49 Vergano Andrea_Tema 2

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49 Vergano Andrea_Tema 2
Ritagli nel tempo. Il presente del piano e lo spazio della comunità
di Andrea Vergano*
“Time present and time past
Are both perhaps present in time future,
And time future contained in time past.
If all time is eternally present
All time is unredeemable ...”
T. S. Eliot, Four Quartets, 1942.
Per diversi autori quella attuale può essere considerata l'epoca dello spazio. Il simultaneo e l'istantaneo
dilatano le nostre esperienze spaziali riducendo sempre di più quelle temporali. Il risparmio di tempo che ne
risulta diventa funzionale all'uso estensivo dello spazio e al conseguente spreco di suolo. In questo contesto
anche il discorso urbanistico (troppo spesso posto come condizione rimediale rispetto agli effetti indesiderati
del progresso) rischia di essere condizionato dalla dittatura del presente, perdendo la capacità di esplorare il
tempo nelle sue differenti profondità: di rimettere in gioco il passato sulla base di una idea di futuro che
tenga in conto le nuove generazioni. Solo una diversa considerazione del tempo può forse tornare a
condizionare il presente, svelando valori inattuali sui quali costruire un discorso sul futuro che opponga
resistenza ai processi di omologazione e svalutazione dei luoghi.
A partire da questa premessa il contributo si interroga sulla nozione plurale di 'tempo', ripercorrendo alcuni
'luoghi comuni' del discorso urbanistico, posti, sullo sfondo delle generazioni urbanistiche, all'incrocio tra
regolazione/suddivisione e articolazione/condivisione dello spazio.
1. Vecchi paradigmi e pratiche nuove
Nella presentazione del libro di Giuseppe Campos Venuti, La terza generazione dell'urbanistica, Bernardo
Secchi avanza l'ipotesi che la lettura generazionale dell'urbanistica italiana del secondo dopoguerra non sia
«solo una periodizzazione», relativa al riconoscimento di alcuni grandi periodi della storia urbana, ma sia
anche riconducibile ad «una particolare idea di progresso» del sapere disciplinare, dove «ciò che viene dopo
non falsifica ciò che esiste, ma si dimostra entro precise condizioni contestuali, più “adeguato” di quanto
precede. In ciò consiste il carattere cumulativo del progresso nello specifico campo dell'urbanistica» (Secchi
1989). Ogni generazione rifluirebbe nell'altra, portandosi dietro qualcosa di quella che la precede, nel modo
di riconoscere i problemi, di proporre soluzioni e di formulare risposte. Questa caratterizzazione
generazionale del discorso implicherebbe lo svolgersi di «una progressione lineare e cumulativa di tecniche
conoscitive», che tuttavia rischia di mostrarsi priva di quei fondamenti che possano preservare tale discorso
dalla costante «minaccia di contraddizioni e paradossi» (Gargani 1974). È - a mio avviso - proprio questa
continua esposizione al rischio della contraddizione e del paradosso a rendere il discorso generazionale un
utile strumento di esplorazione delle questioni urbane e dei riflessi descrittivi e normativi che queste possono
avere nel governo del territorio. Attraverso la lettura generazionale è forse ancora possibile - parafrasando
Cristina Bianchetti - «riposizionare il discorso urbanistico nel mondo», sapendone «cogliere gli elementi di
sfrido, le contraddizioni, i paradossi» (Bianchetti 2011).
In questa prospettiva il 'paesaggio' generazionale si problematizza. Nel succedersi delle generazioni si
alternano e sovrappongono fasi in cui la città e di conseguenza gli sguardi disciplinari si ripiegano su se
stessi (ricostruzione e trasformazione) e fasi in cui si dispiegano sul territorio (espansione e
metropolizzazione), con le relative vicende dell'alternarsi di rendite differenziali e assolute. Soprattutto in
questi ultimi anni la città è stata allo stesso tempo soggetta a consistenti pressioni centripete, che ne hanno
accresciuto l’immagine e il ruolo nelle geografie dell’economia globale, e a pressioni centrifughe, che hanno
alimentato l’immaginario della fine della città o della fuga dalla città.
È però nel passaggio tra la seconda e la terza generazione - dalla espansione alla trasformazione urbana - che
mi sembra possibile cogliere una più significativa incrinatura della logica cumulativa del sapere disciplinare.
Una incrinatura che, sullo sfondo della deregulation, si può inscrivere - come coglie Secchi - «entro la
pervasiva critica della ragione, dei fondamenti e delle teorie». Il prefisso post, che investe la modernità e i
suoi processi, indica una radicale discontinuità con gli statuti e i fondamenti disciplinari ereditati: «il sapere
cambi[a] di statuto nel momento in cui le società entrano nell'età detta postindustriale e le culture nell'età
detta postmoderna» (Lyotard 1979). Un passaggio iniziato alla fine della fase della ricostruzione, ma che in
Italia si manifesta in tutta la sua evidenza a conclusione della fase di espansione urbana e della crisi
industriale e occupazionale del Paese. È il venire meno delle grandi narrazioni legittimanti che hanno
accompagnato tutta la modernità e di cui l’urbanistica si è abbondantemente nutrita. All'euforia espansiva del
miracolo economico, subentra l'incertezza riflessiva determinata dalle metamorfosi della crisi multiforme
economica, finanziaria, politica. Il prefisso post, collocato sull'orlo della globalizzazione e della
metropolizzazione, allude allora anche alla possibilità della perdita, in cui ad essere messa in discussione
risulta essere la stessa «nozione di città» (Gregotti 2011).
Nella riflessione disciplinare più attenta il 'dopo' sfugge all'idea di accumulazione intesa come progresso e
alla tentazione ingenua di fondazione di nuovi paradigmi. Il sapere si costruisce piuttosto come una
collezione di nuove pratiche, in cui riaffiorano pezzi di vecchi paradigmi combinati in maniera creativa e
intuitiva, in un dialogo costante con il contesto. Viene riabilitato un tempo ricorsivo, che si riflette e ripiega
sullo sfondo di ciò che già esiste: «ricuperare, riprogettare, riscrivere, rivitalizzare, ripetere ...». Un
atteggiamento «che privilegia gli aspetti del ripercorrimento, riferimento-riadattamento, critico ma
ermeneutico, della stratificazione del già scritto, della cosa esistente come palinsesto» (Terranova 1993).
2. Figure del mosaico. Regolazione e suddivisione
La crescente consapevolezza della finitezza delle risorse e la progressiva smaterializzazione del processo
produttivo hanno portato la disciplina, a partire dagli ultimi decenni del '900, a riposizionare lo sguardo sulle
forme della città esistente, spostando l'attenzione dall'espansione ai temi della conservazione e della
trasformazione urbana. Nel passaggio dalla seconda alla terza generazione urbanistica si ridefiniscono i
rapporti tra gli strumenti di regolazione dello spazio. L'utilità dimostrata dal piano di zonizzazione nella
gestione della normalità del mutamento, attraverso la regolazione dell'uso del suolo, appare inadeguata di
fronte ai temi posti dalla trasformazione urbana (Macchi Cassia 1991). Diversamente dal piano, il progetto
urbano risolve le incertezze del futuro prefigurando una soluzione determinata che circoscrive, nel tempo e
nello spazio, il campo delle contingenze e dei soggetti. Si tratta nella maggior parte dei casi di saper cogliere
le occasioni di trasformazione offerte dalla storia per riposizionare le città nei contesti allargati della
competizione economica. In una fase di progressiva contrazione delle risorse pubbliche e private (e
soprattutto di svalutazione del patrimonio immobiliare) anche il progetto ridimensiona e ridiscute i propri
obiettivi, allargando il campo dei soggetti e allungando i tempi delle decisioni; mentre la normalità del
mutamento continua ad essere regolata da un piano di zonizzazione, sia pure diversamente nominato.
Nella sua estensione la città metropolizzata è sostanzialmente l'esito non intenzionale e non atteso di una
forma di regolazione dello spazio, sottratta al fluire del tempo, poiché «il piano deve poter escludere il tempo
per poter ordinare lo spazio». Come scrive magistralmente Luigi Mazza le differenti temporalità che
presiedono alla formazione del piano vengono solidificate d'un tratto nel momento della sua adozione, in una
sorta di «presente artificiale del piano»: «il tempo del piano è un presente astratto, definito per legge, che
esiste solo perché la legge ce lo racconta e ce lo descrive, e l'urbanistica è la regola che lo costruisce
fermando per un attimo, comunque lungo, il molteplice flusso delle innumerevoli azioni che attraversano in
ogni momento lo spazio urbano e lo spazio delle decisioni» (Mazza 2004).
Pur con i riconosciuti margini di flessibilità il piano è dunque «la ricerca di una rappresentazione
complessiva in cui finalmente acquietarsi» (Mazza 2004). Questa rappresentazione, che sospende il fluire del
tempo, ha assunto la forma di un mosaico che ha regolato la normalità del mutamento di tutti quei territori
sottratti al progetto di trasformazione. Il mosaico costituisce «una sorta di grande catasto in cui passato e
futuro sono ricondotti a quello che lo Stato - che dà al piano valore di legge - considera il suo presente, una
regola generale per ordinare gli usi del suolo nello spazio» (Mazza 2004). Il presente del mosaico dei piani
(di tutti i piani comunali) ha rappresentato nel tempo la principale forma di regolazione di area vasta, estesa
su tutto il territorio nazionale, su cui la città ha progressivamente perso forma. Una figura formata
dall'accostamento di zone territoriali omogenee, con alcune tessere venute a mancare nel corso del tempo (i
vincoli preordinati all'esproprio che avrebbero dovuto garantire la dotazione di standard di servizi), altre
sostituite, altre ancora opacizzate dal tempo stesso. Sulla sfondo di questa figura la città metropolizzata si
presenta come una «totalità sparpagliata» (Nancy 1999). La comunità (intesa come amministrazione della
cosa pubblica) esercita la sua autorità su uno spazio teoricamente ancora rappresentabile nelle due
dimensioni del piano, attraverso la «definizione istituzionale di confini» (Mazza 2004). Ma «la città non è
uno Stato» (Nancy 1999). La città deborda al di là dei confini istituzionali: esito visibile del dissolversi dello
spazio di rappresentanza della politica.
3. Mosaico senza figure. Articolazione e condivisione
Sullo sfondo del mosaico si sono dispiegati sguardi curiosi che hanno interrogato i diversi modi di articolarsi
della società nello spazio. «L'articolazione non è l'organizzazione», dice Nancy: privata di finalità e obiettivi,
essa è sottratta alle strategie della logica strumentale. «In se stessa l'articolazione non è che la giuntura o
meglio il gioco della giuntura: quel che ha luogo dove i diversi pezzi si toccano senza confondersi, dove
scivolano, ruotano e si capovolgono l'un l'altro, l'uno al limite dell'altro» (Nancy 1986-90). È proprio questo
gioco della giuntura che può riaprire il discorso sulla città: intesa come luogo dell'interazione, o meglio
dell'alterità, dove una pluralità di voci (poco importa se incomprensibili come nella Marrakech di Canetti)
coesiste. Nel gioco delle articolazioni il limite non è più ciò che «identifica separando» - come ad esempio il
tracciamento istituzionale dei confini - ma ciò che «mette in rapporto differenziando» (Esposito 1988).
Sul limite di questo 'gioco' si rendono possibili alcune riletture che permettono di recuperare categorie poste
ai margini del discorso disciplinare (e forse anche per questo implicate con le categorie dell'impolitico) come
quella di 'comunità': G. Paba che ritrova, ai margini dell'urbano, la comunità insorgente, rileggendo L.
Mumford; J.L. Nancy e R. Esposito che riscoprono, ai margini del politico, la comunità inoperosa,
rileggendo G. Bataille. Verrebbe quasi da dire che il carattere insorgente della comunità risiede oggi forse
proprio nella sua inoperosità: nel sapersi negare all'intenzionalità del progetto e alla condivisione forzata
dell'operato comune.
È forse la lettura di J.L. Nancy che ci porta più lontano. Svuotata di ogni riferimento ideologico la comunità
si presenta al nostro tempo come esposizione dell'alterità: ossia come «essere-in-comune» delle nostre
differenze. Questa esposizione per avere luogo - per accadere - richiede un certo spazio di tempo; un'apertura
della Storia - che si fa spazio - tra i presenti del tempo: «in virtù del suo spaziamento, il tempo ci dà la
possibilità di dire 'noi' e 'nostro' … giacché la comunità stessa è questo spazio» (Nancy 1986-90). La
comunità ci è data con l'esistenza e per questo non ci può essere sottratta; tuttavia nello spazio di tempo che
ci è concesso noi possiamo decidere come essere-in-comune. Come scrive Nancy, non si tratta di una
«decisione politica», ma di una «decisione a proposito del politico», che può sempre essere ricondotta, in
termini radicali, ad una «politica del luogo, che si afferma per difendere gli spazi di vita della gente»
(Friedmann 1987).
Condotto su questo limite il discorso urbanistico rischia di apparire marginale al suo stesso oggetto. Perché
ciò non accada il discorso dovrebbe: a) ricollocarsi nel tempo, adeguando il presente del piano allo
spaziamento del tempo in cui la 'comunità' si espone; b) proporre nuove modalità di rappresentazione di
questo lembo di tempo, adeguando il tracciamento istituzionale dei confini al gioco informale delle
articolazioni e delle congiunzioni. Si tratta di una prima ipotesi di lavoro. Fuori di ciò si possono sempre
osservare, ai margini del piano urbanistico, le perturbazioni e gli adattamenti dell'urbano allo scorrere fitto
del tempo.
Note
* Dipartimento di Scienze per l'Architettura, Università di Genova, [email protected]
Bibliografia
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