A. ALBERTI, Produzione e commercializzazione della pietra

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A. ALBERTI, Produzione e commercializzazione della pietra
PRODUZIONE E COMMERCIALIZZAZIONE
DELLA PIETRA OLLARE IN ITALIA
SETTENTRIONALE TRA TARDOANTICO E
ALTOMEDIOEVO
di
ANTONIO ALBERTI
INTRODUZIONE
Tra tardoantico e altomedioevo la pietra ollare (p.o.) è
un materiale d’uso comune presente sia in contesti urbani
che rurali, a conferma del successo che il manufatto dovette avere in quei secoli. Le sempre più numerose edizioni di
scavo concernenti l’altomedioevo hanno incluso lo studio
dettagliato dei reperti di pietra ollare, delineando l’evoluzione tecnica e tipologica di tali contenitori. In questo ambito l’individuazione dei centri di estrazione della pietra
sull’arco alpino ha contribuito ad evidenziare la capillare
distribuzione dei lavezzi, che copre un’area geografica che
include l’intera Pianura Padana, la Liguria, la costa nordadriatica. Le analisi petrografiche, con la precisazione delle componenti e tramite confronti con aree di estrazione
note, individuano la possibile provenienza dell’esemplare
analizzato.
Lo stato avanzato degli studi, soprattutto per quanto riguarda il tipo e la tecnica di lavorazione, induce a rivolgere
l’interesse sull’aspetto economico-commerciale della p.o.,
comprendente il passaggio estrazione-produzione-commercializzazione, in un arco cronologico caratterizzato tradizionalmente dalla diminuzione degli scambi a lungo raggio.
In questo breve contributo vorrei soffermarmi esclusivamente sull’aspetto commerciale della produzione di p.o.,
delineando un quadro, necessariamente parziale, che comprenda la cronologia degli scambi, le aree di contatto privilegiate rispetto ai diversi centri di produzione, i confronti
quantitativi tra i manufatti in pietra ollare e le classi ceramiche assimilabili (ceramica comune, ceramica invetriata).
1. CENTRI DI ESTRAZIONE E PRODUZIONE
Per le caratteristiche tipologiche e tecniche di questi
manufatti da fuoco e da mensa rimando alle più importanti
pubblicazioni riguardanti l’argomento (MANNONI-MESSIGA
1980, pp. 501-522; Atti Como; Atti Finale; BOLLA 1991a,
pp. 11-37). Distinguo brevemente i litotipi individuati, caratteristici per la loro alta lavorabilità a mano e al tornio: i
tipi grigio chiaro a base di talco, carbonati e clorite appartengono ai gruppi B, C, D, E; i tipi verdi a base di cloriti ai
gruppi F e G; i verde chiaro a base di serpentino al gruppo A;
altri tipi, piuttosto rari, appartengono ai gruppi H, I, K, L. Le
aree di estrazione e di presumibile produzione sono diverse: la
Val d’Aosta esportava recipienti in pietra ollare eclusivamente
del Gruppo F e G; solo del gruppo F per la Val di Lanzo in
Piemonte; l’area della Valtellina e della Val Bregaglia produceva manufatti del gruppo C e D; nelle valli dei Ticino e
del Toce si producevano prodotti dei gruppi A, B, E, H.
La prima utilizzazione dei manufatti in p.o. sembra risalire ad età preromana. Nell’età dei metalli si producevano lucerne e forme per il getto di bronzi, fusaiole e vaghi di
collana che furono oggetto di piccoli commerci locali (MANNONI-PFEIFER-SERNEELS 1987, p. 7). È probabilmente la romanizzazione dell’area alpina che crea i presupposti per lo
sviluppo della produzione su larga scala, prima con una distribuzione essenzialmente locale o sub-regionale, poi, dal
tardo antico, con una commercializzazione extra-regionale.
La Val d’Aosta, pur essendo uno dei centri maggiori di
produzione manca, per ora, delle attestazioni di età romana, caratteristiche invece di altre zone. Qui le seriazioni stra-
tigrafiche delineate nell’area urbana di Aosta confermano
una omogenea e capillare diffusione di tali prodotti a partire
dall’inizio del IV secolo (MOLLO MEZZENA 1987, pp. 59-114).
Le produzioni localizzate nella Svizzera occidentale,
caratterizzate ancora dal litotipo F e G, sembrano invece
anticipare le botteghe a sud delle Alpi: pur con restituzioni
spesso riferibili ad un orizzonte di IV secolo, alcuni siti presentano p.o. di piena età romana (Vicus de Lousanna;
Avenches; con livelli di I-III secolo d.C.) (PAUNIER 1987,
pp. 47-58).
Nelle Alpi centrali lo sfruttamento della p.o, sembra
anticipato e ancora legato alla romanizzazione dei territori.
Nella prima metà del I secolo d.C. la pietra della
Valchiavenna è utilizzata anche per la produzione, mediante escavazione, di contenitori (cofani con coperchio) di corredi funebri, che compaiono a Chiavenna e a Como (BOLLA
1991a, p. 11). Durante il I-II secolo si registra un aumento
di testimonianze ma sempre in zone non lontane da quelle
di estrazione e lavorazione, comunque perilacuali, indicando nell’acqua una via privilegiata per la diffusione di questo pesante materiale: ne sono prova le testimonianze di
epoca romana del comasco (NOBILE 1987, pp. 135-144),
mentre risultano una eccezione la quarantina di esemplari
di età imperiale rinvenuti negli scavi milanesi. Il notevole
aumento della produzione di questi manufatti si avrà soprattutto a partire dal V-VI secolo, come testimoniano le
sempre più numerose attestazioni in area padana. La commercializzazione dei prodotti continuerà per tutto il medioevo, riducendosi poi, ancora una volta, a fenomeno soprattutto locale fino al XIX secolo con la produzione di stufe.
2. PRODUZIONE E DIFFUSIONE
2.1 La produzione delle Alpi centro-occidentali
I contenitori in p.o. appartenenti ai gruppi petrografici
G e F, caratteristici per il loro colore verde, trovano una
distribuzione capillare intorno alle aree di estrazione (Val
d’Aosta, Vallese), in Piemonte e in Liguria, sulla costa provenzale. Analizzando più attentamente le restituzioni italiane, in quest’area la p.o. verde è in generale attestata con
percentuali oltre il 90% rispetto agli altri litotipi, quando
non è esclusiva; in Liguria è in larga maggioranza fino almeno al VII secolo, quando i tipi grigi delle Alpi centrali
cominciano ad apparire in percentuali più alte.
La p.o. dei gruppi G e F (cloritoscisti) compare pure in
almeno tutti i centri maggiori della pianura padana centroorientale; esemplari isolati sono attestati anche sulla costa
alto-adriatica. In questi casi, però, le percentuali di attestazione sono molto basse rispetto alla presenza dei tipi grigi
(talcoscisti): a Lomello il 5,2%; a Milano il 4,7%; a Castelseprio l’1,8%; nel sito di Monte Barro il 6,3%; a Brescia il
5,7%.
La cronologia di attestazione in questi siti è piuttosto
omogenea: a Lomello la buca 203 è datata intorno al 500
d.C. (BLAKE et alii, 1987, pp. 157-187); a Milano i tipi individuati negli scavi MM3 rimandano prevalentemente al VI
secolo (BOLLA 1991a, p. 17); l’insediamento di Monte Barro è datato tra la metà del V e al metà del VI secolo (BOLLA
1991b, pp. 95-99); ad Angera i tipi verdi sono presenti prevalentemente in contesti della metà del V secolo (BOLLA
1991a, p. 17); solo Brescia (S. Giulia) ha restituito la quasi
totalità delle attestazioni di cloritoscisti nella fase IIIb (metà
VI-metà VIII secolo), mentre nella fase precedente essi non
sono presenti (in corso di studio da parte delle scrivente).
La cronologia delle prime attestazioni in area centroorientale concorda comunque con le datazioni dei centri
occidentali in cui, come già detto, la p.o. del tipo G e F è
presente in stragrande maggioranza: Biella (PANTÒ 1992,
pp. 150-156), Belmonte (PANTÒ 1996, pp. 101-107), ad
esempio, attestano la presenza di p.o. a partire dal V secolo,
altri centri come Acqui Terme e Alba dovrebbero rientrare
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in questo arco di tempo. I centri costieri liguri (Ventimiglia,
S. Antonino di Perti, Finale, Albenga) cominciano, anch’essi,
a registrare presenza di p.o. a partire dal V-VI secolo; solo
Luni sembra in ritardo con le attestazioni (pieno VI secolo)
(Atti Finale).
Sulla base di un quadro generale così delineato sembrerebbe che ad una prima fase di espansione della produzione a livello però solo locale, a partire dal IV secolo (stratigrafie di Aosta), abbia fatto seguito un generale aumento
della circolazione di tali manufatti a livello regionale ed
extra-regionale, causa ed effetto di un vertiginoso aumento
della produzione. Va ricordato che dal V-VI secolo comincia ad essere utilizzato quasi esclusivamente il tornio per la
lavorazione della pietra, con l’inevitabile effetto della maggiore velocità nella produzione e maggiore standardizzazione dei pezzi prodotti.
I motivi del successo non sono necessariamente legati
alla qualità del prodotto, ma piuttosto alla facilità di trasporto o alla facile accessibilità di certe vie di comunicazione dal luogo di produzione, al di là di una iniziale diffusione interregionale da entrambi i centri. La bassa percentuale di presenza di cloritoscisti nei centri padani è da mettere in relazione con il fatto che essa è quasi esclusivamente presente in livelli di V-VI secolo, quando anche i tipi
grigi C e D stavano subendo un primo processo di distribuzione notevole. La minore presenza di p.o. valdostana in
Val Padana e in alcuni centri pedemontani può avere differenti giustificazioni. La presenza può essere attestata come
episodio casuale, dovuto perlopiù alle truppe militari che
spostandosi da un capo all’altro del territorio del nord-Italia potevano introdurre in territori anche lontani da quello
di produzione i manufatti da loro utilizzati per il fuoco o la
mensa. Non escluderei comunque, proprio in relazione alla
contemporaneità dell’inizio delle attestazione di p.o. in pianura, un iniziale tentativo di commercializzazione in una
zona distante dal centro di produzione, probabilmente sotto
l’impulso del grande successo che nello stesso momento i
medesimi manufatti stavano avendo nella zona occidentale
(Piemonte, Liguria).
Milano. Scavo Piazza Duomo (BOLLA 1991a, pp. 29-34):
Brescia. S. Giulia (c.s.):
L’ambito di distribuzione dei prodotti del gruppo prevalente C si estende alla pianura padana centro-orientale,
alla costa veneto-romagnola, alla Liguria. A parte la Liguria caso particolare, la presenza di questa p.o. è capillare con
attestazioni oltre il 90% per il gruppo C, con aggiunta, in alcuni centri, di gruppi petrografici più rari: gruppo D, A, E, H; le
attestazioni di Brescia sono le seguenti:
2.2 Produzione delle Alpi centrali
I tipi grigi, prodotti in Valtellina, in Val Bregaglia, nel
Canton Ticino, conoscono una prima diffusione a partire
dall’età imperiale: l’area comasca e in genere perilacuale
restituisce per quei secoli numerosi esemplari di contenitore in p.o. utilizzati come cinerario (NOBILE 1987, pp. 138144); in questo panorama l’unico centro di rilievo è Milano, che pur essendo al di fuori di questo raggio di azione,
con una quarantina di esemplari di età romana (I-IV secolo) si pone come centro ricettore importante già in questa
prima fase (BOLLA 1991a, p. 12). La maggiore distribuzione di questi prodotti si registra a partire dal IV-V secolo,
periodo in cui la p.o. comincia a comparire in modo sostanziale nei contesti di scavo, fino a diventare caratteristica e
spesso in percentuali notevoli nei livelli di VIII-X secolo.
Fasi di attestazione in tre contesti diversi:
Torcello. II Piazza (LECIEJEWICZ-TABACZYNSKI-TABACZYNSKA
1977):
L’area occidentale è in genere esclusa dalla commercializzazione di contenitori in talcoscisto, per motivi anche
riferibili alla facilità o meno di raggiungimento dei mercati. Per queste produzioni sembra si sia delineato da subito
l’ambito geografico di distribuzione che ha prediletto la
Padania centro-orientale e la costa veneto-romagnola, oltre
naturalmente tutti i centri della fascia pedemontana (Brescia, Bergamo, Verona e i siti minori) e perilacuale, con
scarsità di attestazioni per il gardesano. I pochi data pubblicati indicano infatti basse percentuali di presenza: 43 frgg.
a Sirmione (BOLLA 1989, pp. 53-55); uno alla Pieve di
Manerba (CARVER-MASSA-BROGIOLO 1982, pp. 237-298); uno
a Ledro (DE VECCHI-ROSSO 1988, pp. 164-165).
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2.3 Le attestazioni in Liguria
La presenza di p.o. in Liguria in contesti di V-VIII secolo merita un discorso a parte in quanto la regione non
risulta inserita integralmente nell’orbita di nessuna delle due
aree di produzione, come invece indicato per le altre regioni settentrionali.
La maggioranza delle attestazioni è relativa ai litotipi F
e G, anche se non indifferenti sono le percentuali di attestazione del tipo C: ad esempio per Ventimiglia (GANDOLFI
1986, pp. 269-302).
Per quanto riguarda i vasi in cloritoscisto i rinvenimenti liguri sembrano presentare un repertorio tipologico più
vario, con confronti anche col materiale vallese, dove le
pentole “a cordoni” non rivestono un ruolo di primo piano
(BOLLA 1991a, p. 17). Inoltre in Val d’Aosta sembra più
utilizzato il tipo F nelle fasi iniziali di produzione, mentre
in Liguria è stata ipotizzato un utilizzo posteriore dello stesso
tipo (BOLLA 1991a, p. 18). Tali dati potrebbero quindi suggerire l’ipotesi di centri di approvvigionamento diversi per
la Liguria (Vallese) rispetto alle importazioni di vasi in cloritoscisto. Questa maggiore importazione di p.o. dalle Alpi
Occidentali si mantiene almeno fino alla metà del VII secolo, quando, dopo la conquista longobarda della regione
(643), diminuiscono notevolmente i tipi F e G ed aumentano sensibilmente i vasi provenienti dalle Alpi Centrali: esempio del decremento del tipo G alla Pieve del Finale (MURIALDO et alii 1986, pp. 221-225)
Presenza del litotipo C in due contesti cronologicamente successivi di Luni (LUSUARDI S IENA-SANNAZZARO
1986, pp. 165-194.
3. LE VIE COMMERCIALI
La capillare distribuzione dei contenitori in p.o. in Italia settentrionale indica innanzitutto la indubbia vitalità degli scambi commerciali intessuti tra i vari centri alpini produttori e i mercati dell’area padana tra V e X secolo. La particolarità del manufatto, la maggiore pesantezza rispetto alla
ceramica, ha indotto a relazionare il commercio di p.o. con lo
sfruttamento delle vie d’acqua più che di quelle terrestri.
La prima distribuzione a livello locale di età romana in
Valtellina e nel Canton Ticino è testimoniata, come visto,
da numerosi ritrovamenti in siti sui grandi laghi prealpini
(BOLLA 1991a, Appendici II e III). La via lacuale è il primo
collegamento sfruttato che facilita la distribuzione di manufatti così pesanti con la navigazione da sponda a sponda.
La stessa cosa avviene nel Vallese svizzero, dove sono noti
alcuni siti sul Lago di Ginevra con rinvenimenti di p.o.. In
entrambe le aree di estrazione e produzione molte indicazioni provengono da centri siti lungo i tratti alpini del Ticino e del Lambro e del Rodano. Probabilmente la vicinanza
del centro di estrazione e della bottega produttrice al fiume
o al lago dava impulso per una prima distribuzione del prodotto a livello locale. La fase successiva di distribuzione
dovrebbe aver sfruttato principalmente le vie fluviali. Il Ticino e il Lambro emissari del Verbano e del Lario dovevano introdurre direttamente in pianura i prodotti delle botteghe alpine; l’inserimento nel Po fungeva poi da definitiva
capillarizzazione del commercio, fino a raggiungere la costa adriatica e, tramite la risalita degli affluenti di destra e
sinistra, le aree più distanti della Padania stessa (cfr. Fig. 1).
La presenza di numerosi porti fluviali è documentata
anche dal Capitolare di Liutprando, concessione del commercio del sale ai Comacchiesi risalente all’inizio dell’VIII
secolo. Il Capitolare ricorda i più importanti porti fluviali
in cui i Comacchiesi dovevano pagare dazi e tasse di
transitura e attracco (MONTANARI 1986, p. 465): «“porto
Mantuano”; capo Mincio”; “porto Brixianus”; “porto qui
vocatur Cremona”; “porto qui appellatur Parmisiano”; “porto qui dicitur Addua”; “porto qui dicitur Lambro e
Placentia”». È quindi testimoniata un’ampia organizzazione
anche a livello strutturale di traffici a scopo commerciale.
Nell’ambito dello sfruttamento delle vie fluviali per il
commercio, è di estremo interesse l’ipotesi dell’utilizzo della
navigazione sul Rodano per l’esportazione di p.o. dal Vallese
alla Liguria (BOLLA 1991a, p. 18). La presenza di questi tipi
può essere motivata da almeno due fattori: 1) la mancanza
di strade di collegamento agevoli che potessero mettere facilmente in contatto la Val d’Aosta e il Piemonte con la costa tirrenica; 2) dal 569 il Piemonte e nelle mani dei Longobardi, mentre la Liguria rimane sotto il controllo bizantino
fino al 643. E’ facile pensare che si dovette creare, almeno
nella prima fase di conquista, un confine invalicabile tra le
due regioni, che rese impossibile qualsiasi scambio commerciale tra la costa e l’entroterra. Nei siti liguri tra V e VII
secolo i materiali sono rappresentati per la maggior parte
da anforacei, sigillate, invetriate di importazione dal centro-sud Italia, a testimonianza del quasi esclusivo ricorso
alle importazioni marittime. In questo ambito dovrebbero
inserirsi le alte percentuali di presenza di p.o. dei gruppi F e
G. Sembra funzionale a questo quadro la possibilità di sfruttare il corso del Rodano per esportare i cloritoscisti fino
alla costa tirrenica. Molti sono i centri lungo il primo tratto
del fiume che hanno restituito p.o., testimonianze esistono
anche alla foce e sulla costa provenzale. Da qui i materiali,
attraverso una navigazione di piccolo cabotaggio potevano
raggiungere i centri costieri (cfr. Fig. 1). La via marittima
dovette essere utilizzata anche sulla costa veneto-romagnola.
I rinvenimenti in centri costieri può suggerire un passaggio
dal Po al mare, e dalla costa alle città più importanti: Venezia (ARDIZZON 1991, pp. 198-297); Comacchio, Ravenna,
Classe (GELICHI 1987, pp. 201-213).
I rinvenimenti in aree del centro-sud Italia, sempre più
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Fig. 1 – Indicazione delle possibili vie d’acqua sfruttate per la distribuzione della p.o. in Italia settentrionale. Sono stati indicati i siti
interessati dalle importazioni attraverso il Rodano e quelli dell’area padana considerati per la trattazione della sintesi.
numerosi, sembrano necessariamente legati allo sfruttamento delle vie marittime (cfr. Fig. 2) e probabilmente relativi
ad una ricommercializzazione del manufatto. Gli esemplari
rinvenuti sulla costa tirrenica potrebbero riferirsi ai rapporti
commerciali che i Bizantini mantengono nel bacino fino al
VII sec.: i pezzi di Napoli (VI sec.) (ARTHUR 1994, pp. 351352) potrebbero indicare i rapporti tra la costa ligure e la Campania, probabilmente già testimoniati dalla presenza di invetriate meridionali in Liguria. In livelli di VIII-X/XI sec. la p.o.
rinvenuta sulla costa abruzzese e molisana (STAFFA 1991, pp.
354-359; HODGES-WICKHAM 1981, PP. 495), probabilmente legata ad una più duratura presenza bizantina sull’Adriatico.
4. RAPPORTO TRA PIETRA OLLARE E CLASSI
CERAMICHE
Ho preso in esame le edizioni di scavo che restituiscono
dati abbastanza esaustivi sui materiali anche dal punto di vista
delle percentuali di attestazione. Ho tentato di confrontare
percentualmente la presenza di p.o. e delle classi ceramiche
che fungono da contenitori da fuoco e/o da mensa, come le
grezze (indicate alcune volte come comuni, somma di impasti grezzi e depurati) e le invetriate. Lo scopo è di creare
un quadro cronologicamente valido che comprenda scavi
pluristratificati, per delineare la relazione tra la maggiore o
minore presenza di p.o. rispetto alla presenza di classi ceramiche con stesse funzioni. Il lavoro presentato risulta assolutamente parziale, anche per la difficoltà di estrapolare dati quantitativi in relazione alle fasi in molte delle pubblicazioni di scavo. L’edizione di indagini come quelle di Brescia, S.Giulia e di
Verona, Cortile del Tribunale, darà un’indicazione valida a
questa impostazione come già altri importanti scavi (Milano,
MM3; Monte Barro; e in genere i siti Liguri). Ciò che propongo è quindi solo una ipotesi di lavoro che avrà valore solo
dopo una più ampia visione dei dati.
Analizzando e confrontando le attestazioni è possibile
evidenziare casi perticolari di presenza, legati al contesto
socio-economico del sito. S.Antonino di Perti (SV), sito
militare fortificato, datato tra VI e VII secolo (BONORA et
alii 1988, pp. 335-396), registra una pressochè totale presenza di materiale importato, così come suggerisce la sua
posizione strategica, costiera, con alle spalle il regno longobardo che impedisce relazioni commerciali con l’interno.
L’importazione avviene pure per i contenitori da fuoco,
come dimostra il 43% di p.o. rispetto al 4,3% di grezza locale. Questo dato va confrontato con le percentuali di attestazione di ceramica grezza di siti continentali della stessa
fase, dove la classe ceramica raggiunge percentuali intorno
all’80%. In quei centri la produzione di ceramica da fuoco
è, dal VII secolo, la più rilevante, in un contesto di forte
restringimento della circolazione di ceramiche fini e di riorganizzazione a livello locale delle produzioni da cucina,
rispetto alla diminuzione delle attestazioni di ceramica invetriata e alle importazioni, pur notevoli di p.o. In area padana Milano, durante l’altomedioevo, è un centro recettore
di commerci a media e lunga distanza. Lo scavo di Piazza
Duomo ha indicato fasi diverse di attestazione con presenze percentuali così ricavabili (cfr. i materiali in MM3):
PDIV (tardoantico): comune = 73,5%; p.o. = 5,2%; invetriata = 21,3%
PDV (altomedioevo); comune = 58,1%; p.o. = 17,1%; invetriata = 24,8%
Tra le due fasi, ad una invariata percentuale di invetriata,
si registra una forte crescita di p.o. più o meno corrispondente
alla variazione di ceramica comune. Il passaggio all’altomedioevo sembra registrare un aumento di importazioni di manufatti da fuoco dall’arco alpino e quindi un decremento della richiesta locale o a livello regionale delle grezze.
Tre siti cronologicamente analoghi possono essere confrontati: Belmonte (V-VII sec.) (PANTÒ 1996, pp. 101-107);
Monte Barro (V-VI sec.) (i materiali in BROGIOLO-CASTELLETTI
1991); Lomello, buca 203 (VI sec.) (BLAKE et alii 1987, pp.
157-187):
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Fig. 2 – Rinvenimenti in siti del centro e sud Italia e possibili
traffici via mare. 1) Pisa; 2) Firenze; 3) Scarlino; 4) Talamonaccio;
5) Roma; 6) Napoli; 7) Atri; 8) Pianella; 9) Pescara; 10) Vetrana;
11) S.Vincemzo al Volturno; 12) Canosa; 13) Otranto; 14) Ugento.
Belmonte: grezza = 84,8%; p.o. = 6,5%; invetriata = 7,6%;
fine = 1,1%
Monte Barro: grezza = 83,2%; p.o.= 4%; inv. = 12,4%; importata 0,4%.
Lomello. Buca 203. Inizio VI secolo.
Nei primi due contesti la grezza supera l’80%, per Lomello la somma delle grezze e delle ceramiche depurate arriva
all’82,2%. Rispetto a questi valori la p.o. si aggira intorno al 46%, in relazione però ad una notevole presenza di invetriata
(l’1% di Lomello potrebbe essere dovuto al contesto particolare di riempimento dove sono presenti anche molti residui).
In centri con seriazioni cronologiche più ampie, come Sirmione (VI-X sec.) (BROGIOLO-LUSUARDI SIENA-SESINO 1989), e più
tardi, come S. Agata bolognese (X-XI sec.) (inedito; prima
campagna) le percentuali di ceramica grezza rimangono sui
valori precedenti, mentre la p.o. aumenta notevolmente (17%
e 13%) rispetto ad una pressoché totale assenza di invetriate:
Sirmione: grezza = 79%; p.o.17%; inv. = 0,8%; altre 3,2%.
S. Agata bol.: grezza = 85%; p.o. = 13%; inv. = 0,6%; depurata = 1,4%
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