A. ALBERTI, Produzione e commercializzazione della pietra
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A. ALBERTI, Produzione e commercializzazione della pietra
PRODUZIONE E COMMERCIALIZZAZIONE DELLA PIETRA OLLARE IN ITALIA SETTENTRIONALE TRA TARDOANTICO E ALTOMEDIOEVO di ANTONIO ALBERTI INTRODUZIONE Tra tardoantico e altomedioevo la pietra ollare (p.o.) è un materiale d’uso comune presente sia in contesti urbani che rurali, a conferma del successo che il manufatto dovette avere in quei secoli. Le sempre più numerose edizioni di scavo concernenti l’altomedioevo hanno incluso lo studio dettagliato dei reperti di pietra ollare, delineando l’evoluzione tecnica e tipologica di tali contenitori. In questo ambito l’individuazione dei centri di estrazione della pietra sull’arco alpino ha contribuito ad evidenziare la capillare distribuzione dei lavezzi, che copre un’area geografica che include l’intera Pianura Padana, la Liguria, la costa nordadriatica. Le analisi petrografiche, con la precisazione delle componenti e tramite confronti con aree di estrazione note, individuano la possibile provenienza dell’esemplare analizzato. Lo stato avanzato degli studi, soprattutto per quanto riguarda il tipo e la tecnica di lavorazione, induce a rivolgere l’interesse sull’aspetto economico-commerciale della p.o., comprendente il passaggio estrazione-produzione-commercializzazione, in un arco cronologico caratterizzato tradizionalmente dalla diminuzione degli scambi a lungo raggio. In questo breve contributo vorrei soffermarmi esclusivamente sull’aspetto commerciale della produzione di p.o., delineando un quadro, necessariamente parziale, che comprenda la cronologia degli scambi, le aree di contatto privilegiate rispetto ai diversi centri di produzione, i confronti quantitativi tra i manufatti in pietra ollare e le classi ceramiche assimilabili (ceramica comune, ceramica invetriata). 1. CENTRI DI ESTRAZIONE E PRODUZIONE Per le caratteristiche tipologiche e tecniche di questi manufatti da fuoco e da mensa rimando alle più importanti pubblicazioni riguardanti l’argomento (MANNONI-MESSIGA 1980, pp. 501-522; Atti Como; Atti Finale; BOLLA 1991a, pp. 11-37). Distinguo brevemente i litotipi individuati, caratteristici per la loro alta lavorabilità a mano e al tornio: i tipi grigio chiaro a base di talco, carbonati e clorite appartengono ai gruppi B, C, D, E; i tipi verdi a base di cloriti ai gruppi F e G; i verde chiaro a base di serpentino al gruppo A; altri tipi, piuttosto rari, appartengono ai gruppi H, I, K, L. Le aree di estrazione e di presumibile produzione sono diverse: la Val d’Aosta esportava recipienti in pietra ollare eclusivamente del Gruppo F e G; solo del gruppo F per la Val di Lanzo in Piemonte; l’area della Valtellina e della Val Bregaglia produceva manufatti del gruppo C e D; nelle valli dei Ticino e del Toce si producevano prodotti dei gruppi A, B, E, H. La prima utilizzazione dei manufatti in p.o. sembra risalire ad età preromana. Nell’età dei metalli si producevano lucerne e forme per il getto di bronzi, fusaiole e vaghi di collana che furono oggetto di piccoli commerci locali (MANNONI-PFEIFER-SERNEELS 1987, p. 7). È probabilmente la romanizzazione dell’area alpina che crea i presupposti per lo sviluppo della produzione su larga scala, prima con una distribuzione essenzialmente locale o sub-regionale, poi, dal tardo antico, con una commercializzazione extra-regionale. La Val d’Aosta, pur essendo uno dei centri maggiori di produzione manca, per ora, delle attestazioni di età romana, caratteristiche invece di altre zone. Qui le seriazioni stra- tigrafiche delineate nell’area urbana di Aosta confermano una omogenea e capillare diffusione di tali prodotti a partire dall’inizio del IV secolo (MOLLO MEZZENA 1987, pp. 59-114). Le produzioni localizzate nella Svizzera occidentale, caratterizzate ancora dal litotipo F e G, sembrano invece anticipare le botteghe a sud delle Alpi: pur con restituzioni spesso riferibili ad un orizzonte di IV secolo, alcuni siti presentano p.o. di piena età romana (Vicus de Lousanna; Avenches; con livelli di I-III secolo d.C.) (PAUNIER 1987, pp. 47-58). Nelle Alpi centrali lo sfruttamento della p.o, sembra anticipato e ancora legato alla romanizzazione dei territori. Nella prima metà del I secolo d.C. la pietra della Valchiavenna è utilizzata anche per la produzione, mediante escavazione, di contenitori (cofani con coperchio) di corredi funebri, che compaiono a Chiavenna e a Como (BOLLA 1991a, p. 11). Durante il I-II secolo si registra un aumento di testimonianze ma sempre in zone non lontane da quelle di estrazione e lavorazione, comunque perilacuali, indicando nell’acqua una via privilegiata per la diffusione di questo pesante materiale: ne sono prova le testimonianze di epoca romana del comasco (NOBILE 1987, pp. 135-144), mentre risultano una eccezione la quarantina di esemplari di età imperiale rinvenuti negli scavi milanesi. Il notevole aumento della produzione di questi manufatti si avrà soprattutto a partire dal V-VI secolo, come testimoniano le sempre più numerose attestazioni in area padana. La commercializzazione dei prodotti continuerà per tutto il medioevo, riducendosi poi, ancora una volta, a fenomeno soprattutto locale fino al XIX secolo con la produzione di stufe. 2. PRODUZIONE E DIFFUSIONE 2.1 La produzione delle Alpi centro-occidentali I contenitori in p.o. appartenenti ai gruppi petrografici G e F, caratteristici per il loro colore verde, trovano una distribuzione capillare intorno alle aree di estrazione (Val d’Aosta, Vallese), in Piemonte e in Liguria, sulla costa provenzale. Analizzando più attentamente le restituzioni italiane, in quest’area la p.o. verde è in generale attestata con percentuali oltre il 90% rispetto agli altri litotipi, quando non è esclusiva; in Liguria è in larga maggioranza fino almeno al VII secolo, quando i tipi grigi delle Alpi centrali cominciano ad apparire in percentuali più alte. La p.o. dei gruppi G e F (cloritoscisti) compare pure in almeno tutti i centri maggiori della pianura padana centroorientale; esemplari isolati sono attestati anche sulla costa alto-adriatica. In questi casi, però, le percentuali di attestazione sono molto basse rispetto alla presenza dei tipi grigi (talcoscisti): a Lomello il 5,2%; a Milano il 4,7%; a Castelseprio l’1,8%; nel sito di Monte Barro il 6,3%; a Brescia il 5,7%. La cronologia di attestazione in questi siti è piuttosto omogenea: a Lomello la buca 203 è datata intorno al 500 d.C. (BLAKE et alii, 1987, pp. 157-187); a Milano i tipi individuati negli scavi MM3 rimandano prevalentemente al VI secolo (BOLLA 1991a, p. 17); l’insediamento di Monte Barro è datato tra la metà del V e al metà del VI secolo (BOLLA 1991b, pp. 95-99); ad Angera i tipi verdi sono presenti prevalentemente in contesti della metà del V secolo (BOLLA 1991a, p. 17); solo Brescia (S. Giulia) ha restituito la quasi totalità delle attestazioni di cloritoscisti nella fase IIIb (metà VI-metà VIII secolo), mentre nella fase precedente essi non sono presenti (in corso di studio da parte delle scrivente). La cronologia delle prime attestazioni in area centroorientale concorda comunque con le datazioni dei centri occidentali in cui, come già detto, la p.o. del tipo G e F è presente in stragrande maggioranza: Biella (PANTÒ 1992, pp. 150-156), Belmonte (PANTÒ 1996, pp. 101-107), ad esempio, attestano la presenza di p.o. a partire dal V secolo, altri centri come Acqui Terme e Alba dovrebbero rientrare ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 1 in questo arco di tempo. I centri costieri liguri (Ventimiglia, S. Antonino di Perti, Finale, Albenga) cominciano, anch’essi, a registrare presenza di p.o. a partire dal V-VI secolo; solo Luni sembra in ritardo con le attestazioni (pieno VI secolo) (Atti Finale). Sulla base di un quadro generale così delineato sembrerebbe che ad una prima fase di espansione della produzione a livello però solo locale, a partire dal IV secolo (stratigrafie di Aosta), abbia fatto seguito un generale aumento della circolazione di tali manufatti a livello regionale ed extra-regionale, causa ed effetto di un vertiginoso aumento della produzione. Va ricordato che dal V-VI secolo comincia ad essere utilizzato quasi esclusivamente il tornio per la lavorazione della pietra, con l’inevitabile effetto della maggiore velocità nella produzione e maggiore standardizzazione dei pezzi prodotti. I motivi del successo non sono necessariamente legati alla qualità del prodotto, ma piuttosto alla facilità di trasporto o alla facile accessibilità di certe vie di comunicazione dal luogo di produzione, al di là di una iniziale diffusione interregionale da entrambi i centri. La bassa percentuale di presenza di cloritoscisti nei centri padani è da mettere in relazione con il fatto che essa è quasi esclusivamente presente in livelli di V-VI secolo, quando anche i tipi grigi C e D stavano subendo un primo processo di distribuzione notevole. La minore presenza di p.o. valdostana in Val Padana e in alcuni centri pedemontani può avere differenti giustificazioni. La presenza può essere attestata come episodio casuale, dovuto perlopiù alle truppe militari che spostandosi da un capo all’altro del territorio del nord-Italia potevano introdurre in territori anche lontani da quello di produzione i manufatti da loro utilizzati per il fuoco o la mensa. Non escluderei comunque, proprio in relazione alla contemporaneità dell’inizio delle attestazione di p.o. in pianura, un iniziale tentativo di commercializzazione in una zona distante dal centro di produzione, probabilmente sotto l’impulso del grande successo che nello stesso momento i medesimi manufatti stavano avendo nella zona occidentale (Piemonte, Liguria). Milano. Scavo Piazza Duomo (BOLLA 1991a, pp. 29-34): Brescia. S. Giulia (c.s.): L’ambito di distribuzione dei prodotti del gruppo prevalente C si estende alla pianura padana centro-orientale, alla costa veneto-romagnola, alla Liguria. A parte la Liguria caso particolare, la presenza di questa p.o. è capillare con attestazioni oltre il 90% per il gruppo C, con aggiunta, in alcuni centri, di gruppi petrografici più rari: gruppo D, A, E, H; le attestazioni di Brescia sono le seguenti: 2.2 Produzione delle Alpi centrali I tipi grigi, prodotti in Valtellina, in Val Bregaglia, nel Canton Ticino, conoscono una prima diffusione a partire dall’età imperiale: l’area comasca e in genere perilacuale restituisce per quei secoli numerosi esemplari di contenitore in p.o. utilizzati come cinerario (NOBILE 1987, pp. 138144); in questo panorama l’unico centro di rilievo è Milano, che pur essendo al di fuori di questo raggio di azione, con una quarantina di esemplari di età romana (I-IV secolo) si pone come centro ricettore importante già in questa prima fase (BOLLA 1991a, p. 12). La maggiore distribuzione di questi prodotti si registra a partire dal IV-V secolo, periodo in cui la p.o. comincia a comparire in modo sostanziale nei contesti di scavo, fino a diventare caratteristica e spesso in percentuali notevoli nei livelli di VIII-X secolo. Fasi di attestazione in tre contesti diversi: Torcello. II Piazza (LECIEJEWICZ-TABACZYNSKI-TABACZYNSKA 1977): L’area occidentale è in genere esclusa dalla commercializzazione di contenitori in talcoscisto, per motivi anche riferibili alla facilità o meno di raggiungimento dei mercati. Per queste produzioni sembra si sia delineato da subito l’ambito geografico di distribuzione che ha prediletto la Padania centro-orientale e la costa veneto-romagnola, oltre naturalmente tutti i centri della fascia pedemontana (Brescia, Bergamo, Verona e i siti minori) e perilacuale, con scarsità di attestazioni per il gardesano. I pochi data pubblicati indicano infatti basse percentuali di presenza: 43 frgg. a Sirmione (BOLLA 1989, pp. 53-55); uno alla Pieve di Manerba (CARVER-MASSA-BROGIOLO 1982, pp. 237-298); uno a Ledro (DE VECCHI-ROSSO 1988, pp. 164-165). ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 2 2.3 Le attestazioni in Liguria La presenza di p.o. in Liguria in contesti di V-VIII secolo merita un discorso a parte in quanto la regione non risulta inserita integralmente nell’orbita di nessuna delle due aree di produzione, come invece indicato per le altre regioni settentrionali. La maggioranza delle attestazioni è relativa ai litotipi F e G, anche se non indifferenti sono le percentuali di attestazione del tipo C: ad esempio per Ventimiglia (GANDOLFI 1986, pp. 269-302). Per quanto riguarda i vasi in cloritoscisto i rinvenimenti liguri sembrano presentare un repertorio tipologico più vario, con confronti anche col materiale vallese, dove le pentole “a cordoni” non rivestono un ruolo di primo piano (BOLLA 1991a, p. 17). Inoltre in Val d’Aosta sembra più utilizzato il tipo F nelle fasi iniziali di produzione, mentre in Liguria è stata ipotizzato un utilizzo posteriore dello stesso tipo (BOLLA 1991a, p. 18). Tali dati potrebbero quindi suggerire l’ipotesi di centri di approvvigionamento diversi per la Liguria (Vallese) rispetto alle importazioni di vasi in cloritoscisto. Questa maggiore importazione di p.o. dalle Alpi Occidentali si mantiene almeno fino alla metà del VII secolo, quando, dopo la conquista longobarda della regione (643), diminuiscono notevolmente i tipi F e G ed aumentano sensibilmente i vasi provenienti dalle Alpi Centrali: esempio del decremento del tipo G alla Pieve del Finale (MURIALDO et alii 1986, pp. 221-225) Presenza del litotipo C in due contesti cronologicamente successivi di Luni (LUSUARDI S IENA-SANNAZZARO 1986, pp. 165-194. 3. LE VIE COMMERCIALI La capillare distribuzione dei contenitori in p.o. in Italia settentrionale indica innanzitutto la indubbia vitalità degli scambi commerciali intessuti tra i vari centri alpini produttori e i mercati dell’area padana tra V e X secolo. La particolarità del manufatto, la maggiore pesantezza rispetto alla ceramica, ha indotto a relazionare il commercio di p.o. con lo sfruttamento delle vie d’acqua più che di quelle terrestri. La prima distribuzione a livello locale di età romana in Valtellina e nel Canton Ticino è testimoniata, come visto, da numerosi ritrovamenti in siti sui grandi laghi prealpini (BOLLA 1991a, Appendici II e III). La via lacuale è il primo collegamento sfruttato che facilita la distribuzione di manufatti così pesanti con la navigazione da sponda a sponda. La stessa cosa avviene nel Vallese svizzero, dove sono noti alcuni siti sul Lago di Ginevra con rinvenimenti di p.o.. In entrambe le aree di estrazione e produzione molte indicazioni provengono da centri siti lungo i tratti alpini del Ticino e del Lambro e del Rodano. Probabilmente la vicinanza del centro di estrazione e della bottega produttrice al fiume o al lago dava impulso per una prima distribuzione del prodotto a livello locale. La fase successiva di distribuzione dovrebbe aver sfruttato principalmente le vie fluviali. Il Ticino e il Lambro emissari del Verbano e del Lario dovevano introdurre direttamente in pianura i prodotti delle botteghe alpine; l’inserimento nel Po fungeva poi da definitiva capillarizzazione del commercio, fino a raggiungere la costa adriatica e, tramite la risalita degli affluenti di destra e sinistra, le aree più distanti della Padania stessa (cfr. Fig. 1). La presenza di numerosi porti fluviali è documentata anche dal Capitolare di Liutprando, concessione del commercio del sale ai Comacchiesi risalente all’inizio dell’VIII secolo. Il Capitolare ricorda i più importanti porti fluviali in cui i Comacchiesi dovevano pagare dazi e tasse di transitura e attracco (MONTANARI 1986, p. 465): «“porto Mantuano”; capo Mincio”; “porto Brixianus”; “porto qui vocatur Cremona”; “porto qui appellatur Parmisiano”; “porto qui dicitur Addua”; “porto qui dicitur Lambro e Placentia”». È quindi testimoniata un’ampia organizzazione anche a livello strutturale di traffici a scopo commerciale. Nell’ambito dello sfruttamento delle vie fluviali per il commercio, è di estremo interesse l’ipotesi dell’utilizzo della navigazione sul Rodano per l’esportazione di p.o. dal Vallese alla Liguria (BOLLA 1991a, p. 18). La presenza di questi tipi può essere motivata da almeno due fattori: 1) la mancanza di strade di collegamento agevoli che potessero mettere facilmente in contatto la Val d’Aosta e il Piemonte con la costa tirrenica; 2) dal 569 il Piemonte e nelle mani dei Longobardi, mentre la Liguria rimane sotto il controllo bizantino fino al 643. E’ facile pensare che si dovette creare, almeno nella prima fase di conquista, un confine invalicabile tra le due regioni, che rese impossibile qualsiasi scambio commerciale tra la costa e l’entroterra. Nei siti liguri tra V e VII secolo i materiali sono rappresentati per la maggior parte da anforacei, sigillate, invetriate di importazione dal centro-sud Italia, a testimonianza del quasi esclusivo ricorso alle importazioni marittime. In questo ambito dovrebbero inserirsi le alte percentuali di presenza di p.o. dei gruppi F e G. Sembra funzionale a questo quadro la possibilità di sfruttare il corso del Rodano per esportare i cloritoscisti fino alla costa tirrenica. Molti sono i centri lungo il primo tratto del fiume che hanno restituito p.o., testimonianze esistono anche alla foce e sulla costa provenzale. Da qui i materiali, attraverso una navigazione di piccolo cabotaggio potevano raggiungere i centri costieri (cfr. Fig. 1). La via marittima dovette essere utilizzata anche sulla costa veneto-romagnola. I rinvenimenti in centri costieri può suggerire un passaggio dal Po al mare, e dalla costa alle città più importanti: Venezia (ARDIZZON 1991, pp. 198-297); Comacchio, Ravenna, Classe (GELICHI 1987, pp. 201-213). I rinvenimenti in aree del centro-sud Italia, sempre più ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 3 Fig. 1 – Indicazione delle possibili vie d’acqua sfruttate per la distribuzione della p.o. in Italia settentrionale. Sono stati indicati i siti interessati dalle importazioni attraverso il Rodano e quelli dell’area padana considerati per la trattazione della sintesi. numerosi, sembrano necessariamente legati allo sfruttamento delle vie marittime (cfr. Fig. 2) e probabilmente relativi ad una ricommercializzazione del manufatto. Gli esemplari rinvenuti sulla costa tirrenica potrebbero riferirsi ai rapporti commerciali che i Bizantini mantengono nel bacino fino al VII sec.: i pezzi di Napoli (VI sec.) (ARTHUR 1994, pp. 351352) potrebbero indicare i rapporti tra la costa ligure e la Campania, probabilmente già testimoniati dalla presenza di invetriate meridionali in Liguria. In livelli di VIII-X/XI sec. la p.o. rinvenuta sulla costa abruzzese e molisana (STAFFA 1991, pp. 354-359; HODGES-WICKHAM 1981, PP. 495), probabilmente legata ad una più duratura presenza bizantina sull’Adriatico. 4. RAPPORTO TRA PIETRA OLLARE E CLASSI CERAMICHE Ho preso in esame le edizioni di scavo che restituiscono dati abbastanza esaustivi sui materiali anche dal punto di vista delle percentuali di attestazione. Ho tentato di confrontare percentualmente la presenza di p.o. e delle classi ceramiche che fungono da contenitori da fuoco e/o da mensa, come le grezze (indicate alcune volte come comuni, somma di impasti grezzi e depurati) e le invetriate. Lo scopo è di creare un quadro cronologicamente valido che comprenda scavi pluristratificati, per delineare la relazione tra la maggiore o minore presenza di p.o. rispetto alla presenza di classi ceramiche con stesse funzioni. Il lavoro presentato risulta assolutamente parziale, anche per la difficoltà di estrapolare dati quantitativi in relazione alle fasi in molte delle pubblicazioni di scavo. L’edizione di indagini come quelle di Brescia, S.Giulia e di Verona, Cortile del Tribunale, darà un’indicazione valida a questa impostazione come già altri importanti scavi (Milano, MM3; Monte Barro; e in genere i siti Liguri). Ciò che propongo è quindi solo una ipotesi di lavoro che avrà valore solo dopo una più ampia visione dei dati. Analizzando e confrontando le attestazioni è possibile evidenziare casi perticolari di presenza, legati al contesto socio-economico del sito. S.Antonino di Perti (SV), sito militare fortificato, datato tra VI e VII secolo (BONORA et alii 1988, pp. 335-396), registra una pressochè totale presenza di materiale importato, così come suggerisce la sua posizione strategica, costiera, con alle spalle il regno longobardo che impedisce relazioni commerciali con l’interno. L’importazione avviene pure per i contenitori da fuoco, come dimostra il 43% di p.o. rispetto al 4,3% di grezza locale. Questo dato va confrontato con le percentuali di attestazione di ceramica grezza di siti continentali della stessa fase, dove la classe ceramica raggiunge percentuali intorno all’80%. In quei centri la produzione di ceramica da fuoco è, dal VII secolo, la più rilevante, in un contesto di forte restringimento della circolazione di ceramiche fini e di riorganizzazione a livello locale delle produzioni da cucina, rispetto alla diminuzione delle attestazioni di ceramica invetriata e alle importazioni, pur notevoli di p.o. In area padana Milano, durante l’altomedioevo, è un centro recettore di commerci a media e lunga distanza. Lo scavo di Piazza Duomo ha indicato fasi diverse di attestazione con presenze percentuali così ricavabili (cfr. i materiali in MM3): PDIV (tardoantico): comune = 73,5%; p.o. = 5,2%; invetriata = 21,3% PDV (altomedioevo); comune = 58,1%; p.o. = 17,1%; invetriata = 24,8% Tra le due fasi, ad una invariata percentuale di invetriata, si registra una forte crescita di p.o. più o meno corrispondente alla variazione di ceramica comune. Il passaggio all’altomedioevo sembra registrare un aumento di importazioni di manufatti da fuoco dall’arco alpino e quindi un decremento della richiesta locale o a livello regionale delle grezze. Tre siti cronologicamente analoghi possono essere confrontati: Belmonte (V-VII sec.) (PANTÒ 1996, pp. 101-107); Monte Barro (V-VI sec.) (i materiali in BROGIOLO-CASTELLETTI 1991); Lomello, buca 203 (VI sec.) (BLAKE et alii 1987, pp. 157-187): ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 4 Fig. 2 – Rinvenimenti in siti del centro e sud Italia e possibili traffici via mare. 1) Pisa; 2) Firenze; 3) Scarlino; 4) Talamonaccio; 5) Roma; 6) Napoli; 7) Atri; 8) Pianella; 9) Pescara; 10) Vetrana; 11) S.Vincemzo al Volturno; 12) Canosa; 13) Otranto; 14) Ugento. Belmonte: grezza = 84,8%; p.o. = 6,5%; invetriata = 7,6%; fine = 1,1% Monte Barro: grezza = 83,2%; p.o.= 4%; inv. = 12,4%; importata 0,4%. Lomello. Buca 203. Inizio VI secolo. Nei primi due contesti la grezza supera l’80%, per Lomello la somma delle grezze e delle ceramiche depurate arriva all’82,2%. Rispetto a questi valori la p.o. si aggira intorno al 46%, in relazione però ad una notevole presenza di invetriata (l’1% di Lomello potrebbe essere dovuto al contesto particolare di riempimento dove sono presenti anche molti residui). In centri con seriazioni cronologiche più ampie, come Sirmione (VI-X sec.) (BROGIOLO-LUSUARDI SIENA-SESINO 1989), e più tardi, come S. Agata bolognese (X-XI sec.) (inedito; prima campagna) le percentuali di ceramica grezza rimangono sui valori precedenti, mentre la p.o. aumenta notevolmente (17% e 13%) rispetto ad una pressoché totale assenza di invetriate: Sirmione: grezza = 79%; p.o.17%; inv. = 0,8%; altre 3,2%. S. Agata bol.: grezza = 85%; p.o. = 13%; inv. = 0,6%; depurata = 1,4% BIBLIOGRAFIA ARDIZZON V. 1991, Recipienti in pietra ollare. S. Pietro di Castello (Venezia). Campagne di scavo 1989, «Quaderni di Archeologia del Veneto», VII, pp. 198-207. ARTHUR P. 1994, I vasi in pietra, in ARTHUR P. (a cura di), Il complesso archeologico di Carminiello ai Mannesi, Napoli (Scavi 1983-1984). Atti Como = La pietra ollare dalla preistoria all’età moderna, Atti del Convegno, Como 16-17 ottobre 1982, (Archeologia dell’Italia Settentrionale, 5), Como, 1987. 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