Il Progetto in provincia di Imperia

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Il Progetto in provincia di Imperia
Memoria delle Alpi/Mémoire des Alpes
ITINERARI DELLA MEMORIA IN PROVINCIA DI IMPERIA
Luoghi ed eventi dal 1931 al 1945
Il progetto “ La Memoria delle Alpi” ha inteso proporre le aree transfrontaliere delle regioni alpine
come laboratorio di un diverso rapporto con la storia del XX secolo, rispondendo così al necessario
processo d’integrazione europea. Partendo da una diversa concezione museale che pone al
centro dell’attenzione il territorio, il progetto si è posto l’obiettivo della creazione di un’ampia rete di
“ecomusei, diffusi o virtuali”.
L’iniziativa è nata da un’ accordo tra Istituzioni di tre Paesi, la Francia, l’Italia e la Svizzera, che
considerano le Alpi, dal Mar Ligure al Cantone Ticino, come un unico sconfinato “museo diffuso del
territorio” nel cuore dell’Europa, ricco di segni di una storia millenaria: crocevia di partenze e di
ritorni di emigranti, esuli politici ed ebrei, luogo di accoglienza e rifugio, di avvenimenti bellici. In
particolare la Storia del periodo 1938 (emanazione delle leggi razziali in Italia) – 1945 (fine della
guerra mondiale), relazionata ad un contesto più ampio, evidenzia quanto e come abbiano inciso
la geografia e la cultura delle regioni alpine sulle persecuzioni politiche e razziali, sulle vicende
belliche, sui movimenti di resistenza.
Sul territorio della provincia di Imperia si propongono agli interessati e ai turisti una serie di
percorsi o luoghi di visita opportunamente segnalati e rappresentativi dei temi sopra indicati. Le
tappe principali (da Grimaldi al Colle di Nava) sono collocate in piccoli borghi dell’entroterra, già
ricchi di altri valori di attrazione, o relazionate a sentieri, strade e fortificazioni militari ed anche
spiagge litoranee. Chi sceglierà di percorrerli potrà stabilire una relazione tra il presente e gli
avvenimenti del passato; si troverà ad esempio a camminare sui sentieri utilizzati dagli ebrei
durante il loro esodo verso la Francia, quegli stessi sentieri percorsi negli anni precedenti dagli
oppositori politici del fascismo e dopo il 1943 dagli ebrei in fuga dalla Costa Azzurra, occupata dai
tedeschi. Alcuni tra gli itinerari naturalistici più suggestivi dell’arco alpino ligure sono, al contempo,
ricchi di drammi anche di più antiche battaglie, come testimonia l’impressionante sistema di
fortificazioni militari che costellano il crinale (con varie stratificazioni storiche) e che nell’ambito del
progetto sono state globalmente censite.
Presso i quattro punti informativi, ubicati in posizione strategica lungo vie principali di accesso al
territorio, il visitatore potrà reperire le cartine ed i materiali didattici e multimediali predisposti e a
disposizione anche per consultazioni via Internet.
DIFESE MILITARI ED EVENTI BELLICI (1940-1945) IN PROVINCIA DI IMPERIA
Davide Bagnaschino
Nel 1861, con l’unità d’Italia, una delle problematiche che il nuovo Regno d’Italia dovette affrontare
fu la difesa dei confini; le nuove frontiere che si erano create erano, infatti, completamente prive di
difese, mentre, per quei brevi tratti di confine rimasti inalterati, le fortificazioni non rispondevano più
alle nuove esigenze territoriali. Dopo la compilazione di diversi progetti, da parte delle commissioni
che si susseguirono nei vari studi, venne approvato un Piano Ridotto, che prevedeva la
realizzazione di un minore numero di piazze fortificate rispetto a quanto inizialmente ipotizzato;
infatti le finanze dello stato non erano in grado di sostenere l’enorme spesa del Piano di Difesa,
elaborato in forma completa.
Il Piano Ridotto comprendeva comunque una serie di piazze fortificate a difesa di alcune città
(Roma, Firenze, ecc.), batterie costiere su zone portuali e località importanti (Venezia, Genova,
Savona, ecc.), campi trincerati su alcuni colli degli Appennini Liguri (Nava, Zuccarello, Melogno,
ecc.)1 e infine la “chiusura” delle Alpi con la realizzazione di campi trincerati e sbarramenti su colli
e fondo valle (Colle di Tenda, Valle Stura, Moncenisio, ecc.).
I primi interventi furono mirati alla realizzazione di strade militari per giungere in quota e trasportare
così sulle posizioni prescelte materiali da costruzione, operai, soldati e le stesse artiglierie che
dovevano armare fortificazioni e batterie. Successivamente vennero costruite le caserme, le
batterie e i forti.
Nella zona delle Alpi Marittime e Liguri le difese si articolavano dal Campo Trincerato del Colle di
Tenda (6 forti, alcune batterie e molti ricoveri e baraccamenti), al Saccarello (1 batteria e diverse
caserme), alle posizioni di Marta (5 batterie e alcune caserme) e allo sbarramento del Colle di
Nava. Sebbene si trattasse di sistemazioni tra loro indipendenti, le diverse posizioni permettevano
il controllo di tutta la zona e impedivano il transito su tutte le strade e valichi di una certa
importanza.
Lo sbarramento del Colle di Nava
Per controllare l'importante colle di Nava, dal 1880 al 1888, venne realizzato un campo trincerato,
al fine di impedire che, eventuali truppe francesi, sbarcate sulla costa nei pressi di Imperia,
potessero dirigersi verso il Piemonte e la Pianura Padana attraverso la strada che porta da
Oneglia a Ormea.
Perni della sistemazione erano il Forte Centrale e il Forte Bellarasco, che erano ubicati sul Colle,
appoggiati sul fianco destro dalle opere Pozzanghi e Montescio e sul fianco sinistro dall'opera
Richelmo. Completavano lo schieramento le batterie semipermanenti di Monte Ariolo, San Lorenzo
e Poggio Forche. Il settore di azione delle batterie copriva, oltre alla zona del colle vera e propria,
anche le vallate e i sentieri laterali, saldandosi con l'azione svolta dalle opere del Saccarello e di
Zuccarello, al fine di creare quasi una linea continua lungo le Alpi Liguri.
Mentre il Forte Centrale e Bellarasco spazzavano il colle e i suoi accessi con mitragliatrici e pezzi
di piccolo calibro, le altre opere erano preposte al controllo delle ali e all'azione lontana con i pezzi
di calibro maggiore.
Il Forte Centrale era posto a diretto controllo del pianoro; era armato con cannoni da 9 BR/Ret.
(87 mm. con bocca da fuoco in bronzo, rigata a retrocarica) su affusto da assedio (ovvero a ruote,
facilmente posizionabile nelle diverse casematte a seconda delle esigenze) e mitragliatrici Gardner
da 8 mm. che spazzavano tutta l'area del passo e la strada nazionale Oneglia - Ormea.
Quest'ultima passava all'interno dello stesso Forte Centrale attraverso la "tagliata": grazie a due
ponti levatoi la Statale poteva infatti essere interrotta, impedendo il transito2.
1
Lo sbarramento dei passi appenninici si era reso necessario in quanto la Marina Reale, formata dal coacervo delle marine preunitarie,
non era in grado di affrontare la forza navale francese e tanto meno quella inglese; quindi non sarebbe riuscita a opporsi ad eventuali
sbarchi sulle coste, che avrebbero aggirato le fortificazioni sulla cerchia alpina.
2
La strada attualmente passa all'esterno del forte, modificata nel dopoguerra per facilitare il transito dei mezzi motorizzati.
L'opera era un forte di sbarramento in fossa, con pianta poligonale, a due piani casamattati. Il
livello inferiore rimaneva sotto il fosso, che si apriva in corrispondenza dell'ingresso della strada
nel forte, e oltre alla tagliata comprendeva: camerate, locali comando, latrine, depositi e le quattro
possenti caponiere che controllavano il perimetro di tutto il fossato. Queste avevano struttura
trapezoidale con spigoli arrotondati a forma di orecchione, allo scopo di permettere, con le
numerose feritoie, oltre che il tiro di infilata, anche il controllo della parte di fossato circostante la
caponiera. La copertura era a volta con uno spesso strato di terra inerbita. Il piano superiore era a
livello del piano di campagna, con le feritoie di fucileria, delle mitragliatrici e dei cannoni che si
aprivano a raso del terreno. Le casematte di artiglieria (come pure altri locali) si affacciavano su tre
cortili interni con ampie aperture per garantire una rapida uscita dei gas di sparo. Le murature in
pietrame avevano spessore medio di un metro e mezzo, che saliva a circa tre metri nelle
casematte di cannoni e mitragliatrici, le coperture erano a volta con rivestimento in terra, per
proteggere i locali dai tiri arcuati.
Le feritoie sono in conci di pietra oppure ornate da cornici in mattoni rossi. Il fossato, nella parte
orientale, prosegue per un lungo tratto verso la Torre Richelmo, risalendo il dolce pendio,
controllato da una caponiera e da due casematte per mitragliatrici Gardner, per impedire il
passaggio ad eventuali fanterie nemiche sul fianco sinistro dello schieramento.
Attualmente il forte si trova in buone condizioni.
Il Forte Bellarasco, posto a Sud e più in basso del precedente, controlla la rotabile e i versanti
occidentali e meridionali del valico, costituendo una sorta di punta avanzata della sistemazione.
Anch’esso é un forte di sbarramento in fossa, a forma di rombo molto schiacciato, a due piani
casamattati. Il livello inferiore rimane sotto il fossato e comprende: camerate, locali comando,
latrine, depositi (tutti affacciati sul fronte di gola) e i due cofani di controscarpa3 che controllano i
cinque lati del fossato.
Il livello superiore si innalza con andamento differente; il fronte principale ha infatti tracciato
poligonale, arretrando in due punti dalle murature sottostanti, e vi si trovano le cannoniere per i sei
cannoni da 15 GRC/Ret su affusto da assedio e le due mitragliatrici Gardner dirette verso Ovest e
per la fucileria. quattro pezzi sono orientati sul versante Sud del colle, con azione frontale, due
verso il valico e il Forte Centrale in fiancheggiamento. Il fronte di gola ricalca quello sottostante;
accanto all'ingresso, dotato di ponte levatoio, vi sono altri locali caratterizzati sulla facciata dalle
feritoie per fucileria.
I Forti Pozzanghi e Richelmo sono due opere pressoché uguali, che sorgono sulle omonime
alture che dominano rispettivamente da Ovest e da Est il Colle di Nava. Sono due piccole opere a
torre in fossa, ad un solo piano fuoriterra, con sottostante cisterna e sovrastante terrazzo
utilizzabile per la fucileria.
I due cannoni da 9 BR/Ret., su affusto da assedio, erano posizionabili in sei casematte a seconda
delle esigenze, come pure le due mitragliatrici Gardner, che proteggevano il campo trincerato da
eventuali aggiramenti sulle ali. L'ingresso è ricavato sul retro, protetto dai tiri nemici, con un grande
andito a volta, controllato da feritoie, dotato di ponte levatoio e battiponte in pietra. Al centro della
struttura un pozzo verticale funge da camino di ventilazione per le casematte e da pozzetto per
convogliare l'acqua piovana nella sottostante cisterna.
Il Forte Montescio si differenzia dalle altre opere della piazza, si tratta infatti di un'opera con le
artiglierie posizionate in barbetta, ovvero all'esterno, e non in casamatta. Il nome corretto di questo
tipo di fortificazione è batteria di protezione, anch'essa dotata di fossato, sebbene su soli tre lati,
completamente controllato dalle due belle caponiere che hanno a loro volta una protezione
chiamata fossato diamante.
3
Si tratta di caponiere che si trovano però all'esterno del fosso e sono addossate al muro di sostegno, maggiormente riparate al tiro
avversario e in grado di battere tutto il fossato rimanendo agli spigoli dello stesso. Le due strutture sono accessibili attraverso due scale
che sottopassano il fosso e risalgono con due rampe all'interno dei locali.
Sul fronte di gola si aprono tutti i locali dell'opera, con la facciata scandita dalle feritoie per fucileria
riquadrate in mattoni rossi e l'ingresso con ponte levatoio. Sulla copertura, in terra, si trovano le
piazzole per i due mortai da 15 AR/Ret. (da 149 mm. in acciaio, rigato, a retrocarica) e i quattro
cannoni da 15 GRC/Ret. questi ultimi erano incavalcati su affusto da posizione, in piazzole
(ognuna per due pezzi) separate tra loro da una grossa traversa in terra, al di sotto della quale si
trova la riservetta munizioni (qui è ancora possibile notare i sostegni delle mensole dove erano
stoccati i colpi di pronto impiego).
I locali sono distribuiti su due livelli: al piano inferiore, sotto il fossato, troviamo le caserme,
depositi, cisterne, ecc, al piano superiore gli alloggi ufficiali, la polveriera, le riservette.
Dall'ingresso, seguendo la larga galleria che attraversa il paradosso parallelo al fronte di gola, si
arriva alle postazioni dei cannoni; sul fronte un piccolo spalto avrebbe dovuto proteggere uomini e
pezzi da eventuali colpi diretti mentre le traverse in terra, ai lati delle piazzole, avrebbero dovuto
ridurre gli effetti dei tiri sul fianco o giunti a segno, limitando la proiezione di schegge.
La posizione di Marta
A partire dal 1891 la zona di Marta vide la realizzazione di un campo trincerato costituito da cinque
batterie di protezione, tutte armate con cannoni da 15 G.R.C./ Ret. Due occupavano la cima e le
falde settentrionali del Balcone di Marta, le rimanenti erano sulla Cima di Marta, sulla Testa della
Nava e sul Monte Ceriana. La zona di Marta si protende verso Ovest, soprattutto con il rilievo del
Balcone, costituendo una punta avanzata verso le posizioni francesi; per questo le batterie
avevano in parte assunto il carattere di opere ad azione lontana, potendo colpire direttamente
obiettivi posti nel vicino territorio nemico. In particolare la batteria del Balcone di Marta poteva, al
limite della gittata, arrivare sino all’Authion, dove erano concentrate batterie e fortificazioni francesi.
Le grandi caserme di Marta potevano alloggiare 515 uomini, 30 quadrupedi e 16 pezzi d’artiglieria
ed erano costituite da diversi fabbricati di cui uno a due piani; altri due ricoveri sorgevano nei
pressi di Testa della Nava e Bassa di Sanson, anch’essi con una parte destinata al personale e
una a magazzino di artiglieria per 4 pezzi.
La batteria del Saccarello
Sulla vetta del Monte Saccarello intorno al 1900 venne realizzata una batteria di protezione,
armata con quattro cannoni da 15 G.R.C. / Ret. (da 149 mm. in ghisa, rigato, cerchiato a
retrocarica), destinata a controllare i valloni che risalivano da Briga e i diversi colli tra il Monte
Bertrand e Collardente. I quattro pezzi erano posizionati su altrettanti paioli, dietro un parapetto, su
affusto a cassa da posizione (con campo di tiro di circa 150°) ed erano suddivisi in due sezioni.
Poco dietro alle barbette si trovavano la riservetta in caverna e il ricovero uomini ricavato
anch’esso nella roccia, al fine di porli al riparo da eventuali colpi nemici. All’interno della polveriera
una piccola casetta di legno proteggeva le polveri dall’umidità.
A ridosso del crinale nel tratto Passo Tanarello – Passo di Garlenda
ospitavano le truppe e il materiale impiegato per la difesa.
numerose caserme
Il Vallo Alpino
Il Vallo Alpino è quel complesso di apprestamenti difensivi realizzato a cavallo delle due guerre
mondiali, dal 1931 al 1940, a difesa di tutta la frontiera terrestre italiana, da Ventimiglia a Fiume,
lungo l'arco alpino; è una linea difensiva montana, che sfrutta appieno la scarsità di rotabili,
sentieri, di colli e le difficoltà create dall’ambiente alpino.
Intorno al 1924-25 si ebbe un’implementazione della rete stradale (alcune risalgono già alla fine
del XIX secolo), la realizzazione di nuove batterie campali con relativi tracciati di accesso, la
costruzione di caserme, depositi e di alcune piccole postazioni in caverna per mitragliatrici e
cannoni in diverse zone dell’arco alpino.
Nel 1931 lo Stato Maggiore del Regio Esercito emanava le prime disposizioni organiche per la
creazione del nuovo sistema difensivo che, nella parlata corrente, venne definito Vallo Alpino
Littorio e, una volta terminato, doveva rendere ermetico il confine alpino. Una serie di circolari
(200, 800, 7000, 15000), con seguenti modifiche e aggiunte, disposero nel corso degli anni le
caratteristiche della sistemazione e delle opere, le armi impiegate, il tipo di artiglierie, le caserme,
ecc.
Inizialmente il progetto prevedeva una sola linea fortificata, realizzata per quanto possibile in
prossimità del confine, con alcune batterie di artiglieria su posizioni arretrate; in seguito la
sistemazione difensiva venne estesa e organizzata su più linee successive per avere maggiori
probabilità di fermare l'attacco dell'avversario.
Così in Alta Valle Roja, in corrispondenza del Col di Tenda, si hanno ben cinque posizioni
distanziate tra loro (di cui una mai portata a termine), con una profondità di circa trenta chilometri;
nella Bassa Valle Roja invece, sull’asse della cornice, si hanno solo due linee successive (con
alcuni sbarramenti arretrati sul tracciato dell’Aurelia), con profondità di due chilometri, controllano
la Strada Statale 20 e la Strada Statale 1 che convergono a Ventimiglia.
Il sistema difensivo del Vallo Alpino è composto da vari elementi: strade, caserme, depositi, fortificazioni. Le prime servono ovviamente per poter accedere ai crinali e alle posizioni dove sono
attestate le linee di difesa, le artiglierie, le caserme, le opere stesse; le seconde sono ubicate sia in
quota che nei fondovalle, a seconda del tipo di struttura; i depositi erano formati da fabbricati per
porre al riparo delle intemperie pezzi di artiglierie, automezzi, ecc.; le fortificazioni infine sono
realizzate sia a ridosso delle creste dei rilievi, al fine di sfruttarne le difficoltà di accesso, sia nei
fondovalle a scopo di sbarramento.
La posizione difensiva (fortificazione) è formata quindi da diversi elementi:
•
Le opere (che in base alle circolari dello SME, epoca costruttiva e caratteristiche di resistenza e importanza potevano essere chiamate appunto opere, ovvero centri di fuoco
o centri di resistenza), ossatura e parte più importante del sistema; potevano essere in
caverna (ricavate interamente in scavo in roccia) o più raramente in calcestruzzo (in
caso di assenza di banchi rocciosi l’opera era formata da un monoblocco in cemento),
erano costituite da uno o due ingressi, una serie di locali logistici (camerata, depositi,
locali gruppi elettrogeni, ventilazione, ecc.) collegati da gallerie e alcune postazioni
ubicate in superficie. Erano armate prevalentemente di due, tre o quattro mitragliatrici
(FIAT 14/35), con presidio di quindici – venti uomini; le opere, con il fuoco delle
mitragliatrici, che si svolgeva soprattutto in fiancheggiamento, battevano tutto il
reticolato di filo spinato, che era realizzato sul margine anteriore della Posizione di
Resistenza (P.R.) e proteggevano le opere attigue, per impedirne l’eventuale assalto da
parte di nemici. Erano generalmente protette ai grossi calibri, ovvero (come pure le
batterie in caverna e gli osservatori) potevano resistere ai colpi di maggiore potenza
delle artiglierie e bombe d’aereo.
•
Le batterie in caverna che, analogamente alle opere, erano ricavate interamente
sottoterra per sottrarle al tiro di artiglieria nemico, avevano uno o due ingressi e
solitamente quattro casematte in caverna per altrettanti cannoni da 75 mm. (cannoni da
75/27 mod. 906), locali logistici in galleria (camerate, depositi munizioni, locali
comando, ventilazione, gruppi elettrogeni, depositi dell’acqua, infermeria, ecc.)
rapportati alla maggiore mole dell’opera e, talvolta, osservatori e casematte per
mitragliatrici. Le batterie erano chiamate Sempre Pronte (Btr S.P. era la sigla utilizzata),
in quanto dovevano essere sempre in grado, con brevissimo preavviso, di aprire il
fuoco sugli obiettivi prefissati. Normalmente le batterie in caverna battevano le opere
della P.R., rotabili e colli importanti con fuoco in fiancheggiamento, ovvero quasi
sempre orientato in modo normale al confine e alle provenienze avversarie.
•
I ricoveri in caverna, che potevano essere per truppe di contrattacco (reparti giunti solo
all’atto di un’eventuale mobilitazione a rinforzo del dispositivo) o per appostamenti allo
scoperto (reparti con due o tre armi da posizionarsi nei pressi dei due ingressi a
controllo di tratti secondari o particolarmente impervi della Posizione di Resistenza);
erano ricavati in caverna e formati da due ingressi, un camerone e alcuni locali
secondari. Erano posizionati generalmente dietro le posizioni, al riparo delle creste, in
modo da risultare defilati ai tiri avversari.
•
Gli osservatori, erano posizionati su cime con lungo campo visivo e panoramico e
consentivano di dare informazioni alle varie batterie di artiglieria per correggerne i tiri e
informare rapidamente sui movimenti del nemico; erano realizzati in caverna o calcestruzzo, con ingresso e locali sotterranei.
•
Le caserme erano poste per quanto possibile in vicinanza delle opere, ma defilate
rispetto ai tiri nemici e poste dietro i rilievi. I soldati della G.a.F. si alternavano nel
presidio delle opere e passavano due o tre giorni alla settimana nelle casermette
difensive, svolgendo comunque servizi di vigilanza e lavori leggeri.
•
Le batterie allo scoperto erano numerose, sebbene quelle di maggior importanza
fossero tutte dislocate in caverna; esse si suddividevano in Sempre Pronte (Btr S.P.),
ad Approntamento Accelerato (Btr A.A.) e ad Approntamento Normale (Btr A.N.), in
base alla rapidità di entrata in linea. In particolare quelle Sempre Pronte disponevano di
casermette e depositi in vicinanza alle piazzole ed erano preposte a battere settori
importanti quali strade e parti della Posizione di Resistenza (P.R.).
Le opere erano disposte in base all’orografia del terreno (per usarne vantaggiosamente le asperità
e garantire i necessari campi di tiro delle armi) e distribuite in modo particolarmente capillare (per
controllare tutti i sentieri, colli, strade da cui poteva giungere il nemico). Gli ingressi venivano
ricavati di solito posteriormente, in modo da essere al riparo da colpi diretti ed erano dotati di porte
blindate di modelli differenti a seconda dell’ubicazione e degli eventuali obiettivi visibili. Le
postazioni (anche chiamate malloppi) erano annegate per quanto possibile nel terreno, solo le
feritoie ne emergevano e una parte della copertura. Lo spessore del cemento era di circa tre metri
e la protezione era poi assicurata da una piastra di feritoia, che lasciava solo lo spazio minimo per
il maneggio dell’arma, che rivestiva interamente la parte anteriore della casamatta, ulteriormente
chiusa nella parte superiore da un doppio strato di putrelle.
Tutte le strutture poste in superficie (ingressi e blocchi) erano per quanto possibile mascherati con
zolle erbose, pietre, oppure strutture riproducenti la roccia e talvolta fabbricati rurali, al fine di
nasconderle all’osservazione francese. Anche durante i lavori di costruzione venivano presi alcuni
accorgimenti (palizzate, muretti, paraventi in cannicciato, ecc.) per impedire che eventuali spie
francesi ne seguissero il progredire.
La sistemazione difensiva di tutto l’arco alpino era suddivisa in settori, ognuno dei quali aveva
come compito il controllo di un tratto di fronte di estensione tale da poter essere controllato da una
singola divisione, che affluiva, in caso di mobilitazione, a rinforzo delle normali truppe di presidio
delle opere (la G.a.F.). I settori erano poi suddivisi in sottosettori (per compartimentare zone di
diverse caratteristiche) e infine in capisaldi; questi avevano ognuno un preciso compito, come ad
esempio sbarrare l’Aurelia ed il litorale alle Ville (1° caposaldo Castel d’Appio), oppure controllare il
sentiero proveniente da Saorge (6° Caposaldo Muratone) ed erano composti da un numero
variabile di opere, ricoveri e casermette.
La Provincia di Imperia contava due Settori di Copertura: il I Settore (Bassa Roja), con sviluppo
lungo lo spartiacque tra il Torrente Nervia e il Fiume Roja e sui rilievi tra quest'ultimo ed il Torrente
Bevera e intorno al Monte Magliocca sino al Mare e il V Settore (Media Roja), che si snodava sul
crinale fra Testa d’Alpe e Cima di Marta. Il II Settore sbarrava invece l’Alta Val Roja e apparteneva
alla provincia di Cuneo.
Il I Settore doveva sbarrare l’Aurelia, sul litorale verso Ventimiglia e Sanremo, e la Strada Statale
20 del Tenda proveniente da Breil verso Ventimiglia, il V Settore doveva invece garantire il
possesso delle creste tra Marta e Testa d’Alpe, impedendo il transito del nemico verso le valli
Nervia, Argentina, Impero e Tanaro.
Le truppe destinate al presidio delle opere appartenevano alla G.a.F., la Guardia alla Frontiera,
creata nel 19344. Come nel caso di altre specialità militari, anche la G.a.F. non sfuggiva alla
retorica del periodo e aveva i suoi motti: DEI SACRI CONFINI GUARDIA SICURA e RESISTERE
AD OGNI COSTO, riassumevano i compiti di questo corpo definito statico, per il suo permanere
alle alte quote sempre, anche durante i periodi invernali.
La G.a.F. era divisa in tre specialità: artiglieria, fanteria e genio per potere soddisfare sia le
esigenze di fuoco sia quelle di lavori legati alle opere e agli impianti tecnici in esse presenti. I
4
Il Regio Decreto che ne sanciva la nascita fu emanato però solo nel 1937, sebbene con decorrenza retroattiva.
soldati dovevano essere sempre vigili e pronti a fronteggiare qualsiasi attacco di sorpresa, portato
senza dichiarazione di guerra; insieme a Guardia di Finanza, Regi Carabinieri e Milizia Confinaria
essi dovevano effettuare una vigilanza continua sulla frontiera e stroncare sulla P.R. ogni
aggressione nemica. Infatti ogni caposaldo disponeva del numero di uomini necessario al presidio
delle opere, delle batterie in caverna e sempre pronte al controllo degli intervalli. In seguito, e
comunque all’atto della mobilitazione, le truppe di stanza sul terreno ricevevano graduali rinforzi:
battaglioni di Camicie Nere, compagnie di mitraglieri da posizione e infine le truppe delle divisioni
di fanteria affluivano nelle rispettive zone a completare lo schieramento difensivo.
Ciò accadde anche nel Giugno 1940 (dopo precedenti attivazioni del dispositivo nel 1939), con
l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania, a fendere quella pugnalata alla schiena alla
Francia, per ottenere qualche migliaio di morti necessari, secondo Mussolini, a sedersi al
banchetto dei vincitori. Durante la Battaglia delle Alpi, durata solo 15 giorni, le fortificazioni non
subiscono la prova del fuoco, in quanto gli scontri si svolgono interamente in territorio francese e
non riguardano direttamente le opere. Infatti, dopo alcuni giorni di attesa, durante i quali ambedue
gli schieramenti tengono contegno difensivo, il capo del Governo decide che è ora di passare
all’attacco e chiede al Capo di Stato Maggiore, il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, di mettere in
atto l’offensiva su tutte le Alpi Occidentali.
Dopo aver invano cercato di guadagnare qualche giorno, necessario alla preparazione delle operazioni e allo spostamento di molti reparti e batterie sino a quel momento schierati sulle posizioni
difensive, Badoglio ordina alle truppe di portarsi a ridosso del confine e passare all’attacco su tutto
il fronte con particolare riferimento a tre direttrici (R= riviera, M= Maddalena e B= Piccolo San
Bernardo), dove lo sfondamento avrebbe dovuto avere maggiori probabilità di successo.
Alcuni reparti della G.a.F. vengono impiegati come punte di diamante in operazioni di avanguardie,
in quanto ormai esperti del territorio; nella Media Val Roja, al Balcone di Marta, cinquanta di questi
arditi, selezionati fra la truppa di stanza a Marta, guidano l’attacco di alcuni reparti della Divisione
Modena, attraverso la Bassa di Giasque, verso la Cima d’Anan; qui vengono fermati dalla decisa
reazione dell’artiglieria francese, in particolare dell’opera Maginot di Monte Grosso che spara circa
3.000 colpi da 75 mm. sulle Bergerie d’Anan, impedendo ogni ulteriore progressione verso Fontan
e Breil.
Dopo la Battaglia delle Alpi la vita di guarnigione riprende intorno e dentro le opere, i militi della
G.a.F. e delle altre specialità sono ben contenti di non venire spediti in altri scacchieri, torridi
oppure, nel 1941, gelidi. Infine l'otto Settembre 1943 vede tutte le opere e caserme abbandonate e
poi assaltate dai civili, che si riforniscono di generi alimentari, vestiario, pentole, e tutto quello che
poteva essere utile alla vita di tutti i giorni e che mancava; poi dai partigiani che presero le armi
rimaste, le munizioni e quel poco che ancora rimaneva di coperte, telefoni, ecc.
Finita la guerra, il trattato di pace di Parigi del 1947, sancisce lo spostamento del confine
generalmente sullo spartiacque, lasciando così tutta l’Alta Valle Roja, la Valle Stretta, il
Moncenisio, il Monte Chaberton ed altre piccole regioni alpine alla Francia; inoltre tutte le
fortificazioni che rimangono in Italia, nonostante lo spostamento della frontiera, devono essere
distrutte, per non costituire ostacolo a eventuali rivalse francesi di fronte a pretese dello stato
italiano.
ƒ Il I settore di copertura G.a.F. (Vallo Alpino)
Il I Settore di Copertura della G.a.F. Bassa Roja, era quell'organismo preposto alla difesa della
frontiera terrestre con la Francia tra Testa d'Alpe e il mare. Il settore si articolava su un territorio
molto vario: dalle scogliere a picco sul mare, ai boschi della zona dell’Abegliotto, ai paesaggi brulli
e rocciosi del Magliocca e del Colombin.
Gli scopi del settore erano sostanzialmente tre:
a)
a Sud impedire l'accesso lungo la Strada Statale N.1 Aurelia;
b)
a Nord impedire l'accesso lungo la Strada Statale N. 20 del Colle di Tenda e della Val Roja;
c)
infine controllare i vari sentieri che, distaccandosi dai due percorsi principali, risalivano i
pendii verso la Valle Roja tra il Monte Maltempo ed il Mare e verso la Valle Nervia tra il Monte
Forquin e la Foce del Fiume Roja.
Il settore comprendeva: due sottosettori: il I/A Destra Roja e il I/B Sinistra Roja; tredici capisaldi e
un totale di 200 opere così suddivise 114 centri di resistenza, centri di fuoco e opere, 2 batterie in
caverna, 4 ricoveri per appostamenti allo scoperto, 28 ricoveri per truppe di contrattacco, 7 sbarramenti passivi, 15 tra caserme e ricoveri di artiglieria. Il sistema difensivo si articolava su due
linee principali: una prima linea avanzata che dal mare a Sud delle Ville si inerpicava sino al
Magliocca poi da qui scendeva a sbarramento del Torrente Bevera nell’omonima stretta e risaliva
sul Monte Pozzo – Monte Maltempo per abbassarsi nuovamente nel Roja a Sud di Airole e
congiungersi sotto all’Abegliotto alla prima linea arretrata; questa da Ventimiglia seguiva la riva
sinistra del Roja, saliva al Monte delle Fontane e correva lungo la cresta passando da Cima
Tramontina, Monte Erisetta, Monte Abegliotto, Monte Colombin, Monte Forquin, Cima di Cremo
sino a Testa d’Alpe.
Una bretella sbarrava infine il Roja dai Franchi (sotto al Magliocca) al Monte delle Fontane.
Le opere erano dislocate a mezza costa, ovvero leggermente più in basso della cresta (orientate
verso Francia), per meglio defilarsi al tiro e controllare i sentieri e le opere attigue. Tra le opere
principali (realizzate prevalentemente in caverna) vi erano piccole postazioni e monoblocchi,
realizzati dai soldati stessi durante i periodi di tensione e mobilitazione, per battere valloni e
sentieri inizialmente non controllati. I ricoveri realizzati dietro alle linee (100 - 200, metri verso Est)
servivano a porre al riparo, dagli eventuali bombardamenti nemici, le truppe mobili.
Il settore si saldava con il V Settore di Copertura G.a.F. in corrispondenza di Testa d'Alpe.
Nell’ambito del settore, le opere del Monte Forquin sono quelle meglio conservate. Sul pendio
Sud del rilievo, nella parete rocciosa, è incastonata l’opera 3; si tratta di un piccolo centro di
resistenza realizzato nel 1935 e composto da ingresso, cunicolo con camerata e alcuni locali e
dalla postazione per mitragliatrice; questa controlla il sentiero che proviene da Libri e che passa
sotto la cima del Forquin dirigendo verso Est. La mitragliatrice FIAT 14/35, di cui era armata
l’opera, era fissata su un affustino e protetta, oltre che da due metri di calcestruzzo e dallo
spessore di roccia sovrastante, da una piastra corazzata piana del peso di 800 Kg. L’ingresso si
apre verso Est, al riparo da eventuali tiri nemici; a fianco della porta blindata (oggi non più in sito)
si trova la presa d’aria corazzata (per l’impianto di ventilazione) e il locale per il gruppo elettrogeno,
costruito in un secondo tempo. All’interno è ancora possibile vedere una porta stagna mentre il
resto degli equipaggiamenti è stato asportato nel 1947.
Sulla sommità del Forquin si trova l’osservatorio, anch’esso costruito nel 1935, che doveva comunicare dati di tiro e correzioni all’artiglieria. Da qui, infatti, si gode un ottimo panorama sulla Bassa
Val Roja, su Olivetta e la rotabile verso Sospel e su alcuni obiettivi importanti in caso di conflitto.
Tramite i collegamenti telefonici potevano essere comunicati alle batterie i risultati dei tiri, eventuali
correzioni di gittata o direzione e se gli obiettivi erano stati neutralizzati o meno e se il tipo di tiro
era da ripetere.
Tra le opere del settore sono da segnalare anche: le batterie del Monte Abegliotto e Monte delle
Fontane, parzialmente distrutte e perciò non accessibili (sebbene le gallerie sotterranee ed alcune
parti dei malloppi siano ancora integri), che controllavano (con i quattro cannoni di cui erano
armate) la Posizione di Resistenza e la Strada Statale N° 20, la cui estensione delle gallerie e dei
locali sotterranei ne faceva infatti il complesso più grande del settore; le opere “tipo 15.000”
Dioscuri e Dandolo, situate sotto la Colla di Bevera, anch’esse molto estese, (di ultima
generazione, risalenti al 1939), rimaste intatte ma con ingressi e postazioni chiusi da spessi muri in
cemento, il cui armamento era composto da mitragliatrici e pezzi anticarro.
ƒ Il V settore di copertura G.A.F. (Vallo Alpino)
Il V Settore Media Roja copriva il fronte da Testa d’Alpe sino al Monte Toraggio e si snodava su un
paesaggio prevalentemente boscoso e con dolci pendii; solo alle due estremità, a Sud dell’Arpetta
e sui monti Bauso e Toraggio a Nord, la morfologia era prevalentemente rocciosa.
Scopo del settore era impedire ogni infiltrazione proveniente dai diversi sentieri che, da Breil,
Sorge e Fontan, salivano sino ad alcuni colli situati in cresta.
Il settore era suddiviso nei sottosettori V/A Muratone e V/B Marta e comprendeva tredici capisaldi
con un totale di 53 opere, 2 batterie in caverna, 5 ricoveri per appostamenti allo scoperto, 15
ricoveri per truppe di contrattacco, 8 tra caserme e ricoveri di artiglieria.
La sistemazione si snodava su due linee parallele: la prima linea correva lungo il crinale da Testa
d’Alpe all’Arpetta, Monte Cimonasso, Monte Lega, Toraggio sino al Balcone di Marta (dove il
settore si saldava con il II Settore Alta Roja); la seconda linea, in posizione arretrata doveva
fermare eventuali sfondamenti e si snodava nei boschi tra Testa d’Alpe e Monte Lega, sbarrando i
valloni dei Grugni e di Genseo e la cresta tra Monte Giardino e Scarassan. Particolarità di questa
seconda linea era lo sbarramento anticarro di Scarassan, composto da due muri di cemento e una
serie di tombini nei quali, all’occorrenza, si potevano infilare una triplice serie di putrelle che
dovevano fermare eventuali mezzi corazzati nemici.
In questo settore le opere sono quasi tutte in perfetto stato di conservazione (ovviamente prive di
impianti e serramenti), nel dopoguerra solo alcune di queste sono state oggetto di recupero delle
putrelle e corazzature.
Punto nevralgico di tutta la zona era il Balcone di Marta5 (propaggine Ovest della Cima di Marta),
vero e proprio balcone proteso verso la Val Roja, dove venne ricavata l’opera più grande del Vallo
Alpino nelle Alpi Occidentali e in assoluto una delle maggiori nel campo fortificatorio. Il complesso
si sovrappose alle precedenti fortificazioni, confermando la validità delle scelte compiute nel 1880
e la teoria secondo la quale una posizione montana mantiene inalterata nei secoli la propria
importanza strategica e militare. Come già accennato, da qui si controllava la Strada Statale 20 del
Colle di Tenda e Valle Roja e vari altri accessi da oltre frontiera, inoltre, data l’altitudine e la
vicinanza al confine, si potevano battere le posizioni francesi dell’Authion dove, nel 1940 su un
versante del massiccio (a Plan Caval) era in costruzione un’opera della Linea Maginot Alpina.
L’opera é ricavata all’interno del rilievo; dalla sommità del Balcone, la galleria principale segue la
stretta cresta rocciosa, sottopassa la selletta di quota 1998 e, superando il castello (propaggine
rocciosa del Balcone), sbuca dall’altra parte del costone a controllo della Bassa di Giacque, del
sentiero proveniente dalla Francia e del confine posto a poche decine di metri.
Il complesso è suddiviso in tre parti:
•
La batteria in caverna: occupa la parte più elevata dell’opera, sotto la vetta del Balcone
ed è costituita da due ingressi (uno riservato alla batteria uno per i sottostanti centri di
resistenza), locali logistici (gruppi elettrogeni, ventilazione, depositi, latrine, ecc.),
gallerie di collegamento, ricovero truppa, depositi munizioni, osservatorio e quattro
casematte di artiglieria. I quattro cannoni da 75/27 mod. 906 (in installazione in
caverna), avevano come asse di tiro la Cima di Durasca e controllavano la Posizione di
Resistenza fino a San Dalmazzo di Tenda e la Strada Statale 20, essendo quest’ultima
transitabile anche durante l’inverno; la batteria era del tipo sempre pronto ovvero
sempre in condizione di effettuare il tiro richiesto, entro pochi minuti dal ricevimento
degli ordini.
•
Centro di Resistenza 35 bis: è ubicato a mezza costa, sul versante Nod-Ovest del
Balcone; era armato con due mitragliatrici FIAT 14/35 che controllavano il sentiero
della Bassa di Giacque, la selletta e i fianchi scoscesi del promontorio, in altrettante
casematte ad azione frontale irrobustite con piastra pesante; le due feritoie si aprono
sulle pareti rocciose che strapiombano verso il Vallone di Marta e il Bendola; all’interno
i cunicoli partono dalla galleria principale, a metà della lunga scalinata di collegamento
tra batteria e il sottostante centro 35, prima di giungere alle postazioni; questi danno
accesso al ricovero e ai locali di ventilazione, deposito, ecc.
•
Centro di Resistenza 35: è la parte più bassa del complesso e occupa il castello; era
armato con tre mitragliatrici FIAT 14/35, una delle quali posta a diretto controllo della
Bassa di Giasque e del sentiero che in corrispondenza del colle valicava la frontiera; i
locali comprendono depositi munizioni, per l’acqua, viveri e la camerata.
•
Le diverse parti sono collegate da un lungo cunicolo che, dall’ingresso di sinistra, dopo 600 metri di
sviluppo e 100 metri di dislivello della lunga scalinata, arriva sino all’ultima feritoia del Centro 35.
5
Dettagliate informazioni sull’argomento sono contenute nel libro “IL VALLO ALPINO A CIMA MARTA. Storia, fortificazioni e
sentieri a ridosso della frontiera tra Collardente, Cima di Marta e Monte Toraggio” di Davide Bagnaschino, pubblicato dalla Atene
Edizioni - Arma di Taggia (IM).
Quasi tutte le altre opere della zona sono interessanti e facilmente accessibili, in particolare la
Batteria in Caverna del Monte Lega che controllava la parte Sud del settore (Sottosettore V/A
Muratone) e di cui era il complesso più esteso.
La Batteria di Monte Lega (anche nota come 604a Batteria Sempre Pronta), costruita dal 1932 al
1935, è ubicata sulla vetta dell’omonimo monte, all’estremità Nord del Sottosettore V/A Muratone e
ricade nella tipologia della circolare 200 dello Stato Maggiore.
L’opera è armata con quattro cannoni da 75/27 mod. 906, due mitragliatici FIAT 14/35 e due fucili
mitragliatori. I quattro cannoni della batteria dovevano controllare tutta la dorsale da Passo
Muratone all’Arpetta, a protezione delle opere di fanteria (centri di resistenza) e a sbarramento dei
vari colli, mentre le due mitragliatrici incrociavano il fuoco con il centro di resistenza 4 di Sanderan
sui pendii Nord e Nord-Ovest del rilievo, a protezione delle casematte.
Nel complesso la batteria è formata da due ingressi (armati con fucile mitragliatore), da una serie
di cunicoli (lungo i quali si aprono diversi locali per latrine, depositi munizioni, viveri e acqua, ecc)
che collegano poi le camerate, i depositi di munizioni, le quattro postazioni per i cannoni e le due
per mitragliatrici.
Le quattro casematte per artiglieria avevano il cannone da 75/27 mod. 906 su installazione in
caverna (come pure la batteria del Balcone di Marta). Le postazioni, di due m. per quattro, erano
chiuse anteriormente da un grosso piastrone corazzato dello spessore di dieci cm., cui era
direttamente ancorato il carrello del cannone; siccome il banco roccioso non emergeva
sufficientemente dal terreno (a differenza di Marta), i blocchi in calcestruzzo a protezione delle
postazioni fuoriescono dal terreno quasi interamente, con caratteristiche forme tondeggianti. Sopra
la copertura si possono ancora notare i camini di evacuazione dei fumi e dell’aria viziata.
Come le altre opere del Vallo Alpino, anche quella del Monte Lega non ha partecipato attivamente
alla Battaglia delle Alpi del Giugno 1940, infatti il campo di tiro delle armi era interamente in
territorio italiano e aveva carattere spiccatamente difensivo.
Sulla vetta del Monte Lega, non collegato direttamente alla batteria, si trova l’osservatorio,
costruito nel 1935, con il compito di dirigere il tiro dell’opera come pure di altre batterie ubicate allo
scoperto. Da qui è possibile avere, in un colpo d’occhio, tutta la situazione del fronte, dal Toraggio,
sino all’Arpetta e spaziare su tutta la Media Val Roja, osservando anche rilievi molto distanti come
Rocca dell’Abisso, il Massiccio dell’Authion, Cima del Diavolo, il Monte Bego, ecc. Verso Francia,
sui contrafforti Nord – Ovest del Lega, si possono scorgere alcuni ricoveri e opere della prima
linea, situate sotto la batteria.
E’ doveroso anche un richiamo al Monte Cimonasso, dove si snoda la Posizione di Resistenza con
le opere di fanteria; in particolare quella di maggiori dimensioni è formata dall’unione dei Centri di
Resistenza 11 e 12, un complesso con circa quattrocento metri di gallerie con ben nove blocchi
(un osservatorio in torretta metallica, sei postazioni per mitragliatrici di cui tre in casamatta
metallica e tre in casamatta di calcestruzzo e tre ingressi), due camerate e molti locali logistici.
L’opera controlla la zona di “Fascia Sagrà” (in territorio ora francese), incrociando il fuoco delle
mitragliatrici con i centri di resistenza vicini, creando uno sbarramento, nelle intenzioni
insuperabile, lungo i pendii rivolti verso Ovest e Nord dove era steso un reticolato di filo spinato
che correva lungo il margine anteriore della Posizione di Resistenza.
Bibliografia
Azeau H., La guerra dimenticata, Milano, 1969.
Bandini F., Tecnica della sconfitta, Milano, 1994.
Bagnaschino D., Gli armamenti utilizzati nelle opere del Vallo Alpino e relative corazzature, 1994.
Bagnaschino D. – Corino P., Alta Roja fortificata, Borgone di Susa 2001.
Bagnaschino D., Il Vallo Alpino a Cima Marta, Arma di Taggia 2002.
Corino P.G. – Gastaldo P., La montagna fortificata, Borgone di Susa 1993.
Corino P.G., Forte Bramafam, Borgone di Susa, 1998.
Corino P.G., L’opera in caverna del Valle Alpino, Borgone di Susa, 1995
Corino P.G. Valle Stura fortificata, Borgone di Susa, 1997.
Figara A., Guardia alla frontiera, Livorno, 1990.
Gariglio D. – Minola M., Le fortezze delle Alpi Occidentali. Dal Monginevro al mare, Borgo San Dalmazzo,
1995.
Guidetti A., Fortificazione permanente, Torino, 1913.
Montanari M., La battaglia delle Alpi Occidentali. Giugno 1940, Roma 1947.
Ugo G., Il confine italo – francese, Genova 1989.
Zabert S., Fortificazione permanente moderna, Torino, 1939.
LA PERSECUZIONE ANTIEBRAICA IN PROVINCIA DI IMPERIA (1938-1945)
Paolo Veziano
Le tracce più significative della presenza ebraica in Provincia risalgono agli inizi del ‘900 e si
trovano nel cimitero monumentale della «Foce» a San Remo. Negli anni ‘20 avvenne una prima
immigrazione in Riviera di ebrei provenienti dal Nord-Italia, si trattava in prevalenza di persone
anziane che vi si stabilirono per ragioni climatiche; in altri casi le motivazioni erano costituite da
buone opportunità lavorative. Dagli anni ‘30 si aggregarono a questo nucleo, ebrei provenienti dai
paesi mitteleuropei e in particolare dalla Germania, in seguito all'ascesa politica di Hitler. Fino al
1935 le prospettive di un inserimento lavorativo degli ebrei stranieri erano abbastanza favorevoli.
Nei primi mesi del 1937, una parte dei circa 200 ebrei residenti si era rivolta alla Comunità
israelitica di Genova chiedendo la creazione a San Remo di una base di vita ebraica. Il 23 aprile
1937 la Comunità genovese approvava la costituzione di una Sezione a San Remo. All’epoca
esistevano in città tre piccoli oratori privati e una pensione che forniva vitto kasher. La vita religiosa
si svolgeva con regolarità ed era accompagnata da notevoli contrasti interni, accentuati dalla
mancanza di un rabbino stabile.
Nei primi mesi del 1938 la Sezione contava 110 iscritti ed era costituita in maggioranza (70%) da
stranieri. L’analisi delle professioni esercitate dai contribuenti ne consente la collocazione tra la
classe medio borghese. Allo scopo di accertare la consistenza degli israeliti residenti in Italia, fu
indetto per il 22 agosto 1938 un minuzioso censimento. La rilevazione accertò la presenza in
Provincia di 260 ebrei di cui 160 di nazionalità straniera. Gli ebrei superavano in percentuale il due
per mille, ma la situazione razzistica era considerata, comunque, poco preoccupante.
L’applicazione delle normative anti-ebraiche e le sue conseguenze
Il 5 settembre 1938, fu vietato agli ebrei l’insegnamento e l’iscrizione alle scuole pubbliche d'ogni
ordine e grado e l’esercizio della libera docenza. Il 7 settembre fu disposto che gli stranieri ebrei
residenti in Italia dopo 1° gennaio 1939 avrebbero dovuto lasciare il paese entro sei mesi dalla
data di pubblicazione del decreto. I decreti successivi vietavano agli ebrei, tra l’altro, l’esercizio del
servizio militare, il matrimonio con cittadini italiani di «razza ariana» e il lavoro subordinato in
favore dello Stato, delle province, dei comuni degli enti o imprese di diritto pubblico.
In base al Decreto legge del 7 settembre, circa 5.000 ebrei stranieri avrebbero dovuto lasciare il
paese entro il 12 marzo 1939. Le gravi difficoltà incontrate nel loro allontanamento, spinsero il
Ministero dell'interno, nel gennaio e nell’aprile del 1939, a impartire istruzioni ai prefetti affinché
«fosse agevolato con ogni mezzo l’esodo degli ebrei». Da quel momento, le questure del NordItalia e le organizzazioni di soccorso ebraiche italiane avrebbero dovuto dirigere gli ebrei verso i
commissariati delle città di confine. L’espulsione verso la Francia era la soluzione più praticabile
perché la frontiera era poco presidiata e offriva buone possibilità di entrarvi illegalmente. Dalla
primavera del 1939 centinaia di ebrei avrebbero raggiunto la Provincia; il prefetto avrebbe dovuto
gestire gli allontanamenti, cercando di evitare problemi d'ordine pubblico: l'obiettivo da raggiungere
giustificava i metodi che sarebbero stati impiegati. Si procedette all’immediata legalizzazione di
attività illegali; la milizia confinaria rilevò i contrabbandieri e assunse il ruolo di «passeur di Stato»; i
barcaioli divennero uno strumento indispensabile. I pescatori furono incoraggiati ed ebbero
garantita ampia libertà di azione. Le autorità locali avevano preteso dalle organizzazioni
assistenziali ebraiche un maggiore coinvolgimento, anche finanziario, nell’esodo, auspicando
altresì una più efficiente organizzazione dei trasporti clandestini.
L’arrivo in massa degli ebrei incoraggerà, dal luglio del 1939, la nascita di numerose «agenzie di
navigazione clandestina», che nel mese di agosto riusciranno a trasportare con successo oltre
confine più di 400 ebrei. Le agenzie si erano rapidamente riorganizzate, dopo aver perso parte
della flotta e numerosi barcaioli, reclutando altri pescatori e acquistando imbarcazioni a motore. In
quell'estate la maggior parte delle partenze avveniva dalla spiaggia di “Bagnabraghe”. Si tratta di
una piccola insenatura situata a levante della città di Bordighera e dominata dal fatiscente edificio,
già adibito a macello, dove gli ebrei subivano il controllo dei documenti e perquisizioni personali.
Nei primi mesi dell'anno successivo la sorveglianza marittima francese si era allentata
incoraggiando i tentativi di organizzare nuovi trasporti, che si succederanno con cadenza mensile
fino al maggio 1940.
Le autorità locali assunsero la gestione quasi completa degli allontanamenti attraverso i sentieri di
montagna, riuscendo a impedire i tentativi d'interferenza nell'esodo da parte di guide locali. A
Ventimiglia, i funzionari di P.S. convocavano i capi squadra della milizia confinaria per concordare i
tempi e luoghi dell'espulsione, attraverso le montagne, degli ebrei che da troppo tempo soggiornavano in città. Gli ebrei erano condotti sotto scorta alle caserme della milizia o della finanza, di
Ciotti e Olivetta. Questi villaggi, infatti, presentano caratteristiche ideali: sono prossimi alla frontiera
e dispongono di una rete di sentieri, anche minori e poco controllati. I più utilizzati furono il sentiero
che da Ciotti e Villatella, attraverso il Passo del Cornà, porta a Mentone e quello che da Olivetta
S.Michele, dopo aver superato il Passo Treittore, conduce a Sospel. Le caserme e i rifugi situati
lungo questi percorsi funzionavano da centri di raccolta e smistamento degli ebrei in procinto di
essere espulsi. Il sentiero Passo Muratone-Saorge fu, invece, utilizzato in modo occasionale dai
contrabbandieri che, eludendo i rigidi controlli delle guardie confinarie, riuscivano condurre i
clandestini a destinazione.
Dal luglio del 1939, le vie terrestri persero il ruolo fondamentale che avevano ricoperto fino a quel
momento a causa dello sviluppo delle «agenzie marittime», in grado di trasportare rapidamente
interi gruppi familiari a prezzi interessanti. Si ritiene che, utilizzando le vie terrestri e marittime, non
meno di 3.500 ebrei stranieri abbiano raggiunto clandestinamente la Francia negli anni 1938-1940.
Più di cento ebrei stranieri residenti in Provincia decisero di partire immediatamente e si
aggiunsero alle centinaia di profughi diretti verso la Francia. In alcuni casi gli ebrei furono rimossi
dai loro incarichi pubblici con assoluta tempestività e senza clamore. Nell’agosto del 1940 fu
decisa la cancellazione dall’albo professionale di dieci medici chirurghi e due farmacisti: furono
queste categorie a pagare il tributo più alto. Le severe limitazioni economiche imposte agli ebrei
dai provvedimenti del novembre del 1938, benché attenuate dall’appartenenza alle classi agiate,
avevano messo in seria difficoltà la Sezione chiamata ad assistere alcune famiglie in grave
difficoltà. Nel dicembre dell'anno successivo la Comunità israelitica di Genova, vista la disastrosa
situazione finanziaria in cui versava la Sezione di San Remo dopo la partenza della maggioranza
dei contribuenti, ne deliberava la chiusura.
Gli arresti e le deportazioni (1943-1944)
Nella primavera del 1943 la presenza ebraica si accrebbe grazie all’arrivo di connazionali
rimpatriati dalla Francia. Completata rapidamente l'occupazione militare della Provincia, unità
tedesche della Gestapo e delle SS avevano visionato gli elenchi degli ebrei residenti. Ottenuta
anche l’indispensabile collaborazione della polizia italiana, furono in grado di scatenare una lunga
e spietata caccia all’ebreo già sperimentata altrove. La stagione del terrore ebbe inizio il 18
novembre 1943 a Bordighera con l’arresto dei tre membri della famiglia Hassan. Nella tragica notte
tra il 25 e il 26 novembre, uomini delle SS e agenti della polizia italiana operarono una grande
retata. Vi incapparono trentacinque ebrei che furono arrestati a Ventimiglia, Bordighera e San
Remo. Furono rinchiusi nelle carceri di San Remo e Imperia e trasferiti successivamente a
Genova. Il 5 dicembre 1943 il Ministro degli Interni della Repubblica Sociale Italiana ordinava che
«tutti gli ebrei, anche se discriminati fossero arrestati ed internati in appositi campi di raccolta
provinciali e i loro beni mobili e immobili sottoposti ad immediato sequestro».
In Provincia il campo fu istituito a Vallecrosia, in un’area già occupata da edifici militari. Entrò in
funzione nel febbraio 1944 e fu chiuso nell’agosto dello stesso anno. Nel campo furono internati
soprattutto prigionieri politici, genitori dei renitenti alla leva e solamente cinque ebree arrestate a
Bordighera e San Remo. Nei mesi successivi i pochi arresti operati appaiono riconducibili allo
squallido fenomeno delle delazioni. Alcune famiglie che, invece, erano riuscite fortunosamente a
sottrarsi alla cattura partirono immediatamente e si diressero con successo verso la Svizzera. Altri
nuclei familiari o singoli furono nascosti e protetti da amici o conoscenti; alcuni trovarono rifugio
presso istituti religiosi.Una nuova recrudescenza della caccia all’ebreo si registrò nell’aprile1944,
quando furono arrestati a San Remo cinque anziani ebrei. Tra questi figurava anche Elena
Abraham che sarebbe morta in carcere a Imperia. La stagione del terrore terminò il mese
successivo. Il bilancio degli arresti e delle deportazioni in questa Provincia, in cui la presenza
ebraica non fu mai troppo importante, è tuttavia impressionante e ammonta ad almeno 54
deportati. Solo cinque sopravvivranno all’inferno dei lager nazisti e faranno ritorno.
Bibliografia
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Ottolenghi Gustavo, Il campo di Vallecrosia, in “Provincia di Imperia”, anno XIX, n.93.
Picciotto Liliana, Il libro della Memoria, Milano, Mursia 1991.
Tarcali Olga, Ritorno a Erfurt. Racconto di una giovinezza interrotta, Torino, l’Harmattan Italia,
2004.
Veziano Paolo, Ombre di confine. L’emigrazione clandestina degli ebrei stranieri dalla Riviera dei
Fiori verso la Costa Azzurra (1938-1940), Pinerolo, Alzani, 2002.
Veziano Paolo, San Remo. Una piccola comunità ebraica nella Riviera dei Fiori degli anni Trenta,
in “La Rassegna mensile di Israel, volume LXIX n.1, gennaio-aprile 2003”, Saggi sull’ebraismo
italiano del Novecento in onore di Luisella Mortara Ottolenghi.
Voigt Klaus, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, vol. 1°, Firenze, La Nuova Italia,
1993.
LA RESISTENZA NELL’IMPERIESE (1943-1945)
Francesco Moriani
La firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943, la costituzione della Repubblica Fascista (RSI) nel
Nord Italia e la conseguente occupazione tedesca segnarono anche nel nostro territorio l’inizio
della Resistenza e della lotta di liberazione. Assieme al costituirsi del Comitato di Liberazione
Nazionale della provincia di Imperia presero vita le prime spontanee formazioni partigiane costituite principalmente da quei giovani che, in età di leva, rifiutarono di militare nella Repubblica di
Salò al servizio della Germania nazista. A guidarle furono uomini di specchiate virtù morale, come
il Dott. Felice Cascione “u Megu”, medaglia d’oro al V.M. (che prima della sua tragica fine,
avvenuta ad Alto nel Gennaio del 1944, fu autore tra l’altro di “Fischia il vento”, la canzone che
divenne l’inno di tutta la Resistenza italiana), come Nino Siccardi “u Curtu” (che fu dai primi mesi
del 1944 il Comandante della “Prima Zona Operativa Liguria” compresa tra Ventimiglia e
l’albenganese) e come, in Valle Argentina, il Comandante Guglielmo Giuseppe “Vitò” (già
volontario nel 1936 con le Brigate Internazionali in difesa della Repubblica Democratica Spagnola).
L’entroterra montuoso del nostro territorio con i contrafforti delle Alpi Liguri fu il naturale teatro della
Resistenza armata, resa possibile, per venti lunghi mesi, dal sostegno delle popolazioni rurali che
pagarono a fianco dei partigiani un alto prezzo in privazioni e ritorsioni nazi-fasciste; queste
produssero la perdita di numerose vite umane, circa 650 solo tra i civili, oltre a deportazioni e
distruzioni di interi paesi.
Nel dicembre del 1943 si ebbe il primo vero scontro a fuoco tra il gruppo di F. Cascione e i
nazifascisti a Colla Bassa, tra Montegrazie e S. Agata di Imperia. All’inizio dello stesso mese a
Imperia ci furono le prime deportazioni politiche con l’arresto, in seguito a una delazione, di un
gruppo di antifascisti che organizzavano la Resistenza: tra questi i fratelli Enrico e Nicola Serra,
Bruno Gazzano, Raimondo Ricci e i fratelli Alberto e Carlo Todros, tutti deportati a Mauthausen, da
cui i primi tre non faranno più ritorno.
Con l’afflusso continuo di nuove forze, nel giugno del 1944 venne costituita la IX Brigata d’assalto
Garibaldi comprendente 21 distaccamenti. Poco dopo si trasformerà nella II Divisione d’Assalto
Garibaldi “Felice Cascione” suddivisa in tre Brigate. Agli inizi di luglio del 1944 si ebbe la prima
grande operazione di rastrellamento nazi-fascista tesa a stroncare la Resistenza in tutta la
provincia: rappresaglie, devastazioni, incendi, strage di civili a Triora e Molini di Triora. Nonostante
ciò, per tutta l’estate la Resistenza continuò a crescere intensificando le azioni militari,
consolidando anche la propria struttura organizzativa dotandosi di efficaci servizi di informazione e
collegamento con le organizzazioni urbane della costa, nonché di infrastrutture sanitarie come
l’ospedaletto partigiano di Valcona nel territorio alpestre di Mendatica. Tra le azioni più temerarie
del periodo vi furono l’assalto alla caserma “Comandone” di Diano Castello con ingente bottino di
armi, tanto necessarie alla Resistenza che ne era carente, e la liberazione di 80 prigionieri politici
dalle carceri di Oneglia, segnalata anche da “Radio Londra”.
Il mese di Agosto sarà anch’esso denso di avvenimenti tra importanti realizzazioni resistenziali e
uguali reazioni nazifasciste: all’inizio del mese vi fu un rastrellamento contro la I° Brigata dall’Alta
Val Tanaro alla Valle Arroscia da cui le formazioni partigiane guidate dal Comandante Silvio
Bonfante “Cion” – medaglia d’oro al V.M. - uscirono salve attestandosi nelle zone di Piaggia,
Mendatica e nel bosco di Rezzo. Nello stesso tempo tragica sorte toccherà a un distaccamento
della V° Brigata sul Grammondo, alle spalle di Ventimiglia dove 12 garibaldini caddero in
combattimento e altri 15, catturati, vennero fucilati a Sospel il 12 agosto. Il 17 venne perpetrato
l’eccidio di Monte Faudo dove, nel corso di un infruttuoso rastrellamento antipartigiano partito da
Badalucco e Montalto, i nazifascisti si sfogarono trucidando a freddo numerosi civili: 11 tra
Badalucco e Montalto tra cui due sacerdoti presso il Santuario dell’Acqua Santa, altri 13 inermi sul
Faudo in località Bramosa intenti a tagliare il fieno. Il 24 dello stesso mese un gruppo di garibaldini
eliminò un'importante postazione della divisione “S. Marco” nella zona di Diano; con altri delle zone
vicine furono catturati circa 120 “sanmarchini” buon numero dei quali resterà con la Resistenza,
assieme al bottino di alcuni mortai che contribuiranno alla grande vittoria partigiana nella battaglia
di Monte Grande del 4 – 5 settembre 1944. Lo stesso giorno vide la proclamazione della Libera
Repubblica di Pigna in Val Nervia che, con propri ordinamenti democratici e la partecipazione di
tutta la popolazione, avrà vita dal 29 agosto all’ 8 ottobre quando, difesa dalle formazioni del
Comandante “Vitò”, verrà travolta dopo aspri combattimenti dal gran rastrellamento che si
concluderà tragicamente a Upega il giorno 17.
La battaglia di Monte Grande
Dopo il fallito rastrellamento di luglio in Valle Arroscia, una nuova grande operazione venne messa
in atto da tedeschi e fascisti allo scopo di chiudere in un micidiale accerchiamento il grosso delle
formazioni riparate nella zona del Bosco di Rezzo. Caposaldo dell’operazione furono le postazioni
della cima di Monte Grande in grado di battere con il fuoco un vasto raggio, convergendo su di
essa la Valle del Maro, la Val Carpasina e la Valle di Rezzo. Eliminare tale dispositivo diventava la
chiave per uscire dall’accerchiamento, ormai completo da parte dei tedeschi dopo l’occupazione
del Passo della Mezzaluna e di tutte le creste che fanno corona all’alta Valle.
L’azione partigiana prese le mosse da S. Bernardo di Conio e dal soprastante Monte Aurigo da
dove si diressero i tiri di due preziosi mortai da 81 mm. catturati al nemico che iniziarono a
martellare le posizioni tedesche; contemporaneamente il distaccamento d’assalto “Garbagnati”
composto da 17 uomini si portava sotto le pendici di Monte Grande al riparo della vegetazione, in
attesa del momento dell’assalto alla cima che, sarebbe avvenuto non appena aggiustato il tiro dei
mortai. Questi, guidati da Gismondi “Mancen” e da Franco Bianchi “Stalin”, sfidando l’intenso fuoco
di un nemico 30 volte più numeroso, giunsero sotto le postazioni tedesche che resistettero con
accanimento, scosse dai tiri di mortaio ma forti del numero e della posizione dominante. L’assalto
decisivo dei pochi partigiani avvenne di sorpresa a distanza ravvicinata con un intenso lancio di
bombe a mano e raffiche delle armi automatiche leggere di cui erano dotati. La forte motivazione
dei nostri ebbe infine la meglio sulla potenza militare tedesca, i cui uomini finirono con lo sbandarsi
disordinatamente lungo i pendii del monte lasciando sul terreno un'ingente quantità di armi e
materiali oltre a un elevato numero di perdite umane. L’accerchiamento fu rotto e si aprì la via di
scampo per varie centinaia di partigiani dal destino già segnato.
È stata una delle vittorie più importanti, non solo dal punto di vista militare, della Resistenza del
Ponente Ligure. Da allora ogni anno la domenica più prossima al 5 settembre, si celebra il ricordo
di questa giornata simbolo a S. Bernardo di Conio, dove è collocato il memoriale delle Medaglie
d’oro al V.M. della Resistenza imperiese.
La ritirata in Piemonte
Dopo la Battaglia di Monte Grande si intensificarono le attività dei partigiani in tutti i settori della I°
Zona Liguria, si pensi alla battaglia di Badalucco del 25 settembre, dove venne energicamente
respinto un tentativo di rappresaglia da parte di tedeschi e fascisti (che lasceranno sul terreno
un'ottantina tra caduti, feriti e prigionieri) e all’azione di annientamento del presidio fascista dei
bersaglieri di Ceriana portato a compimento il giorno 30 dello stesso mese. Ma la reazione nemica
su vasta scala non si farà attendere: il mese successivo sarà il più duro e tragico per la Resistenza
imperiese.
Il 4 Ottobre ingenti forze tedesche attaccarono la Repubblica di Pigna, in quanto pericoloso
esempio che non poteva essere tollerato. I partigiani della V° Brigata di Vitò respinsero l’assalto
dopo alcune ore di lotta accanita. Il giorno successivo Pigna subì un furioso bombardamento che
durò fino al tardo pomeriggio, diretto da batterie piazzate a Isolabona. La grande battaglia che
seguì, si protrasse fino all’8 ottobre quando i partigiani dopo una strenua resistenza e infliggendo
gravi perdite al nemico, furono costretti a ritirarsi dal paese sulla linea Carmo Langan – Cima
Marta. Iniziò così la ritirata strategica verso il Piemonte. Lo stesso giorno i garibaldini della I°
Brigata di Silvio Bonfante “Cion” furono impegnati nella “battaglia dei ponti” in Valle Arroscia per
tagliare le vie di comunicazione ai pericolosi mezzi tedeschi: venne distrutto il ponte di Ranzo e un
furioso scontro si accese presso quello di Vessalico, che i tedeschi cercarono di riattivare. L’azione
riuscì ma il Comandante “Cion” in tale scontro rimase ferito gravemente alle gambe e sarà portato
in salvo dai suoi compagni che si ritirarono verso Piaggia.
Intanto procedeva la grande manovra di rastrellamento volta a eliminare la Divisione “Cascione”:
nel complesso delle operazioni vennero impiegati circa 5.000 uomini. Dopo Pigna furono occupate
sanguinosamente Ormea, Pieve di Teco, Badalucco, Triora. Il grosso delle Brigate I° e V° si
concentrò nella zona di Piaggia – Upega – Carnino per prepararsi a passare il Mongioje verso
Fontane nell’Alta Val Corsaglia. Il Comando della “Cascione” è installato a Piaggia da dove si
diressero le operazioni di contenimento e di ripiegamento; verso il 15 ottobre la situazione apparve
disperata, il nemico attaccò S. Bernardo di Mendatica che fu evacuata. I distaccamenti della I° e V°
brigata si sganciarono in direzione di Carnino mentre da Piaggia il Comando Divisionale con la
brigata dipendente si trasferì a Upega, ritenuta più sicura, attraverso Valcona, Margheria di Binda
e La Colletta. Anche l’ospedale di Valcona con tutti i feriti venne evacuato, mediante trasferimento
nella medesima località attraverso Le Salse e la Colletta. Il giorno 17 il nemico, proveniente in
forze dall’Alta Val Roia, attraverso le Navette piombò di sorpresa su Upega. Il Comandante Nino
Siccardi “u Curtu” e il Commissario Libero Briganti “Giulio” tentarono inutilmente una disperata
resistenza per permettere agli altri di porre in salvo i feriti tra cui anche il Comandante “Cion” il
quale, visto vano il tentativo, si immolerà di propria mano per non cadere vivo in quella nemica.
Oltre 20 furono i caduti di Upega tra i quali il commissario divisionale “Giulio” e il Dott. De Marchi
capo del Servizio Sanitario. Tra la notte successiva e la mattina del 18 il grosso delle forze
attraversò nella neve il Bocchin d’Aseo diretto a Fontane. Altri 6 partigiani rimasti sbandati furono
catturati e condotti a Saorge in Val Roia dove saranno trucidati alcuni giorni dopo.
A Fontane avvenne il concentramento delle residue forze della Resistenza generale e si
procedette a riordinare le formazioni duramente provate, prive di indumenti, di viveri e con scarse
munizioni. Il periodo di riorganizzazione durò una ventina di giorni; il 10 Novembre tutte le
formazioni erano ritornate sulle posizioni di partenza. Dopo il rastrellamento di Upega, la
propaganda fascista dava la Resistenza per spacciata commettendo un grave errore: i mesi di
Novembre e Dicembre segnarono l’inizio della nuova fase che portò, in un crescendo di azioni su
tutto il territorio, alla liberazione del 25 Aprile 1945.
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