale, il giro fusiforme e il precuneo (aree 18 e 19) e il
giro paraippocampale (area 28). Le fibre dello splenio del corpo calloso apparivano completamente distrutte nella parte più bassa ma parzialmente risparmiate in
quella più alta.
RC è stato visto per la prima volta nel nostro laboratorio nel febbraio 1996. In quel
periodo, il suo linguaggio era fluente e informativo, senza parafasie. Il suo comportamento era in generale adeguato e i disturbi che lamentava maggiormente erano la
sua completa incapacità di leggere e l’impossibilità di guidare la macchina, dovuti
alle limitazioni del suo campo visivo. La moglie di RC riferiva che egli spesso iden-
Figura 2 - RM cerebrale eseguita su RC nel maggio 1997
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tificava scorrettamente gli oggetti (ad esempio scambiava i suoi occhiali per il telecomando del televisore), ma il paziente sembrava scarsamente consapevole del suo
disturbo agnosico.
A dispetto dei suoi problemi nel riconoscimento di oggetti mediante la modalità
visiva, RC non aveva mai mostrato difficoltà nel riconoscere le persone dai loro visi.
ESAME NEUROPSICOLOGICO GENERALE
De Renzi, Zambolin e Crisi (1987) hanno indicato quattro deficit principali caratterizzanti il danno neuropsicologico derivante dall’infarto nel territorio dell’arteria
cerebrale posteriore sinistra, e cioè agnosia visiva, alessia pura, anomia per i colori
e amnesia. Così, l ‘esame neuropsicologico di RC fu per prima cosa orientato verso
la valutazione di queste aree cognitive.
La sua denominazione su modalità visiva era estremamente povera e non variava in
modo apprezzabile sia che fossero usati oggetti reali (2\16 corretti), fotografie in
bianco e nero (5\24 corretti), o figure colorate (2\40 corretti). RC generalmente forniva le sue risposte sbagliate in modo rapido e appariva completamente inconsapevole dei suoi errori di riconoscimento. Gli errori erano prevalentemente delle perseverazioni. Una volta che egli aveva denominato (correttamente o meno), il primo
item (ad esempio, cane), egli tendeva ad attribuire tutti gli item seguenti alla stessa
categoria semantica (in questo caso, gli animali). Le categorie più frequentemente
rappresentate nelle sue perseverazioni erano gli animali, gli strumenti musicali e i
giocattoli, in questo ordine. La maggior parte degli oggetti che non erano nominati dopo la presentazione visiva venivano prontamente riconosciuti quando al
paziente era permesso di toccarli (14\16).
Al fine di discriminare tra agnosia visiva (mancato riconoscimento degli oggetti
attraverso la modalità visiva) e afasia ottica (incapacità a denominare oggetti presentati visivamente), abbiamo investigato le vie alternative attraverso le quali il
paziente poteva manifestare il riconoscimento di oggetti, ovvero la pantomima dell’uso di tali oggetti e la categorizzazione semantica. RC riportò risultati molto scadenti nella dimostrazione con i gesti dell’uso degli oggetti che poteva vedere ma non
manipolare (2\16 corrette). Ciò non era dovuto a un disordine aprassico, dal
momento che il paziente era molto accurato nell’imitazione dell’uso di oggetti
nominati (23\24 corrette). Raggiungeva inoltre punteggi molto bassi nell’associare
tra loro gli oggetti secondo proprietà semantiche o funzionali. Quando gli venne
data una tripletta di oggetti (ad esempio un martello, pinze e un pettine) e gli fu
richiesto di associare i due oggetti semanticamente correlati, RC ottenne un punteggio di 10\16 risposte corrette. In un compito analogo con l’uso di fotografie e
oggetti come stimoli, il suo punteggio fu di 11\15.
La lettura era severamente danneggiata. RC era incapace di leggere una singola
parola, indipendentemente da lunghezza, frequenza d’uso e caratteri di stampa
della stessa. Egli fu in grado di leggere 5\16 singole lettere stampate in maiuscolo,
ma migliorò la prestazione quando gli venne permesso di tracciare col dito il con26
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torno (8\16), o quando l’esaminatore tracciò la lettera sulla sua mano sinistra
(11\16), o sulla destra (12\16). All’opposto, la scrittura era conservata. RC scrisse
singole parole e brevi passaggi su dettatura in modo corretto e senza esitazioni, sebbene fosse poi incapace di rileggere quanto aveva scritto.
La percezione dei colori era normale (10\10 risposte corrette nell’accoppiamento di
colori). In ogni caso, era incapace di nominare colori presentati visivamente (4\10
corrette).
RC aveva una severa difficoltà nel ricordare eventi quotidiani. A causa del suo deficit visuo-percettivo, la memoria a lungo termine poteva venire formalmente valutata solo con materiale verbale. Al Rey’s 15-word learning task (Rey, 1958), egli ricordò 15 parole su 75 durante le cinque prove di ricordo immediato e non una singola parola dopo un intervallo di 15 minuti. In un compito di riconoscimento orale
per le stesse 15 parole unite a 30 distrattori, egli identificò correttamente 4 delle 15
parole precedentemente studiate e totalizzò 6 falsi allarmi. In un compito di ricordo di una breve storia (Spinnler e Tognoni, 1987), RC ricordò solamente un’unità
di informazioni nel compito di ricordo immediato e nessuna dopo 15 minuti.
In definitiva, RC era affetto da una severa agnosia visiva, da alessia senza disgrafia,
da anomia per i colori e da una grave amnesia.
INDAGINE SPERIMENTALE
Furono indagati i seguenti stadi del processo di riconoscimento visivo (Marr, 1980,
1982):
a) analisi delle caratteristiche visive elementari (grandezza, collocazione spaziale,
orientamento delle linee, ...);
b) formazione di una rappresentazione dello stimolo centrata sull’osservatore;
c) formazione di una rappresentazione dello stimolo centrata sull’oggetto. Ulteriori
test furono eseguiti per valutare l’accesso al magazzino della memoria visiva attraverso il sistema semantico e la processazione su modalità visiva di volti umani.
Questi test furono somministrati a RC tra il febbraio e l’aprile del 1996.
Meccanismi di base del deterioramento nel riconoscimento di
oggetti attraverso la visione
Analisi delle caratteristiche visive elementari
A RC furono somministrati 5 compiti di scelta forzata per la valutazione della percezione della grandezza e della forma di semplici figure geometriche, dell’orientamento e della lunghezza di linee e della collocazione spaziale di un punto in un
piano bidimensionale.
Percezione delle misure. Furono presentati al paziente 20 paia di cerchi e 20 paia di
quadrati di misure differenti (il diametro dei cerchi variava da 2 cm a 4.5 cm, i lati
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dei quadrati da 2 cm a 3.5 cm), disposti in ordine verticale. Il paziente doveva indicare la figura più grande di ogni coppia. Le risposte di RC furono corrette al 100%.
Percezione di forme semplici. Questa fu valutata usando una versione semplificata
del test di Efron (1968). In ognuna delle 24 coppie, veniva presentato un quadrato
(che aveva la stessa misura in tutti gli item), assieme ad un quadrato uguale (per
metà degli item), oppure con un rettangolo, il cui rapporto base-altezza era variabile. Il paziente doveva riuscire a distinguere i due membri della coppia come uguali o diversi. RC rispose correttamente a 33 dei 34 stimoli presentati (97% di risposte corrette).
Percezione della collocazione spaziale. Il materiale stimolo consisteva di 30 paia di
quadrati con un punto nero collocato all’interno in una tra 25 possibili posizioni. In
metà degli item, la posizione del punto era la stessa nei due quadrati, mentre nella
metà rimanente era diversa. Il paziente doveva decidere se i punti erano collocati
nella stessa posizione oppure no. Il punteggio di RC fu di 29 risposte corrette
(97%).
Percezione dell’orientamento delle linee. A RC furono presentate 48 paia di linee
lunghe 4 cm sistemate in ordine verticale. Le linee potevano essere orientate a 0°,
45°, 90°, 135° rispetto al piano orizzontale e, per ogni paio, le linee potevano essere ugualmente orientate (metà degli item) o meno (altra metà degli item). RC totalizzò il 100% di risposte corrette.
Percezione della lunghezza delle linee. Gli stimoli consistevano di 20 paia di linee la
cui lunghezza variava da 4.5 a 8 cm. Al paziente veniva richiesto di indicare la linea
più lunga. RC diede 19 risposte corrette su 20 (95%).
Formazione di rappresentazioni dello stimolo centrate
sull’osservatore
In ognuno dei 40 item del test eseguito, furono presentate al paziente, disposte in
ordine verticale, due figure della serie di Vanderplas, Sanderson e Vanderplas
(1965), approssimativamente di misura 8x8 cm. RC doveva decidere se le figure
erano uguali (in metà degli item), o diverse (nell’altra metà). Il paziente eseguì questo test due volte, ad un intervallo di un mese. La prima volta, totalizzò un punteggio di 23\40 risposte corrette (57%), un punteggio non significativamente diverso
dal caso (chi-quadro = .45; p = n.s.) e diede quasi sempre risposte “diverso”
(37\40). La seconda volta, RC rispose correttamente a 33 item su 40 , un punteggio
significativamente più alto di quello atteso dal caso (chi-quadro = 9.45; p < .01). In
questo compito, un gruppo di controllo di bambini di 5 anni totalizzò il 100%.
Circa nello stesso periodo in cui RC eseguì il test con le figure astratte di Vanderplas
e al. (1965), gli fu somministrato anche un compito di confronto e scelta simile, con
l’uso di disegni di oggetti reali formati da linee, di circa 4x4 cm, presi dalle serie di
Snodgrass e Vanderwart (1980). Fu prestata molta cura nel selezionare disegni
“diversi”, che erano visivamente simili (ad esempio una penna e un flauto similmente orientati). In questo test, RC totalizzò il 100% di risposte esatte, senza
mostrare alcuna esitazione.
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Formazione di rappresentazioni di stimoli centrate sull’oggetto.
Per raggiungere una rappresentazione mentale di un oggetto presentato visivamente centrata sul suo più usuale punto di vista, è richiesta una sorta di rotazione mentale dello stimolo immediatamente percepito prima di poter avere accesso alle rappresentazioni precedentemente immagazzinate in memoria.
Al fine di testare tale capacità, si presero fotografie in bianco e nero di 16 oggetti
comuni, di circa 18x24 cm ognuna, e in due versioni: una rappresentante l’oggetto
dalla sua prospettiva prototipica [secondo la definizione di Ellis e Young (1988),
“quella in cui le caratteristiche distintive dell’oggetto e il suo asse di elongazione
sono chiaramente visibili”, pag. 41], e l’altra rappresentante l’oggetto preso da un
inusuale punto di vista (nella maggior parte dei casi “ con il suo asse di elongazione di scorcio”, e, in una minoranza dei casi, “con la riduzione della salienza della
sua caratteristica primaria distintiva”). Ognuno dei 16 item presentati a RC consisteva di 3 fotografie presentate in disposizione verticale. La fotografia in alto rappresentava la prospettiva prototipica di un oggetto (stimolo target). Le due fotografie sotto rappresentavano oggetti visti da prospettive insolite. Uno dei due era lo
stesso oggetto dello stimolo target, l’altro era un oggetto diverso scelto sulla base
della condivisione di un certo grado di similarità visiva con quello precedente. RC
doveva indicare quale delle due fotografie con punti di vista inusuali rappresentava
lo stesso oggetto della fotografia-target. Egli fu veloce e accurato nell’eseguire questo compito, con un risultato di 15\16 risposte corrette (il suo unico errore consistette nello scambiare una tazza per un secchio, entrambi visti dall’alto).
Accesso al magazzino di memoria visiva
attraverso l’analisi percettiva visiva
Il magazzino della memoria visiva contiene i ricordi dell’aspetto visivo degli oggetti. Secondo Ellis e Young (1988), si può accedervi o direttamente dalla rappresentazione centrata sull’osservatore dell’oggetto (quando l’oggetto viene osservato da
una prospettiva tipica), oppure attraverso la rappresentazione centrata sull’oggetto
(quando si rivela necessaria una trasformazione per raggiungere una visione dell’oggetto più tipica). Furono somministrati due test che non richiedevano il riconoscimento del significato degli stimoli.
Il primo test riguardava la discriminazione tra disegni di oggetti reali e disegni di
oggetti non reali (i disegni erano composti di linee). Questo test è simile a quello
sviluppato da Riddoch e Humphreys (1987), nel quale il loro paziente HJA ottenne dei risultati molto bassi. I 14 disegni di oggetti reali furono scelti dalle serie di
Snodgrass e Vanderwart (1980). I 14 oggetti non reali furono creati assemblando
frammenti di questi e altri disegni. A RC era richiesto di decidere per ognuno dei
28 disegni se esso rappresentasse un oggetto reale o meno. Egli eseguì il test in
modo accurato (27\28 corrette) e veloce.
Nel secondo test, a RC fu richiesto di decidere quale tra due oggetti disegnati
mediante linee fosse più grande nella realtà. Secondo Forde, Francis, Riddoch e al.,
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(1997), un giudizio accurato sulle grandezze richiede l’accesso alla descrizione
strutturale dell’oggetto.
Quaranta disegni delle serie di Snodgrass e Vanderwart (1980) furono presentati a
coppie. La differenza di misura tra i due membri delle coppie variava dal basso (ad
esempio una cipolla e un ananas) all’alto (ad esempio un’automobile e un camion).
Anche in questo test, RC fu molto accurato (19\20 corrette) e veloce. (Fece un solo
errore in una coppia formata da un topo e una rana).
In definitiva, una valutazione accurata delle capacità visuo-percettive di RC non
rivelò alcun problema nella processazione di caratteristiche visive elementari come
la grandezza, l’orientamento delle linee la collocazione spaziale. La sua performance nel compito di confronto di figure astratte suggeriva una difficoltà nella formazione di rappresentazioni centrate sull’osservatore di stimoli visivi complessi. In
ogni caso, è improbabile che un danno critico a questo livello del processamento di
informazioni visive fosse alla base del danno nel riconoscimento di oggetti tramite
modalità visiva, dal momento che la sua performance era buona in compiti che
richiedevano (a) il confronto di disegni di oggetti reali, (b) il confronto di fotografie di oggetti osservati da differenti prospettive, (c) la discriminazione fra disegni di
oggetti reali e non, (d) l’indicazione del disegno che, all’interno di una coppia, rappresentava l’oggetto più grande nella realtà. I buoni risultati di RC a tali test mostravano la sua abilità normale, o vicina alla normalità, nel formare rappresentazioni
centrate sull’oggetto di stimoli presentati visivamente e nell’accedere al sistema
mnestico contenente le caratteristiche visive degli oggetti.
Accesso al magazzino di memoria visiva
attraverso il sistema semantico
Basandosi sul fatto che i loro pazienti agnosici erano in grado di indicare l’oggetto
nominato dall’esaminatore, De Renzi e Saetti (1997) interpretarono l’agnosia visiva
associativa come conseguenza di una disconnessione unidirezionale che impediva ai
percetti visivi di accedere al sistema linguistico, lasciando però intatta la capacità
dei concetti di attivare le rappresentazioni nel magazzino di memoria visiva.
Comunque, tale osservazione non è generalizzabile a tutti i pazienti con agnosia
visiva. L’incapacità di indicare oggetti nominati dall’esaminatore è stata riscontrata
in pazienti agnosici descritti da Oxbury, Oxbury e Humphreys (1969), Rubens e
Benson (1971), e Ferro e Santos (1984), così come da altri.
Noi abbiamo usato tre test per valutare l’abilità di RC nell’accedere al magazzino di
memoria visiva attraverso il sistema linguistico. Il primo era un test di confronto
visuo-verbale, nel quale gli veniva richiesto di scegliere l’oggetto o la fotografia del
colore nominato dall’esaminatore fra tre alternative. In entrambi i casi, RC fu veramente accurato e veloce (13\14 per gli oggetti, 23\24 per le fotografie).
Il secondo test consisteva nel disegnare a memoria un oggetto nominato dall’esaminatore. Anche se le sue prestazioni nella copia di disegni furono decisamente
povere, almeno 12 dei 19 oggetti disegnati a memoria in due diverse occasioni erano
ben riconoscibili (figura 3).
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Figura 3 - Alcuni disegni eseguiti a memoria da RC:
a) un bicchiere, b) un martello, c) una matita, d) un ago.
Nel terzo test a RC fu richiesto di fornire una descrizione verbale delle caratteristiche visive di 34 oggetti. Fu generalmente molto accurato e diede dettagliate descrizioni strutturali. Ad esempio, nel descrivere un cucchiaio, egli disse: “è di metallo,
ha un’impugnatura, la parte finale da mettere in bocca è concava “, e nella descrizione di una sedia: “ha quattro gambe, uno schienale e un sedile; è fatta di legno, a
volte è coperta di pelle”.
In definitiva, a dispetto del fatto che le sue performance nel disegno a memoria fossero insoddisfacenti (probabilmente in dipendenza da generali difficoltà nel disegno), i nostri dati documentano che l’abilità di RC nel recupero dell’immagine mentale visiva di un oggetto in risposta al suo nome era alquanto migliore del suo riconoscimento visivo.
Processamento per volti umani
Le facce rappresentano una categoria distinta di percetti, il cui riconoscimento su stimolazione visiva può venire danneggiato (v. ad esempio Bodamer, 1947; Carlesimo e
Caltagirone, 1995; De Renzi, 1986), o risparmiato (Feinberg, Schindler, Ochoa e al.,
1994; Moscovitch, Winocur e Behrmann, 1997) a seguito di una lesione cerebrale.
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Al fine di valutare le capacità di RC nella processazione di informazioni visive per
volti umani, gli fu somministrato il test di riconoscimento di volti famosi (Carlesimo
e Caltagirone, 1995), che stima l’abilità di identificare facce precedentemente conosciute e di richiamare alla mente informazioni rilevanti di tipo semantico e il nome
proprio della persona identificata. Ognuno dei 20 item del test è composto di 4
fotografie di volti in bianco e nero di circa 9x6.5 cm, disposte in ordine verticale.
Per ogni item, un viso appartiene a una celebrità e gli altri tre a persone non famose. Ad RC venne richiesto di fornire tre tipi di risposte: (a) un giudizio di familiarità (indicando il volto appartenente a una persona famosa), (b) la categoria di appartenenza (l’occupazione principale di quella persona: politica, musica, televisione,
cinema), e (c) il nome proprio. La performance di RC per i giudizi di familiarità
(15\20 risposte corrette) era nel range dei risultati ottenuti da un gruppo di 50 controlli normali ( da 14 a 20\20 risposte corrette). Tuttavia, alla richiesta di ricordare
l’occupazione principale delle persone famose, diede una performance veramente
scadente (solo 3 risposte corrette su 20) e fallì completamente nel recupero dei
nomi propri.
Il pattern dei deficit presentati da RC per i volti umani appariva molto simile a quello riscontrato per gli oggetti. Sebbene la sua abilità nel confronto di volti sconosciuti visti da identici o differenti punti di vista non sia stata testata, la sua normale
performance al test sul riconoscimento di familiarità suggerisce che la processazione di informazioni percettive di materiale fisiognomico fosse sostanzialmente conservata. Ciò suggerisce anche che egli fosse in grado di accedere alle unità di riconoscimento dei volti (Bruce e Young, 1986) site nel suo magazzino di memoria visiva. In contrasto, il suo deficit nel recupero di informazioni semantiche e di nomi
propri di persone familiari è paragonabile ai danni nell’assegnazione di un significato corretto agli stimoli visivi.
FOLLOW UP
Quando fu accompagnato per la prima volta al nostro laboratorio, RC sembrava
completamente inconsapevole del suo deficit di riconoscimento visivo. Alla richiesta di nominare un oggetto o una figura, egli dava immediatamente risposte errate
e spesso aggiungeva in modo confabulatorio dettagli non richiesti circa l’aspetto
dello stimolo (ad esempio, quando gli si presentò la fotografia di un bastone, egli lo
definì una bambola e descrisse in dettaglio le sue gambe e il colore dei suoi capelli).
RC si sottopose a un programma di riabilitazione cognitiva per due volte alla settimana a partire dal maggio del 1996. Inizialmente lo scopo era di rendere consapevole il paziente del suo deficit di riconoscimento visivo e di riuscire a fargli sviluppare una strategia compensatoria, basata su una verbalizzazione chiara delle caratteristiche visive dell’oggetto prima di produrre il suo nome.
Abbiamo avuto l’opportunità di ritestare le abilità di denominazione di RC per la
prima volta nell’ottobre del 1996 e poi nell’aprile 1997.
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Nell’ottobre 1996, l’accuratezza di RC nel denominare sia oggetti (10\12 corrette)
che disegni di oggetti reali (56\80 corrette) era sorprendentemente migliorata. Otto
dei 26 errori di denominazione prodotti da RC erano di natura agnosica (ad esempio scambiò un orecchio per un paio di scarpe), gli altri 18 errori erano delle anomie (ad esempio, di fronte al disegno di un ananas disse: “È un frutto, può essere
sbucciato, dentro è giallo, succoso, ha un nome strano,...”). Tuttavia, era molto
lento nel portare a termine i compiti e le sue risposte erano per lo più precedute da
una verbalizzazione all’esterno, che rivelava la strategia applicata dal paziente per
riconoscere un oggetto e recuperare la sua etichetta verbale.
Un’analisi delle verbalizzazioni di RC suggerì che in più di un terzo dei casi di risposta corretta (26\66), egli utilizzò una sorta di strategia di conduite d’approche, basata sulla definizione di attributi funzionali dell’oggetto. Ad esempio, quando gli venne
richiesto di nominare un cerotto, disse: “Sì, si mette quando qualcuno si fa male,...
allora la ferita rimane coperta..., sì, è un cerotto”. In una minoranza dei casi (11\66),
invece, RC iniziò a perseverare usando risposte o categorie precedenti, poi riuscì ad
accedere alla categoria prima e al nome corretto dell’oggetto poi, senza nessuna
apparente strategia logica. Per esempio: “Sì, è di legno, viene usata per sedersi, ...
forse no,... è un alimento, un panino, potrebbe essere un frutto, è una pera!”.
Nell’aprile del 1997 fu testata l’abilità del paziente di nominare 50 oggetti, una volta
su definizione verbale e, in una versione differente, su presentazione visiva. Non fu
registrato il tempo necessario al recupero dei nomi corretti. L’accuratezza di RC
nella denominazione di stimoli visivi era ulteriormente migliorata (41\50 risposte
corrette nel test visivo, 47\50 corrette nel test verbale). Tuttavia, il paziente era
molto più lento nella produzione del nome su presentazione visiva (tempo medio
63 sec., range: 0-150 sec.), rispetto alla descrizione verbale (tempo medio 5 sec.,
range: 0-60 sec.). Nel compito di tipo visivo, 5 errori consistevano in errate identificazioni e altri 4 in anomie.
Anche in questo caso, un’analisi delle verbalizzazioni precedenti alle risposte giuste
rivelavano che il nome corretto veniva fornito molto più frequentemente seguendo
una strategia di conduite d’approche (26\41).
In conclusione, circa un anno dopo la prima osservazione, RC era in grado di nominare il 92% degli stimoli visivi. Le sue risposte rimanevano comunque estremamente lente, mentre era in genere veloce ed accurato nel recupero di nomi di oggetti descritti verbalmente.
DISCUSSIONE
Al momento della nostra prima osservazione, RC si presentò con tutti i sintomi neuropsicologici tipici della sindrome conseguente a ischemia dell’arteria cerebrale
posteriore sinistra (De Renzi e al., 1987). Egli aveva una notevole difficoltà nel riconoscere gli oggetti presentati visivamente, era alessico ma non agrafico, con deficit
nella denominazione di colori, e inoltre soffriva di un’amnesia verbale anterograda.
Il deficit di riconoscimento visivo presentato da RC aveva le caratteristiche di un’a33
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gnosia visiva associativa. Il paziente portava a termine normalmente i compiti visuopercettivi che non richiedenti identificazione del significato, mentre falliva nella
denominazione, nella pantomima dell’uso degli oggetti e nella categorizzazione di
oggetti o figure presentati visivamente.
Considerando le sue normali capacità di accedere alle rappresentazioni depositate
nel sistema di memoria visiva (corretto giudizio di realtà su disegni di oggetti reali
e non reali e corretto giudizio di grandezza su oggetti reali disegnati), concludiamo
che alla base dell’agnosia visiva di RC vi era una disconnessione tra un magazzino
di memoria visiva normalmente funzionante e un sistema di memoria semantica
sostanzialmente preservato.
Da una prospettiva neurobiologica, il caso di RC fornisce informazioni sul substrato neurale del riconoscimento visivo di oggetti. Come si è riportato precedentemente, la lesione ischemica del paziente aveva distrutto l’area visiva primaria dell’emisfero sinistro e un’ampia porzione della superficie mesiale dei lobi temporooccipitali di sinistra e dello splenio del corpo calloso, impedendo così al segnale
visivo elaborato nell’emisfero destro di raggiungere le aree del linguaggio in quello
sinistro. L’abilità di RC, sostanzialmente preservata, di costruire adeguate rappresentazioni dello stimolo centrate sull’osservatore e sull’oggetto si adatta bene all’assunzione della dominanza dell’emisfero destro per quanto riguarda questi stadi dell’elaborazione visiva (Warrington, 1985). Cosa ancora più interessante, la preservata abilità di questo paziente di accedere normalmente alle immagini visive immagazzinate (in accordo con precedenti riferimenti su pazienti agnosici visivi; cfr. De
Renzi e Saetti, 1997), potrebbe essere spiegata assumendo una lateralizzazione dell’emisfero destro del substrato neuronale del sistema mnestico per gli aspetti visivi
degli oggetti. Comunque, dal momento che un caso di agnosia visiva associativa non
è mai stato riportato a seguito di una lesione unilaterale della corteccia occipitotemporale destra, è probabile che le immagini visive siano rappresentate bilateralmente, con entrambi gli emisferi in grado di sostenere normalmente il riconoscimento visivo degli oggetti in caso di lesione confinata all’emisfero controlaterale.
Un ulteriore punto di interesse nel deficit di riconoscimento visivo presentato da
RC risiede nel modo in cui “processava” facce umane. Farah e collaboratori (Farah,
1990, 1991; Feinberg e al.,1994) sostengono l’esistenza di due sottotipi di agnosia
visiva, il primo specifico per oggetti e parole stampate (alessia) ma non per i visi, il
secondo in grado di distruggere il riconoscimento di tutte e tre le classi di stimoli
visivi. Il caso di RC era chiaro in quanto non solo il suo deficit di riconoscimento
visivo si estendeva al materiale fisiognomico, ma il suo danneggiamento nella capacità di riconoscere persone attraverso i loro visi procedeva strettamente in parallelo con la sua difficoltà nel riconoscimento di oggetti attraverso la visione. Egli
espresse correttamente i giudizi di realtà su molti visi famosi (così come espresse
giudizi corretti di realtà su disegni di oggetti) ma era incapace di fornire delle
informazioni semantiche su queste persone (così come con gli oggetti).
Il deficit di riconoscimento dei visi presentato da RC non può essere considerato una
vera prosopoagnosia, dal momento che egli era in grado di discriminare visi familiari
da visi non familiari. Forse, l’incapacità del paziente nel riconoscere le persone le cui
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facce egli avvertiva come familiari suggerisce una disconnessione tra un magazzino per
le unità di riconoscimento facciale normalmente funzionante e il sistema semantico.
La disconnessione visivo-semantica esibita da RC per gli oggetti sembrava essere
unidirezionale. Mentre le sue prestazioni nel fornire i nomi o informazioni generali sugli oggetti sentiti come reali erano scadenti, egli aveva mantenuto la capacità di
indicare gli oggetti nominati dall’esaminatore e di produrre disegni riconoscibili e
accurate descrizioni a memoria. L’unidirezionalità del deficit di riconoscimento nei
pazienti agnosici visivi non è una scoperta nuova (cfr., ad esempio, Albert, Reches
e Silverberg, 1975; De Renzi e Saetti, 1997) e può essere provata assumendo che le
fibre che connettono le aree uditive verbali dell’emisfero sinistro (dove l’input verbale viene codificato) con l’emisfero destro attraversino la linea mediana anteriormente allo splenio danneggiato.
Un ultimo punto di interesse è rappresentato dall’evoluzione del deficit di riconoscimento visivo durante il periodo della nostra osservazione e dall’analisi qualitativa
delle sue risposte ai test di denominazione durante le valutazioni del follow up. Come
descritto sopra, al momento della nostra prima osservazione, RC appariva completamente inconsapevole delle sue false identificazioni. Egli forniva velocemente risposte
errate, tendenti alla perseverazione all’interno di poche categorie semantiche di oggetti, e spesso confabulava sulle caratteristiche percettive degli stimoli visivi, in accordo
con le etichette verbali sbagliate che aveva appena prodotto. Dopo un periodo di sei
mesi, durante il quale si era sottoposto ad uno specifico programma di riabilitazione
cognitiva, la precisione di RC nella denominazione di stimoli presentati visivamente
era migliorata in modo evidente. L’analisi delle sue verbalizzazioni suggeriva che il
miglioramento fosse principalmente il risultato di un cambiamento nella strategia
usata per la ricerca dell’etichetta verbale corretta. In particolare, sembrava che RC
considerasse le sue risposte verbali in modo critico, inibisse le confabulazioni e usasse una strategia verbale basata sulla descrizione degli attributi percettivi e funzionali
per facilitare l’accesso all’etichetta verbale corretta. Questi dati sembrano suggerire
che sebbene la lesione cerebrale abbia posto ad RC delle limitazioni veramente severe sulle abilità di processazione visiva e abbia determinato le caratteristiche qualitative del suo deficit visuo-percettivo, una preservata flessibilità cognitiva (probabilmente supportata da un programma di riabilitazione specificamente mirato), gli ha permesso di elaborare delle strategie cognitive alternative che hanno modificato il suo
approccio comportamentale ai compiti di riconoscimento visivo, e ha anche sostanzialmente migliorato l’accuratezza del suo riconoscimento.
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La riabilitazione del soggetto in età evolutiva
con gravi disturbi della coscienza
R. Formisano, F. Piras, P. Casadio,
P. Franco, F. Penta, D. Passafiume
Ospedale di Riabilita:ione, IRCCS Santa Lucia, Roma
pubblicato sul n° 6/1996 del GIORNALE DI NEUROPSICOFARMACOLOGIA.
REVISIONE DELLA LETTERATURA
L’incidenza del trauma cranico in età pediatrica rappresenta il 42% di tutti i traumi cranici (Kraus 1989, Ritz 1991), con 1’8% nell’età tra i 2 e i 9 anni e il 34% tra
i 15 e i 19 anni (Jennet 1981, Johansson 1991, Rimel 1989). Tra questi la più elevata incidenza risulta riguardare i traumi cranici lievi, con percentuali che variano dal
75 al 91 % (Kraus 1989, Johansson 1991).
Pazienti di sesso maschile sono più spesso coinvolti in incidenti con conseguente
trauma cranico rispetto al sesso femminile, con un’incidenza che varia tra il 65 e il
70% (Craft 1972, Boulis 1979, Vigouroux 1982, Annengers 1983),
Le cadute accidentali e gli incidenti del traffico rappresentano le due principali
cause in tutte le casistiche di traumi cranici in età pediatrica (Choux 1990).
Studi recenti (Spettel 1991, Avalle 1993) hanno dimostrato una correlazione significativa tra durata del coma e outcome, misurata mediante la Glasgow outcome
scale, a 12 mesi, nei pazienti con trauma cranico grave, con possibilità di miglioramento clinico tra i 3 e i 12 mesi dal trauma, indice delle capacità di plasticità
del SNC in età pediatrica. Un buon recupero o una disabilità moderata è stata
osservata nel 90% dei bambini con durata del disturbo di coscienza inferiore ai 3
mesi (Brink 1970, 1980; Bruce 1979).
Nonostante alcune casistiche abbiano dimostrato un outcome migliore al disotto
dei 10 anni di età (Carlsson 1968, Cooper 1979, Overgaard 1973, Pazzaglia 1975),
altri autori non hanno trovato alcuna correlazione tra età ed outcome (Berger 1985,
Braakman 1980, Bruce 1979, Hendrick 1964, Humphreys 1983). Confronti tra
pazienti con trauma cranico grave in età adulta e pediatrica hanno dimostrato una
percentuale significativamente più elevata di buon recupero nei pazienti pediatrici
(43%) che nei pazienti adulti (28%) (p < 0.01), con una più bassa mortalità (24%
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versus 45%). Ad un anno di follow-up la percentuale di pazienti con un buon outcome aumentava ulteriormente fino al 55% nei pazienti pediatrici a confronto con
il 21 % dei pazienti adulti (Alberico 1987).
Ampie casistiche sui traumi cranici gravi in età infantile (Cedermark 1942,
Akerlund 1959) riportano una bassa mortalità e disabilità globale, con 90% dei
pazienti con buon recupero o moderata disabilità e 8% con morte o stato vegetativo persistente (Narayan 1981, Jennet 1976, Bruce 1978). In tali casistiche è stata
sottolineata la bassa incidenza di lesioni chirurgiche (23%) e l’elevata frequenza di
edema cerebrale diffuso (34%). Berger (1985) correlava la persistenza di un’elevata pressione intracranica (PIC > 40 mmHg) con un outcome peggiore nei pazienti
più giovani, sia in presenza che in assenza di lesioni chirurgiche. Teasdale (1979)
riportava che l’età ha un’influenza importante sull’outcome di pazienti dopo grave
trauma cranico, non giustificata soltanto dall’aumentata frequenza di complicanze
intracraniche riscontrate nei pazienti più anziani.
Le lesioni espansive intracraniche sono più comuni nei traumi cranici dell’età adulta ed hanno una più elevata mortalità delle lesioni diffuse, che sono più frequenti in
età pediatrica (Bricolo 1980, Clifton 1980, Gennarelli 1982, Miller 1977, Narayan
1981, Pazzaglia 1975, Becker 1977, Obrist 1979). Alberico (1987) riportava una
maggiore incidenza di lesioni espansive chirurgiche in età adulta (46%) rispetto
all’età pediatrica (24%), con netta significatività statistica (p < 0.00 I). Altri autori
dimostravano che la presenza di una lesione chirurgica non influenzava l’outcome
di pazienti pediatrici con trauma cranico (Gennarelli 1982, Walker 1985, Bruce
1978). Berger (1985) riportava infatti, nei traumi cranici al disotto dei 17 anni,
un’incidenza simile di lesioni espansive tra i pazienti con buon outcome e quelli con
outcome sfavorevole. Mayer (1981) e Jennet (1976) al contrario hanno riscontrato
che le lesioni espansive influenzavano negativamente l’outcome dei traumi cranici
in età pediatrica. L’ematoma sottodurale in particolare rappresenta la lesione espansiva intracranica più frequente in età pediatrica (Choux 1990).
L’edema cerebrale diffuso è stato riportato come l’aspetto neuroradiologico più frequente nei pazienti pediatrici con trauma cranico grave ad esito infausto
(Lindenberg 1955, Humphreys 1983). Altri autori (Berger 1985) hanno invece
riportato l’edema cerebrale diffuso come reperto comune alla TAC cerebrale in
pazienti pediatrici, con outcome soddisfacente nel 75% dei casi. La Risonanza
Magnetica Nucleare cerebrale (RMN) dopo un trauma cranico può evidenziare piccole aree di contusione cerebrale non visibili alla TAC cerebrale (Luerssen 1987).
La misurazione della pressione endocranica (PIC) non è considerata un buon indice prognostico in età pediatrica, se valutata in assenza di altri segni clinici e/o strumentali (Humphreys 1983).
L’edema cerebrale è stato interpretato da alcuni come secondario a vasodilatazione
cerebrale e aumento del volume ematico cerebrale piuttosto che ad edema cerebrale vero e proprio (Bruce 1978, Bruce 1981). Tale autore (Bruce 1978) ha ipotizzato
che la soglia per disfunzioni neurofisiologiche sia più bassa in età pediatrica che in
età adulta, con secondaria maggiore gravità del coma in fase acuta nei pazienti più
giovani, non associata però necessariamente a grave danno cerebrale, fatto che con39
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sentirebbe un miglior recupero nei bambini che non negli adulti.
Altri autori (Carlsson 1968, Becker 1977, Bricolo 1977) non sembrano concordare
con la ridotta mortalità per trauma cranico in età evolutiva e altri, in particolare,
ipotizzano che le differenze di outcome tra i traumi cranici dell’età pediatrica e dell’età adulta non sarebbero tali, se si escludessero i traumi di lieve entità (Hendrick
1959, Pazzaglia 1975, Bricolo 1977).
L’ipertensione endocranica (PIC) e la reattività motoria in fase acuta si confermano
fattori prognostici di estremo significato predittivo anche in età pediatrica (Bruce
1978, Lindenberg 1955, Gobiet 1976, Berger 1985). Una PIC elevata sarebbe infatti responsabile di un danno cerebrale secondario spesso irreversibile di natura
ischemica o ipossica (Miller 1977).
Le alterazioni del diametro o della reattività pupillare e dei riflessi tronco-encefalici (risposte caloriche) non sembrano invece rivestire in età pediatrica lo stesso significato predittivo dimostrato in età adulta (Bruce 1978, Berger 1985), mentre il
segno clinico a peggiore significato prognostico sembra essere la flaccidità muscolare (Bruce 1978, Gruszkiewicz 1973). In contrasto a tale ultimo dato, Berger
(1985) riporta un outcome soddisfacente nel 41 % dei pazienti in età pediatrica con
flaccidità o posture patologiche in flessione e in estensione.
Lo stato vegetativo persistente e le disabilità gravi sono riportate come rare nell’età
evolutiva (1-2%) (Bruce 1979, Berger 1985, Walker 1985).
L’idrocefalo post-traumatico può svilupparsi dopo alcune settimane dopo il trauma
cranico, nei bambini più frequentemente che negli adulti (Choux 1990).
L’incidenza dell’epilessia post-traumatica nei bambini è tra l’1 e il 5%, in confronto alla percentuale dell’ 8-15% dell’ età adulta (Hendrick 1968, Hauser 1985, Roger
1984).
L’epilessia post-traumatica tardiva è spesso parziale (Roger 1984), con insorgenza
nel 23% dei casi nei primi 2 anni dopo il trauma cranico, nel 19% tra i 3 e i 5 anni
e nel 58% dopo 5 anni. È possibile osservare una risoluzione completa delle crisi
nel 50-80% dei pazienti in assenza di terapia anti-epilettica (Paillas e Bureau 1982,
Roger 1984).
L’atassia, associata o meno a spasticità, rappresenta la sequela neuromotoria più frequente nei traumi cranici dell’età pediatrica (Bruce 1979).
Nell’ambito dei deficit neuropsicologici, dopo coma prolungato, sono descritti:
compromissione della memoria, deficit intellettivi, instabilità, ipercinesia e aggressività, come più gravi nei bambini più giovani che non negli adolescenti (Brink
1980). Dopo grave trauma cranico in età evolutiva, i deficit cognitivi possono inoltre persistere (Levin e Eisenberg 1979, Levin 1983).
Carlsson (1968) ha sottolineato una stretta correlazione tra età e capacità di recupero delle funzioni cognitive.
Woo-Sam (1970) riportava che i traumatizzati cranici più giovani (al disotto degli 8
anni), anche se con minore durata del disturbo di coscienza, mostravano un più
grave deterioramento intellettivo rispetto ai pazienti al disopra dei 10 anni di età.
Chadwick (1981 a) riscontrava invece che il gruppo dei più giovani mostrava capacità di recupero intellettivo più rapide rispetto ai meno giovani. Questi due ultimi
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studi mostrano soltanto apparentemente dati discordanti. A prescindere infatti
dalle diversità metodologiche (nel primo studio il follow-up variava da 1 a 7 anni,
nel secondo studio tutti i pazienti venivano rivalutati a distanza di circa 2 anni), è
possibile sia che i pazienti più giovani mostrino deficit intellettivi più importanti,
associati però a più rapida capacità di recupero e sia che i pazienti più giovani recuperino più rapidamente, ma che le loro prestazioni rimangano comunque al disotto delle norma. Dopo grave trauma cranico in età pediatrica, tra le sequele neuropsicologiche vengono descritti deficit più gravi e persistenti nelle abilità non verbali, come dimostrato dalla scala di Wechsler (WISC-R) (Wechsler 1974), anche per
2 anni e oltre dall’evento patologico, mentre il QI verbale tende a ritornare alla
norma entro 1 anno dal trauma cranico (Winogron. Knights e Bawder 1984). Levin
e Eisenberg ( 1979) hanno evidenziato deficit delle abilità visuospaziali e prassicocostruttive (valutate mediante la composizione di disegni con blocchi tridimensionali e la copia di figure geometriche) in circa 1/3 dei giovani pazienti, a distanza di
1 anno dall’evento traumatico. I deficit mnesici si sono mostrati comunque come la
sequela neuropsicologica più comune del trauma cranico in età pediatrica, presente
in circa la metà dei pazienti con esiti di trauma cranico di varia gravità (Levin e
Eisenberg 1979).
Le abilità fondamentali per il rendimento scolastico sembrano essere variamente
disturbate dopo trauma cranico. Shaffer, Bijor e Chadwick (1980) hanno riportato
che, tra i pazienti con frattura cranica depressa unilaterale, il 55% circa mostra, ad
un compito di lettura, prestazioni di 1 o più anni inferiori rispetto all’età cronologica. Levin, Benton e Grossman (1982) hanno riscontrato che le abilità logico-matematiche, nei giovani traumatizzati cranici, persistono alterate rispetto a quelle
mostrate in epoca premorbosa, ancora a 6 mesi dal trauma cranico.
È da sottolineare comunque che capacità basilari quali la lettura e la scrittura sono
spesso disturbate da varie disfunzioni neuropsicologiche, quali i deficit attentivi,
mnesici e comportamentali, che inficiano direttamente le prestazioni del bambino e
indirettamente per quanto riguarda le sue capacità di interazione all’interno della
classe.
Pazienti più giovani, che non hanno ancora imparato a leggere, possono mostrare
gravi difficoltà nell’apprendimento di tale competenza, mentre varie disfunzioni
possono divenire mainfeste, solo ad alcuni anni di distanza dal trauma-cranico, per
l’effetto cumulativo delle sottostanti difficoltà di apprendimento, qualora nuove
richieste vengano poste all’intero sistema per compensare un modulo cognitivo
danneggiato. Klonoff, Low e Clark (1977) hanno rilevato che ben il 26% dei
pazienti al disotto dei 9 anni di età non seguono il normale corso di studi o necessitano di inserimento in classi speciali.
Tra i deficit attentivi in giovani pazienti con esiti di grave trauma cranico, i disturbi
più comuni sono rappresentati da disattenzione, impulsività ed iperattivismo di
varia gravità. In un contesto scolastico i disturbi attentivi del bambino si manifestano con difficoltà a mantenere la consegna nell’esecuzione di un compito o
nell’organizzare e portare a termine lo stesso. Il bambino spesso sembra non aver
sentito o ascoltato quanto detto; le sue prestazioni sono spesso incomplete o con41
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dotte in modo impulsivo ed inaccurato e possono essere caratterizzate da “distrazioni”, quali omissioni, intrusioni o misinterpretazioni anche di compiti relativamente semplici. La situazione di gruppo sembra influenzare negativamente le prestazioni del bambino, in particolare in un contesto scolastico in cui le difficoltà
attentive divengono maggiormente evidenti. L’impulsività può essere rappresentata
dalla tendenza a fornire una qualsiasi risposta prima ancora che la domanda sia
stata completata o dal mancato rispetto dei turni conversazionali, che portano il
bambino a interrompere spesso durante le lezioni o ad avviare un compito prima di
aver ben compreso le istruzioni. In ambito familiare i disturbi attentivi si manifestano nella difficoltà di dar seguito alle richieste e alle istruzioni dei genitori e
nell’inabilità nel condurre qualsiasi attività (incluso il gioco) ad un livello adeguato
all’età cronologica del bambino (DSM-III, 3rd Edition, 1980). Williams (1987)
riporta i risultati preliminari di uno studio effettuato su 6 bambini con manifesti
deficit attentivi e di apprendimento, inseriti in un programma terapeutico della
durata di circa 5 settimane, condotto sfruttando le indicazioni dell’ APT (Attention
Process Training) di Sohlberg e Mateer (1983). Miglioramenti significativi nel comportamento tenuto nel contesto scolastico si sono dimostrati in circa la metà dei
bambini trattati.
Williams conclude che un approccio specifico alla riabilitazione dei deficit attentivi possa giovare a molti giovani pazienti a che un miglioramento delle capacità
attentive si traduca in una maggiore adeguatezza comportamentale e in un migliore rendimento scolastico.
In letteratura è riportato che il miglioramento delle sequele neurologiche e neuropsicologiche può continuare per periodi più prolungati che negli adulti (Flach e
Malmros 1972, Alberico 1987), anche per 3 anni dopo il trauma cranico secondo
alcuni (Brink 1970).
CASO CLINICO
Paziente F.F., di sesso femminile, età attuale 14 anni.
La paziente riportava grave trauma cranio-encefalico all’età di 4 anni, in corso di
incidente automobilistico, con alla guida della vettura la madre e conseguente coma
prolungato posttraumatico, seguito da sindrome apallica della durata di circa un
mese. In fase acuta una TAC cerebrale evidenziava piccoli focolai lacerocontusivi
diffusi.
Un’ultima TAC cerebrale mostrava atrofia cortico-sottocorticale di modesta entità.
La paziente veniva assistita in fase acuta mediante ventilazione meccanica e alimentata per sondino naso-gastrico per oltre un mese. La piccola paziente presentava
quindi mutismo post-traumatico della durata di circa 3 mesi.
Il quadro neurologico iniziale mostrava strabismo divergente in occhio destro,
capacità di seguire con lo sguardo e di eseguire ordini semplici, comunicazione verbale assente, tetraparesi rigido-spastica, con grave piede equino-varo bilaterale.
La terapia farmacologica in fase post-acuta consisteva in L-Dopa (Sinemet 250 mg
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1/4 cpx3), Tript-OH come farmaco nootropico attivante e anti-spastici (diazepam
e tizanidina). L’inizio della terapia con L-Dopa mostrava in particolare una risposta
in attivazione della comunicazione verbale, con risoluzione del mutismo dopo
poche settimane dall’inizio della terapia.
Il programma riabilitativo veniva organizzato domiciliarmente, per interrompere il
lungo periodo di ospedalizzazione in Rianimazione, determinato da recidivanti
complicazioni infettive, da ipertermia subcontinua e da episodi di disidratazione
importanti. L’ambiente familiare rappresentava inoltre l’habitat più stimolante e
contemporaneamente più rassicurante per la piccola paziente.
Nel corso dei primi mesi dopo il trauma si evidenziava tra l’altro una pubertà precoce, verosimilmente secondaria al danno traumatico in sede alla neuroipofisi, trattato con terapia ormonale, tuttora in corso, per inibire il menarca.
Il trattamento fisiochinesiterapico dei primi mesi era volto ad esercizi di inibizione
della spasticità e ad una mobilizzazione passiva, sempre accompagnata da rinforzo
verbale e assistita, ove possibile, senza mai eccedere in richieste eccessive rispetto
alle capacità motorie della paziente. Un lavoro particolarmente prolungato veniva
svolto allo scopo di recuperare l’articolarità a livello delle principali articolazioni,
ove erano presenti gravi contratture e talvolta anchilosi articolari. In particolare, la
retrazione tendinea degli achillei migliorava notevolmente a seguito di verticalizzazioni graduali e progressive, ma quotidiane, per tempi ogni giorno più lunghi. Il
miglioramento della retrazione degli achillei non raggiungeva comunque un livello
soddisfacente, tanto che la paziente veniva sottoposta poi a intervento di tenotomia,
a circa l anno di distanza dal trauma cranico.
Al recupero progressivo della motilità attiva ai 4 arti si arrivava a seguito di esercizi di rotolamento a tappeto, di estensione, del capo e del tronco in posizione prona
e su pallone di Bobath ed esercizi in quadrupedica per il recupero del controllo del
bacino e della coordinazione motoria ai 4 arti, fino ad esercizi di statica. di passaggio di carico sugli arti inferiori e di deambulazione assistita, che comunque veniva
notevolmente limitata, a causa della retrazione degli achillei (con marcia tendenzialmente sugli avampiedi) fino al momento in cui veniva eseguita la tenotomia.
Per il recupero della comunicazione verbale e il miglioramento delle funzioni cognitive, si è lavorato inizialmente, nella fase di mutismo, con stimolazioni dell’iniziativa verbale, scoraggiando la comunicazione gestuale, una volta che il contatto con
l’ambiente esterno si era definitivamente reinstaurato.
Tali stimolazioni venivano eseguite prevalentemente con l’utilizzazione di rinforzi
positivi, che nel caso specifico, consistevano nella concessione di cibi preferiti o
riposo dalla fisioterapia (che rappresentava spesso una fonte di stimoli dolorosi, per
le gravi contratture e anchilosi articolari).
A1 recupero della comunicazione verbale si evidenziavano buone capacità espressive, lievemente inferiori alle abilità verbali pre-trauma, afonia e disartria flaccida
per diversi mesi. Successivamente, con il recupero progressivo della fonazione, si
evidenziava grave disartria mista, prevalentemente cerebellare, con parola abburattata e spesso esplosiva. Oltre all’intervento di tenotomia degli achillei, che verosimilmente andrà ripetuto, per l’avvenuta crescita staturale della paziente rispetto ai
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tempi del primo intervento, è stato eseguito, a circa 3 anni dal trauma cranico, un
intervento chirurgico di correzione dello strabismo in occhio destro, a scopo soltanto estetico, vista la risoluzione spontanea della diplopia post-traumatica.
Attualmente, a 10 anni di distanza dal trauma cranico, esiste una sindrome cerebellare di discreta entità, con disartria, atassia statica e dinamica, marcia lievemente a base allargata ma senza sostegno ed emiparesi spastica sinistra.
Il programma fisiochinesiterapico continua ambulatoriamente, con una frequenza
di 3 volte la settimana, soprattutto per migliorare le potenzialità motorie dell’arto
superiore sinistro (attività occupazionale), per i disturbi dell’equilibrio (esercizi per
l’atassia su tavola di Freeman) e di rilassamento e di equilibrio in acqua (idrochinesiterapia).
Un approccio neuropsicologico più recente (da un anno circa) si è proposto come
obiettivo il conseguimento di un miglioramento dell’orientamento spazio-temporale e l’apprendimento della scansione quotidiana di eventi ricorrenti.
Nonostante infatti che un tentativo di reintegrazione scolastica sia in corso da circa
4 anni, la paziente presenta tuttora gravi deficit cognitivi, con un’età mentale di
circa 3 anni inferiore all’età cronologica, con considerevole ritardo nello sviluppo
cognitivo delle capacità di ragionamento logico-deduttivo, ridotte capacità di mantenimento dell’attenzione (attenzione sostenuta) e deficit della memoria a breve termine verbale di parole e numeri, di quella uditiva e della memoria visiva.
Dal punto di vista comportamentale è evidente una importante impulsività, espressa dalla tendenza a fornire una qualsiasi risposta senza un’adeguata elaborazione
della stessa. Il programma riabilitativo neuropsicologico si è proposto di contenere
tale impulsività attribuendo un rinforzo positivo ogni qualvolta fosse evidente il tentativo di ricorrere alle proprie conoscenze personali per elaborare la risposta.
Ugualmente si è lavorato sulla discussione e critica di quei comportamenti evidenziati come inadeguati, tesi a “giustificare” le proprie disabilità in termini di rassegnata accettazione “sono un po’ scordarella”, “la mia testa non funziona tanto”,
“non mi chiedo mai che giorno sia”, o utilizzando atteggiamenti infantili, come sorrisi accattivanti o “voce blesa” (volutamente ancora più infantile), per corrompere
il terapista o l’esaminatore a maggiore clemenza sui suoi deficit cognitivi.
La scansione degli eventi della vita quotidiana (orario di colazione, orari scolastici,
durata delle terapie, ecc.) è stata evidenziata introducendo il sistema di misurazione oraria e il concetto di durata. Le principali attività (sonno-veglia, alimentazione)
sono state riportate in una tabella in cui era rappresentata graficamente la suddivisione della giornata in rapporto alle ore solari. La temporalizzazione degli eventi,
anche in visione prospettica. è risultata faticosa per le difficoltà della paziente nel
far riferimento ad un sistema di misurazione simbolico, come la suddivisione della
giornata in ore o dell’ora in minuti e per evidenti disturbi del calcolo.
Solo in una seconda fase sono quindi state introdotte categorie più ampie, come i
mesi dell’anno (buona la conoscenza automatica della serie), le stagioni, le festività
ricorrenti, ecc. La valutazione quotidiana dell’orientamento temporale è stata effettuata attraverso l’uso di un questionario a scelta multipla nel tentativo di incentivare una maggiore elaborazione della risposta. La scansione settimanale è stata sotto44
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lineata, sfruttando la ripetitività degli interventi terapeutici e delle attività extrascolastiche.
Attraverso l’uso di un diario personale, la cui compilazione veniva effettuata durante la seduta, si è inteso corredare di eventi della vita quotidiana la suddivisione della
settimana operata in base ad impegni da rispettare.
Contemporaneamente è stata incentivata l’analisi autobiografica nel tentativo di
sottolineare il correlato emotivo degli eventi e delle azioni. Significativamente la
paziente inizia, dopo un anno di tale approccio neuropsicologico, ad avere una produzione grafica sinora del tutto assente, prendendo spesso l’iniziativa di disegnare
anche al di fuori della seduta. Per il periodo estivo i familiari sono stati sollecitati ad
incentivare le abilità della paziente nei compiti della vita quotidiana (lavarsi, vestirsi, ecc.), adeguando le condizioni ambientali e strumentali alle difficoltà motorie
(es.: scegliere indumenti adatti, rendere raggiungibili alla portata della bambina
oggetti di uso quotidiano, ecc). Recentemente è stata effettuata una valutazione
delle ADL (attività della vita quotidiana), in base alle informazioni fornite sia dalla
bambina sia dalla mamma. La paziente ha mostrato un’ottima consapevolezza non
solo delle proprie disabilità, ma anche della scarsa motivazione ed iniziativa, che la
portano ad affidarsi costantemente al supporto materno. La strutturazione di un
progetto di intervento neuropsicologico ha visto la paziente partecipe e disposta ad
accettare eventuali accomodamenti per il conseguimento di nuove abilità (ad esempio ha accettato di tagliare i capelli per poterseli lavare e pettinare da sola).
Dal punto di vista neuropsicologico, una rivalutazione ad un anno di distanza dall’inizio di tale approccio di terapia cognitiva, ha mostrato, nonostante la distanza di
10 anni dall’evento traumatico, un miglioramento globale delle prestazioni cognitive, con sostanziale miglioramento soprattutto della memoria a breve termine verbale di parole, numeri, oltreché della memoria uditiva e della memoria visiva.
Il miglioramento più evidente si è comunque ottenuto negli atteggiamenti comportamentali di infantilismo e di passività della paziente. La migliore motivazione e
consapevolezza della paziente rispetto alle sue disabilità neuromotorie e neuropsicologiche ha portato ad un significativo incremento della sua autonomia e ad una
organizzazione e programmazione della giornata in prima persona, non più subita
cioè dalla gestione sostitutiva della madre.
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Ricerche e studi
La Tinnitus Retraining Therapy
nel trattamento degli acufeni
Stefania Passi, *Marina Pace
Logopedista – Coordinatore Centro Acufeni A.I.R.S.
*Otorinolaringoiatra - Consulente A.I.R.S.
L’esperienza effettuata dal centro acufeni afferente all’A.I.R.S. è matura per poter
tracciare con certezza delle linee guida essenziali per il trattamento degli acufeni e
delle varie tipologie di distorsione della funzione uditiva. Il centro opera attivamente nel settore da 6 anni, su un numero significativo di pazienti provenienti da
tutto il territorio nazionale.
La crescita professionale degli operatori attivamente coinvolti nelle attività del centro si deve alla passione per la ricerca, ad una forte carica umana che li ha spinti a
continui aggiornamenti nelle discipline implicate in questo poliedrico disturbo, a
revisioni periodiche sia delle metodologie di indagine che di trattamento, ma
soprattutto alla grande capacità di ascolto del paziente.
Questo ultimo punto è risultato essere di estrema importanza per l’esito del trattamento e il programma terapeutico ha la peculiarità di costituire per tutti i pazienti
in primo luogo un momento di ascolto prima ancora di fornire un professionale e
attento momento diagnostico e terapeutico riabilitativo.
Dal 1999 a tutt’oggi il programma dedicato al trattamento degli acufeni ha come
struttura centrale la TRT (Tinnitus Retraining Therapy) secondo il modello neurofisiologico di Pawel Jastreboff.
Il modello fu elaborato dal noto neurofisiologo di Atlanta e supera l’idea del modello cocleare come punto di innesco dell’acufene soffermandosi con attenzione sui
meccanismi di persistenza del sintomo acufene. Infatti analizza la funzione uditiva
puntando sui meccanismi di filtraggio del segnale sonoro in entrata da parte dei
meccanismi sottocorticali come luogo di persistenza del segnale captato a questo
livello come segnale di allarme che coinvolge quindi il sistema limbico e nervoso
autonomo, rinforzandone la percezione e la capacità di ascolto automatico da parte
del paziente. L’attenzione verso i meccanismi di persistenza sottocorticali e corticali dell’acufene hanno portato all’elaborazione del trattamento riabilitativo che vede
coinvolto il paziente in un programma di ampio successo, che parte da una fase diagnostica accurata per escludere e/o poter curare eventuali patologie associate seguita da una fase informativa sulla reale natura del sintomo e dei meccanismi che ne
determinano la persistenza, per poi passare ad una fase operativa in cui l’imperati49
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vo è evitare il silenzio, con l’uso eventuale di dispositivi dedicati (generatori di
suono o miscelatori indossabili o ambientali) per interferire con i filtri sottocorticali che captano l’acufene. Ormai la TRT è ampiamente impiegata in numerosi centri
in varie parti del mondo con risultati sovrapponibili (dal 70% all’80% dei casi risolti con successo) che si basano soprattutto sul ripristino della qualità della vita
(annullamento della reazione all’acufene) per poi passare alla riduzione del segnale
nella sua loudness (diminuzione della percezione). Vari Centri seguono con attenzione le linee guida principali descritte da Pawel Jastreboff e così anche l’A.I.R.S.
Associazione Italiana per la Ricerca sulla Sordità ha recepito i contenuti del modello elaborando e implementando nella realtà italiana un programma che fino ad oggi
ha confermato i risultati internazionali.
Vorremmo quindi relazionare e descrivere i punti cardine del programma A.I.R.S.
che comprende alcuni momenti fondamentali e ben distinti in cui sono coinvolte
professionalità diverse. Inizialmente si procede con un primo contatto attraverso il
quale l’A.I.R.S. fornisce un servizio di consulenza telefonica, postale e telematica
grazie ai quali l’utente può avere già una prima informazione sulle modalità di
accesso al trattamento e sulla problematica acufeni. Il personale addetto a questo
servizio è adeguatamente preparato per poter dare chiare informazioni, tratto
distintivo della filosofia dell’associazione. Già da questo primo contatto il personale addetto è in grado di capire quale tipologia di paziente ha bisogno di un colloquio più approfondito con uno degli operatori specializzati e lo organizza in tempi
brevissimi, a volte nell’immediato.
Dopo questo primo contatto i pazienti vengono invitati ad un primo incontro collettivo (max 15-20 persone) informativo presso la sede del centro. È un momento
“didattico” e nella nostra esperienza irrinunciabile. Si articola in due fasi fondamentali: dopo una breve presentazione delle figure professionali presenti, le stesse
che il paziente ha già conosciuto nel primo contatto e che ritroverà durante le varie
fasi del trattamento, si procede ad una spiegazione accuratamente studiata nel suo
taglio conoscitivo ma non troppo “aulico” delle basi della funzione uditiva, delle
patologie più comuni di innesco e dei reali meccanismi di persistenza dell’acufene
sottolineando già in questo primo momento la necessità di trattare l’acufene o l’iperacusia in maniera multimodale.
Secondo la nostra esperienza la riunione informativa è diventata un momento irrinunciabile per i seguenti motivi:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Conoscenza personale delle professionalità contattate indirettamente
Vincere la diffidenza
Scambio di esperienze tra pazienti
Momento di ascolto
Momento conoscitivo
Sfida delle convinzioni sbagliate sulla problematica
Ridimensionamento del problema
Sensazione di “non sentirsi soli”
Sapere che “c’è qualcuno che si interessa”
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Successivamente alla fase informativa collettiva si procede con la fase di diagnosi e
trattamento vera e propria che consiste in uno stage di 3 giorni consecutivi durante i quale iniziando dalla fase diagnostica (visita orl, esami audiometrico, impedenzometrico, Emissioni Otoacustiche, prove audiometriche sovraliminari, ev. ABR) si
passa subito alla raccolta della storia dettagliata dell’evolversi dell’acufene e/o dell’iperacusia dal momento dell’innesco. Dopo l’ascolto della storia la fase successiva
prevede la seduta di counselling TRT in cui i terapista in modo chiaro spiega al
paziente le basi del modello neurofisiologico e le possibilità di riabilitazione, inserendosi con capacità nella storia del paziente ed arrivando insieme a lui all’elaborazione di strategie efficaci per l’eliminazione del disturbo. Al paziente viene dato un
adeguato tempo per raccontare dettagliatamente l’insorgenza del disturbo, i pensieri che l’hanno accompagnato nell’immediato e nei giorni successivi, pensieri
determinanti all’instaurarsi del meccanismo di risposta condizionata e viene pian
piano accompagnato verso la comprensione del modello di Jastreboff. Tutto il colloquio viene registrato su nastro magnetico e consegnato al paziente come supporto fondamentale al rinforzo delle convinzioni e alla migliore comprensione dei meccanismi riabilitativi. L’esperienza del paziente viene dal terapista sapientemente
inserita nel modello e grazie a esempi, piccole storie avviene un convincente dialogo di confronto tra il modello esposto dal terapista e l’esperienza vissuta in prima
persona dal paziente. Il paziente si sente compreso ed instaura un fiducioso rapporto con il terapista, rapporto che sarà rinforzato nei giorni successivi. Nel caso in
cui sia necessario l’utilizzo di dispositivi personalizzati interviene l’audioprotesista.
A supporto della TRT vengono proposte sedute di Biofeedback e di decontrazione
muscolare progressiva secondo Jacobson, sedute registrate su nastro magnetico e
consegnate al paziente affinché possa a casa procedere all’autosomministrazione
quotidiana.
Alla fine dello stage il terapista elabora la programmazione fino al prossimo incontro che viene concordato in base alle necessità terapeutiche organizzative.
Tra un incontro personale e l’altro i contatti tra il terapista e il paziente avvengono
con cadenza settimanale.
Le figure coinvolte nel trattamento A.I.R.S. per gli acufeni sono:
• medico audiologo
• counselor psicologico cognitivocomportamentale
• terapista TRT
• specialista BFB e tecniche di rilassamento
• audiometrista
• audioprotesista
• personale di segreteria
}
Preferibilmente unica figura
che riassuma le tre specialità
Ogni componente del team deve coniugare alta professionalità a capacità di ascolto e carica umana, disponibilità.
Una delle figure più importanti e ampiamente coinvolte nel programma di tratta51
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mento è quella del terapista che deve riassumere nella sua persona due categorie di
qualità:
• professionali
• umane
Le caratteristiche professionali devono comprendere una buona conoscenza dei
sistemi di valutazione audiologica strumentale, una profonda conoscenza della problematica acufeni e della letteratura relativa al suo trattamento, ma soprattutto
avere una buona conoscenza della Tinnitus Retraining Therapy secondo il modello
neurofisiologico del Prof. P. Jastreboff in quanto tale trattamento costituisce una
delle colonne portanti del programma A.I.R.S.
Le caratteristiche umane si possono riassumere nelle quattro qualità del terapista
delineate dal Prof. O. Schindler, caratteristiche perfezionate dai terapisti A.I.R.S.
mediante corsi di perfezionamento in counselling di stampo cognitivo-comportamentale:
– capacità di instaurare una rapporto autentico con il paziente; il terapista deve
vivere in prima persona e non come tecnico questo rapporto rendendosi conto
dei sentimenti che prova di fronte alla persona che ha di fronte e comunicandoglieli, anche se fossero negativi;
– empatia: è la capacità di sentire sulla propria pelle ciò che prova l’individuo che
si ha di fronte;
– considerazione positiva: il terapista deve accettare il paziente nella sua globalità, ascoltando con interesse i suoi racconti le sue lamentele sulla propria vita ecc.
senza interromperlo si potrà se necessario, in seguito, suggerire al paziente un
supporto più prettamente psicologico;
– accettazione incondizionata: le resistenze opposte dal paziente riguardanti la
difficoltà della terapia, l’impegno richiestogli, il naturale scetticismo, non
dovranno essere motivi di esclusione dalla terapia, ma andranno risolte con
l’impegno del terapista.
Il terapista deve essere necessariamente affiancato dal personale di segreteria che
costituisce un supporto e filtro determinante per il buon andamento del centro e
soprattutto deve essere anche per i pazienti un affidabile punto di riferimento.
I momenti di confronto tra le varie figure professionali devono essere continui e
soprattutto ognuno deve essere al corrente di ciò che le altre professionalità riferiscono al paziente. Tutti devono seguire una linea direttiva comune che deve al
paziente risultare una valida base cui affidarsi. Ancora una volta competenza professionale continuamente aggiornata, lavoro e collaborazione interdisciplinare e
abilità comunicative interpersonali risultano essere il fulcro per un approccio terapeutico efficace.
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Ricerche e studi
La sicurezza del logopedista
Patrizia Consolmagno
Ospedale Privato Accreditato “SOL ET SALUS”
Torre Pedrera di Rimini (RN)
Tutti noi logopedisti abbiamo sentito parlare delle norme di sicurezza sul lavoro.
Ma cosa prevede la legge a nostra tutela? Esiste un protocollo di valutazione dei
rischi previsto per la nostra categoria professionale? Quali sono i nostri diritti e
doveri? A questi interrogativi e a tanti altri si può cercare di rispondere approfondendo la conoscenza della legislazione in merito. Cosa non facile da fare in
poche parole, vista, del resto, la complessità della normativa e, soprattutto, dovendo tenere conto, che la nostra “categoria”, in merito a mansioni e rischi a cui può
essere soggetta, è scarsamente conosciuta dai legislatori.
Il Decreto Legislativo 626/94, integrato e modificato dal D. L. 242/96, ha ampiamente modificato il regime normativo per la sicurezza dei posti di lavoro e distingue chiaramente gli obblighi di informazione da quelli di formazione.
Il datore di lavoro (Ddl) è responsabile della salute e della sicurezza dei lavoratori
nella sua impresa. Nella pubblica amministrazione per datore di lavoro pubblico si
intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non
avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto a ufficio
avente autonomia gestionale. Per datore di lavoro privato si intende colui che abbia
responsabilità dell’impresa o dell’unità produttiva, in quanto titolare dei poteri
decisionali e di spesa. Ai fini penali è sempre una persona fisica.
Il Ddl deve prendere le misure necessarie per la protezione della sicurezza e della
salute dei lavoratori, basandosi sui seguenti principi generali della direttiva quadro:
• evitare i rischi;
• valutare se i rischi possono essere evitati;
• combattere i rischi alla fonte tenendo conto dell’evoluzione della tecnica;
• inserire la prevenzione dei rischi nell’organizzazione del lavoro e nelle
condizioni del lavoro;
• adeguare il lavoro all’uomo;
• adottare misure di protezione collettiva prioritariamente a misure di
protezione individuale.
Deve, inoltre:
• consultare i rappresentanti dei lavoratori per ottenere la loro partecipazione;
• formare i lavoratori alla sicurezza ed alla salute. La formazione alla
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sicurezza che ciascun lavoratore deve ricevere avrà luogo all’atto dell’assunzione, o di trasferimento o cambio di funzione, oppure di cambiamento di un’attrezzatura di lavoro o di introduzione di una nuova
tecnologia. Tale formazione deve essere gratuita per il lavoratore e
deve avere luogo durante l’orario di lavoro (sia all’interno che all’esterno dell’impresa);
• informare sulle misure adottate e le persone designate (es. per gli
interventi di pronto soccorso, per la lotta antincendi e l’evacuazione
dei lavoratori);
• fornire adeguate istruzioni per la sicurezza e la salute dei lavoratori ed,
infine, controllare o far controllare il rispetto di tali provvedimenti;
• elaborare un documento contenente una relazione sulla valutazione
dei rischi – specificando i criteri – e l’individuazione delle misure di
prevenzione e di protezione ritenute opportune. Tale documento è
custodito presso l’azienda.
I lavoratori devono:
• utilizzare correttamente le macchine, gli utensili, etc. messi a loro disposizione;
• servirsi correttamente dei dispositivi di protezione individuale
(D.P.I.), ovvero qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio
destinato a proteggerlo contro uno o più rischi durante il lavoro;
• segnalare immediatamente al datore di lavoro o ai responsabili qualsiasi situazione di lavoro che presenti un pericolo grave o immediato
per la sicurezza e la salute, nonché qualsiasi anomalia dei sistemi di
protezione;
• collaborare con il datore di lavoro per garantire un ambiente e condizioni di lavoro senza rischi;
• eleggere o designare il/i Rappresentante/i del lavoratori alla sicurezza (RLS), il cui numero minimo è di 1 nelle aziende fino a 200 dipendenti, 3 da 201 a 1000, 6 negli altri casi.
Il RLS deve verificare l’attuazione del piano di risanamento, essere consultato dal
datore di lavoro nella stesura del documento, può ricevere informazioni dagli
Organi di vigilanza e formulare proposte.
Il Ddl designa il Servizio di prevenzione e protezione dei rischi (S.P.P.), - costituito da un insieme di persone, mezzi e sistemi esterni o interni all’azienda finalizzati
alla prevenzione e protezione dei rischi professionali – ed il responsabile del S.P.P.,
il cui nominativo dovrà essere comunicato dal datore di lavoro all’Ispettorato del
lavoro ed all’Ausl competente. Il Ddl designa, inoltre, il Medico competente (in
genere, un medico del lavoro), il quale, tra l’altro:
• collabora con il Ddl ed il S.P.P.;
• effettua gli accertamenti sanitari;
• esprime giudizi di idoneità alla mansione specifica;
• istituisce ed aggiorna, sotto la propria responsabilità, per ogni lavoratore se sottoposto a sorveglianza sanitaria, una cartella sanitaria da
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custodire presso il datore di lavoro con salvaguardia del segreto professionale;
• fornisce informazioni ai lavoratori sul significato e sui risultati degli
accertamenti sanitari cui sono stati sottoposti;
• visita con il responsabile del S.P.P. gli ambienti di lavoro almeno due
volte all’anno;
• può avvalersi, per motivate ragioni, della collaborazione di medici
specialisti scelti dal datore di lavoro che ne sopporta gli oneri;
• può esprimere giudizio sulla inidoneità parziale o temporanea o totale del lavoratore e ne informa per iscritto il Ddl ed il lavoratore.
Il Ddl indice almeno una volta all’anno una riunione in cui partecipano il Ddl, il
responsabile S.P.P., il RLS ed il medico competente.
I rischi per il logopedista nell’esercizio della sua professione sono, prevalentemente, quelli biologici, infettivologici, da uso di videoterminali (Vdt), da alterazioni
muscolo-scheletriche per errate posture e da stress psicofisico (turni di lavoro).
Premesso che per tali rischi sono previsti dei valori limite per esposizione ed entità
– e spesso i nostri tempi di esposizione e le modalità sono diversi da quelli stabiliti
dalla normativa – vi consigliamo vivamente (in base alla organizzazione del vostro
lavoro ed alla tipologia delle patologie trattate) di segnalarli al Ddl per la stesura del
documento di valutazione o al medico competente al momento dell’accertamento
sanitario periodico.
La nuova disciplina sui rischi biologici prevede l’obbligo di classificazione in gruppi degli agenti biologici a seconda della gravità del rischio di infezione. Per malattia infettiva si intende qualunque stato morboso provocato dall’azione patogena di
un microorganismo che può appartenere a diverse specie biologiche: batteri, virus,
protozoi. Non tutte le malattie possono essere considerate diffusive. Nell’ambiente
ospedaliero non possono essere infatti essere considerate “a rischio” di trasmissione verso gli operatori tipiche malattie infettive come la broncopolmonite di un
paziente anziano allettato o, addirittura la meningite di un paziente traumatizzato
cranico, che soffre di tale condizione a causa dell’interruzione delle naturali barriere che difendono il SNC dai microorganismi, che naturalmente popolano le cavità
nasali di ogni persona. In questi casi non è tanto il germe a condizionare l’insorgenza della malattia, quanto le condizioni ambientali, legate al soggetto, che rappresentano la vera condizione di rischio. È pertanto fondamentale ricordare le principali modalità di trasmissione:
1) la forma diretta attraverso contatto diretto su cute e mucosa o inoculazione tramite puntura (es. ago o oggetto infetto)
2) la forma indiretta, cioè con l’intervento di veicoli (acqua o cibi inquinati).
Va precisato che ogni singola malattia infettiva è caratterizzata da una modalità propria di trasmissione. Gli interventi preventivi devono pertanto essere mirati. Minimi
D.P.I da utilizzare sono: maschera orofacciale per proteggere le vie aeree, occhiali
antischizzo o visiera per proteggere le mucose come le congiuntive, guanti per tutelare l’apparato tegumentario. Occorre disporre di servizi sanitari adeguati provvisti
di lavaggi oculari e antisettici per la pelle.
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La vaccinazione contro l’epatite B, che è obbligatoria per i nuovi nati, viene offerta
gratuitamente per effetto di un decreto ministeriale dell’aprile 1990 a tutti gli operatori sanitari. Per tali operatori, inoltre, sussiste l’obbligo di procedere alla vaccinazione contro la tubercolosi, all’atto dell’assunzione, qualora si accerti uno stato di
cutinegatività alla prova della tubercolina.
Per videoterminale (Vdt) si intende uno schermo alfanumerico o grafico a prescindere dal tipo di procedimento di visualizzatore utilizzato. Attualmente , molti logopedisti utilizzano il PC anche a scopo riabilitativo. La normativa, tuttavia, tutela il
lavoratore che utilizza il Vdt per venti ore settimanali, dedotte le interruzioni (le
modalità delle interruzioni sono stabilite dalla contrattazione collettiva ed aziendale, in genere, una pausa di quindici minuti ogni centoventi di applicazione continuativa al Vdt), anche se una direttiva prevede il rischio da attività su Vdt quando
il lavoratore vi sia addetto “regolarmente durante un periodo significativo del suo
lavoro normale”. Il Ddl deve adottare le misure appropriate per ovviare i rischi per
la vista e gli occhi, i problemi legati alla postura e all’affaticamento fisico o mentale, le condizioni ergonomiche e di igiene ambientale. Criteri precisi vengono definiti come prescrizioni, tra i quali, ne citiamo solo alcuni:
• lo schermo deve avere immagine stabile, brillanza e contrasto regolabili, assenza di riverberi e riflessi;
• la tastiera inclinabile, di colore opaco, lo spazio davanti alla tastiera
deve essere sufficiente onde consentire una appoggio per le mani e le
braccia per non provocare l’affaticamento dell’operatore, ad adeguata distanza rispetto al sedile;
• i sedili e gli schienali devono avere altezza ed inclinazione regolabili;
un poggiapiedi sarà messo a disposizione di coloro che lo desiderino;
• illuminazione e tinteggiatura del locale, posizione dello schermo
rispetto alle finestre;
• considerazione della fatica intellettuale del lavoro da realizzare;
• nelle gestanti sono presenti delle variazioni posturali che potrebbero
favorire l’insorgenza di disturbi dorso-lombari atti a giustificare la
modifica temporanea delle condizioni e dell’orario di lavoro.
In conclusione l’argomento affrontato è ben più complesso e dettagliato ma è stato
proposto nella piena convinzione che anche la conoscenza di taluni aspetti come
quello della sicurezza del logopedista, forse non prioritari nella nostra quotidianità,
possa essere di grande utilità, in primis per se stessi e, last but not least, per una sana
professionalità.
BIBLIOGRAFIA
1) RACCOLTA COMMENTATA – 626 – Sicurezza nel luogo di lavoro. BE-MA Editrice
2) LINEE GUIDA PER L’APPLICAZIONE DEL D. LGS. 626/94
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COMUNICAZIONI
COMUNICAZIONE ALL
Convenzione Assicurativa Associazione
Logopedisti Lombardi
L’Associazione conscia delle difficoltà e dei rischi
che i nostri associati incontrano e probabilmente
sempre più incontreranno nell’esercizio della loro
professione, ha stipulato una Convenzione con la
RAS Agenzia 07 di Milano per la copertura dei
rischi professionali.
È noto a tutti, infatti, che nella nostra Società la litigiosità causata dai fatti di tutti i
giorni aumenta sempre di più.
Sempre più spesso sentiamo infatti di pretese di risarcimento che, anche se il più
delle volte infondate, tolgono serenità a tutte quelle professioni che, come la nostra,
hanno come componente preponderante il contatto umano, e quindi tutte le aspettative che ne derivano.
A titolo di esempio vi sottoponiamo la seguente soluzione:
RISCHIO ASSICURATO:
Quanto l’assicurato sia tenuto a pagare
quale civilmente responsabile ai sensi di
legge a titolo di risarcimento per danni
involontariamente cagionati a terzi nell’esercizio della professione di Logopedista.
L’Assicurazione vale anche per la Responsabilità Civile che dovesse derivare all’assicurato per fatto di eventuali dipendenti.
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MASSIMALE
Euro 516.000,00 per sinistro e per anno
assicurativo.
PREMIO ANNUO
Euro 165,00=
È allo studio anche una polizza Infortuni riservata agli associati che sarà disponibile
al più presto.
Per qualsiasi delucidazione o chiarimento, prendere contatto con:
RAS Agenzia 7 di Mezzottoni
Viale Vittorio Veneto, 28 Milano
Tel.026595728 Fax 026554422
E-mail [email protected]
Si sta inoltre valutando l’ipotesi di una convenzione con uno studio legale ai fini di
una maggiore sicurezza professionale.
La copertura legale (dalla semplice consulenza alla tutela giudiziale) sarà valida su
tutto il Territorio Nazionale.
Ulteriori informazioni verranno date dopo che saranno più chiari i termini dell’accordo.
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EVENTI SCIENTIFICI
• VII CONVEGNO NAZIONALE
FEDERAZIONE LOGOPEDISTI ITALIANI
“L’apprendimento in condizioni patologiche o devianti”
Firenze 20 – 22 Novembre 2003
• Corso CRS Amplifon
AUDIOLOGIA INFANTILE
Milano 26 – 28 Novembre 2003
• IMPIANTO COCLEARE
NEL BAMBINO E NELL’ADULTO
Parma 29 Novembre 2003
Segr. Org. 0521-703297-290447
• Gruppo di Studio e Ricerca Medico Pedagogica
DISTURBI DI COMPORTAMENTO DI
ORIGINE FISIOLOGICA ORGANICA;
ELEMENTI DI PSICHIATRIA
IN PEDAGOGIA COGNITIVA
Mirano (VE) 8 – 13 Dicembre 2003
• CONVEGNO DI AGGIORNAMENTO AIAC
“Qualità della vita dell’audioleso”
Roma 12 – 13 Dicembre 2003
• CONCETTI CHE ANIMANO
LE TERAPIE PSICOSOMATICHE
“Pensieri sul Corpo”
Ciclo di incontri monotematici
13 e 27 Novembre; 4 e 18 Dicembre 2003
via Foppa 30, Milano
per informazioni e iscrizioni: tel. 347 2727 123
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