Dispensa storia dell`interpretazione File
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Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ Laurea triennale in Comunicazione interlinguistica applicata Corso di STORIA E TEORIA DELLA TRADUZIONE (cod. 064SL, 6 CFU) Prof.sse M. Raccanello/Prof.ssa Caterina Falbo Modulo di Caterina Falbo La storia dell’interpretazione Le métier d’interprète, tel que le conçoit notre société moderne, est de création relativement récente. Mais la fonction d’interprète a toujours existé, car la parole a de longtemps précédé l’écrit (van Hoof 1962: 9) INTRODUZIONE Per ‘interpretazione’ si intende la traduzione orale contrapposta alla traduzione scritta. L’interpretazione viene effettuata attraverso varie modalità: simultanea, consecutiva e dialogica (detta, impropriamente, interpretazione di trattativa) a cui si affiancano lo chuchotage (traduzione sussurrata all’orecchio dell’utente) e la traduzione a vista. Le modalità simultanea e consecutiva sono strettamente legate alla nascita della moderna interpretazione di conferenze. Essa nasce ufficialmente nel 1919 in occasione della Conferenza della pace di Parigi che seguì la I guerra mondiale e in cui si stabilirono nuovi equilibri tra paesi vincitori e sconfitti. Da essa nacquero diverse organizzazioni internazionali tra cui la Società delle Nazioni e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. In realtà, come è facile intuire, l’interpretazione intesa come passaggio traduttivo orale da una lingua all’altra in contesti di contatto/comunicazione tra persone/popoli di lingua diversa esiste fin dalla notte dei tempi. L’etimologia delle parole dragomanno e interprete ci conforta in questo assunto. Secondo Cary (1956: 144-145) la parola araba tarjumân deriva dall’assiro ragâmu che significa “parlare” e dall’armeno targum, riferito alla traduzione dei testi sacri in lingua caldea. Le parole che indicano l’interprete in altre lingue deriverebbero invece dal turco tilmaç, come per esempio il russo tolmatch1 e il tedesco Dolmetscher. Secondo Manzelli (1986: 221-228) invece le cose sarebbero andate diversamente (cf. powerpoint). Se è evidente pertanto che l’esistenza dell’interpretazione legata ai primissimi bisogni comunicativi dell’umanità rappresenta una certezza intuitivamente incontrovertibile, è altrettanto vero che essa costituisce una verità difficilmente dimostrabile. Tale difficoltà deriva dall’esiguità delle fonti. In verità, per quanto attiene a tempi più recenti (dal 1919 in poi) ci si può avvalere di ricerche 1 Nel russo contemporaneo, l’interprete viene designato come “traduttore orale”. La parola “tolmac” esiste invece ancora in sloveno. 1 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ effettuate sugli archivi della Società delle Nazioni (cfr. Baigorri Jalón 2004) o delle testimonianze rese da interpreti attraverso interviste, memorie, conferenze. Le cose si complicano se si tenta di recuperare le condizioni di lavoro, lo status degli interpreti e le strategie traduttive impiegate nell’antichità. Alcuni interpreti ricercatori si sono avvalsi di studi condotti da archeologi, storici, antropologi per disegnare l’evoluzione del mestiere di interprete nei secoli (cfr. Thieme et al. 1956, Kurz 1985, 1986a, 1986b). 1. L’INTERPRETAZIONE NEL MONDO ANTICO 1.1 Egitto “Haremhab, che prima di salire al trono lui stesso (attorno al 1341 a. C.) fu reggente del faraone bambino Tutankhamon, introduce all’udienza di corte principi vassalli stranieri (oltre a Siriani, Ittiti e Libici) che chiedono protezione da un’invasione di popoli delle montagne e dei deserti. In tal modo si poneva fine alla letargia in politica estera che aveva caratterizzato l’epoca amarniana. Haremhab ha ottenuto l’assenso dal faraone (situato a sinistra, esternamente all’immagine) e attraverso un interprete comunica la notizia agli stranieri che, nell’atto di implorare la grazia, si gettano sul ventre o sulla schiena o si sollevano già esultanti. Nelle due doppie figure è illustrato in modo molto efficace l’accostamento dei due tipi di mediatori: l’alto dignitario trasmette, come evocatore dei poteri divini, il sì regale dall’alto verso il basso, mentre l’interprete, quale semplice manovale, sta tra l’egiziano e gli stranieri, ponendosi al loro livello. Per entrambi, la parola pronunciata si trasforma, nell’immagine, in un gesto corrispondente. I geroglifici che accompagnavano la scena dell’interprete purtroppo non sono stati incisi nella stele, poiché ad Haremhab, dopo l’ascesa al trono, fu destinata una tomba reale a Tebe e pertanto la tomba che gli era stata destinata a Memfi quale funzionario rimase incompiuta.” (nostra traduzione) Abbiamo riportato la descrizione dell’immagine che appare in Thieme et al. (1956), relativa alla tomba incompiuta di Haremhab a Memfi e in cui si fa esplicito riferimento alla presenza 2 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ dell’interprete. Infatti Gardiner (1953: 6)2 attribuisce alla figura sdoppiata il ruolo di interprete. Il fatto che esistessero interpreti nel senso moderno del termine, ovvero persone che avevano fatto dell’interpretazione il loro mestiere, viene ripreso da Kurz (1985), che, citando Gardiner e Hermann, riferisce che i Principi di Elefantina portavano, accanto ad altri, il titolo di “Capi degli Interpreti” (“overseer of dragomans”). Tale titolo verrebbe giustificato dal fatto che i Principi di Elefantina vivevano sul confine meridionale del Regno d’Egitto, ossia alla frontiera con la Nubia. I rapporti commerciali e le spedizioni militari in Nubia comproverebbero la necessità di interazione con i vicini e dunque l’esigenza di conoscere la loro lingua. Tuttavia la conoscenza di una lingua straniera non può istituire automaticamente l’esistenza della professione di interprete. Questa è l’obiezione di Crevatin (conversazione personale) che ha dapprima messo in dubbio la presenza di interpreti professionisti nell’Antico Regno, e poi dimostrato come all’origine di questo equivoco durato quasi cinquant’anni ci sia l’attribuzione arbitraria e ingiustificata del significato di “interprete” a un geroglifico che appare appunto nelle incisioni risalenti all’Antico Regno. Goedicke (1960: 60) afferma che il significato di “interprete” o “dragomanno” per venne introdotto da Gardiner3 e riporta testualmente dalla fonte summenzionata: “È bene notare che rendo la parola dell’Antico Regno risalente al Nuovo Regno con ‘interprete’ o ‘dragomanno’, mentre il predicato viene tradotto con ‘straniero’. Il motivo è che il primo è chiaramente un titolo laddove il secondo non può essere considerato tale. Sarebbe meglio sostituire in entrambi i casi ‘colui che parla una lingua straniera’, visto che… è questo il vero significato.” Goedicke giudica tale conclusione alquanto strana e nel suo contributo dimostra, analizzando i vari contesti in cui tale parola appare, come sia altamente improbabile che il significato di sia quello di “interprete”, ma piuttosto quello di “straniero” e in particolare “amici/supervisori degli stranieri”. L’autore individua tre gruppi di diversa provenienza. 1) La parola in questione appare in iscrizioni rinvenute fuori dai confini egiziani, nel Sinai e nella Bassa Nubia, in graffiti che illustrano spedizioni. Tale contesto aveva fatto pensare a Gardiner che ci si riferisse a “interpreti”. Ma allora diventa difficile giustificare la presenza 2 “[…] Haremhab, decked out exactly as before, but now looking towards the right, listens to the words of a smaller personage whose figure is similarly duplicated. The huddled group of foreigners to whom this man turns proclaims him to be an interpreter.” 3 Il riferimento bibliografico indicato da Goedicke è PSBA 37, 117-25. 3 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ di un “supervisore dei/degli dragomanni/interpreti”. I servigi resi da un interprete rendono improbabile che ce ne fosse più di uno per una spedizione, il che contraddice la presenza di un supervisore. Se, in alternativa, si supponesse che la parola in questione si riferisca al capo di un’amministrazione come poteva essere un “ufficio per le lingue straniere”, allora non si spiegherebbe la presenza di non meno di otto responsabili per la suddetta istituzione (iscrizione di Tomâs). Ci sono invece buone probabilità che questa parola si riferisca al comandante di una classe, un gruppo di persone, tali per cui si possa parlare di un “capo della gente del territorio del Sud” e dunque “supervisore degli stranieri”. 2) Il secondo gruppo di iscrizioni in cui si trova la parola in esame si trova a Elefantina. Tale territorio aveva un ruolo di grande importanza grazie alla sua collocazione geografica, ossia all’estremo Sud del Regno. Gli ufficiali residenti a Elefantina gestivano ogni attività, sia economica sia militare, che riguardasse i rapporti con la Nubia. 3) Altri tre esempi sono forniti dalla regione di Memphi, tra cui il decreto di Pepi I. L’esame di tali iscrizioni rende l’attribuzione del significato di ‘interprete’ o ‘dragomanno’ alla parola alquanto astrusa. Sarebbe infatti difficilmente spiegabile la presenza di supervisori laddove non si ha traccia di sottoposti4. A ciò si aggiunge il fatto che nel Nuovo Regno, in cui l’accadico era la lingua riconosciuta per la corrispondenza diplomatica, non si ha notizia dell’istituzione di un’organizazione di interpreti. Mentre invece la presenza di truppe mercenarie presso gli Egiziani è assodata e il titolo in questione pare riferirsi chiaramente al leader di una formazione militare di mercenari. Ciò spiegherebbe inoltre come mai la parola in questione appare quasi sempre fuori dai confini del Regno, in territori oggetto di spedizioni di carattere militare o commerciale (ricerca di merci preziose, per es. l’incenso), dove la presenza di soldati era fondamentale. Il fatto che i Principi di Elefantina portassero il titolo di “supervisori di truppe straniere (mercenarie)” si spiegherebbe dunque con la loro funzione di controllo alla frontiera meridionale con la Nubia. Riassumendo, possiamo affermare che sicuramente, a dispetto di quanto affermato a più riprese da vari autori (Hermann 1956: 27; Kurz 1985: 213) – e cioè che gli Egiziani si ritenessero superiori agli altri popoli e di conseguenza non sentissero la necessità di imparare e parlare la lingua altrui – gli Egiziani conoscessero e usassero le lingue straniere nei rapporti con gli altri popoli5. Non 4 Goedicke (1960: 61) inoltre fa notare che le lingue straniere sicuramente non costituivano, nella regione meridionale, un problema, tant’è vero che ancora oggi ad Assuan, la gran parte della popolazione parla sia arabo che nubiano. 5 Inoltre non bisogna dimenticare la coesistenza, nell’Egitto greco, di due lingue e due culture, l’egiziana e la greca. Molte sono le testimonianze che dimostrano come esistessero persone bilingue e dinomiche in egiziano e greco (Crevatin 2000). 4 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ è tuttavia possibile dedurre da ciò che esistesse la categoria professionale degli interpreti, così come la possiamo immaginare noi oggi. In altri termini il fatto di parlare le lingue straniere poteva coniugarsi con altri e ben diversi incarichi sia a livello militare che amministrativo, senza costituire una funzione indipendente e per di più di alto livello. È vero però che esisteva un’attività traduttiva scritta di testi non letterari all’interno delle cancellerie in epoca tolemaica (IV-III sec. a.C.) ad opera essenzialmente di “una componente sociale bilingue e dinomica”, dettata fondamentalmente da “un interesse molto preciso, da regole di gentilezza linguistica nei confronti delle autorità, da un bisogno immediato di farsi comprendere. […] la traduzione avrebbe avuto un valore neutro, di mera e ridotta necessità veicolare” (Crevatin 2000: 169). Anche questo contribuisce a rafforzare l’idea che non esistesse l’istituzione della professione di interprete. 1.2 Mondo greco e romano Da quanto sappiamo i Greci, ritenendosi superiori ai popoli barbari, erano contrari all’apprendimento di altre lingue, mentre per i Romani acculturati era imperativo imparare il greco. Lo stato romano era fondamentalmente uno stato bilingue dove si insegnavano sia il latino che il greco. In Senato però i messaggeri greci dovevano servirsi di un interprete perché, per questioni d’onore, in quel luogo poteva essere usato solo il latino. Nell’amministrazione invece gli interpreti erano sempre necessari per i rapporti con gli Egiziani, gli Assiri, i Germani e i Celti. Questi interpreti erano ingaggiati talvolta dallo stato talvolta da privati. Nel 400 d. C. vennero nominati presso la Cancelleria del Ministero degli Interni, interpreti per le lingue barbare a cui venivano assegnati anche incarichi diplomatici. (Sono state rinvenute le tombe di tali personaggi non solo a Roma ma anche a Budapest e a Maastricht). Da una lettera di Cicerone (106-43 a.C.) si capisce quanto i funzionari delle Province fossero legati ai propri interpreti. Cicerone loda la riservatezza e la lealtà dell’interprete, mentre in un’altra si esprime molto negativamente sul conto di un interprete siciliano. La storia romana riferisce di molteplici spedizioni militari durante le quali gli interpreti svolsero un ruolo essenziale, partecipando anche a trattative segrete (Hermann 1956). L’impossibilità di accedere direttamente alle fonti originali non ci esime dal guardare anche a queste informazioni con quell’atteggiamento dubbioso che abbiamo riservato ad altri periodi della storia antica. Anche in questo caso dunque ci sembra lecito chiederci se la prima funzione di questi “interpreti” era effettivamente quella di tradurre o se piuttosto non si trattasse di persone a cui erano stati affidati 5 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ compiti particolari (amministrazione, rappresentanza ecc.) per i quali era necessaria la conoscenza delle lingue straniere. 2. INTERPRETAZIONE E RELIGIONE 2.1 Il mondo ebraico Tra il II e IV sec. d.C. si assiste nelle sinagoghe a un rito che mette in risalto la preminenza del testo scritto su quello orale (Delisle e Woodsworth 1995b: 161-166). Il lettore dei Testi Sacri non poteva alzare gli occhi dalle scritture per non dare l’impressione che stesse improvvisando o recitando a memoria, cosa che poteva portarlo a non rispettare l’originale. Il testo poteva essere trasmesso solo attraverso la lettura, poiché Mosè l’aveva ricevuto per iscritto. Il meturgeman (adattamento ebraico dell’aramaico turgeman, da cui dragomanno) ascoltava e traduceva oralmente senza guardare la scrittura per non dare l’impressione di tradurre direttamente dallo scritto. Queste due funzioni erano separate per sottolineare il fatto che il testo scritto aveva la priorità su quello orale (l’interprete stava anche fisicamente lontano e più in basso rispetto alla posizione del lettore). Non va dimenticato però che già nel III sec. A.C. si ha anche la traduzione della Bibbia dall’ebraico al greco. La leggenda, raccontata circa 100 anni dopo da un Ebreo di Alessandria che scriveva con lo pseudonimo di Aristeas, riferisce che Tolomeo II, volendo arricchire la biblioteca di Alessandria, affidò a 72 saggi la traduzione del testo biblico e dopo 72 giorni questi gli consegnarono tutti una versione (Septuaginta) identica pur avendo lavorato separatamente. Come in ogni leggenda anche in questa si nasconde un seme di verità. Con tutta probabilità la traduzione dall’ebraico al greco fu il frutto di un lavoro collettivo che aveva lo scopo di rispondere alle necessità della comunità ebraica presente ad Alessandria che parlava ormai greco (Delisle e Woodsworth 1995b: 163). Evidentemente, se si accettano le considerazioni di Delisle e Woodsworth (1995b), se ne deduce che, nonostante le traduzioni esistenti, permaneva nelle sinagoghe il rito basato sui testi in ebraico, per cui era necessaria la traduzione orale. Tale ipotesi potrebbe essere suffragata dal fatto che sicuramente dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. e con l’inizio della Diaspora, gli Ebrei, come già era successo in passato, iniziarono a parlare le lingue parlate nei territori in cui si insediarono (Schwartz 1995), dimenticando la lingua ebraica a cui solo gli studiosi e i rabbini avevano accesso6. 6 Per restare in tema biblico, si ricorda l’episodio dell’incontro tra Giuseppe e i propri fratelli che, quand’era ancora giovinetto, lo avevano venduto agli Egiziani. Giuseppe diventato il maggior consigliere del Faraone, riceve a distanza di diversi anni, i fratelli a palazzo. Essi si erano recati in Egitto spinti da una funesta carestia alla ricerca di viveri. Giuseppe li riconosce, ma i fratelli non sanno di parlare con il fratello minore venduto anni prima. Nel dialogo Giuseppe 6 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ 2.2 In Africa7 Gli interpreti furono fondamentali nel momento in cui venne avviata l’islamizzazione del Continente africano. Si formò a Timbuktu, sede universitaria, un’élite di persone che conoscevano la lingua araba e che operarono per il consolidamento delle relazioni tra il mondo africano e quello arabo. Esse godevano di grande prestigio ed erano considerate persone sagge alle quali rivolgersi per avere pareri e consigli. Anche in questo caso dunque appare chiaramente che la conoscenza della lingua straniera si coniuga con un ruolo ben definito e non si limita a quello di “persona che traduce”. Tra il XII e il XVI secolo l’Africa visse un’epoca di grande fermento e i contatti tra i vari regni del Continente e i paesi europei fece sorgere la necessità di comunicazioni interlinguistiche. I “servizi di interpretazione” erano forniti da consiglieri e ambasciatori. Lo sviluppo delle relazioni commerciali e l’arrivo dei missionari vide l’apparire di persone che, una volta imparata la lingua dei nuovi venuti, fungevano da tramite tra questi e le popolazioni indigene. Con la colonizzazione si assiste all’istituzionalizzazione della figura dell’interprete presso l’amministrazione. Ma non si trattava più di una casta acculturata e privilegiata, bensì di persone al servizio, magari come domestici, dei colonizzatori, che essendo in grado di parlare più o meno fluentemente la lingua straniera, venivano integrati nel sistema amministrativo coloniale. Il loro ruolo e il loro comportamento spesso entrava in netto contrasto con le aspettative delle popolazioni locali che li vedevano più come traditori che come “mediatori”. Nel periodo post coloniale, furono i nuovi leader locali, spesso formati in Europa, a sentire il bisogno di ricorrere a persone che potessero metterli in comunicazione con le diverse popolazioni indigene che parlavano lingue e dialetti diversi tra loro. Spesso la comunicazione era garantita da veterani, originari dei diversi villaggi, che avevano partecipato alla II guerra mondiale e che, una volta ritornati presso le rispettive tribù, si facevano “interpreti” dei nuovi leader. Solo con l’indipendenza si assiste alla nascita dell’interprete come figura professionale. 2.3 La diffusione del Cristianesimo Con la diffusione del Cristianesimo, il problema della reciproca comprensione si pone in tutt’altro modo. Gli interpreti, i poliglotti non sono solo necessari per rapporti commerciali e per le campagne cela la propria identità servendosi paradossalmente di un interprete. Si legge infatti in Genesi (42, 23): “Non sapevano che Giuseppe li capiva, perché tra lui e loro vi era l’interprete”. 7 Da Niang (1990). 7 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ militari, bensì per la divulgazione della nuova religione. Il greco era diventato la lingua della cristianità e venne a poco a poco sostituito dal latino. I popoli cristianizzati però chiedevano di poter officiare i riti nella propria lingua. Per un certo periodo tuttavia appare l’interprete liturgico, accanto agli esorcisti, e dopo i lettori e gli addetti alla sepoltura dei morti. Il ruolo dell’interprete liturgico è ritenuto di basso livello (Hermann 1956: 51). Si traduce dal greco in latino e in Armenia (nel IV sec.) dal greco e dal siriaco8 in armeno durante le cerimonie religiose. Sarà Mesrop Machtots (360441) a inventare l’alfabeto armeno per poter meglio evangelizzare le regioni ancora pagane e tradurre la Bibbia nella lingua del popolo armeno (Delisle e Woodsworth 1995a: 26). Cirillo, inventore dell’alfabeto glagolitico, che è alla base degli alfabeti russo, bielorusso, macedone, ucraino, bulgaro e serbo, evangelizza il mondo slavo, non solo attraverso la traduzione in antico slavo della Bibbia, ma introducendo questa lingua nei riti religiosi9 così come aveva fatto Wulfila con i Goti (Delisle e Woodsworth 1995a: 31). Anche San Gerolamo 10, patrono dei traduttori, e famoso per la sua Vulgata, esercitò la funzione di interprete. Nel 382 è a Roma, come interprete, al sinodo delle Chiese greca e latina. Verrà poi nominato da papa Damaso I, segretario-interprete e suo consigliere teologico (Delisle e Woodsworth 1995a: 172). Non sempre però questi mediatori linguistici si dimostrarono all’altezza del loro compito. Così per esempio l’esperienza di Wilhelm de Rubroeck, francescano, che si reca in Asia, accompagnato da altri due monaci e da un interprete che si dimostrò inefficiente e non molto affidabile. Viene descritto (Dawson in Delisle e Woodsworth 1995a: 252) come un “uomo senza intelligenza né eloquenza”. Il francescano inoltre aveva il sospetto che gli interpreti armeni deformassero il senso di quanto predicava perché detestavano i Saraceni e volevano recar loro danno. Siamo in questo caso ben lontani dalla prescritta neutralità dell’interprete rispetto alle parti. 3. INTERPRETAZIONE, CONQUISTA E RELIGIONE11 8 Queste due lingue erano anche le lingue dell’amministrazione. Si può dunque immaginare l’intervento degli interpreti anche in ambiti giudiziari e amministrativi. 9 Il papa Adriano II accoglie Cirillo e Metodio e approva la loro pratica nominandoli vescovi, contrariamente all’atteggiamento conservatore di parte del clero. 10 Conosceva l’ebraico, il greco e il latino. 11 Delisle (1995: 256 e ss.). 8 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ Con la scoperta del nuovo mondo aumenta l’impeto evangelizzatore che porterà numerosi missionari a servirsi di interpreti per raggiungere il loro scopo. Uno scopo che, travestito da slancio evangelizzatore, mirava semplicemente alla conquista di nuovi territori e pertanto alla sottomissione, per non dire all’annientamento, dei popoli indigeni. Cortés12 poté fare affidamento sui suoi interpreti nel raggiungimento della conversione e dell’asservimento dei popoli indigeni. Cortés comperò la libertà di uno schiavo, Jeronimo de Aguilar, un uomo di origine spagnola che aveva fatto naufragio al largo della costa dello Yucatan e che aveva imparato il maya durante la prigionia. Aguilar aveva preso gli ordini minori e, grazie alla buona conoscenza che aveva della dottrina cattolica, aiutò efficacemente Cortés nella sua opera di conversione. Per i rapporti con il popolo azteco invece Cortés si servì della collaborazione di Malinalli Tenépal. Rimasta orfana di padre, venne venduta dalla madre a mercanti maya. Probabilmente fu venduta più volte prima di essere offerta in dono a Cortés insieme ad altre diciannove ragazze a Tabasco. Cortés fece battezzare le giovani e le distribuì ai suoi ufficiali. Malinalli, battezzata Marina, parlava l’azteco, il maya e avrebbe appreso rapidamente il castigliano. A soli 14 anni, Cortés la donò a un uomo influente, ma quando questi rientrò in Spagna, Dona Marina diventò l’amante di Cortés. Il soprannome di Malinche deriva dal fatto che gli indigeni non pronunciavano la “r” di Marina e aggiungevano il suffisso “–tzin” che segnalava il rango nobile – riconosciutole in spagnolo con Dona –, chiamandola Malitzin. Da qui lo spagnolo Malinche. Dalla relazione con Cortés nacque un figlio, ma Cortés la diede poi in sposa a Juan Jaramillo per poter essere libero, una volta rientrato in Spagna, di sposare una donna d’alto rango. Il ruolo di Malinche è stato oggetto di molte controversie. Per gli Spagnoli, era un dono del cielo, la mediatrice per eccellenza che riuscì con il suo operato a imporre il volere dei Conquistadores. I Messicani, dopo il raggiungimento dell’indipendenza, la vedevano come una traditrice e la madre di una razza bastarda. In tempi recenti si è assistito a un tentativo di riabilitazione di questa donna a opera di intellettuali femministe (Delisle e Woodsworth 1995a: 259). Nel Messico sotto dominio spagnolo venne istituita una struttura amministrativa che prevedeva l’interpretazione. Gli interpreti formavano un vero e proprio gruppo di funzionari. Vennero inoltre stabilite delle regole etiche nel tentativo di prevenire corruzione e abusi. Un chiaro riconoscimento del potere della parola e del processo traduttivo. 12 La fonte principale è la cronaca scritta da un soldato di Cortés, Bernal Díaz del Castillo (1492-1584), Historia Verdadera de la Conquista de la Nueva Espana. 9 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ Gli interpreti, come si è visto fin qui, partecipano alla costruzione della Storia anche quando questa non sembra rispondere ai canoni etici a cui oggi quasi tutti i popoli della terra fanno appello o dicono di rispettare. Così ritroviamo gli interpreti anche in situazioni terribili come l’esecuzione di condanne a morte, in nome della “verità” dei più forti (impiccagione dell’ultimo imperatore azteco, Cuauhtémoc, e dell’ultimo imperatore inca Atahualpa, il quale avendo chiesto il battesimo venne giustiziato per strangolamento invece che sul rogo, Delisle e Woodsworth 1995a: 254). Un altro esempio di conquista evangelizatrice viene fornito dagli ugonotti in fuga dalla persecuzione. Quando gli ugonotti francesi arrivarono in Brasile trovarono interpreti già perfettamente integrati nella società indigena. Pare infatti che fin dall’inizio del XVI secolo, trafficanti francesi e portoghesi conoscessero bene le coste brasiliane. Si racconta addirittura che navigatori normanni fossero già arrivati alla foce del Rio delle Amazzoni ancor prima che Cristoforo Colombo continuasse nelle sue esplorazioni. Questi interpreti “normanni” si erano stabiliti in una tribù, ne avevano imparato la lingua e avevano messo su famiglia. La completa assimilazione degli usi e costumi della tribù da parte di questi nuovi venuti (compreso il cannibalismo) creava non poco imbarazzo ai missionari, ma indubbiamente fu loro di grande aiuto. Come si può facilmente capire, il loro atteggiamento era diametralmente opposto a quello dei Conquistadores; essi infatti godevano della fiducia degli indigeni e lavorarono soprattutto come mediatori commerciali tra questi e i mercanti francesi per tutto il XVI secolo. Per comprendere l’importanza e la valenza dell’operato degli interpreti ‘normanni’, che oggi chiameremmo ‘mediatori culturali’ è sufficiente ricordare un episodio in aperto contrasto con quello appena citato. Nicolas Durand de Villegagnon lascia la Francia nel 1555 a causa della crescente opposizione al movimento riformista e si stabilisce con i suoi compagni su un’isola al largo del Brasile. Il tentativo di imporre strette regole morali (matrimonio con le concubine brasiliane) agli interpreti che già vivevano sull’isola, fa sì che questi mediatori si ribellino e abbandonino Durand nella sua opera missionaria. Questi non si dà per vinto e chiede rinforzi a Ginevra. Jean de Léry risponde all’appello portando con sé dieci giovani ragazzi da destinare all’apprendimento della lingua dei “selvaggi”. Anche questa strategia però si rivelò fallimentare ed è alla base dell’insuccesso del calvinismo in Brasile. Come si è detto sopra, l’evangelizzazione seguiva o celava interessi diversi: la conquista di nuovi territori rispondeva infatti all’esigenza di aprire nuove vie commerciali, alla sete di potere e al desiderio di aumentare i possedimenti di uno stato. Per raggiungere tali obiettivi, il lavoro di intermediazione, ossia degli interpreti, era fondamentale. Cristoforo Colombo l’aveva capito e per 10 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ reclutare i suoi interpreti usava rapire degli autoctoni cui insegnare la lingua del dominatore. Visto però che molti di questi fuggivano gettandosi in mare, pensò bene di rapirne anche le mogli. Questo metodo fu seguito da altri ma si rivelò comunque fallimentare (Delisle e Woodsworth 1995a: 256). Non sempre però fu necessario ricorrere al rapimento. Spesso ci si servì di schiavi o domestici al servizio dei Conquistadores che avevano imparato a parlare, magari in modo rudimentale, la lingua dei loro padroni. Spesso si trattava di donne che venivano così promosse interpreti e godevano di uno status ufficiale all’interno dell’amministrazione coloniale. Samuel de Champlain (1567-1635), fondatore della città di Québec, mosso da interessi strategici e commerciali, tentò una via completamente diversa. Egli cercò di sistematizzare la formazione di interpreti-residenti. In qualche modo adottò senza saperlo una strategia simile a quella degli interpreti normanni, poiché fece in modo che alcuni giovani avventurieri si stabilissero nelle tribù con le quali i francesi avevano rapporti commerciali e si integrassero completamente. Essi diventarono così “ambasciatori efficientissimi al servizio dei coloni e dei mercanti europei e concentrano su di sé le funzioni di guide, esploratori, diplomatici e commercianti” (Delisle e Woodsworth 1995a: 257)13. 4. INTERPRETAZIONE, CAMPAGNE MILITARI E DIPLOMAZIA14 Come si è visto parlando di interpretazione nel mondo antico, spesso l’interpretazione è legata a interessi commerciali, diplomatici o militari. Già Alessandro Magno nelle sue campagne in Asia e India si servì di interpreti militari, così come fecero i Romani. Anche Napoleone durante le sue campagne in Egitto e Palestina fece ricorso a interpreti formati presso la Scuola di dragomanni di Costantinopoli. Ricorse agli interpreti anche George Washington (1732-1799) nei suoi contatti con gli Indiani e con i Francesi. Stesso scenario per la I guerra mondiale, al termine della quale si assistette alla nascita della moderna interpretazione di conferenze. Possiamo ricordare a comprova dell’esistente e ineluttabile legame tra storia e interpretazione, l’istituzione in Francia, nel 1830, del corpo degli interpreti militari dell’esercito francese (Cary 1956: 134 e ss.), proprio all’epoca della conquista dell’Algeria15. Gli “interpreti e guide” venivano 13 Per un approfondimento cfr. Delisle (1977). 14 Delisle (1995: 260-270). 15 Fin dalla Rivoluzione però si hanno tracce di formazioni simili. 11 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ reclutati senza criteri particolari, poi, a poco a poco, il corpo venne meglio organizzato e furono definiti i vari gradi: interpreti principali, interpreti di prima, seconda e terza classe, interpreti ausiliari. Nel 1901 si contavano: 1 interprete a Parigi, 14 in Tunisia e 47 in Algeria. Inoltre nel 1887 era stato creato un corpo speciale di interpreti di riserva al fine di rispondere a eventuali esigenze riguardanti le lingue europee. Per avere un’idea dell’ampiezza di tali corpi, basti pensare che nel 1939, la missione francese di collegamento con il Corpo di Spedizione britannico contava circa 2500 ufficiali e agenti. 4.1 I rapporti con l’Oriente Se in Europa occidentale il latino prima e il francese poi rappresentarono la lingua della diplomazia, nei rapporti con l’impero ottomano, i sovrani dei grandi stati europei dovettero piegarsi all’uso della lingua turca (Delisle e Woodsworth 1995a: 267). Per tale motivo Maria Teresa d’Austria nel 1754 fondò l’Accademia orientale, dove furono formati numerosi orientalisti e interpreti della corte, e che oggi continua a esistere con il nome di Accademia diplomatica. Anche la Francia si dotò di un’istituzione simile. Con il decreto di Colbert16 del 1669 si prevedeva la formazione di interpreti ufficiali. Per tre secoli la Francia formò interpreti per il turco, l’arabo e il persiano. Il grado più alto che avrebbero potuto raggiungere nella loro carriera era quello di segretario-interprete del re. Fin dal XVI secolo (Cary 1956: 137 e ss.) si incontrano “agenti fissi” (agents fixes) presso alcune corti europee, ma furono i rapporti tra stati cristiani e stati musulmani che diedero origine alla presenza di interpreti diplomatici. La nomina del primo ambasciatore francese a Costantinopoli, che risale all’epoca di Francesco I (1535 ca.), pose il problema del reclutamento di interpreti, visto che spesso gli ambasciatori non parlavano la lingua locale. Venne seguito l’esempio dato dagli stessi musulmani. Fin dal XII secolo infatti erano presenti nell’Africa del Nord i torjimani, funzionari della dogana specializzati nel commercio (e più in generale, nelle relazioni) con le nazioni straniere. A poco a poco il titolo divenne ereditario. La Francia fece proprio questo modello e nel 1692 JeanBaptiste de Fiennes venne nominato primo dragomanno per diventare poi segretario-interprete del re nel 1716. Alla sua morte il figlio ereditò il titolo. Il titolo di dragomanno prevedeva una serie di funzioni: dai rapporti commerciali, a quelli politici, alla negoziazione di trattati. Ora il corpo dei dragomanni continua a esistere nei funzionari interpreti e traduttori presso il Ministero degli Affari Esteri. 16 Tale decreto prevedeva che gli interpreti non dovessero essere degli stranieri, ma francesi di nascita. Veniva prevista l’apertura di una scuola a Costantinopoli e l’altra a Smirne, in un convento di cappuccini, che non venne mai avviata. La scuola di Costantinopoli invece divenne molto famosa (Delisle 1995: 272). Nel 1833 la scuola di Costantinopoli chiuse e venne aperta a Parigi nel 1880 la Scuola di lingue orientali (Delisle 1995: 267). 12 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ 5. LA MODERNA INTERPRETAZIONE DI CONFERENZE17 La moderna interpretazione di conferenze nacque ufficialmente con la Conferenza della Pace di Parigi (sede di Versailles) del 1919. A dire il vero già durante la I Guerra mondiale avevano avuto luogo varie conferenze tra forze alleate che avevano in qualche modo preparato i lavori della Conferenza del 1919. È bene ricordare comunque che già alla fine del XIX secolo erano sorte varie organizzazioni internazionali come la Croce Rossa Internazionale (1864) e l’Unione postale (1875). Si erano svolti anche numerosi convegni internazionali, come quello di Bruxelles del 1847 sull’economia e l’amministrazione penitenziaria o quello sull’agricoltura del 1848. Secondo van Hoof (1962: 18), alla fine del XIX secolo se ne contavano più di 1400. Questo moltiplicarsi di incontri a livello internazionale aveva sicuramente creato nuove esigenze linguistiche e si può immaginare, senza tema di essere smentiti, che persone almeno bilingui abbiano garantito il servizio di traduzione. La vera e propria novità, però, è rappresentata proprio dalla Conferenza della Pace del 1919. Per la prima volta il cosiddetto problema linguistico occupa buona parte dei lavori preparatori della conferenza. Fino ad allora la lingua della diplomazia era stato il francese che, da Mazarino in poi durante il regno di Luigi XIV (1643-1715), grazie all’istituzione del servizio diplomatico voluto dal cardinale, aveva fatto la sua comparsa presso quasi tutte le corti europee. Ma dopo la I Guerra Mondiale l’inglese comincia a rivendicare un posto di primo piano. Il fatto che molti capi di stato e di governo dell’epoca (potenze vincitrici) vedessero il conflitto mondiale come il risultato del fallimento della diplomazia – una diplomazia che con i suoi vari trattati più o meno segreti non era riuscita a impedirlo – fa sì che alla Conferenza del 1919 partecipassero non i diplomatici ma proprio i capi di stato e di governo. A questo punto si pose il problema linguistico in tutta la sua ampiezza. Non tutti erano in grado di parlare il francese e comunque le nazioni vincitrici anglofone rivendicavano il diritto di poter vedere la loro lingua riconosciuta come lingua ufficiale della Conferenza. Dopo lunghe trattative, l’inglese venne riconosciuto accanto al francese come lingua ufficiale. Fu pertanto necessario mettere in piedi un sistema di traduzione sia scritta sia orale affinché tutti i partecipanti potessero prendere parte ai lavori. Molti interpreti vennero reclutati attingendo al personale già in servizio nell’esercito o nel settore diplomatico. Nessuno aveva ricevuto una formazione adeguata o, per lo meno, come la concepiamo noi oggi. La consecutiva nacque così, sul campo, grazie all’esperienza e al successivo lavoro di riflessione e di 17 Baigorri Jalón (2004). 13 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ sistematizzazione dei primi interpreti (per es. Paul Mantoux e Jean Herbert). Questi primissimi professionisti dell’interpretazione diedero corpo nel tempo a una categoria professionale riconosciuta e istituzionalizzata presso la Società delle Nazioni prima e l’ONU in seguito. Spesso il loro compito non si esauriva nella traduzione estemporanea dei discorsi da e verso le varie lingue, ma prevedeva anche la redazione di verbali. I primi consecutivisti dominarono la scena internazionale per circa trent’anni, fino all’avvento dell’interpretazione simultanea. Tale modalità di interpretazione venne molto osteggiata invocando motivi di qualità della traduzione. Si può però supporre che l’atteggiamento ostile dei consecutivisti nei confronti della simultanea fosse in parte dettato dal fatto che l’interprete, al centro della scena con la consecutiva, veniva relegato in una cabina e perdeva il contatto diretto con gli oratori e il pubblico18. Dopo vari esperimenti e tentativi l’interpretazione simultanea fu utilizzata dapprima presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, si impose al Processo di Norimberga e fu poi adottata dall’ONU. 5.1 Gli interpreti dei dittatori19 Gli storici ci dicono che Hitler parlava solo il tedesco, Stalin il georgiano e il russo, e che Churchill, Roosvelt e Truman, che negoziarono con Stalin, non conoscevano il russo. Va da sé che la presenza di interpreti diventò una condizione assolutamente necessaria per la comunicazione. Tra i vari interpreti dell’epoca, ricordiamo Paul Schmidt (1899-1970), che pubblicò le sue memorie nel 1954, e che fu l’interprete ufficiale di Hitler e dal 1938 ministro plenipotenziario del Reich. Al termine della II Guerra Mondiale, Schmidt si salvò grazie alla sua funzione di interprete che gli permise di essere definito un “tecnico inoffensivo”. Va però notato che Schmidt godeva della piena fiducia di Hitler, che riuscì sempre a imporre il proprio interprete nei vari incontri con i rappresentanti degli altri stati. La questione della fiducia del committente nei confronti del proprio interprete, si poneva con maggior acuità nel clima teso dell’epoca. Fu in quel periodo per esempio che si preferì da parte tedesca, contrariamente alla prassi, ricorrere al servizio di Schmidt chiamato a tradurre i delicati punti di vista del Ministero degli Esteri tedesco verso le altre lingue straniere, per non dover dipendere da stranieri che traducessero le parole del Führer. La stessa strategia venne adottata per lungo tempo dai Russi. Le modalità di interpretazione utilizzate erano soprattutto la consecutiva, lo chuchotage e una curiosa forma di interpretazione simultanea, o meglio, a distanza. Schmidt racconta di aver letto presso i locali della Radio tedesca il discorso che Hitler tenne il 19 luglio del 1940; la sua 18 Per un approfondimento Baigorri Jalón (2004), Falbo (2004). 19 Baigorri Jalón (2004: 175-224). 14 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ traduzione venne trasmessa in diretta dalla radio statunitense e inglese. Schmidt aveva preparato la traduzione in inglese del discorso e, dopo alcune brevi frasi di Hitler, cominciò a leggere la propria traduzione, mentre un collega che sentiva l’originale grazie a delle cuffie, gli indicava sulla sua versione inglese a che punto del discorso fosse il Führer. Perché Schmidt non ascoltava direttamente il discorso di Hitler? Possibile che non fosse al corrente del nuovo sistema di interpretazione simultanea ormai adottato a Ginevra presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro? Schmidt non fa alcun accenno a questo proposito. Possiamo tuttavia supporre che la lettura di un testo tradotto per iscritto – e dunque oggetto di riflessione –, unitamente alla poca esperienza che ancora si aveva della simultanea, potessero garantire meglio la comunicazione. CONCLUSIONI Nel corso di questo rapido excursus storico sull’interpretazione sono emersi con chiarezza quattro punti cardine strettamente correlati tra loro. 1. Dopo la nascita della moderna interpretazione di conferenze e l’emergere di una figura professionale a tutto tondo, si è cercata e guardata la presenza di interpreti nel passato attraverso il filtro del passato recente. Si è cercato cioè, sicuramente inconsapevolmente, un interprete così come lo conosciamo noi oggi, attribuendo a persone, che per ragioni del tutto personali conoscevano due o più lingue, le funzioni che oggi noi attribuiamo a un professionista dell’interpretazione. Abbiamo osservato a più riprese come la conoscenza delle lingue costituiva un corollario, sicuramente necessario, allo svolgimento di ben altri incarichi, che sfociavano spesso in un’operazione traduttiva ai fini della comunicazione interlinguistica. 2. Infatti, è apparso più volte chiaramente come la conoscenza delle lingue straniere si sia rivelata essenziale per i rapporti commerciali, diplomatici, politici, militari e gli obiettivi religiosi degli uomini di ogni epoca. Tale conoscenza però era sempre correlata ad altri saperi e/o abilità e completava funzioni e incarichi di diversa natura. La figura dell’interprete come figura professionale autonoma o alle dipendenze di un’istituzione è legata alla storia recente, mentre il ricorso a persone bilingui o poliglotte che potessero garantire la comunicazione tra persone o gruppi di persone di lingua diversa è sempre esistito e si è sempre configurato come risposta a bisogni squisitamente contingenti. 3. La storia dell’interpretazione non può essere scissa dalla storia delle relazioni e dei conflitti che hanno caratterizzato la storia dell’umanità. Sono stati proprio i cambiamenti che hanno caratterizzato i vari settori dell’attività umana a favorire l’istituzione di interpreti professionisti 15 Caterina Falbo, SSLMIT – IUSLIT, Università di Trieste a.a. 2014-2015 _______________________________________________________________________________________ (all’interno dell’esercito e/o dell’amministrazione) e la ricerca e l’invenzione di tecnologie che permettessero di velocizzare la comunicazione interlinguistica (come è avvenuto per l’interpretazione simultanea). 4. Un elemento costante nella storia dell’interpretazione è rappresentato dalla questione della fedeltà dell’interprete al proprio committente. I dubbi di Wilhelm de Rubroeck riguardo alla sincerità degli interpreti armeni, l’esperienza di integrazione degli interpreti ‘normanni’, la contesa figura della Malinche e la fiducia riposta da Hitler nell’operato di Schmidt, sono esmpi di storia vissuta che rilanciano il dibattito sui rapporti tra lingua-comunicazione interlinguistica e potere e rimettono in causa la presunta e raccomandata neutralità dell’interprete rispetto alle parti. Bibliografia Baigorri Jalón J. (2004), De Paris à Nuremberg: naissance de l’interprétation de conférence, Ottawa, Les Presses de l’Université d’Ottawa (cap. I, IV). Cary E. (1956), La traduction dans le monde moderne, Genève, Georg (cap.XII, XIV). Crevatin F. (2000), “Correnti linguistiche e culturali nell’Egitto greco e romano”, Incontri Linguistici, 23, pp. 145-172. Delisle (1977), “Les pionniers de l’interprétation au Canada”, Meta, XXII, 1, pp. 5-14. Delisle J. e Woodsworth J. (1995a) (dir. par), Les traducteurs dans l’histoire, Ottawa, Les Presses de l’Université d’Ottawa, (cap. 9). Delisle J. e Woodsworth J. (1995b) (eds.), Translators through History, Ottawa, John Benjamins, Amsterdam/Philadelphia, (cap. 9). Falbo C. (2004), La ricerca in interpretazione, Milano, FrancoAngeli (cap. I, par. 2). Goedicke H. (1960), “The title [unknown] in the Old Kingdom”, The Journal of Egyptian Archeology, vol. 46, pp. 60-64. Hermann A. (1956), “Dolmetschen im Altertum. Ein Beitrag zur antiken Kulturgeschichte”, in Thieme K., Hermann A. e Glässer E. (Hrsg.), Beiträge zur Geschichte des Dolmetschens, München, Isar Verlag. Kurz I. (1985), “The rock Tombs of the Princes of Elephantine”, Babel, 31/4, pp. 213-218. Kurz I. (1986a), “Das Dolmetscher-Relief aus dem Grab des Haremhab in Memphis”, Babel, 32/2. Kurz I. (1986b), “Dolmetschen im alten Rom”, Babel, 32/4. Manzelli G. 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