Maria Cristina Pesci

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Maria Cristina Pesci
Maria Cristina Pesci
L’AMORE CHE CI RIGUARDA
Udine, 5 ottobre 2013
Quando si esprime la volontà di toccare tematiche quasi completamente taciute e
scomode, alcuni interrogativi si affacciano alla mente: “ci stiamo inoltrando in un territorio
troppo insidioso, pericoloso? Stiamo cercando un dolore inutile?”
Ma nessun dolore è inutile se promuove un cambiamento , se può fare intravvedere un
percorso di trasformazione , se qualcuno ascolta e non fugge.
Credo si crei una grande forza creativa e vitale quando si ha l’opportunità di contribuire ad
alzare il velo sul silenzio . Quello che riguarda la affettività e sessualità si sta dimostrando
come un processo di riflessione che può stimolare apprendimenti e nuovi punti di vista.
Viceversa ogni silenzio, censura, rimozione, ogni generalizzazione ( i disabili, i matti, i
migranti….) contiene dentro una spinta all’esclusione e ha sempre una precisa funzione,
anche se non è sempre manifesta. Si tratta di capire quale essa sia, di non rinunciare ad
interrogarsi, a pensare , e dunque a non adattarsi passivamente.
Un’identità “diversa”
Una bambina e un bambino disabile
crescono a contatto con la propria esperienza
soggettiva che comprende la disabilità: sono in gioco per le proprie differenze; ci si trova a
dialogare con quella che appare una contraddizione in termini: un’identità “diversa”.
Si trovano così a sperimentare sulla propria pelle quel processo di integrazione che prova
a tenere insieme non solo ciò che c’è di simile perché attinente all’essere bambini, ma
anche ciò che essendo “altro” non può appartenere a tutti . Il deficit e il danno incarnano
visibilmente molte altre diversità.
In un libro di Paola Mastrocola, “Che animale sei - Storia di una pennuta”, si legge:
“…e proprio quando finalmente diventa nessuno, si ricorda che ha le ali!, ci pensa per la
prima volta, le scopre.
Presa dalla smania di appartenere, si era dimenticata di avere le ali, proprio la cosa che
meglio la distingue”.
Così, per arrivare a non rincorrere forzatamente qualcosa di pre-costituito, pre-visto, prefigurato, è inevitabile un continuo gioco di confronto tra le diversità, l’appartenenza e la
differenza, il rispecchiamento, la vicinanza e la distanza.
Ci sono due atteggiamenti contrapposti che spesso, senza saperlo, mettiamo in atto di
fronte alle incognite della vita che riguardano un bambino disabile.
Il primo quando lo immaginiamo quasi completamente deprivato di potere sul proprio
destino, annientato preventivamente nella possibilità di costruire strade per i propri
desideri .
All’opposto, in altre circostanze, l’unica evoluzione possibile sembra passare dalla
completa assunzione di potere sulla propria vita, cercando di cancellare illusoriamente,
qualunque condizione e principio che metta in luce il deficit, il bisogno di aiuto, la
consapevolezza della dipendenza e della “guarigione impossibile”…
Desiderio, desideri
Se consideriamo la parola “desiderio” come riscoperta del suo significato primario: de sideris, fuori dal tracciato indicato dalle stelle, libero da una pre-destinazione, una delle
spogliazioni più radicali dei desideri e, nello stesso tempo, maggiormente oggetto di
rimozione, è quella che riguarda l’assunzione di responsabilità rispetto all’affettività e alla
sessualità di una persona con disabilità, rispetto alle differenze di genere, al diritto di una
bambina di essere pensata come tale e poi come ragazza, donna adulta, anziana signora ,
nel dispiegarsi del tempo che scorre e di un’identità sessuale che definisce, evolvendosi, il
senso stessa della persona.
Uscire da una pre – destinazione è un’opportunità e insieme un diritto che credo si possa
esercitare solo in presenza di una rete di relazioni sufficientemente autentiche e
rispettose.
Il desiderio, i desideri, pongono in relazione, creano legami, sia nel significato affettivo del
termine, sia nel senso di una catena di esperienze, di passaggi evolutivi che danno la
percezione di una trasformabilità della propria realtà.
La sessualità favorisce una riflessione sul senso del piacere e, all'opposto sul confronto
con il dolore; sulla costruzione della identità e inevitabilmente sugli ostacoli che questo
processo può incontrare; sulla vitalità o la patologia delle relazioni; sul senso dello
sviluppo e la prospettiva di un futuro possibile o viceversa sull'impossibilità di proiettarsi
nel tempo, immaginando una realtà che valga la pena di essere vissuta, nonostante la
patologia; su come e se possono convivere la creatività che un percorso riabilitativo
sufficientemente rispettoso può avviare e la sofferenza e il senso di impotenza vissuto
attraverso il corpo, le emozioni, i processi cognitivi di chi vive sulla propria pelle la
presenza di un danno permanente.
Una esplosione e una ricostruzione
La vita di una bambina o un bambino disabile si dipana come quella di tutti, all’interno di
un mondo di relazioni e legami molto complessa, ma anche in un contesto che deve fare i
conti con una realtà inaspettata e non voluta, anzi temuta come uno spettro innominabile.
Ho preso a prestito un passo di un libro,“Servabo”, perché racchiude in poche righe, in
poche parole, molte cose profonde, realmente vere, ineludibili e concrete:
“Una malattia può irrompere in una casa, nel mondo intimo e circoscritto di una persona,
con lo stesso effetto di un ordigno che demolisce e brucia ogni cosa intorno o di un veleno
che si insinua in ogni fibra. Ma non è come la morte, che segna una fine (…) è una forma
della vita. E quindi si può far tutto ed essere d’aiuto come nella normalità, come nella
politica se avesse per scopo sinceri rapporti tra le persone. (Luigi Pintor, “Servabo”, Bollati
Boringhieri)
Una malattia, un danno, una disabilità permanente, irrompono in una casa, nel mondo
intimo e circoscritto di una persona, nel cuore di una famiglia, proprio con lo stesso effetto
di un’esplosione o di un veleno che si insinua in ogni fibra.
Lo raccontano i genitori, le madri e i padri, pur con parole ed emozioni in parte differenti,
se ci si mette in ascolto. Lo sentono e lo vivono anche gli operatori che entrano in
relazione con queste persone, con le loro storie, con la quotidianità del proprio lavoro e
che spesso non sanno come maneggiare, dove depositare, come rivitalizzare tanta e tale
complessità.
Questa “irruzione” nella vita della disabilità quasi sempre non trova figure e spazi che
permettano di raccontare e condividere cosa viene vissuto. Le esperienze ancora una
volta di genitori e anche di operatori sottolineano infatti un silenzio invalicabile rispetto al
dolore e parlano della difficoltà di avere di fronte un interlocutore che possa ascoltare.
Tutto questo avviene anche perché gli operatori stessi sono molto spesso lasciati soli,
mentre dovrebbero essere formati e sostenuti nel poter usufruire di uno spazio di
confronto e di riflessione continua su che cosa significa essere impegnati in una relazione
di cura; occuparsi dell’altro
comunque comporta essere di fronte alla realtà di una
persona che nella propria storia include una quota di dolore rispetto al corpo e alla
consapevolezza di sé che non può essere rimossa senza conseguenze.
Parlare di “ferita” per la presenza di un deficit significa parlare del danno subìto dal
bambino e insieme parlare di come questo influisce nella crescita e nella costruzione di un
legame con le figure genitoriali e viceversa. Quando si va a toccare una storia famigliare,
la situazione impone di ragionare anche sul futuro, sempre imprevedibile, ma che deve
conservare una “pensabilità” anche in queste difficili condizioni; questo comporta che si
affronti anche il tema dell’identità e dell’integrazione, per i molteplici significati che questi
termini possono contenere.
Sinceri rapporti
Dice ancora lo scrittore: “Ma è una forma della vita, e quindi si può far tutto”, contrapposto
al non si può far nulla; “…si può essere di aiuto come nella normalità, se si opera
attraverso sinceri rapporti tra le persone.”
Sinceri rapporti: all’interno di una riflessione che desidera interrogarsi sulla dimensione
relazionale e affettiva che prevede la presenza di una disabilità, quello della qualità dei
rapporti umani si propone come un tema nodale. Molto complesso da perseguire e
soddisfare sempre, inevitabile da considerare, il punto sulla influenza delle relazioni e sulla
loro opportuna gestione si fa cruciale sia quando si parla di lavoro di cura, sia se guardato
in una prospettiva che tiene conto del legame genitore – bambino con deficit.
Il confronto comporta chiarezza: dare parola ai temi toccati dalla relazione di cura collegati
a una riflessione sulla sessualità, il corpo, la disabilità non è sempre semplice, né
scontato. Parlare di tali temi significa parlare del corpo “ferito” e della genitorialità “ferita”,
della difficile costruzione di legami, di una “storia” che cerca un futuro nonostante la
cronicità del danno... Tutto questo richiede disponibilità all’ascolto di sé e dell’altro di cui ci
si prende cura.
Ci si trova così a cogliere senza filtri che le persone disabili hanno sentimenti ed emozioni,
appartengono al genere umano e di conseguenza non possono che condividere con tutto
il genere umano qualcosa che ci accomuna: essere soggetti sessuati e possedere una
dimensione della propria identità che non può prescindere dalla affettività.
Nelle riflessioni ho tentato di coniugare e tenere insieme gli aspetti che riguardano il
bambino in difficoltà, la sua famiglia e le figure professionali che di loro sono chiamate ad
occuparsi.
Tutto questo esclude per definizione qualsiasi pretesa di tipo prescrittivo o normativo, per
tentare invece di promuovere un aiuto nella comprensione di ciò che si gioca all’interno
della complessità di queste relazioni.
Il punto di vista che la chiave di lettura psicoanalitica mette a disposizione nella
comprensione del lavoro di cura scarta a priori la definizione di comportamenti “giusti” da
tenere da parte dei curanti o dei genitori oppure da “indurre” nelle persone disabili oggetto
di cura.
E’ importante escludere anche il controllo e i giudizi sull’operato delle diverse figure che si
alternano sul palcoscenico delle vicende emotive affrontate, a favore di un lavoro di
comprensione e ascolto dei bisogni nascosti che i comportamenti espressi esprimono.
Uno spiazzamento da comprendere
Credo siano molto significative le parole raccolte dalle esperienze di gruppo con le famiglie
e i genitori proprio a partire dal tema della sessualità e della affettività dei loro figli disabili.
Ricordo le parole di una mamma che diceva: “Se avessi saputo che questa sarebbe stata
la mia vita, io non l’avrei scelta così, anche se io amo tantissimo mia figlia che adesso ha
venti anni, anche se la mia famiglia è mia figlia. Ma se mi avessero chiesto, potendo
scegliere, io non avrei scelto questa vita”. Credo che queste parole, apparentemente
quasi scontate, condensano in realtà diversi significati. In primo luogo, poter esplicitare il
proprio dolore, la propria sofferenza, poter dire senza sentirsi giudicati e quindi un
tentativo di dare via via una dimensione più comprensibile al proprio dolore.
Il riferimento alla malattia che “non è come la morte, ma è una forma della vita”è un
ulteriore spunto. Ciò che si sottolinea è una condizione difficile e ambivalente: per certi
versi al sollievo che perché la morte del proprio bambino è scongiurata, si affianca la
grande fatica di cominciare a convivere con il nuovo status pieno di incertezze. Non è un
lutto legato a una perdita “concreta”da dovere elaborare, comprendere e vivere, ma è
qualcosa che da quel momento determina la costruzione e l’esperienza della vita stessa e
il lutto, che pur esiste, ha a che fare con la propria identità, l’aspettativa del futuro , il senso
di sè. Questo vale sia per i genitori sia per le persone disabili: dover fare i conti con
qualcosa che, alla nascita o in un momento successivo, comunque comporta
un’inclusione, dentro la propria identità, della presenza di una diversità, di un disagio, di
un’impossibilità o di una difficoltà.
Persone intere
Volenti o nolenti, nel lavoro riabilitativo siamo chiamati a essere in gioco come persone
tutte intere. Se permetto che il tema della sessualità e dell’affettività entri a fare parte del
mio lavoro come operatore, posso prendermi cura della persona in senso ampio, non solo
dal punto di vista medico, educativo o assistenziale, ma dell’altro “tutto intero”. L’incontro
di due persone sessuate, che autenticamente e sinceramente non possono prescindere
dall’essere di genere maschile e femminile, di avere una propria storia affettiva, non
significa mettere questa dimensione nelle mani dell’interlocutore, ma semplicemente fare i
conti con la propria identità, la propria realtà, collegata anche al fatto di possedere una
sessualità.
Il confronto, in questo modo, si trasferisce su tanti piani: non vuol dire confondere i ruoli
ma cominciare a pensare - ribadisco, volenti o nolenti – alle tante idee e rappresentazioni
di sessualità. Ciascuna persona struttura su questo tema un insieme di convinzioni e
vissuti soggettivi che sono organizzati a partire dalla propria storia personale, dalla propria
educazione, dal modo in cui sono state affrontate queste tematiche dentro la propria
famiglia, nel corso della vita infantile e così via.
Winnicott scrive: “Il bambino è per come lo si cura”.
Ciascuno di noi ha un’esperienza e quindi anche un’idea e una rappresentazione di
sessualità che si incarna, che si radica fortemente nella storia affettiva ed esperienziale
che lo riguarda e anche nel tempo in cui sta vivendo: se sono una donna piuttosto che un
uomo, se ho vent’anni o ne ho cinquanta, se ho dei figli o non ne ho, se ho delle
esperienze sufficientemente buone, se sono felice o non lo sono, se sto vivendo una
condizione di disagio, di sofferenza, di mancanza o di soddisfazione rispetto al tema della
sessualità.
Sapere da che punto di vista si parte può permettere di non confondere le esperienze e,
quindi, di prendersi cura dell’altro in modo differente se è un bambino piuttosto che un
adolescente; se è una persona adulta, senza oppure con disabilità motorie o mentali; se le
difficoltà convivono con problemi emotivi. Se conosco maggiormente che cos’è per me
sessualità, forse posso evitare di negare la sessualità dell’altro di cui mi occupo, perché se
mi chiedo che cosa sia la sessualità per l’altro di cui mi curo, non farò prevalere solo i miei
riferimenti o avrò comunque più possibilità di cogliere questo possibile errore.
L’altro di cui parlo è un uomo o una donna, un ragazzo o una ragazza disabile che sta
vivendo la sua vita in una fase specifica della sua storia, con una specifica esperienza del
proprio corpo, includendo in tutto questo inevitabilmente anche la presenza di un deficit,
di una difficoltà che andrà a influire sulla crescita di quella persona, sulla sua identità.
Sentire e essere
Noi sappiamo, indipendentemente dal fatto che un deficit sia presente fino dai primi
momenti della vita di un neonato, che lo sviluppo di un bambino è un continuo
apprendimento per integrare via via ciò che è egli “sente” attraverso il corpo, i sensi.
Pensiamo all’esperienza di un neonato che sente a partire dal corpo, da come la mamma
o il papà o l’adulto che si occupa di lui, lo tengono, gli parlano, lo cullano, lo scaldano, lo
confortano; pensiamo anche a cosa avviene per quegli aspetti che non saranno
considerati e non riceveranno risposta, legati a condizioni che la presenza di una disabilità
produce e che comportano innumerevoli circostanze in cui prevale non potere o non
riuscire o, ancora, non avere l’esperienza o la competenza
sufficiente per essere in
relazione in modo adeguato. In tutto questo la presenza di un deficit non può non avere un
ruolo.
La mamma che si trova ad essere la mamma di un bambino disabile in fondo dice di
tenere in braccio un bambino che non era il bambino che avrebbe desiderato. Non c’è
niente di sbagliato nel pensarlo, anzi ci sarebbe tanto di buono nel permettere a questa
donna di poterlo dire il prima possibile e di elaborare questa “perdita del bambino sano”
per potere poi fare i conti con il suo bambino reale. Romana Negri, a cui devo molto, ha
coniugato il sapere psicoanalitico con il lavoro di neuropsichiatra in una realtà di terapia
intensiva per i bambini nati pretermine. Il lavoro da lei condotto con le mamme, con i papà,
con i sanitari ha messo in primo piano quanto sia importante dare ascolto ed elaborare i
sentimenti in gioco per potere stare al fianco di un bambino fortemente a rischio di morire
e per cogliere tutti i difficili coinvolgimenti che ciascun soggetto vive.
Si affronta cosa significa stare a fianco come genitore ad un bambino sofferente. I neonati
mostrano la loro sofferenza prima di tutto attraverso il corpo, e una mamma che si trova a
tenere in braccio, quando possibili, uno di questi bambini deve essere incoraggiata ad
affrontare le tante paure e i sentimenti contrastanti che inevitabilmente affollano la mente.
Anche gli operatori sanitari possono favorire questo primo contatto tra bambino e adulto,
come elemento importante per la relazione che si andrà a costruire e per cercare di
comprendere le modalità di reazione all’ambiente che il bambino può mettere in atto.
Possiamo pensare che la presenza di un deficit non sia fondamentale in questo contatto-
incontro, nella elaborazione di tanti elementi accennati? Possiamo pensare che non ci
siano possibili influenze su come una mamma e un papà pensano al loro bambino, alla
loro bambina? Come pensano a loro rispetto al futuro che li riguarda?
Tra i compiti di sviluppo di un bambino c'è l'immenso impegno di compiere un fruttuoso
scambio tra le aree della corporeità, del mondo emotivo e delle acquisizioni cognitive.
L'influenza della cura con cui questo bambino è accudito sappiamo essere fondamentale
per la buona riuscita di questo percorso; la presenza di una difficoltà non può non
implicare un effetto su tutta la complessità percettiva, emozionale e motivazionale, del
bambino, ma anche della madre, del padre, delle figure più prossime da cui quel bambino
dipende.
Le competenze motorie, le capacità intellettive, le implicazioni psicologiche sono entità
solo artificiosamente distinte, e questo è tanto più vero quanto più si vada a ritroso nel
processo di crescita; non solo le ridotte capacità che la patologia determina influenzano lo
sviluppo, ma anche le rappresentazioni che di tale alterazione hanno la madre, il padre, la
complessità dei legami familiari, gli adulti che nel tempo si avvicendano nella presa in
carico di quel bambino.
Sessualità nei tanti significati
Nella esperienza e nella teoria psicoanalitica, la sessualità non fa riferimento solo
all'apparato genitale, alle sue funzioni, ai suoi bisogni con relativo soddisfacimento, ma a
un complesso ampio di piacere e attività presenti fin dai primi momenti della vita di un
bambino, non riconducibili ad un unico significato.
La sessualità può essere qui utilmente adoperata come nascita della persona attraverso il
piacere, o meglio ancora, attraverso l'alternarsi del piacere e della sua mancanza; piacere
che primo fra tutti si introduce e si struttura coniugando la percezione sempre più
complessa che il corpo impara a "sentire" e riprodurre via via che lo sviluppo procede.
Il piacere "sentinella di vita" (Fornari), è il primo motore entro cui poi si inserisce il piacere
sessuale e le sue evoluzioni nel tempo e nella storia di ciascun individuo. E' un intreccio
inscindibile ciò che, attraverso il corpo, promuove il senso di sé, la sensazione di esserci,
di esistere come soggetto sempre più definito e separato dal corpo materno e dalle sue
cure; il bambino è la risultante di questi aspetti e fondamentalmente della cura che riceve.
Il suo sviluppo dipende dal dialogo incessante tra sé e chi di lui si occupa, dialogo dalle
innumerevoli sfumature nelle quali il corpo è lo strumento più immediato. Esso non
interrompe mai di inviare messaggi ed è una sorta di porta di ingresso ad ogni successiva
comunicazione
con
sé
stessi
e
con
il
mondo.
La presenza di un deficit, di una malattia, di una alterata funzionalità pone una serie di
interrogativi e di variabili sulla già fragile continuità di quel dialogo così denso di significati
da comprendere e da utilizzare. Potremmo dire che le ambiguità e le percezioni altalenanti
che pur rappresentano, nello sviluppo normale, un passaggio fondamentale nella
costruzione del Sé, diventano particolarmente sollecitate quando il corpo, invece di essere
luogo di sensazioni positive in quantità sufficiente da garantire le basi del "ben-essere", è il
luogo del danno, della funzione alterata, della diversità. Un corpo che vive in modo
amplificato il divario tra ciò che sente e ciò che riesce a decifrare, modificare, esprimere.
La catena delle generazioni e dei rispecchiamenti
Un giovane padre di una bimba di sette anni con la sindrome di Down diceva, con molto
coraggio e con affetto: “Sentite che cosa assurda ho pensato quando mi hanno detto che
la mia bambina aveva la sindrome di Down ; sapete cosa ho pensato? Non sarò mai
nonno”.
Parole che questo papà pronunciava con tutto il dolore, ma anche con un forte senso
critico, sottolineando la difficoltà di pensare al futuro come a qualcosa di immaginabile,
vivibile, recuperando la perdita della continuità della catena delle generazioni e anche una
sessualità possibile per la propria figlia, provando a riconoscerne la dignità e insieme il
limite e la diversità.
Andrea Canevaro scrive: “Il futuro in quanto tale è imprevedibile”, noi possiamo solo
immaginarlo, fare ipotesi, progettare. Se di fronte abbiamo un bambino o una bambina
disabile, o una famiglia in cui esiste un bambino o una bambina disabile, ugualmente non
possiamo pretendere di progettare il futuro, di programmarlo, di fare percorsi di crescita
educativa, cercando di sistemare e controllare tutto a priori. Però, se sono un genitore,
posso sentire l’importanza di accompagnare la mia bambina, se sono un operatore, di
affiancare quella famiglia e quel bambino, a pensare globalmente anche alla sua
sessualità, magari diventando più consapevoli di quanto sia difficile non sapere se e
quando i bambini disabili di cui mi curo da adulti riusciranno a vivere esperienze positive
anche relativamente alla propria dimensione affettiva e sessuale, in senso ampio.
Comunque, come operatori possiamo pensare di farci trovare al fianco dell’altro, pur nella
inevitabile incertezza. Ecco cosa si può intendere quando si dice che non ci sono risposte
preconfezionate: a volte ci si sente incapaci di rispondere perché il ruolo che possiamo
rivestire come operatori ci porta anche a dover dire semplicemente “non lo so”, e il nostro
lavoro diventa più un lavoro di essere con l’altro, piuttosto che fare per l’altro.
A volte questo senso di impotenza parte proprio dalla paura di infliggere un dolore ulteriore
e questo è particolarmente vero soprattutto se si è un familiare, un genitore.
Un “codice”comune per riconoscere le diversità
Come possibili conseguenze pratiche e positive di questi percorsi di riflessione e
formazione, le stesse interpretazioni sulle esperienze di persone con disabilità e i
significati che spesso si attribuiscono riguardo ad alcuni comportamenti sessuali ad
esempio meno inibiti o che non si contengono entro modalità ed espressioni
comunemente condivise, potranno essere affrontate con meno apprensione e collocate in
un ambito meno distante da vissuti di "normalità"e comprensione reciproca.
Invece spesso tutto appare come se le emozioni, il desiderio, la ricerca di piacere,
l'appagamento a partire dal corpo non appartenessero ad una matrice comune di tutti noi
come persone, ma dovesse essere inventato un nuovo codice per essere decifrate se
rapportate a una persona disabile.
La modalità che spesso si ritrova rispetto alla sessualità e disabilità di presa di distanza, di
forte senso di inadeguatezza e di separazione dalle proprie competenze sia professionali
che personali, inevitabilmente fa pensare ad un'interpretazione che ricerca il controllo su
ciò che per altri versi proprio la sessualità evoca come imprevedibile: l’istinto, la passione,
il desiderio…l’incontrollabile.
Mai come nel campo della disabilità si è manifestato il bisogno di affermare che la
sessualità non è cosa che appartiene solo al terreno della genitalità. Forte è il ricorso ad
una lettura delle manifestazioni anche sessuali delle persone disabili come "puri" istinti
dettati da tempeste ormonali o, all'opposto, espressione di affetti esclusivamente platonici
e di una sublimazione tanto desiderata quanto improbabile. Proprio in quanto posizioni
estreme sono significative e illuminanti quando possono mostrare, magari con un percorso
di riflessione, la loro natura spesso difensiva.
Dividere salomonicamente i tipi di deficit e le relative condotte e necessità sessuali, credo
esprima ad esempio, proprio questa difficoltà di cogliere nella relazione di cura, le analogie
e le identificazioni possibili tra le figure coinvolte.
Se riconosciute, le medesime realtà diventano la prima concreta possibilità di scambio e
quindi di crescita. La sessualità, come l'acqua, non può essere attraversata senza essere
disposti a sentirsi immersi nelle sue peculiarità.
Partecipare, prendersi cura di sé e dell’Altro, ripropone inevitabilmente il lavoro mai
esaurito di inclusione e integrazione della persona, delle persone.
Jean-Paul Sartre così scrive:
“Qualunque zona del corpo venga toccata, è la persona che viene toccata – con
amore o con odio – con gioia o con tristezza.”
Dott.ssa. Maria Cristina Pesci
Medico Chirurgo, spec. Psicologia Medica,
spec. in Psicoterapia, Sessuologa
Società Ital. Psicoterapia Psicoanalitica
Via L.Toso Montanari, 16 – 40138 Bologna
Cell. +393392254888 [email protected]
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