Maria Cristina Pesci
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Maria Cristina Pesci
Maria Cristina Pesci L’AMORE CHE CI RIGUARDA Udine, 5 ottobre 2013 Quando si esprime la volontà di toccare tematiche quasi completamente taciute e scomode, alcuni interrogativi si affacciano alla mente: “ci stiamo inoltrando in un territorio troppo insidioso, pericoloso? Stiamo cercando un dolore inutile?” Ma nessun dolore è inutile se promuove un cambiamento , se può fare intravvedere un percorso di trasformazione , se qualcuno ascolta e non fugge. Credo si crei una grande forza creativa e vitale quando si ha l’opportunità di contribuire ad alzare il velo sul silenzio . Quello che riguarda la affettività e sessualità si sta dimostrando come un processo di riflessione che può stimolare apprendimenti e nuovi punti di vista. Viceversa ogni silenzio, censura, rimozione, ogni generalizzazione ( i disabili, i matti, i migranti….) contiene dentro una spinta all’esclusione e ha sempre una precisa funzione, anche se non è sempre manifesta. Si tratta di capire quale essa sia, di non rinunciare ad interrogarsi, a pensare , e dunque a non adattarsi passivamente. Un’identità “diversa” Una bambina e un bambino disabile crescono a contatto con la propria esperienza soggettiva che comprende la disabilità: sono in gioco per le proprie differenze; ci si trova a dialogare con quella che appare una contraddizione in termini: un’identità “diversa”. Si trovano così a sperimentare sulla propria pelle quel processo di integrazione che prova a tenere insieme non solo ciò che c’è di simile perché attinente all’essere bambini, ma anche ciò che essendo “altro” non può appartenere a tutti . Il deficit e il danno incarnano visibilmente molte altre diversità. In un libro di Paola Mastrocola, “Che animale sei - Storia di una pennuta”, si legge: “…e proprio quando finalmente diventa nessuno, si ricorda che ha le ali!, ci pensa per la prima volta, le scopre. Presa dalla smania di appartenere, si era dimenticata di avere le ali, proprio la cosa che meglio la distingue”. Così, per arrivare a non rincorrere forzatamente qualcosa di pre-costituito, pre-visto, prefigurato, è inevitabile un continuo gioco di confronto tra le diversità, l’appartenenza e la differenza, il rispecchiamento, la vicinanza e la distanza. Ci sono due atteggiamenti contrapposti che spesso, senza saperlo, mettiamo in atto di fronte alle incognite della vita che riguardano un bambino disabile. Il primo quando lo immaginiamo quasi completamente deprivato di potere sul proprio destino, annientato preventivamente nella possibilità di costruire strade per i propri desideri . All’opposto, in altre circostanze, l’unica evoluzione possibile sembra passare dalla completa assunzione di potere sulla propria vita, cercando di cancellare illusoriamente, qualunque condizione e principio che metta in luce il deficit, il bisogno di aiuto, la consapevolezza della dipendenza e della “guarigione impossibile”… Desiderio, desideri Se consideriamo la parola “desiderio” come riscoperta del suo significato primario: de sideris, fuori dal tracciato indicato dalle stelle, libero da una pre-destinazione, una delle spogliazioni più radicali dei desideri e, nello stesso tempo, maggiormente oggetto di rimozione, è quella che riguarda l’assunzione di responsabilità rispetto all’affettività e alla sessualità di una persona con disabilità, rispetto alle differenze di genere, al diritto di una bambina di essere pensata come tale e poi come ragazza, donna adulta, anziana signora , nel dispiegarsi del tempo che scorre e di un’identità sessuale che definisce, evolvendosi, il senso stessa della persona. Uscire da una pre – destinazione è un’opportunità e insieme un diritto che credo si possa esercitare solo in presenza di una rete di relazioni sufficientemente autentiche e rispettose. Il desiderio, i desideri, pongono in relazione, creano legami, sia nel significato affettivo del termine, sia nel senso di una catena di esperienze, di passaggi evolutivi che danno la percezione di una trasformabilità della propria realtà. La sessualità favorisce una riflessione sul senso del piacere e, all'opposto sul confronto con il dolore; sulla costruzione della identità e inevitabilmente sugli ostacoli che questo processo può incontrare; sulla vitalità o la patologia delle relazioni; sul senso dello sviluppo e la prospettiva di un futuro possibile o viceversa sull'impossibilità di proiettarsi nel tempo, immaginando una realtà che valga la pena di essere vissuta, nonostante la patologia; su come e se possono convivere la creatività che un percorso riabilitativo sufficientemente rispettoso può avviare e la sofferenza e il senso di impotenza vissuto attraverso il corpo, le emozioni, i processi cognitivi di chi vive sulla propria pelle la presenza di un danno permanente. Una esplosione e una ricostruzione La vita di una bambina o un bambino disabile si dipana come quella di tutti, all’interno di un mondo di relazioni e legami molto complessa, ma anche in un contesto che deve fare i conti con una realtà inaspettata e non voluta, anzi temuta come uno spettro innominabile. Ho preso a prestito un passo di un libro,“Servabo”, perché racchiude in poche righe, in poche parole, molte cose profonde, realmente vere, ineludibili e concrete: “Una malattia può irrompere in una casa, nel mondo intimo e circoscritto di una persona, con lo stesso effetto di un ordigno che demolisce e brucia ogni cosa intorno o di un veleno che si insinua in ogni fibra. Ma non è come la morte, che segna una fine (…) è una forma della vita. E quindi si può far tutto ed essere d’aiuto come nella normalità, come nella politica se avesse per scopo sinceri rapporti tra le persone. (Luigi Pintor, “Servabo”, Bollati Boringhieri) Una malattia, un danno, una disabilità permanente, irrompono in una casa, nel mondo intimo e circoscritto di una persona, nel cuore di una famiglia, proprio con lo stesso effetto di un’esplosione o di un veleno che si insinua in ogni fibra. Lo raccontano i genitori, le madri e i padri, pur con parole ed emozioni in parte differenti, se ci si mette in ascolto. Lo sentono e lo vivono anche gli operatori che entrano in relazione con queste persone, con le loro storie, con la quotidianità del proprio lavoro e che spesso non sanno come maneggiare, dove depositare, come rivitalizzare tanta e tale complessità. Questa “irruzione” nella vita della disabilità quasi sempre non trova figure e spazi che permettano di raccontare e condividere cosa viene vissuto. Le esperienze ancora una volta di genitori e anche di operatori sottolineano infatti un silenzio invalicabile rispetto al dolore e parlano della difficoltà di avere di fronte un interlocutore che possa ascoltare. Tutto questo avviene anche perché gli operatori stessi sono molto spesso lasciati soli, mentre dovrebbero essere formati e sostenuti nel poter usufruire di uno spazio di confronto e di riflessione continua su che cosa significa essere impegnati in una relazione di cura; occuparsi dell’altro comunque comporta essere di fronte alla realtà di una persona che nella propria storia include una quota di dolore rispetto al corpo e alla consapevolezza di sé che non può essere rimossa senza conseguenze. Parlare di “ferita” per la presenza di un deficit significa parlare del danno subìto dal bambino e insieme parlare di come questo influisce nella crescita e nella costruzione di un legame con le figure genitoriali e viceversa. Quando si va a toccare una storia famigliare, la situazione impone di ragionare anche sul futuro, sempre imprevedibile, ma che deve conservare una “pensabilità” anche in queste difficili condizioni; questo comporta che si affronti anche il tema dell’identità e dell’integrazione, per i molteplici significati che questi termini possono contenere. Sinceri rapporti Dice ancora lo scrittore: “Ma è una forma della vita, e quindi si può far tutto”, contrapposto al non si può far nulla; “…si può essere di aiuto come nella normalità, se si opera attraverso sinceri rapporti tra le persone.” Sinceri rapporti: all’interno di una riflessione che desidera interrogarsi sulla dimensione relazionale e affettiva che prevede la presenza di una disabilità, quello della qualità dei rapporti umani si propone come un tema nodale. Molto complesso da perseguire e soddisfare sempre, inevitabile da considerare, il punto sulla influenza delle relazioni e sulla loro opportuna gestione si fa cruciale sia quando si parla di lavoro di cura, sia se guardato in una prospettiva che tiene conto del legame genitore – bambino con deficit. Il confronto comporta chiarezza: dare parola ai temi toccati dalla relazione di cura collegati a una riflessione sulla sessualità, il corpo, la disabilità non è sempre semplice, né scontato. Parlare di tali temi significa parlare del corpo “ferito” e della genitorialità “ferita”, della difficile costruzione di legami, di una “storia” che cerca un futuro nonostante la cronicità del danno... Tutto questo richiede disponibilità all’ascolto di sé e dell’altro di cui ci si prende cura. Ci si trova così a cogliere senza filtri che le persone disabili hanno sentimenti ed emozioni, appartengono al genere umano e di conseguenza non possono che condividere con tutto il genere umano qualcosa che ci accomuna: essere soggetti sessuati e possedere una dimensione della propria identità che non può prescindere dalla affettività. Nelle riflessioni ho tentato di coniugare e tenere insieme gli aspetti che riguardano il bambino in difficoltà, la sua famiglia e le figure professionali che di loro sono chiamate ad occuparsi. Tutto questo esclude per definizione qualsiasi pretesa di tipo prescrittivo o normativo, per tentare invece di promuovere un aiuto nella comprensione di ciò che si gioca all’interno della complessità di queste relazioni. Il punto di vista che la chiave di lettura psicoanalitica mette a disposizione nella comprensione del lavoro di cura scarta a priori la definizione di comportamenti “giusti” da tenere da parte dei curanti o dei genitori oppure da “indurre” nelle persone disabili oggetto di cura. E’ importante escludere anche il controllo e i giudizi sull’operato delle diverse figure che si alternano sul palcoscenico delle vicende emotive affrontate, a favore di un lavoro di comprensione e ascolto dei bisogni nascosti che i comportamenti espressi esprimono. Uno spiazzamento da comprendere Credo siano molto significative le parole raccolte dalle esperienze di gruppo con le famiglie e i genitori proprio a partire dal tema della sessualità e della affettività dei loro figli disabili. Ricordo le parole di una mamma che diceva: “Se avessi saputo che questa sarebbe stata la mia vita, io non l’avrei scelta così, anche se io amo tantissimo mia figlia che adesso ha venti anni, anche se la mia famiglia è mia figlia. Ma se mi avessero chiesto, potendo scegliere, io non avrei scelto questa vita”. Credo che queste parole, apparentemente quasi scontate, condensano in realtà diversi significati. In primo luogo, poter esplicitare il proprio dolore, la propria sofferenza, poter dire senza sentirsi giudicati e quindi un tentativo di dare via via una dimensione più comprensibile al proprio dolore. Il riferimento alla malattia che “non è come la morte, ma è una forma della vita”è un ulteriore spunto. Ciò che si sottolinea è una condizione difficile e ambivalente: per certi versi al sollievo che perché la morte del proprio bambino è scongiurata, si affianca la grande fatica di cominciare a convivere con il nuovo status pieno di incertezze. Non è un lutto legato a una perdita “concreta”da dovere elaborare, comprendere e vivere, ma è qualcosa che da quel momento determina la costruzione e l’esperienza della vita stessa e il lutto, che pur esiste, ha a che fare con la propria identità, l’aspettativa del futuro , il senso di sè. Questo vale sia per i genitori sia per le persone disabili: dover fare i conti con qualcosa che, alla nascita o in un momento successivo, comunque comporta un’inclusione, dentro la propria identità, della presenza di una diversità, di un disagio, di un’impossibilità o di una difficoltà. Persone intere Volenti o nolenti, nel lavoro riabilitativo siamo chiamati a essere in gioco come persone tutte intere. Se permetto che il tema della sessualità e dell’affettività entri a fare parte del mio lavoro come operatore, posso prendermi cura della persona in senso ampio, non solo dal punto di vista medico, educativo o assistenziale, ma dell’altro “tutto intero”. L’incontro di due persone sessuate, che autenticamente e sinceramente non possono prescindere dall’essere di genere maschile e femminile, di avere una propria storia affettiva, non significa mettere questa dimensione nelle mani dell’interlocutore, ma semplicemente fare i conti con la propria identità, la propria realtà, collegata anche al fatto di possedere una sessualità. Il confronto, in questo modo, si trasferisce su tanti piani: non vuol dire confondere i ruoli ma cominciare a pensare - ribadisco, volenti o nolenti – alle tante idee e rappresentazioni di sessualità. Ciascuna persona struttura su questo tema un insieme di convinzioni e vissuti soggettivi che sono organizzati a partire dalla propria storia personale, dalla propria educazione, dal modo in cui sono state affrontate queste tematiche dentro la propria famiglia, nel corso della vita infantile e così via. Winnicott scrive: “Il bambino è per come lo si cura”. Ciascuno di noi ha un’esperienza e quindi anche un’idea e una rappresentazione di sessualità che si incarna, che si radica fortemente nella storia affettiva ed esperienziale che lo riguarda e anche nel tempo in cui sta vivendo: se sono una donna piuttosto che un uomo, se ho vent’anni o ne ho cinquanta, se ho dei figli o non ne ho, se ho delle esperienze sufficientemente buone, se sono felice o non lo sono, se sto vivendo una condizione di disagio, di sofferenza, di mancanza o di soddisfazione rispetto al tema della sessualità. Sapere da che punto di vista si parte può permettere di non confondere le esperienze e, quindi, di prendersi cura dell’altro in modo differente se è un bambino piuttosto che un adolescente; se è una persona adulta, senza oppure con disabilità motorie o mentali; se le difficoltà convivono con problemi emotivi. Se conosco maggiormente che cos’è per me sessualità, forse posso evitare di negare la sessualità dell’altro di cui mi occupo, perché se mi chiedo che cosa sia la sessualità per l’altro di cui mi curo, non farò prevalere solo i miei riferimenti o avrò comunque più possibilità di cogliere questo possibile errore. L’altro di cui parlo è un uomo o una donna, un ragazzo o una ragazza disabile che sta vivendo la sua vita in una fase specifica della sua storia, con una specifica esperienza del proprio corpo, includendo in tutto questo inevitabilmente anche la presenza di un deficit, di una difficoltà che andrà a influire sulla crescita di quella persona, sulla sua identità. Sentire e essere Noi sappiamo, indipendentemente dal fatto che un deficit sia presente fino dai primi momenti della vita di un neonato, che lo sviluppo di un bambino è un continuo apprendimento per integrare via via ciò che è egli “sente” attraverso il corpo, i sensi. Pensiamo all’esperienza di un neonato che sente a partire dal corpo, da come la mamma o il papà o l’adulto che si occupa di lui, lo tengono, gli parlano, lo cullano, lo scaldano, lo confortano; pensiamo anche a cosa avviene per quegli aspetti che non saranno considerati e non riceveranno risposta, legati a condizioni che la presenza di una disabilità produce e che comportano innumerevoli circostanze in cui prevale non potere o non riuscire o, ancora, non avere l’esperienza o la competenza sufficiente per essere in relazione in modo adeguato. In tutto questo la presenza di un deficit non può non avere un ruolo. La mamma che si trova ad essere la mamma di un bambino disabile in fondo dice di tenere in braccio un bambino che non era il bambino che avrebbe desiderato. Non c’è niente di sbagliato nel pensarlo, anzi ci sarebbe tanto di buono nel permettere a questa donna di poterlo dire il prima possibile e di elaborare questa “perdita del bambino sano” per potere poi fare i conti con il suo bambino reale. Romana Negri, a cui devo molto, ha coniugato il sapere psicoanalitico con il lavoro di neuropsichiatra in una realtà di terapia intensiva per i bambini nati pretermine. Il lavoro da lei condotto con le mamme, con i papà, con i sanitari ha messo in primo piano quanto sia importante dare ascolto ed elaborare i sentimenti in gioco per potere stare al fianco di un bambino fortemente a rischio di morire e per cogliere tutti i difficili coinvolgimenti che ciascun soggetto vive. Si affronta cosa significa stare a fianco come genitore ad un bambino sofferente. I neonati mostrano la loro sofferenza prima di tutto attraverso il corpo, e una mamma che si trova a tenere in braccio, quando possibili, uno di questi bambini deve essere incoraggiata ad affrontare le tante paure e i sentimenti contrastanti che inevitabilmente affollano la mente. Anche gli operatori sanitari possono favorire questo primo contatto tra bambino e adulto, come elemento importante per la relazione che si andrà a costruire e per cercare di comprendere le modalità di reazione all’ambiente che il bambino può mettere in atto. Possiamo pensare che la presenza di un deficit non sia fondamentale in questo contatto- incontro, nella elaborazione di tanti elementi accennati? Possiamo pensare che non ci siano possibili influenze su come una mamma e un papà pensano al loro bambino, alla loro bambina? Come pensano a loro rispetto al futuro che li riguarda? Tra i compiti di sviluppo di un bambino c'è l'immenso impegno di compiere un fruttuoso scambio tra le aree della corporeità, del mondo emotivo e delle acquisizioni cognitive. L'influenza della cura con cui questo bambino è accudito sappiamo essere fondamentale per la buona riuscita di questo percorso; la presenza di una difficoltà non può non implicare un effetto su tutta la complessità percettiva, emozionale e motivazionale, del bambino, ma anche della madre, del padre, delle figure più prossime da cui quel bambino dipende. Le competenze motorie, le capacità intellettive, le implicazioni psicologiche sono entità solo artificiosamente distinte, e questo è tanto più vero quanto più si vada a ritroso nel processo di crescita; non solo le ridotte capacità che la patologia determina influenzano lo sviluppo, ma anche le rappresentazioni che di tale alterazione hanno la madre, il padre, la complessità dei legami familiari, gli adulti che nel tempo si avvicendano nella presa in carico di quel bambino. Sessualità nei tanti significati Nella esperienza e nella teoria psicoanalitica, la sessualità non fa riferimento solo all'apparato genitale, alle sue funzioni, ai suoi bisogni con relativo soddisfacimento, ma a un complesso ampio di piacere e attività presenti fin dai primi momenti della vita di un bambino, non riconducibili ad un unico significato. La sessualità può essere qui utilmente adoperata come nascita della persona attraverso il piacere, o meglio ancora, attraverso l'alternarsi del piacere e della sua mancanza; piacere che primo fra tutti si introduce e si struttura coniugando la percezione sempre più complessa che il corpo impara a "sentire" e riprodurre via via che lo sviluppo procede. Il piacere "sentinella di vita" (Fornari), è il primo motore entro cui poi si inserisce il piacere sessuale e le sue evoluzioni nel tempo e nella storia di ciascun individuo. E' un intreccio inscindibile ciò che, attraverso il corpo, promuove il senso di sé, la sensazione di esserci, di esistere come soggetto sempre più definito e separato dal corpo materno e dalle sue cure; il bambino è la risultante di questi aspetti e fondamentalmente della cura che riceve. Il suo sviluppo dipende dal dialogo incessante tra sé e chi di lui si occupa, dialogo dalle innumerevoli sfumature nelle quali il corpo è lo strumento più immediato. Esso non interrompe mai di inviare messaggi ed è una sorta di porta di ingresso ad ogni successiva comunicazione con sé stessi e con il mondo. La presenza di un deficit, di una malattia, di una alterata funzionalità pone una serie di interrogativi e di variabili sulla già fragile continuità di quel dialogo così denso di significati da comprendere e da utilizzare. Potremmo dire che le ambiguità e le percezioni altalenanti che pur rappresentano, nello sviluppo normale, un passaggio fondamentale nella costruzione del Sé, diventano particolarmente sollecitate quando il corpo, invece di essere luogo di sensazioni positive in quantità sufficiente da garantire le basi del "ben-essere", è il luogo del danno, della funzione alterata, della diversità. Un corpo che vive in modo amplificato il divario tra ciò che sente e ciò che riesce a decifrare, modificare, esprimere. La catena delle generazioni e dei rispecchiamenti Un giovane padre di una bimba di sette anni con la sindrome di Down diceva, con molto coraggio e con affetto: “Sentite che cosa assurda ho pensato quando mi hanno detto che la mia bambina aveva la sindrome di Down ; sapete cosa ho pensato? Non sarò mai nonno”. Parole che questo papà pronunciava con tutto il dolore, ma anche con un forte senso critico, sottolineando la difficoltà di pensare al futuro come a qualcosa di immaginabile, vivibile, recuperando la perdita della continuità della catena delle generazioni e anche una sessualità possibile per la propria figlia, provando a riconoscerne la dignità e insieme il limite e la diversità. Andrea Canevaro scrive: “Il futuro in quanto tale è imprevedibile”, noi possiamo solo immaginarlo, fare ipotesi, progettare. Se di fronte abbiamo un bambino o una bambina disabile, o una famiglia in cui esiste un bambino o una bambina disabile, ugualmente non possiamo pretendere di progettare il futuro, di programmarlo, di fare percorsi di crescita educativa, cercando di sistemare e controllare tutto a priori. Però, se sono un genitore, posso sentire l’importanza di accompagnare la mia bambina, se sono un operatore, di affiancare quella famiglia e quel bambino, a pensare globalmente anche alla sua sessualità, magari diventando più consapevoli di quanto sia difficile non sapere se e quando i bambini disabili di cui mi curo da adulti riusciranno a vivere esperienze positive anche relativamente alla propria dimensione affettiva e sessuale, in senso ampio. Comunque, come operatori possiamo pensare di farci trovare al fianco dell’altro, pur nella inevitabile incertezza. Ecco cosa si può intendere quando si dice che non ci sono risposte preconfezionate: a volte ci si sente incapaci di rispondere perché il ruolo che possiamo rivestire come operatori ci porta anche a dover dire semplicemente “non lo so”, e il nostro lavoro diventa più un lavoro di essere con l’altro, piuttosto che fare per l’altro. A volte questo senso di impotenza parte proprio dalla paura di infliggere un dolore ulteriore e questo è particolarmente vero soprattutto se si è un familiare, un genitore. Un “codice”comune per riconoscere le diversità Come possibili conseguenze pratiche e positive di questi percorsi di riflessione e formazione, le stesse interpretazioni sulle esperienze di persone con disabilità e i significati che spesso si attribuiscono riguardo ad alcuni comportamenti sessuali ad esempio meno inibiti o che non si contengono entro modalità ed espressioni comunemente condivise, potranno essere affrontate con meno apprensione e collocate in un ambito meno distante da vissuti di "normalità"e comprensione reciproca. Invece spesso tutto appare come se le emozioni, il desiderio, la ricerca di piacere, l'appagamento a partire dal corpo non appartenessero ad una matrice comune di tutti noi come persone, ma dovesse essere inventato un nuovo codice per essere decifrate se rapportate a una persona disabile. La modalità che spesso si ritrova rispetto alla sessualità e disabilità di presa di distanza, di forte senso di inadeguatezza e di separazione dalle proprie competenze sia professionali che personali, inevitabilmente fa pensare ad un'interpretazione che ricerca il controllo su ciò che per altri versi proprio la sessualità evoca come imprevedibile: l’istinto, la passione, il desiderio…l’incontrollabile. Mai come nel campo della disabilità si è manifestato il bisogno di affermare che la sessualità non è cosa che appartiene solo al terreno della genitalità. Forte è il ricorso ad una lettura delle manifestazioni anche sessuali delle persone disabili come "puri" istinti dettati da tempeste ormonali o, all'opposto, espressione di affetti esclusivamente platonici e di una sublimazione tanto desiderata quanto improbabile. Proprio in quanto posizioni estreme sono significative e illuminanti quando possono mostrare, magari con un percorso di riflessione, la loro natura spesso difensiva. Dividere salomonicamente i tipi di deficit e le relative condotte e necessità sessuali, credo esprima ad esempio, proprio questa difficoltà di cogliere nella relazione di cura, le analogie e le identificazioni possibili tra le figure coinvolte. Se riconosciute, le medesime realtà diventano la prima concreta possibilità di scambio e quindi di crescita. La sessualità, come l'acqua, non può essere attraversata senza essere disposti a sentirsi immersi nelle sue peculiarità. Partecipare, prendersi cura di sé e dell’Altro, ripropone inevitabilmente il lavoro mai esaurito di inclusione e integrazione della persona, delle persone. Jean-Paul Sartre così scrive: “Qualunque zona del corpo venga toccata, è la persona che viene toccata – con amore o con odio – con gioia o con tristezza.” Dott.ssa. Maria Cristina Pesci Medico Chirurgo, spec. Psicologia Medica, spec. in Psicoterapia, Sessuologa Società Ital. Psicoterapia Psicoanalitica Via L.Toso Montanari, 16 – 40138 Bologna Cell. +393392254888 [email protected] BIBLIOGRAFIA • A.A.V.V. (2002) Figli per sempre. Carocci Faber, Roma. • Balsamo, C. (a cura di), Incontrare/ribaltare: riconoscersi tra diversità e disabilità. Carocci, Roma 2004. • Bion, W. R. (1961) Esperienze nei gruppi. Armando, Roma 1971. • Ferrari, A., Cioni, G., Le forme spastiche delle paralisi cerebrali infantili. Springer, Milano,2005. • Imbasciati, A. (1983) Sviluppo psicosessuale e sviluppo cognitivo. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1983. • Klein, M. (1960) Sulla salute mentale. Richard e Piggle, II, 1, 1994. • Negri, R. (1988) La grande occasione per il pieno dispiegamento delle potenzialità del soggetto con danno motorio cerebrale, in: Giornale Italiano Medicina Riabilitativa 1988, 3(II), 183-188 • Negri,R.(1991), Il ruolo delle dinamiche emotivo-affettive nella comunicazione e nell’apprendimento del bambino con grave tetraplegia. 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