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Newsletter periodica d’informazione
(aggiornata alla data del 07 febbraio 2012)
Ritirare l’ingiusta tassa per i permessi di soggiorno
Cgil, Cisl, Uil promuovono sit – in davanti le prefetture in tutta Italia per venerdì 10 febbraio
Sommario
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Dipartimento Politiche Migratorie: appuntamenti
Sindacato: ritirare l’ingiusta “tassa di soggiorno”
Cgil, Cisl e UIL: “il governo mantenga le promesse”
Decreto flussi: Il Ministero del Lavoro risponde alla UIL
Mercato del Lavoro – L’effetto sostituzione degli stranieri
Società – Napoli: baby sitter per i figli stranieri
Discriminazioni – RC auto, lo straniero paga di più
Rifugiati – In aumento i richiedenti asilo nella UE
Foreign Press: Gulag for Gaijin
A cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento Politiche Migratorie
Rassegna ad uso esclusivamente interno e gratuito, riservata agli iscritti UIL
Tel. 064753292- 4744753- Fax: 064744751
E-Mail [email protected]
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Anno X n. 5
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stati censurati dalla stessa Europa;
perché è sproporzionata rispetto al reddito
medio di una famiglia straniera;
c) perché è illogico un aumento dei costi per
un servizio che lo Stato non è in grado di
fornire nei tempi stabiliti dalla legge (20
giorni): quindi, oltre al danno di ritardi
insopportabili, si infligge ai cittadini
stranieri la beffa di pagare di più per
favorire, non l’integrazione, ma ordine
pubblico e rimpatri.
La UIL considera ingiusto che il Governo faccia
cassa sulla pelle dei più deboli in una logica
punitiva dell’immigrazione. Si possono recuperare
risorse combattendo il lavoro nero e permettendo
percorsi di emersione nello spirito della direttiva 52
della CE. Per queste ragioni invitiamo tutte le
nostre strutture a promuove – assieme a Cisl e Cgil
– presidi di protesta in tutte le prefetture d'Italia
nella giornata del 10 febbraio 2012
Invitiamo tutti gli immigrati e tutte le associazioni ad
aderire a questa protesta di Cgil-Cisl-Uil.
b)
Dipartimento Politiche Migratorie:
appuntamenti
Roma, 11 febbraio 2012, ore 10.00, sede
Ambasciata Filippina
Meeting on Developing a System of Linkages,
Cooperation and Coordination between
Philippine and Italian Service Providers towards
Improved Service Delivery for Migrant Workers
(Giuseppe Casucci)
Roma, 16 febbraio 2012, ore 09.00, Sala
Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Via di Santa Maria 37
UNAR:
Conferenza
“contrasto
della
discriminazione
basata
sull’orientamento
sessuale e sull’identità di genere”
(Angela Scalzo)
Roma, 16 febbraio 2012, ore 11.00, sede CNEL
ONC: Presentazione alla stampa dell’ VIII°
Rapporto su indici di integrazione sociale degli
stranieri in Italia”
(Giuseppe Casucci)
Sindacato
Mobilitazione indetta da Cgil, Cisl,Uil
Ritirare l’ingiusta tassa sui
permessi di soggiorno
Venerdì manifestazioni in tutta Italia davanti alle
Prefetture
Roma, 06 febbraio
2012 - La UIL è
fortemente
contrariata per il
mancato
ritiro
o
almeno la revisione
della
tassa
sul
permesso
di
soggiorno, promessi in un primo momento dal
Ministro del Lavoro Fornero. Si tratta di un nuovo
balzello, entrato in vigore lo scorso 1° febbraio, che
appesantisce il diritto a rimanere in Italia dei
cittadini stranieri. Una tassa iniqua ed esosa (da 80
a 200 € ), cui non corrisponde né la certezza dei
tempi di fruizione, né la qualità del servizio, né
alcun principio di equità.
Non la vogliamo per molti motivi:
a) perché è uno dei prodotti nefasti del
pacchetto sicurezza i cui contenuti sono
Politiche dell’Immigrazione
Tassa sui permessi. Cgil,
Cisl e Uil: “Il governo
mantenga le promesse”
“Va rimodulata, così com’è è inaccettabile per il
peso sulle famiglie immigrate e per la sua
finalizzazione”. Il 10 febbraio sit-in di protesta
davanti
alle
Prefetture
Roma – 3 febbraio 2012 ''Siamo in attesa che il
governo passi dalle parole
ai fatti, sulla base di
quanto dichiarato dalla
ministra Cancellieri che ha
annunciato la volonta' di
intervenire in tempi brevi
sulla normativa relativa ai permessi di soggiorno,
ed in particolare sulla sovrattassa gia' entrata in
vigore''. Lo dichiarano i segretari confederali di Cgil,
Vera Lamonica, Cisl, Liliana Ocmin e Uil,
Guglielmo Loy. ''La sovrattassa va quanto meno
rimodulata- si legge in una nota congiunta - poiche'
cosi' com'e' non e' accettabile, ne' per il peso sulle
famiglie immigrate, ne' per la sua finalizzazione.
Inoltre e' urgente che il governo intervenga
rapidamente sulla durata del permesso di
soggiorno per coloro che hanno perso il lavoro,
concretizzando quanto piu' volte annunciato dai
ministri Riccardi e Cancellieri”. “Riconfermiamo la
2
richiesta al governo di aprire su questo, come sul
complesso delle norme sull'immigrazione, a partire
dal recepimento della direttiva 2009/52/CE [che
introduce norme minime relative a sanzioni e a
provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che
impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è
irregolare n.d.r.], un confronto di merito che porti a
soluzioni efficaci e condivisibili''. ''A sostegno delle
richieste sindacali- concludono i tre sindacalisti Cgil-Cisl-Uil promuovono per il giorno 10 febbraio
iniziative e sit-in davanti alle Prefetture in tutta
Italia''.
Decreto flussi
Il Ministero del Lavoro risponde alla UIL:
“Le preoccupazioni, le riflessioni
ed i suggerimenti della UIL sono
stati recepiti nell’ambito della
programmazione in corso”
Natale Forlani risponde ad una lettera della UIL
sul mancato decreto flussi 2012
Caro Segretario Confederale,
Colgo l'occasione di riscontrare la Vs. del 16
gennaio u.s., per ringraziare la UIL ed, in
particolare, la Segreteria Confederale nazionale,
per il lavoro prezioso che state svolgendo in favore
della integrazione dei lavoratori immigrati e la
costante collaborazione rivolta alla Direzione
Generale dell'Immigrazione del Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali. Nel merito della
programmazione dei nuovi flussi di ingresso ritengo
che buona parte delle riflessioni, dei rilievi e dei
suggerimenti, che ci rivolgete siano già state
recepite dalla programmazione in corso. L'assenza
del decreto flussi per l'anno in corso, per le ragioni
rammentate nella Vs. lettera, non ha significato
l'impedimento per nuovi ingressi di lavoratori
stranieri in Italia. E' necessario tener presente che,
oltre la disponibilità di un consistente bacino dei
disoccupati stranieri, sussiste la libera circolazione
dei lavoratori comunitari, agevolata dalla scelta di
non proIungare il regime transitorio di delimitazione
per i Rumeni e i Bulgari. A questi devono essere
aggiunti gli ingressi degli extracomunitari per
ricongiunzione familiare ed i permessi rilasciati per
ragioni di protezione o asilo, che rinforzano la
disponibilità di offerta di lavoro sul territorio italiano.
Le quote di ingressi per i lavoratori formati nei
paesi di origine [ex art. 231, di conversione in
lavoro subordinato per i lavoratori agricoli e per i
tirocini e gli stages, quelle per il lavoro autonomo,
gli italiani all'estero e dei lungo soggiornati,
saranno introdotte nel decreto flussi per il lavoro
stagionale, di prossima emanazione, come
anticipazione di quello generale per il lavoro
subordinato. Ricordo che per l'art. 23 la quota è
ampliabile in via amministrativa, e stiamo
prevedendo negli accordi diplomatici l'utilizzo di
queste quote come modalità privilegiata di ingresso
di nuovi lavoratori. Segnalo infine le novità, che
sono state introdotte nel recente decreto
governativo sulle semplificazioni, per il lavoro
stagionale che agevolano notevolmente le modalità
di ingresso dei lavoratori stranieri che abbiano già
lavorato in Italia nel passato, con la possibilità di un
loro utilizzo da parte di altre imprese nel corso dei 9
mesi del permesso massimo di soggiorno. Sono
altrettanto fiducioso che la richiesta, più volte
avanzata dalle Organizzazioni Sindacali, di
allungare la durata del permesso di soggiorno per
attesa occupazione possa trovare riscontro in uno
degli imminenti provvedimenti governativi. Credo
che il complesso di questi interventi vada nella
direzione auspicata nella Vostra missiva, nella
convinzione che molto lavoro debba ancora essere
fatto per migliorare la gestione dei flussi migratori.
Un cordiale saluto Natale Forlani
Roma, 1° febbraio 2012
Immigrazione e lavoro
Mercato del lavoro. L’effetto
sostituzione degli stranieri
Esiste un effetto sostituzione dei lavoratori stranieri a
quelli italiani? L’analisi della Fondazione della presenza
degli stranieri nei settori di attività e nelle professioni
Fondazione Leone Moressa. Comunicato del 06/02/2012
Dinamiche
occupazio
nali.
Dal
2007
al
2010
la
presenza
di
manodoper
a straniera
nel
mercato
del lavoro nazionale si è fatta sempre più evidente:
da 1,5 milioni di occupati di nazionalità straniera si
è passati a poco più di due milioni. Questo ha
inoltre determinato nel medesimo periodo di tempo
un aumento del peso della componente straniera
che dal 6,5% ha raggiunto il 9,1% del totale dei
lavoratori in Italia. In termini di variazioni
3
percentuali, se l’occupazione degli italiani è calata
del -4,3% (pari a quasi un milione di unità in meno),
gli stranieri sono invece aumentati con un ritmo del
38,5% (+578 mila persone). Per settore di attività.
L’occupazione straniera si distribuisce in tre settori
principali: i servizi sociali e alla persona (in cui si
concentra il 24,7% del totale dell’occupazione
straniera), le costruzioni (16,7%) e la manifattura
(19,4%). Ma sono i primi due i settori nel quale la
presenza di stranieri si fa più evidente: infatti se nei
servizi sociali e alla persona su cento occupati
quasi 30 sono immigrati, nelle costruzioni si tratta
di 18 persone. Anche il settore degli alberghi e
della
ristorazione
mostra
una
preferenza
nell’assunzione di manodopera straniera, dal
momento che il 15,8% di tutti gli occupati in questo
settore
è
straniero,
quando in media
a
livello
nazionale
si
contano
9,1
stranieri
su
cento lavoratori.
Per
professione
ricoperta.
Gli
stranieri
sono
occupati
prevalentemente
in lavori dalla
media e bassa
qualifica.
In
particolare oltre
un terzo degli
immigrati
(37,7%)
è
occupato
in
professioni non
qualificate,
anche
considerando il
fatto che su 100
occupati
con
queste
caratteristiche
33
sono
stranieri.
Il
28,3%
degli
stranieri ricopre
funzioni
da
operaio specializzato e il 14,5% è un professionista
qualificato. Dal 2007 al 2010 il numero di stranieri è
cresciuto maggiormente proprio tra le professioni
meno qualificate, dal momento che si contano
356mila immigrati in più in questa professione e
33mila italiani in meno. Un vero e proprio effetto
sostituzione si è verificato nelle fila degli artigiani e
degli operai specializzati dove a fronte di una
riduzione di 174mila italiani, la crescita degli
immigrati è stata di 132mila unità.
Effetto sostituzione. In quasi tutte le 25
professioni qui considerate si osserva un
avvicendamento tra manodopera italiana e
straniera tra il 2007 e il 2010. Sembra infatti che
molte professioni “manuali” siano state “snobbate”
dagli italiani, che hanno lasciato progressivamente
il posto agli stranieri. In molte categorie
professionali si è infatti assistito ad un vero e
proprio effetto sostituzione. L’intensità però di tale
sostituzione non è però univoca. Per alcune
professioni si osserva un “over sostituzione”,
ossia i nuovi ingressi di stranieri hanno di gran
lunga superato gli abbandoni degli italiani: si tratta
in questo caso di categorie professionali legate alla
ristorazione (cuochi, camerieri, baristi), ai lavori non
qualificati nell’industria e alle figure di saldatori,
montatori e lattonieri.
…
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LO
STUDIO
COMPLETO
Società
Così le baby sitter napoletane
crescono i figli degli
immigrati
Dal rione Sanità al Mercato ai Quartieri Spagnoli gli
extracomunitari pagano, spesso in nero visto che
lavorano in nero, dai 300 agli 800 euro al mese per
avere una balia a tempo pieno
di ANNA LAURA DE ROSA
Napoli,
7
febbraio 2012 Inal in Italia è
diventato un re.
È
un
bimbo
russo di un anno
con i capelli neri
e
gli
occhi
castani, e ha un nome arabo che nella sua lingua
significa, appunto, “re”. I genitori, arrivati nel 2001
da Nalchik, nel Caucaso, sono di religione
musulmana. Inal è nato al Borgo Orefici e già da
sei mesi sgambetta in casa di Antonella, casalinga
trentaduenne con tre figli. Una delle tante
napoletane che lavora come baby sitter per gli
immigrati. Per la donna il lavoro comincia alle 10
del mattino e finisce alle 20, tutti i giorni (domenica
esclusa) per 400 euro al mese. «All'inizio avevo
4
preso una ragazza ucraina — racconta Marianna,
madre di Inal — ma mi sono accorta che
trascurava il bambino. Con la famiglia di Antonella
mio figlio sta bene. Inoltre, mentre con me parla
russo, con loro impara napoletano e italiano». Non
si può dire lo stesso della balia, che sa dire solo
“picenie” e “si-ta” in dialetto russo (“biscotto” e
“cosa”). E mentre le due donne si contendono il
racconto delle abitudini del bambino, Inal gioca con
i figli di Antonella. La confidenza è fraterna, tanto
che i ragazzi temono l’ipotesi che il piccolo possa
tornare in Russia prima o poi. La crisi non risparmia
i lavoratori dell’Est creando un circolo vizioso.
«Marianna sta guadagnando di meno — confida la
baby sitter — in questo periodo tengo Inal solo tre
giorni
a
settimana
e
lo
stipendio
è
dimezzato». Ecco dove sono i figli degli stranieri
che lavorano dalle 12 alle 14 ore al giorno. Non nel
paese d’origine o in scuole multietniche. Hanno
trovato baby sitter napoletane. I neonati delle
comunità russe, senegalesi e cinesi compiono un
piccolo miracolo economico, risolvono in parte dal
basso lo “scontro occupazionale” tra poveri: dal
rione Sanità al Mercato ai Quartieri spagnoli, gli
immigrati pagano — spesso in nero visto che
lavorano in nero a loro volta — dai 300 agli 800
euro al mese per avere una balia napoletana a
tempo pieno. Spesso si denunciano “gli effetti
indesiderati” dell’immigrazione: dall’imprenditoria
campana messa in ginocchio dai prezzi competitivi
di prodotti indiani e cinesi, alle donne partenopee
sostituite da quelle dell’Est per il lavoro di colf e
badanti. Ma che cosa prendono i napoletani dagli
stranieri con cui dividono la città? Quali i vantaggi
di una società multietnica? Ci sono 75.943
immigrati nella provincia di Napoli, 164.268 in
Campania, senza contare la grossa fetta di
irregolari (rapporto Migrantes 2011). È però nei
quartieri popolari che si mostrano gli effetti
inaspettati dell’integrazione, che si accenna
un’inversione della curva economica. Nei bazar a
basso costo che guardiamo attraversando la
Stazione c’è di tutto. Tutto, tranne i bambini
immigrati che affollano le case dei napoletani. Una
volta consolidato il rapporto di lavoro, in alcuni casi
i genitori chiedono alla balia di abbassare la retta
mensile senza diminuire i giorni lavorativi, rafforzati
nella trattativa sul compenso dal legame affettivo
creato dalla frequentazione. In altri, il rapporto di
lavoro assume i tratti di un’adozione a termine. «È
stata una pazzia. Il bambino sta con me notte e
giorno, gli voglio bene, ma se la madre lo porterà
via
come
dice
non
ripeterò
mai
più
quest’esperienza» racconta Maria, 47 anni. La
donna di piazza Mercato sta tirando su un bimbo
cinese da un anno e mezzo, si chiama Daniele:
«Aveva sei mesi quando è arrivato — spiega — la
madre ha un negozio di bigiotteria, me l’ha affidato
per 550 euro mensili ma da qualche mese è scesa
a 400. Anche le mie vicine fanno da baby sitter a
bambini stranieri, si guadagnano fino a 800 euro
con la famiglia giusta. I genitori sono presenti, però
sono io ad accompagnare il piccolo dal medico, a
comprare cibo e vestiti italiani». Daniele intanto si
arrampica sul divano, la guarda dalla tutina azzurra
strappandole un sorriso con qualche parola
napoletana. «Si fanno sacrifici — aggiunge la baby
sitter — però ha riportato in casa le gioie della
maternità». Arriva la madre di Daniele, Maria la
istruisce sull’orario della pappa e sul cappotto da
mettere. L’unico “scontro” è sulle abitudini, troppo
rilassate quelle napoletane per una coppia di
orientali: i genitori del piccolo vogliono che Daniele
si svegli all’alba ed esca anche con la
pioggia. Rosaria si occupa alla Sanità di un bimbo
senegalese di un anno, Fallov. Lei lo chiama Falù.
«Non prendo soldi — dice — la madre non ha i
soldi per mantenerlo. Mi chiama mamma, gli sono
spuntati i dentini con me, è come un figlio. Il
bambino è stato con me anche a luglio e agosto,
quando i genitori sono partiti per lavoro. E quando
a volte lo riprendono mi preoccupo, penso chissà
se ha freddo nella casa in cui vivono. I genitori mi
hanno detto che verso i 4 anni lo manderanno a
Parigi e non so come sarà il non potere vederlo
più». Luisa invece può già raccontare gli effetti del
fenomeno balia sulla lunga durata: per 10 anni si è
presa cura di una bimba orientale, Daniela Ye.
Seicento euro il compenso previsto. «La bambina è
arrivata da noi all’età di 8 mesi — racconta Luisa —
ora ha 15 anni e frequenta ancora casa nostra.
L’abbiamo portata in vacanza, alle feste, va allo
stadio con i miei figli». Maria frequenta tuttora i
genitori della ragazza che vivono in zona Garibaldi
e hanno condiviso con la famiglia partenopea 45
giorni a Pechino. «Da qualche mese — aggiunge
— stiamo accudendo un altro bambino straniero
per 450 euro, Samuele. Ma il confine tra lavoro e
affetto è più nitido adesso». Samuele intanto
stacca le calamite dal frigo. Luisa cerca di stargli
dietro, lo prende in braccio e gli tocca le manine
fredde: «Gli devo comprare una canottiera di lana,
la madre non mi sta mai a sentire». È come un
figlio
molto
amato.
5
Discriminazioni
Rc auto, lo straniero paga di
più: ingiusto?
Infuria la polemica sulle Rca degli stranieri, molto
care
L'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali
(Unar) della presidenza del Consiglio le chiama
polizze etniche: Rc auto più costose per gli
stranieri, in particolare romeni e polacchi. Un
fenomeno che riguarderebbe un quarto delle
Compagnie e che l'Unar denuncia a gran voce:
"La problematica,
relativa
a
un
ambito
particolarmente complesso come quello delle
assicurazioni auto, è nata da segnalazioni ricevute
dal contact center dell'Unar da parte di cittadini
stranieri
che
hanno
lamentato premi
assicurativi differenziali
in
relazione
alla
cittadinanza". In sostanza, a parità di altre
caratteristiche (come residenza, età, classe di
merito, auto), il solo fatto di essere stranieri
comporta
un
rincaro
della
Rca.
MOTIVI SEMPLICI - Che cosa c’è alla base della
scelta
delle
Assicurazioni?
L'ufficio
antidiscriminazioni ha aperto un tavolo tecnico
con ANIA (la Confindustria delle Assicurazioni)
e Isvap (vigila sulle Compagnie) per lo studio del
fenomeno. Dall’analisi conclusiva dell'Isvap, è
emerso che il 25% del campione applica premi
assicurativi maggiorati in relazione alla nazionalità.
Ed ecco la risposta dell’ANIA: le Imprese che
hanno adottato il parametro del rischio legato alla
nazionalità ai fini delle rispettive tariffazioni, si sono
avvalse di dati interni aziendali, perché non esiste
un’analisi associativa in merito. Quindi se, in base
alle statistiche di una Compagnia, emerge che gli
automobilisti di una certa nazionalità causano più
incidenti, il cliente di quella nazionalità si vedrà
offrire una Rca più costosa. Maggiore il rischio
incidenti e più salata la tariffa. “L'ANIA - spiega
l’UNAR - ha sempre ribadito che la differenziazione
tariffaria in base alla nazionalità non ha mai avuto
un obiettivo discriminatorio”. Zero razzismo,
insomma: solo freddi numeri, semplicemente.
SEGNALETICA - Stando all'UNAR, fra le
Compagnie interpellate, una ha motivato le tariffe
differenziate con la segnaletica stradale diversa
nel Paese di origine dello straniero, rispetto a
quella italiana. Idem per abitudini di guida, densità
di traffico e viabilità. Un’altra Compagnia ha
precisato che “ai fini della formazione della tariffa
vengono presi in considerazione una serie di
fattori tra i quali la cittadinanza, ma non la
nazionalità”.
COSA
CHIEDE
L’UNAR
L’Ufficio
antidiscriminazioni raccomanda di mantenere
ferma l’attenzione sulle situazioni segnalate,
evitando un comportamento discriminatorio.
L’auspicio è che “tutte le Compagnie offrano la
stipula dei contratti Rc auto applicando ai
contraenti con cittadinanza non italiana le
medesime tariffe previste, a parità di ogni altra
condizione,
per
i
cittadini
italiani,
e
comunque tariffe indipendenti dalla cittadinanza
dei richiedenti”. Non solo: “Un trattamento di
sfavore per il non cittadino potrebbe apparire come
una deroga a un principio di parità posto a tutela di
un valore fondamentale della persona umana”.
DUBBI - Ma la domanda che è lecito porsi è:
davvero una Rca più costosa per un automobilista
straniero rappresenta una deroga al principio di
parità?Allora, ragionando in questo modo (senza
che
si
voglia
difendere
l’operato
delle
Assicurazioni, da noi criticate in altre occasioni),
anche un automobilista del Sud Italia può
considerarsi discriminato: a Napoli, si pagano
7.000 euro l'anno di Rca, in certi casi.
CAPRO ESPIATORIO? - Ci va giù ancora più
pesante
Filippo
Miraglia,
responsabile
Immigrazione Arci (Associazione ricreativa e
culturale italiana): “Modificare i prezzi in nome
di rischi inesistenti dimostra ancora una volta che
il senso comune negativo diffuso in Italia sugli
immigrati consente non solo di usarli come capro
espiatorio ogni volta che c'è un problema, ma
anche di sfruttarli chiedendo sovrapprezzi”.
6
Rifugiati
In aumento i richiedenti asilo
nell’Ue.
Roma, 7 febbraio 2012 - Nel
secondo semestre del 2011 nell’Unione europea vi
sono state 69 mila richieste di asilo provenienti da
142 Paesi. Sono i dati diffusi ieri da Eurostat,
l’istituto statistico dell’Ue, che ha pubblicato le
statistiche ufficiali che i ministeri degli Interni degli
Stati membri, o le loro agenzie nazionali, sono
tenuti a trasmettere a Bruxelles ogni tre mesi, in
applicazione del Regolamento europeo 862/2007
concernente le statistiche sulla migrazione e la
protezione internazionale. Ad influire sono state,
anche nella seconda metà dell’anno, le crisi civili e
politiche del Nord Africa, che hanno visto
aumentare, nella sola isola di Malta, il numero di
richiedenti asilo di oltre 60 volte rispetto all’anno
precedente (1.600 richieste nel secondo trimestre
2011, contro appena 25 nel 2010). Per le
medesime ragioni, i Paesi da cui proviene il
maggior incremento di richieste sono Libia e
Tunisia, rispettivamente sei e cinque volte più
numerose dell’anno precedente. In termini assoluti,
il maggior numero di richieste d’asilo sono giunte
da Afghanistan (6.460), Iraq (3.900) e Russia
(3.465). In Italia invece, le richieste di asilo
provengono soprattutto da Nigeria (1.280), Ghana
(820), Costa d’Avorio (530), Tunisia (520) e Mali
(495). La metà delle tutte le domande di asilo
nell’Ue sono state accolte da tre Paesi: Francia
(14.505), Germania (10.820) e Belgio (7.160). Al
quarto posto l’Italia, con 6.875 richieste.
Quasi 8 richiedenti asilo su 10 hanno meno di 35
anni e 1 su 4 è minorenne. Tra i richiedenti asilo
serbi, afghani e russi, circa l’80% sono minorenni. Il
30% dei richiedenti asilo sono donne. I richiedenti
asilo provenienti da Bangladesh e Tunisia sono per
il 95% maschi. Quelli provenienti da Congo e
Russia sono 50% maschi e 50% donne.
Complessivamente sono state emesse circa 57
mila decisioni di prima istanza, mediamente una su
quattro con esito positivo. Francia, Germania e
Svezia ha emesso il più alto numero di decisioni di
prima istanza: rispettivamente 11.090, 9.620 e
6.570. Germania e Svezia hanno anche concesso il
maggior numero di decisioni positive. Per quanto
riguarda più da vicino l’Italia, in totale sono state
emesse 4.990 decisioni: 71% con esito negativo
(respinte), 8% accordando lo status di rifugiato, 8%
con una protezione sussidiaria e 13% per ragioni
umanitarie.
(Red.)
Foreign Press
Japan's immigration
control
Gulag for
gaijin
Jan 18th 2012, 12:29 by K.N.C. | TOKYO
AN
EXTRAORDINA
RY
story
is
making
the
rounds
among
the hacks and
other expats in
Japan.
A
Canadian freelance journalist who has lived
in Japan for years fell into the ugly whirlpool
of Japan’s immigration-and-detention system.
For years human-rights monitors have
cited Japan’s responsible agencies for awful
abuses; in their reports the system looks like
something dark, chaotic and utterly incongruous
with the country’s image of friendly lawfulness.
Still the case of Christopher Johnson beggars
belief. Returning to Tokyo after a short trip on
December 23rd he was ushered into an
examination room, where his nightmare began.
Over the next 24 hours he was imprisoned and
harassed. Most of his requests to call a lawyer,
the embassy or friends were denied, he says.
Officials falsified statements that he gave them
and then insisted that he sign the erroneous
testimony, he says. Guards tried to extort money
from him and at one point even threatened to
shoot him, he says—unless he purchased a
wildly expensive ticket for his own deportation,
including an overt kick-back for his tormentors.
Once he was separated from his belongings,
money was stolen from his wallet and other
items removed from his baggage (as he has
reported to the Tokyo police). The problems to
do with Japan’s immigration bureau have been
known for years. Detainees regularly protest the
poor conditions. They have staged hunger
strikes and a few have committed suicide. A
Ghanaian who overstayed his visa died in the
custody of guards during a rough deportation in
2010. (In that case, the prosecutor has delayed
deciding whether to press charges against the
guards or to drop the case. A spokesperson
refuses even to discuss the matter with media
7
outlets that are not part of the prosecutor’s
own “press club”.)
Mr Johnson’s ordeal closely matches the abuses
exposed in a 22-page report by Amnesty
International in 2002, “Welcome to Japan?”,
suggesting that even the known problems have
not been fixed. One reason why the practices
may be tolerated is that the Japanese
government apparently outsources its airportdetention operations to a private security firm. It
is a mystery to Mr Johnson why he was called
aside for examination, but he suspects it is
because of his critical coverage of Japan. (Mr
Johnson’s visa status is unclear: in an interview,
he said his lawyer advised him not to discuss it.)
Reached by The Economist, Japan’s immigration
bureau said it cannot discuss individual cases,
but that its detentions and deportations follow the
law, records of hearings are archived and the
cost of deportation is determined by the airline.
The justice ministry declined to discuss the
matter and referred all questions to the
immigration bureau. Canada’s department of
foreign affairs confirmed to The Economist that a
citizen was detained and that it provided
“consular assistance” and “liaised with local
authorities”. Mr Johnson’s own rambling account
of his saga appeared on his blog, “Globalite
Magazine”. It must be considered as unverified,
despite The Economist’s attempts to check
relevant facts with the Japanese and Canadian
governments. As a result, we cannot endorse its
accuracy. We present edited excerpts, below,
because they are deeply troubling if true.
On my way home to Tokyo after a three-day trip
to Seoul, I was planning to spend Christmas with
my partner, our two dogs, and her Japanese
family. I had flight and hotel reservations for ski
trips to Hokkaido and Tohoku, and I was
planning—with the help of regional government
tourism agencies—to do feature stories to
promote foreign tourism to Japan. While taking
my fingerprints, an immigration officer saw my
name on a computer watch list. Without even
looking through my passport, where he might
find proper stamps for my travels, he marked a
paper and gave it to another immigration
officer. ”Come with me,” he said, and I did. He
led me to an open room. Tired after three hours’
sleep overnight in Seoul, I nodded off. Officers
woke me up and insisted we do an “interview” in
a private room, “for your privacy.” Sensing
something amiss, I asked for a witness and a
translator, to make sure they couldn’t confuse
me with legal jargon in Japanese. An employee
of Asiana Airlines came to witness the
“interview.” The immigration officers provided a
translator—hired by immigration. She turned out
to be the interpreter from hell. ”Hi, what’s your
name?” I asked, introducing myself to her. “I
don’t have to tell you anything,” she snapped at
me. She was backed up by four uniformed
immigration officials.
Q: “What are the names of the hotels where you
stayed in April in the disaster zone? What are
the names of people you met in Fukushima?”
A: “Well, I stayed at many places, I met
hundreds of people.”
Q: “What are their names?”
A: “Well, there are so many.”
Q: “You are refusing to answer the question! You
must say exactly, in detail.”
(Before I could answer, next question.)
Q: “What were you doing in May 2010? Who did
you meet then?”
A: “That was a long time ago. Let me think for a
moment.”
The interpreter butted in: “See, you are refusing
to answer. You are lying.”
The “interpreter”, biased toward her colleagues
in the immigration department, intentionally
mistranslated my answers, and repeatedly
accused me of making unclear statements. I
understood enough of their conversation in
Japanese to realise she totally got my story
wrong.
Without hesitation, he wrote on a document: “No
proof. Entry denied.”
“But I do have proof,” I said.
But he refused to acknowledge it. “You must sign
here. You cannot refuse.”
For about four hours, I sat in limbo, unable to
properly communicate with the outside world.
Starving and tired, I couldn’t think clearly.
Various people in various uniforms aggressively
shoved various documents in my face for me to
sign. I simply said “wait” to everything and zoned
out into a world of denial that this nightmare
wasn’t happening.
At about 4 pm, the security guards came to take
me away. Two haggard old men probably in their
60s or 70s, were like dogs barking at my heels.
They were constantly shaking me down for
money. They demanded 28,000 yen as a
“service fee” for taking me to buy rice balls and
cold noodles at the convenience store.
What is going on here, I wondered. I started to
get worried when they took me deep into a cold
tunnel below the airport. Away from [ordinary
travellers in the airport], they got more
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aggressive with demands of now 30,000 yen for
a “hotel” fee. I was feeling threatened. (I would
later find Amnesty International accounts of
rogue guards working for the airlines beating up
airline customers in the tunnel until they paid up.)
Well, at least I’m going to a hotel, I thought. I’ll
make some phone calls there, go online, and get
higher-ranking officials to help me out of this big
misunderstanding. The “hotel” was in fact a jail.
A prison, a detention facility, a dungeon. ”The
police just told me I could make a call from here,”
I said in Japanese. A guard told me flat out in
Japanese: “You have no rights here.” A sign, in
English, Japanese, and other languages, lists
phone numbers for United Nations organisations
dedicated to helping victims of state brutality.
“It says right here that I can call these numbers.”
“No you can’t.”
They led me into a locked off area with at least
two sleeping cells. The room was cold, with no
windows. Lying under thin blankets, using my
parka (down jacket) as a pillow, I stared at the
ceiling and walls.Later that night, I was ordered
into the common room. A man, probably in his
50s, was waiting to see me. His tie said
“immigration.” He was warm and compassionate.
He tried his best in English and Japanese to
explain what was happening. He said, to my
surprise, that the other officers were “idiots”. He
said they had no business putting foreigners—
tourists or expats—in jail like this. “It is a shame
for Japan,” he said. “Embarrassing.” After talking
to me, he went out for a few minutes and came
back to give me more documents to sign. One
was titled “Waiving the Right to Appeal”,
meaning, “We are kicking you out of the
country.” The other was an “appeal form”. It said
I had three days to appeal to “the Minister of
Justice.” This at least gave me hope that
someone would recognise their mistake, and let
me go home
After he left, the guards granted me a privilege—
the right to take a shower. My show of respect,
and polite language toward them, was
reciprocated. They let me make a phone call.
They gave me a form to fill out—this is Japan,
after all—listing the nationality, name, phone
number and relation of that person. I tried to milk
it. While pretending to check my phone
messages (technically not a phone call), I sent
messages on Facebook. I wrote short, and sent
quickly, in case they caught me: (In jail now …
Narita … No rights … Innocent … Help me.) I
went back to my cell dejected. I lay under
blankets in my winter clothes, tormented. I
chased away dark thoughts—suicide, protest,
escape—from my mind. I cried for myself, and
for the tortured souls of the previous tenants. I
was so exhausted from the ordeal that I did fall
asleep, shortly after they turned off the lights at
11pm. When I woke up at 10 am on Saturday
morning, December 24, my cell was unlocked.
[From] the jail’s common room, I was allowed to
call my partner. “Don’t worry,” I said, “They’re
going to let me go home soon. It’s all been a big
mistake.”
The guards now let me make a second call, to
my embassy representative. Though helpful and
genuinely concerned, she said, “only Japan has
authority. There’s nothing we can do.” She said
my worried family and friends, who saw my
messages on Facebook, had been calling her to
offer assistance. She also had faxed a list of
lawyers and legal assistance agencies in Japan
to the immigration officers.It was a smart move,
because it showed them that powerful people in
Canada—the department of foreign affairs, the
Canadian embassy, media people—were indeed
watching what they were doing with me, a
human, with a name, family and supportive
friends. It was a way to humanise me. [But] the
papers were useless. How could I contact a legal
website, if I wasn’t allowed internet? How could I
call a lawyer, if I wasn’t allowed phone
calls?There was another call for me. This time
from someone at Asiana Airlines. ”How are you
doing this morning?” she asked, cheerfully. She
said they had been calling my partner at home,
asking her to pay 170,000 yen for my one-way
ticket to Canada. I wasn’t pleased to hear that.
“I’m not going home to Canada,” I scolded her.
“My home is in Tokyo. I live here, in Japan.”
“This is a good offer, you should take it,” the
airline employee insisted. “If you don’t, the price
will go up. The normal price is 400,000 yen. If
you wait, you will pay 400,000 yen.” “That’s
crazy,” I said. “I paid 25,000 yen for a round trip
ticket to Seoul on your airline. And now you want
me to pay 170,000 yen, or 400,000 yen? That’s
$5,000, for a one-way ticket. That’s more than
five times the normal rate, because I’m in jail.”
The airline employee hung up. I was worried.
“This is a scam,” I thought. The airline guards
are shaking us down for money, and now the
airline is price gouging me, and even harassing
my partner to pay. But I was cheered about an
hour later, when the guards told me, “Pack up
your bags. Don’t leave anything behind.” It was
good news. They were going to let me out of
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here. My appeal worked, I thought. They’re going
to release me and let me go home.
A Special Inquiry Officer sat me down in his
office, across from the Special Examination
Room where everything had gone wrong a day
earlier. He showed me a document from the
Ministry of Justice. It was an “Exclusion Order”,
with my name on it, next to the details of a flight
leaving for Canada. I was crestfallen. “No, that’s
not right,” I said, confused. “There is a plane
leaving for Canada at 7pm. You must take that
plane.” “But I live in Tokyo. I have a life here.”
“If you do not take that plane, you could end up
in jail for months, years. And you’ll never be
allowed back into Japan.” Next, the airline
employees came around to hit me up for
money. They now wanted 200,000 yen for a oneway ticket on Air Canada. I told them it was a ripoff. I knew that a round trip ticket at HIS travel
agency in Tokyo was 50,000 yen plus tax. “OK.
170,000 yen, plus 30,000 for the hotel fee and
the security guards,” they said. “This is
outrageous,” I said. I grabbed my phone from
them, since they still had my passport and bags.
I called a friend. “Quick, call the police. Tell them
I’m in the immigration office, Narita terminal
one.” The immigration officers derided me.
“Police do not have jurisdiction to come in here,”
they laughed. “Narita is a special legal area.”
The airline employee and the [private security
guards] were alone with me in a room. ”You
must hurry up and buy this ticket,” the Asiana
employee said. “Can you pay 150,000 yen?” He
went out to negotiate with another airline. When
he came back, he said, “The best I can do is
130,000 yen, plus 30,000 yen for the [guards].”
“No,” I said. “This is wrong. This is a scam. You
are just trying to profit off someone in a weak
position, a victim of human rights abuses.”
Again, he went out, and came back with a new
offer. ”I have asked for special prices. I can do it
for 100,000 yen. Anything lower is absolutely
impossible. I’m really trying to help you. Please
get on this flight.” It was already after 5 o’clock.
People were checking in for the 7 pm flight. I was
really sweating now. This time, he came back
with a young, stocky guy. He was wearing a blue
uniform. “Do you see this gun?” he said in
Japanese, turning around to show me a weapon
in its holster. “I have the legal authority to use
this if you refuse to get on that flight. Now are
you going to buy that ticket?” I was angry now.
They are forcing me at gunpoint to buy an
overpriced ticket. The [guards] ushered me out
of the room and through the airport. They still
had my bag, my passport, my wallet, credit
cards, everything. I had no choice. They whisked
me through the airport like a criminal. I didn’t
have to line-up for x-ray machines or
immigration. [They] pushed me through VIP
lines, ahead of pilots and flight attendants. As we
walked to the departure gate, they continued to
badger me for money. I told them flat out, “This
is wrong. Have some pride. I am a working man
just like you.” The older guys backed off. They
sensed I wasn’t going to give in to their pressure.
But a hideous older bulldog of a woman was
much more relentless. Even the Asiana officers
were taken aback by her uncultured onslaught.
She raised the demand in increments—30,000
yen, 35,000 yen, 38,900 yen—the tactic of a
third world market haggler, trying to pressure you
to buy before the price goes higher. Still holding
my passport, she dogged me all the way to the
gate. “I’m going to fly with him all the way to
Canada,” she said to another [guard], in
Japanese so that I could hear it. At the departure
gate, I sat down amongst ordinary people happy
to be going home for Christmas or on a ski
holiday to Canada. I made several last phone
calls to loved ones in Japan. My partner cried so
heavily, she made me cry. I told her to hug our
dogs for me. At that point, I realised I might
never see our 15-year-old dog ever again.My
heart burst open like a seawall against a
tsunami. Flowing with tears, I ran to the
bathroom—to hell with asking the guards. I
returned to my seat near the gate. I didn’t even
look at anyone. I just covered my face in my
hands and cried. Finally, the [female guard] gave
up. The two male [guards] escorted me onto the
plane, and finally gave me back my passport. As
the Pacific coastline came into view, I gazed
perhaps one last time at the street lights and
dark rice fields below. It was a feeling I had
never considered before: what it would be like to
leave Japan, and not return. I could only notice
that the vast majority of space below was filled
with a deep and utter darkness. Somewhere out
there, in the gulag of detention centres dotting
the land like black holes in the heart of Japan,
were the cries of innocent people who would not
be heard.
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