macchina passa questa casa

Transcript

macchina passa questa casa
Aurelio Caliri, musicista disegnatore scrittore Bruno Canino, il più grande pianista italiano di musica contemporanea, che ritiene Caliri uno tra i compositori più validi nel panorama nazionale, scrive: ” Mentre non mi sembra poi così importante stabilire la collocazione della musica di Aurelio Caliri ( classica o popolare; pesante o leggera; antica o moderna; siciliana o nazionale; io direi: semplicemente musica), mi preme invece testimoniare la freschezza e l’assoluta originalità della sua espressione. Una frase, un giro armonico, una cantilena, un accordo (gli accordi e le tonalità minori, che sono in nettissima prevalenza: segno di dolore, o nostalgia, o di passione): e questa musica la si riconosce immediatamente, senza ombra di dubbio: una qualità che non hanno poi tanti compositori illustri e patentati. Per questo ho suonato i bei pezzi di Caliri, con grande piacere, sperando di non averne tradito lo spirito, con troppa saccenteria professionistica”. Il regista Aurelio Grimaldi, dopo aver incontrato Caliri sul set del film “Nerolio”, dice: “…Dentro il cortile di questa casa di campagna, mentre la troupe consuma fiaccamente il suo cestino, Aurelio Caliri predispone la sua fisarmonica da dove improvvisamente escono, in rigorosa tonalità minore (avevo avuto il tempo di spiegargli questa mia fissazione estetica; e lui mi aveva risposto: “Quasi tutte le mie composizioni sono in minore”), suoni magnifici. Fu quello che si dice un clamoroso, inaspettato, indimenticabile, amore a prima vista. L’Aurelio regista che boccia solennemente il 99% delle musiche che gli vengono proposte o prospettate, cade in deliquio davanti a quei suoni stupendi. L’Aurelio regista è assai decisionista. Chiama il suo direttore della fotografia Maurizio Calvesi e gli dice: “Maurizio, questa musica è straordinaria! Prepariamo la macchina da presa e riprendiamola!”. Detto fatto. Prendiamo la macchina e giriamo due ciak di Aurelio che suona, in mezzo all’aia, la sua fascinosissima fisarmonica. Per motivi di denaro, ma non solo di quello, tutti sanno che non spreco un solo centimetro di (costosissima, ahimè!) pellicola. Ero certo che quelle immagini sarebbero state montate nel film. Come puntualmente accadde. Aurelio e la sua fisarmonica compaiono in Nerolio come sipario tra i tre episodi. E le sue musiche, non solo in quella ripresa, ma anche, appunto, come solo suoni, sono entrate in molti altri miei film. Sono molto grato ad Aurelio per avermi permesso di usare le sue magnifiche composizioni, per avermi a tal punto emozionato quel giorno e tanti altri a venire”. Il tenore Giuseppe Di Stefano, ritenuto da grandi esperti internazionali e direttori d’orchestra “ la voce del secolo” e col quale Caliri agli inizi degli anni ’90 tenne alcuni concerti, ebbe a dire: “Mi sono sempre rifiutato di cantare una canzone molto nota,“E vui durmiti ancora”, nonostante negli anni sia stato spesso sollecitato, e ciò perché mi è sembrata folkloristica. Invece, il brano di Caliri “A vita passa e va” l’ho cantato, sia a Milano sia a Siracusa, con grande entusiasmo perché, nella sua bellezza, è un classico che non tramonterà mai. Se sarà eseguito da una voce in carriera può diventare un successo mondiale”. A proposito dell’attività di disegnatore di Caliri, il pittore Salvatore Fiume, nel catalogo che ha illustrato la mostra presso il “Museo di Milano” nel 1993, scriveva: “… Come potrebbe, uno che non sapeva di poter disegnare, rappresentare in modo così straordinario la verità e la luce della Sicilia se non fosse, la sua mano, mossa da un impeto incontenibile? Cosa ne sa, Caliri, di luce fra i segni, di vibrazioni e di vitalità dell’immagine prodotte dai segni di una penna? Niente. Ve lo posso assicurare io che ho convinto un musicista di successo con quotidiani impegni di lavoro, ad occuparsi di un’arte che gli era completamente estranea. Il risultato è però quello di un disegno carico di verità, di poesia e di amore espressi con una semplicità così intensa da farmi ritenere che egli sia dei pochissimi, se non l’unico, che col disegno abbia raccontato i silenzi più antichi della Sicilia. Forse lo stesso Caliri non immaginava di approdare ai risultati che ho qui indicato, e probabilmente non è molto soddisfatto che sia io a capirlo meglio di lui. La cosa più importante, a mio avviso, per lui e per noi, è che egli abbia generato questi piccoli capolavori ai quali si è dedicato con la cocciutaggine di un innamorato”. In questi termini si esprime il pittore Piero Guccione in occasione dell’esposizione di Caliri a Palazzolo Acreide nel 1989: “… Nella complessità della Storia dell’Arte contemporanea, le opere di Aurelio Caliri hanno tutti i caratteri di una ricerca autentica, poetica, e in alcuni casi, direi, con dei risultati di grande qualità poetica. Io insisto su questo termine, di cui forse abuso, ma sono convinto che è sempre la cifra necessaria, essenziale, per definire l’arte nella sua prima, autentica e migliore estensione”. E così uno dei più delicati scrittori italiani, Fortunato Pasqualino, nel 1991, a Firenze presso la galleria “Mentana”: “… E’ prodigioso come nei quadri di Aurelio Caliri, dove non si vede mai al figura umana, la solitudine sembra animarsi di tanta umanità; ed ancora, come nell’asciuttezza estrema del disegno senza colore affiorino le tonalità di una superiore tavolozza con quelli che si direbbero i colori essenziali dell’anima”. Un altro stralcio della presentazione di Francesco Gallo, uno dei più apprezzati critici d’arte a livello internazionale, nel corso della mostra a Roma, presso la “Sala Borromini”, nel 1999: “…Caliri opera una sorta di purificazione dei luoghi visitati, eliminando ogni eccesso che turbi il senso di pace, con cui li vuole caratterizzare. La costruzione dell’immagine è molto semplice, registrando le strutture elementari degli ambienti, quasi contando le pietre con cui sono costruite. Pietra su pietra, viene costituendo ambienti alveolari, in cui s’avverte una purezza di messaggio, un essere al di là dei linguaggi convenzionali, per raccontare una propria Sicilia. Quella della propria infanzia, della propria invenzione, che Caliri fa rinascere in disegni asciutti, essenziali, come dimostrazione di un affetto profondo, capace di dilatare i particolari fino a fargli occupare tutta la scena del foglio, o sintetizzare le vedute generali fino a farle apparire prendibili nel palmo della mano. Nel guardare, uno accanto all’altro, questi disegni, vedo un fanciullo dai capelli biondi e ricci, con le scarpette bianche e gli occhi umidi di pianto. Sì, è proprio il mio ritratto nelle aspettative di dover volgere gli occhi in alto verso l’obiettivo fotografico. Proprio per questo non ho foto della mia infanzia. Grazie, Aurelio, per averli animati, involontariamente”. Caliri ha pubblicato, qualche anno addietro, due libri di racconti: “La voce del vento”, con allegato l’omonimo cd, e “Pablo – Storie di Sicilia”. Ecco che cosa scrive Antonio Di Grado, uno dei più illustri critici letterari italiani, nella prefazione della prima pubblicazione: “Un’autobiografia frammentaria e rapsodica, in forma di bozzetti, di fragili idilli, di teatrini della memoria animati in punta di matita… E perciò penso, leggendo Caliri, alla nobile testimonianza e più alla sobria, incantata scrittura di un “vicino di casa” d’eccezione come Antonino Uccello, alla sua Janiattini e alle sue prose raffinate. E penso a un museo etnografico tutto di carta e di parole, a un deposito di reperti della memoria, a un “genere” talmente transindividuale da sconfinare nella tradizione orale e, per l’appunto, nel mito collettivo. Per praticarlo, occorrono sì studi e sperimentazioni, ma occorre soprattutto una virtù di cui s’è perso il senso, e di cui si parlava ancora negli anni Venti: il “candore”. Di questo “candore” traboccano le prose di Caliri: un candore, s’intenda, da non confondere con ingenuità o naiveté, e che anzi si configura come un aspro e risentito pudore, come un grumo di memorie da preservare dal disincanto, come una lotta con l’Angelo che impegni tutta l’incontaminata purezza, e tutta la sgraziata energia, dell’adolescenza. Come le furibonde scazzottature dell’autobiografico protagonista; o come quella confusa ricerca d’amore che s’arena e si ritrae dinanzi alla reazione scomposta della cagnetta, o alla carità pelosa del parroco. Ma c’è, infine, un’ultima ragione per raccomandare queste “candide” prose, ed è la loro vocazione, e anzi natura, “multimediale”: ovvero la provvisorietà con cui si dispongono sulla pagina e già rimandano ad altro, si sciolgono nel canto e nel disegno, trasmutano nell’impalpabile sostanza d’un chiaroscuro e nella frase suadente d’una melodia. Un’incessante transizione, un work in progress che potrebbero attribuire, al Caliri collaboratore di Fiume, della Merini, di Grimaldi, il ruolo di callido e candido esploratore delle frontiere tra i codici e i linguaggi, e tra il suo favoloso “mondo di ieri” e il nostro presente oscuro e greve sì, ma ricco d’inedite sollecitazioni”. A proposito di “Pablo”, riportiamo uno stralcio della prefazione di Nicolò Mineo, preside della Facoltà di Lettere dell’Università di Catania e profondissimo studioso di Dante: “… Storie di Sicilia grottesche, delicate tragiche, comiche: uno scandagliare nel passato alla ricerca di situazioni, di ricordi sospesi nella memoria, per ritrovarli e fissarli, come se in essi consistesse il senso vero della vita. Il legame col passato ci appare sempre più come necessità vitale, come recupero che crea una durata e anticipa il futuro, per radicarlo in una realtà nota e programmabile. Questo il motivo conduttore di “Pablo”. …Una sicura novità è nella forma. Agile ed essenziale lo stile, rapida e decisa l’impostazione narrativa. Quasi per una ingenuità radicale, che scopra le cose del mondo, le più semplici e universali, con purezza di sguardo e meravigliata sorpresa. Destinatario è un lettore che dalla narrazione si attende sorpresa e ricorrenza, verosimiglianza e invenzione, chiarezza di rappresentazione e profondità di senso. Sia un adulto come un ragazzo. Un libro che può essere accolto anche nella scuola. Legittimato per questo dal contributo di Federico, figlio dell’autore. Una presenza esplicita in un certo ambito, come sto per dire, ma implicita in tutto il libro. Destinatario implicito dei racconti è proprio lui o anzitutto lui, e si sa come e quanto il destinatario possa influire sulla condotta narrativa e sulla strutturazione. Ma novità è anche l’impianto generale. Caliri sfrutta pure le sue capacità di disegnatore e di musicista. Ogni racconto è illustrato da un disegno a china che si ispira al luogo in cui è ambientata ogni vicenda ed è accompagnato dagli spartiti, scritti rigorosamente a mano, delle musiche che egli ha composto cercando di ricreare l’atmosfera del pianino con la manovella, strumento tradizionale siciliano a lui tanto caro. Anche per questa via si attua un recupero. Quello di un tempo della società e della propria infanzia. E qui è il collegamento con la scrittura, nella sinergia rievocativa, allusiva ed esplicita, possibile per l’unicità del motivo ispiratore. I motivi, molto freschi e brillanti, sono incisi a quattro mani insieme – come preannunciavo – al figlio Federico, che ha dieci anni. Sono offerti in cd. Va ricordato un particolare: uno dei brani, “La danza del tuono”, è stato registrato da Federico insieme al grande pianista Bruno Canino. Una costruzione perciò che, unendo scrittura, disegno, musica, totalmente integrati, rende l’opera unica nel suo genere”.