Quattro lettere per risolvere un problema

Transcript

Quattro lettere per risolvere un problema
.
.
.
.
Quattro lettere per risolvere un problema
Che cos’è un problema?
Un problema è una situazione da risolvere quando qualcosa non è andato come
previsto, è uno scostamento tra un dato reale e un dato di riferimento capace
di generare effetti negativi. Cosa significa?
Esempio di dato reale: il saldo del nostro conto corrente (o la quantità di
benzina presente nel serbatoio della nostra auto). Il dato assunto come
riferimento (che è sempre considerato soddisfacente) in questo caso è la
disponibilità minima sul nostro conto corrente che consideriamo accettabile (o
la riserva minima di benzina necessaria ad arrivare al prossimo distributore). Il
dato di riferimento può essere uno standard (cioè un certo valore di parametro
dato, al quale riteniamo che la realtà debba conformarsi), oppure
un’aspettativa (un certo valore di un parametro che ci attenderemmo in quella
situazione). Lo scostamento tra i due dati – sempre rimanendo sugli stessi
esempi – sono i 1000 euro meno del livello di guardia (o i 5 litri meno di
quanto ci serva per arrivare al distributore).
Ma un problema è anche una situazione inedita che richiede un nuovo punto di
vista, un nuovo approccio, un nuovo prodotto/processo/servizio ecc (non
sempre il punto di partenza è una situazione di disagio, malessere o criticità).
In un sistema organizzativo complesso, anche i problemi che quotidianamente
siamo chiamati ad affrontare sono (sempre più) complessi (ovvero chiamano in
causa molti elementi i interagenti tra di loro).
Come possiamo renderci conto di trovarci di fronte a un problema complesso?
- quando capiamo che non esiste un’unica soluzione o un’unica risposta
corretta per risolverlo
- quando ci lamentiamo di non avere abbastanza informazioni per risolverlo
- o, al contrario, di averne troppe e non riusciamo a selezionare quelle più utili
- quando non è certa l’interpretazione delle informazioni stesse;
- quando si presenta nuovo, diverso rispetto a tutti i problemi che abbiamo
dovuto risolvere in precedenza
- quando abbiamo poco tempo per decidere o abbiamo mille altre incombenze;
- quando dobbiamo decidere assieme ad altri che hanno altri punti di vista,
altre credenze e convinzioni
- quando abbiamo molta paura di sbagliare e ci sembra di dover chiudere gli
occhi e “morire” su una decisione
Per risolvere un problema, soprattutto se di natura complessa, può essere
molto utile un approccio allo stesso che non sia spontaneistico ma
metodologico e strutturato. Spesso è solo attraverso un approccio di questo
tipo che è possibile eliminare alla radice le cause del problema, evitando che si
ripresentino in futuro (se abbiamo pochi soldi in banca possiamo, con una
terapia d’urgenza, ricorrere a un prestito, ma come evitare che il problema si
ripresenti il prossimo mese? Se rimaniamo senza benzina possiamo chiedere
aiuto a un amico, ma come evitare di andare incontro allo stesso problema in
futuro col rischio, peraltro, di perdere un amico?).
Un approccio strutturato è inoltre in grado di garantire una maggiore
probabilità di trovare soluzioni nuove e creative.
Quali sono, in sostanza, i vantaggi dell’approccio metodologico?
- una drastica riduzione del rischio decisionale: la soluzione alla quale si arriva
e le sue modalità di messa in atto garantiscono di essere comunque una buona
soluzione e delle buone modalità, poiché sono state generate da un processo di
elaborazione fortemente consapevole e tenuto sotto stretto controllo in ogni
sua fase;
- un’ampia condivisione della soluzione prescelta all’interno dell’organizzazione:
regole e linguaggio comuni facilitano la condivisione non solo della soluzione e
delle sue modalità di messa in atto, a soprattutto del processo che lo genera
favorendo quindi un’adesione sostanziale in tutti coloro che prendono parte al
processo di problem solving.
Questo approccio, in sostanza, migliora l’azione, la comunicazione tra i
componenti del gruppo di lavoro, il controllo dei risultati, la capacità di
adottare soluzioni di successo.
Le quattro fasi del processo di problem solving e l’acronimo
F.A.R.E.
La soluzione di un problema è un percorso logico, un processo, che
sicuramente implica l’utilizzo di queste diverse abilità, ma in momenti ben
distinti e differenti (occorre, quindi, non solo capire “come” utilizzare i diversi
stili di pensiero ma anche “quando”, ovvero in quale fase del processo!)
Questo processo è composto da attività differenti, che a volte si succedono in
modo sequenziale, a volte si frappongono l’una all’altra con ritorni continui e
salti improvvisi. Tuttavia, dal confronto dei tratti comuni alle modalità decisorie
più efficaci – soprattutto di fronte a problemi che presentano una certa
complessità - emergono i seguenti punti cardine:
- problem finding: rendersi conto del fenomeno e percepirlo come “deviante
dalla norma” e fonte di disagio
- problem setting: definire il problema precisamente, foacalizzarne
caratteristiche, oggetto, dimensioni ecc
- problem analysis: scomporre il problema principale in problemi secondari
attraverso un algoritmo ad albero o altri strumenti di scomposizione e
raggruppament9o logico; raccogliere i dati di riferimento e comprendere i
fattori rilevanti
- problem solving: identificare soluzioni per eliminare la cause e rispondere alle
odma nde poste dal problema, analizzando varie soluzioni laternative
- decision making: prendere decisioni relativamente alle azioni da
intraprendere in base alle risultanze delle fasi precedenti
- decision taking: passare all’azione monitorando il risultato ottenuto in
relazione al risultato atteso
Per ricordare tutte le fasi del processo di problem solving metodologico, può
essere utile memorizzare l’acronimo F.A.R.E, dove F sta per focalizzazione, A
per analisi, R per risoluzione, E per esecuzione. “Fare”, anche perché ogni
processo di problem solving che si rispetti, deve avere come fine ultimo il
passaggio all’azione, quindi al FARE, altrimenti rappresenta solo una perdita di
tempo, di denaro, di energie psico-fisiche!
O
CALIZZARE
Focalizzare significa individuare, riconoscere, percepire il problema (problem
finding) e poi riuscire a definirlo nel modo più corretto (problem setting).
1) Rendersi conto che una certa situazione altro non è che un problema
significa in qualche modo uscirne, crearsi una prospettiva da cui le cose
possono essere viste meglio.
Ma per scoprire il problema spesso occorre una spiccata sensibilità ai “segnali
deboli” (segnali che magari altri non percepiscono) e una visione spregiudicata
e originale, proiettata nel futuro e nell’ignoto.
Si può provare disagio per un falso problema, che una volta affrontato si
dissolve. Altre volte invece non ci si accorge di qualcosa che non va e che
prima o poi diventerà un disagio manifesto. Bisogna quindi rendersi sensibili ai
piccoli disagi emergenti, percepirli ed analizzarli.
I senatori romani erano talmente presi dalle loro beghe curiali che non si
accorsero di quello che stava succedendo sui campi di battaglia
Anche Don Ferrante morì di peste perché non volle
considerazione, come ci racconta Manzoni nei Promessi Sposi.
prenderla
in
Alcune emergenze dipendono da casi fortuiti di forza maggiore, ma la maggior
parte di esse deriva da disagi non rilevati.
Spesso nelle organizzazioni l’ufficio reclami è gestito da una persona dal
carattere difficile, con lo scopo di scoraggiare le proteste dei clienti. Questa è
un’occasione sprecata perché i clienti che protestano sono ancora affezionati
all’organizzazione (quelli che non protestano se ne vanno e basta, oppure
restano, perché costretti, ma sono scontenti).
Come i sistemi antincendio sono in grado di rilevare il più esile filo di fumo,
così è necessario dotarsi di sensori che ci rendano attenti e sensibili ai segnali
deboli che ci giungono dall’esterno.
L’attenzione è un aspetto dell’attività mentale molto complesso e di grande
interesse, si pensi alla sua importanza nei processi di apprendimento oppure
nello svolgimento di alcune professioni (chirurgo, pilota) o nello sport. Essa ha
due importanti funzioni: quella di mettere in evidenza alcuni aspetti della realtà
e quella di trascurarne altri. Se non svolgesse questo doppio compito di
scegliere ed escludere, noi saremmo sommersi da una marea di stimoli che
arrivano continuamente al nostro cervello e vivremmo in un mondo
indecifrabile e caotico. Tuttavia, occorre anche considerare che proprio questa
capacità selettiva è ciò che a volte ci rende ciechi a noi stessi, impedendoci
magari di anticipare i problemi o accorgersi della loro esistenza. Consideriamo,
inoltre, che possiamo essere ciechi anche nei confronti di importanti e preziose
opportunità!
Cosa fare, dunque, per sviluppare la capacità di vedere i problemi (e magari
ucciderli finché sono ancora piccoli!)?
- portare l’attenzione sui ciò che ci appare al tempo stesso marginale e
irrilevante…questo può allargare la nostra percezione della realtà e i nostri
orizzonti
- chiedersi “come guardo?” “cosa potrei non vedere?”
- assumersi la responsabilità di ciò che osserviamo e che ci sembra distante
dalla norma
- non fossilizzarsi sul particolare, ma guardare l’insieme, salire su un “aereo” e
guardare il problema dall’alto
- rispondere ai segnali deboli con una risposta forte (solitamente facciamo li
contrario, diamo risposte deboli al segnali deboli, invece questo atto controintuitivo sempre più spesso è la chiave per gestire il cambiamento e l’inatteso
2) Il passo successivo è il problem setting, ovvero la focalizzazione vera e
propria del problema. Focalizzare significa riuscire a definire bene il problema.
Immaginate la seguente scena: un poliziotto, durante la sua ronda notturna,
vede un uomo ubriaco che cerca qualcosa sotto un lampione.
-Che cosa sta cercando?
-Le chiavi di casa?
-Le ha smarrite qui?
-No, laggiù.
-E perché le cerca qui, sotto il lampione?
-Perché laggiù è troppo buio, mentre qui c’è una buona luce.
Questa storiella, raccontata da Paul Watzlawick, - uno dei massimi esperti
mondiali nel campo della comunicazione umana – rappresenta tutti noi,
impegnati nella soluzione di un problema (rientrare a casa) senza averlo ben
definito (dove sono le chiavi? Sono quelle giuste?).
La chiave è ciò che risolve il problema, la luce è ciò che lo definisce, ne
chiarisce la natura e il funzionamento. Se la luce è attaccata al lampione, non
riesce a illuminare il nostro problema. Dobbiamo perciò trasformarla in una
lampada portatile che possiamo puntare verso la zona dove presumibilmente
troveremo la chiave.
Una chiave senza luce rimane nascosta. Una luce senza chiave da illuminare
non serve a nulla.
L’azione del cercare la chiave è il problem finding (è la percezione del disagio),
la chiave è il problem solving, la luce è il problem setting.
In genere si parla solo di problem solving, ma il problem setting è “l’arte” di
definire i problemi prima di risolverli (del resto, nel momento in cui una
situazione è ben definita, spesso è già superata!). Questa definizione ci
consente di dare un senso agli eventi, di trasformare un limite e uno stato di
disagio in risorse che aprono nuove strade verso il conoscere e l’agire; è un
processo trasformativo che ci rende attivi di fronte al disagio in situazioni di
incertezza.
Un esempio: negli anni 70 in una piccola cittadina del Sud Italia la classe
politica, rendendosi conto del progressivo invecchiamento della popolazione,
decise di fare qualcosa per il “problema degli anziani”. Il sindaco decise di
istituire una Commissione, con il preciso compito di studiare il problema in
questione e trovare una soluzione. Dopo tre mesi di lavoro la Commissione
presentò alla giunta i frutti delle sue ricerche: gli anziani rappresentavano il
13% della popolazione, ma aumentavano progressivamente in modo
esponenziale. A fronte di questo incremento, la capacità di assistenza
(espressa in posti letto in case di riposo) era pari allo zero.
La decisione presa all’unanimità fu quella di realizzare una struttura - “Anni
sereni” - in grado di ospitare 90 anziani e dotata di tutti i possibili confort .
Dopo tre anni dalla realizzazione nessun anziano aveva ancora fatto richiesta di
essere trasferito nella struttura che oggi viene utilizzata solo per il 30% della
sua capienza.
Perché il numero è stato così sovrastimato? (domanda rivolta al gruppo)
Risposta: perché nessuno si era chiesto, con precisione, quale era esattamente
il problema. La chiave dell’insuccesso va dunque cercata nella genericità della
definizione del problema.
Essere anziani, di per sé, non è affatto un problema (se si gode di buona
salute, se si è inseriti in un tessuto familiare soddisfacente ecc). Esistono,
invece, i problemi che alcuni anziani hanno, molti, diversi e che richiedono
risposte diverse, ed esistono i problemi che altri devono affrontare a causa
della presenza degli anziani, i quali anch’essi richiedono risposte molto diverse
e mirate…
In sostanza, come possiamo trasformare il disagio in un problema ben
definito?
Uno strumento fondamentale sono le domande di precisazione. La domanda
deve contenere una certa quantità di informazioni che si aprono verso
argomenti che non si conoscono. Tutto il problema parte da elementi noti per
chiedere qualcosa che non si conosce ancora.
Ecco alcune domande che ci possiamo fare prima di affrontare un problema:
Che cosa costituisce il problema?
Come si è manifestato, come ce ne siamo accorti?
Chi è coinvolto?(responsabilità)
Dove si è manifestato il problema? (luogo geografico/luogo organizzativo)
Quando si manifesta, con che frequenza? (tempo h-gg-m/condizioni)
Quanto è rilevante, costoso? (dimensioni e conseguenze)
L’attenzione alle domande è tipica del mondo orientale. In Giappone, per
esempio, questo è evidente in tutto, dal culto Zen ai “cinque perché” della
Toyota. In occidente, invece, prediligiamo le “risposte”. Basti pensare alla
popolarità di certi quiz televisivi e di alcuni giochi di società. Il nostro
passatempo nazionale è “ottenere risposte”, siamo impazienti, vogliamo le
conclusioni e così, spesso, troviamo soluzioni sbagliate o risolviamo solo i
sintomi di un problema e non il problema stesso…
E’ importante cercare anche di capire la priorità di un problema. Per questo
occorre tenere presenti tre coordinate:
- l’urgenza: la conosciamo perché è dettata dalla pressione delle aspettative
sociali o aziendali, da scadenze, da ragioni di propedeuticità ecc
- la frequenza: ovvero, l’impatto del problema, la forza con cui si presenta, la
sua estensione nello spazio e nel tempo
- la gravità: le conseguenze che il problema provoca se non viene affrontato, in
termini di costi umani, sociali, economici, finanziari, di immagine, di sviluppo
aziendale e personale/professionale ecc
Il contesto complesso in cui viviamo richiede proprio questo, essere capaci di
porre domande, diventando dei veri e propri “problem setter”. Sembra un po’
il nome di un cane da caccia. E in effetti lo è, perché il problem setter deve
avere fiuto, capacità di scovare indizi, seguire tracce, cogliere i segnali deboli.
A volte deve saper vedere cose che gli altri non vedono ancora. Deve essere
creativo per saper vedere i problemi, immaginarli, idearli.
ANALIZZARE
“Caro Diario” è il titolo di un film di Nanni Moretti. Uno degli episodi del film è
una splendida parabola sulle difficoltà di trovare le cause dei problemi e può
servire a comprendere a fondo questa fase del processo di problem solving.
L’episodio in questione è autobiografico. Moretti narra una sua significativa esperienza con la
malattia e con i medici vissuta quando, a 40 anni, avverte di non stare bene. Tutto inizia con
un prurito alle gambe e alle braccia. Consulta un dermatologo, segue le indicazioni ricevute,
ma il sintomo persiste, anzi, peggiora. Inizia così una via crucis le cui stazioni sono altrettanti
studi di specialisti, sempre più specialisti e, di conseguenza, sempre più costosi. Per ciascuno
di essi il problema è riconducibile nell’ambito della sua specializzazione e la terapia è evidente.
Peccato che nessuno dei loro interventi abbia un risultato positivo…Il problema viene risolto,
del tutto casualmente, da una coppia di medici cinesi…
Chiariamo una cosa: nessuna delle proposte di terapia degli specialisti era di
per sé irragionevole. I sintomi, infatti, si prestavano bene a ciascuna di esse.
La questione, infatti, non è se i medici abbiamo colto o no i sintomi; è, al
contrario, se li abbiano “lasciati parlare” per sentire tutto quello che avevano
da dire. In altre parole, e fuor di metafora, dai sintomi era possibile risalire
alle cause, ma queste cause non necessariamente erano vere.
I medici del film di Moretti (ma solo loro?) agiscono attraverso un processo
mentale che può essere sintetizzato in questo modo:
- rilevano il sintomo
- ipotizzano una causa possibile
- la consideriamo vera ed emettono una diagnosi
- prescrivono la “terapia”
E’ un processo mentale spesso molto simile da quello che utilizziamo noi tutti i
giorni di fronte a un problema.
In sostanza, primo comandamento della fase di analisi del problem solving
metodologico è questo: ipotizzare cause possibili.
Le tre parole di questa frase sono importanti!
- ipotizzare, ovvero esprimere in quanto ipotesi e non in quanto certezza
- cause, e non una causa sola!
- possibili, quindi anche piuttosto improbabili o molto improbabili, ma
dobbiamo prendere in considerazione anche queste..
Uno strumento molto utile per ipotizzare cause possibili è la “SPINA DI PESCE”
o diagramma di Ishikawa, dal nome di un ingegnere giapponese della Toyota, il
padre fondatore della Qualità. E’ uno strumento semplice quanto geniale. Per
conoscerne le potenzialità vediamo come utilizzarlo in relazione al banale
problema di una lampadina che non si accende:
1) scriviamo nel rettangolo grande il problema ben definito, in termini quindi di
scostamento
2) individuiamo alcune possibili macro-cause e le scriviamo in altrettanti
rettangoli
3) poi facciamo il “gioco dei perché”: in relazione a ogni macro-causa ci
chiediamo perché, e scriviamo le risposte accanto al rettangolo da cui siamo
partiti (costruiamo delle catene causali)
Quando dobbiamo fermarci? Non esiste una ricetta, ma solo un criterio:
quando si cominciano a intravedere cause sulle quali non c’è più possibilità
umana di agire.
Questo strumento vanta oramai molti anni di esperienza applicativa. Un
consiglio per individuare le macro-cause (non sempre facile questa operazione)
è quello di prevederne 4 o 5. Per esempio risorse umane, risorse finanziarie,
processi, struttura e relazioni, norme, tecnologie..
In ogni caso, costruite le vostre macro-aree a seconda delle vostre esigenze..
Perché può essere utile la lisca di pesce?
- Per conservare tutte le cause possibili che riusciamo a ipotizzare, anche
quelle meno popolari o desiderate, ci mette così al riparo dalle auto-censure
inconsapevoli
- Per stimolare la riflessione in termini di possibilità più che di probabilità
- Per permettere al gruppo di lavoro di verificare e migliorare il repertorio delle
cause mentre lo crea e porre ogni persona in posizione paritetica rispetto a
tutti gli altri, rispetto alla comprensione del quadro causale.
Principio 80/20
Se si scompone un problema, il 20% delle cause (primarie) spiega l’80% del
problema, mentre il restante 20% del problema è generato dall’80% delle
cause identificate (secondarie).
L’80% delle cause di un problema richiede il 20% dello sforzo necessario per
trovare una soluzione del problema; il 20% residuo delle cause richiede l’80%
dello sforzo per dare una soluzione al problema. Pensiamoci!
L’attività di problem solving spesso non può prescindere dalla fase di analisi,
ma una buona analisi poggia su tre competenze fondamentali:
1) Capacità di fermarsi nella raccolta delle informazioni quando si intuisce che
l’analisi ci sta allontanando del processo di soluzione (è l’analisi che deve
servire alla definizione e alla soluzione e non il contrario, altrimenti, si rischia
di non finire mai e di ritrovarsi con una quantità di dati che complicano le cose
invece di semplificarle); occorre aggiungere che spesso la difficoltà a decidere
viene camuffata chiedendo ulteriori nuovi dati!
2) Capacità di distinguere i fatti e le informazioni dai presentimenti, dalle
intuizioni, dai giudizi o pregiudizi, dalle impressioni (molto spesso, invece,
mescoliamo tutto questo in un magma indistinto e improduttivo);
3) Capacità di trovare informazioni affidabili, veritiere,
distinguere tra “sempre”, “mai” “ogni tanto”, “raramente” ecc
verificabili;
Analizzare significa pensare in modo neutrale, oggettivo, imparziale! L’analisi è
principalmente il regno dello Stratega, ma anche del Critico..
Una buona analisi deve terminare con la trasformazione del problema in un
obiettivo da raggiungere.
E’ molto importante questo passaggio, perché altrimenti rischiamo di avviarci
verso la ricerca delle soluzioni senza la giusta quantità di energia e il giusto
l’atteggiamento mentale: il problema, infatti, lo sentiamo come qualcosa di
limitante da superare, l’obiettivo come qualcosa di interessante da
raggiungere.
La parola “problema” può essere a questo punto eliminata dal nostro
vocabolario (!) e sostituita con altre più produttive come, ad esempio,
“questione da risolvere”, “compito”, “sfida”, “obiettivo”.
Prestare attenzione al proprio linguaggio è importante, soprattutto quando è
necessario coinvolgere altre persone nella risoluzione di una questione.
SMART è semplicemente un acronimo utile per ricordare come dovrebbe essere
un obiettivo ben formato:
S - come specifico (e non generico, non astratto, ma definito in modo chiaro e
concreto)
M - come misurabile (quali sono i parametri di misura che mi diranno che ho
raggiunto l’obiettivo?)
A - come attuabile (da me, dal gruppo, con le nostre forze e competenze)
R - come rilevante (mi/ci importa davvero raggiungere questo obiettivo?
Siamo motivati?)
T - come tempificato (entro quando voglio/vogliamo raggiungere l’obiettivo?)
ISOLVERE
Siamo così giunti alla R come “risoluzione”. Dopo aver trasformato il nostro
problema in un obiettivo da raggiungere, il passo successivo è l’individuazione
di una o più soluzioni che ci guidino bella direzione del risultato desiderato.
Questa è la fase del problem solving vero e proprio!
Gli errori più comuni in cui è possibile cadere in questo punto del processo
sono ALMENO tre:
1) seguire il solito tran tran: poiché molte decisioni sono simili ad altre già
prese, la scelta della medesima alternativa promette un percorso facile. E’
venerdì, dopo il lavoro, con il vostro partner state cercando di decidere che
cosa fare. Gli ultimi sei venerdì siete andati a cena e poi al cinema. “Ehi, che
ne pensi di una cena e poi di un bel film?”. Il concetto del seguire il solito tran
tran deriva dalla pigrizia e da un’esagerata fiducia nelle consuetudini.
Impiegando anche solo una modesta dose di energia in più è possibile trovare
nuove e interessanti opportunità
2) scegliere la prima soluzione possibile : supponete di aver traslocato da poco
e di avere bisogno di scegliere un medico. Chiedete a un collega il nome del
suo dottore e prendete un appuntamento. Avete abbracciato la prima
opportunità: la scelta facile. Sebbene efficiente, il processo non è stato
accurato e come risultato può risolversi in un insuccesso..
3) ricorrere a un’alternativa assegnata: anche in questo caso, facciamo un
esempio che esula dal contesto aziendale. Immaginate di essere un
neolaureato in scienze del mare, un campo che amate, ma non avendo avuto
ancora nessuna offerta di lavoro vi sentite costretti a lavorare nell’azienda di
abbigliamento di famiglia. Vi sentite in trappola e così accettate il lavoro di
famiglia: l’alternativa assegnata. In realtà, in ogni decisione che dovete
prendere c’è una molteplicità di alternative, anche se a prima vista non appare.
Quello che si vuole veramente dire quando si dice “non c’è alternativa” è “non
c’è alternativa migliore dell’opzione assegnata”…non ancora. La creazione di
alternative nuove richiede maggiore concentrazione
Le alternative rappresentano la materia prima di tutto il processo di problem
solving, perché sono la serie di scelte di cui disponiamo per raggiungere il
nostro obiettivo. Decisioni scadenti sono il risultato di un insieme di soluzioni
strutturate in modo eccessivamente limitato.
Per evitare decisioni scadenti, occorre istituire e mantenere uno standard molto
elevato per generare alternative, tenendo ben presente che non si può mai
scegliere un’alternativa che non si conosce e non si esplora (può darsi che ci
sia in affitto una case splendida in un ottimo quartiere, ma se non lo sappiamo
non andremo mai ad abitarci!).
Dunque cosa fare per aumentare il numero delle alternative? Usare un po’ di
creatività, cercando di uscire dai propri schemi mentali, schemi di cui spesso –
come individui e come gruppo - non siamo consapevoli…
Provate a risolvere questo “problema”: prendete carta e penna e disegnate
nove punti come quelli dell’immagine qui sotto presentata, cercando di unirli
con quattro linee rette senza staccare la penna dal foglio. Avete solo 5 minuti
di tempo.
E’ un gioco noto, di quelli che si fanno dopo cena per passare il tempo e
mettere alla prova la nostra intelligenza. Forse alcuni di voi sanno già la
soluzione (in questo caso, non ditela!) ma la cosa importante non è conoscere
o non conoscere la soluzione, è riflettere, al rallentatore e al microscopio, sul
percorso emozionale e logico che si compie nel trovare la soluzione.
I vari tentativi falliti sono percorsi spesso diversi, ognuno rappresenta un
cambiamento, una correzione rispetto al precedente, però tutti hanno in
comune il muoversi entro un campo di possibilità che ha dei confini molto
precisi: il quadrato dei nove punti. Ovvero, i nove punti vengono percepiti
come un quadrato al di fuori del quale è insensato (o proibito, o irrazionale)
andare.
Pur non ricevendo la regola di “non uscire dal quadrato”, spesso si dà per
scontato che i nove punto siano, appunto, un quadrato. Siamo di fronte a
quella che possiamo chiamare premessa implicita.
Chi risolve il problema non si limita a cambiare percorso: cambia le premesse,
genera un’alternativa creativa, sfida le proprie auto-limitazioni.
E’ sicuramente vero che alcuni problemi organizzativi hanno limiti che
condizionano la scelta delle alternative. Ma molti limiti e condizionamenti non
sono reali, bensì presunti… (“si è sempre fatto così”)
Per uscire dal quadrato occorre esplorare, essere capaci di pensare in modo
creativo o, per dirla con le parole di Edward De Bono, laterale.
Il pensiero laterale sembra illogico in termini di “normale logica”, ma in realtà
segue semplicemente un’altra logica, quella dell’emisfero destro del nostro
cervello.
Il nostro cervello, infatti, consiste di due metà collegate da un sistema di fibre
nervose, chiamate usualmente emisfero destro e sinistro. Negli ultimi 20 anni
si è scoperto che ogni lato del cervello sovrintende a due tipi diversi di processi
mentali.
Il lato sinistro è logico, analitico, verbale, sequenziale, astratto, convergente,
oggettivo, critico, preciso; quello destro è analogico, sintetico, non verbale,
solistico, divergente, non critico, intuitivo. Grazie all’emisfero sinistro noi siamo
in grado di selezionare, cercare risposte, stabilire continuità, cercare l’ovvio e il
consueto, analizzare, descrivere cosa è accaduto ecc. Grazie all’emisfero
destro, al contrario, siamo in grado di cercare domande, immaginare per
sintesi, cercare cose diverse, esplorare, generare, creare …
A questo proposito, è certamente importante operare una netta distinzione fra
due tipi di creatività, sulla base dei criteri di valutazione dei risultati. Uno
considera il risultato di un processo creativo sulla base di criteri artistici,
estetici, di simpatia (“è bello, non è bello”, mi piace, non mi piace” ecc).
Questo tipo di creatività ben si addice all’arte o al design, ma ha ben poco a
che fare con l’innovazione d’impresa, col miglioramento dei processi ecc. In
questo contesto è più adeguato parlare di creatività che conduce – come
risultato finale - a un beneficio chiaro e supportabile con la logica. In
particolare, parlando di processo di problem solving, per creatività si intende
l’abilità di:
1) creare tante idee (fluidità, numerosità)
2) trovare soluzioni nuove a problemi noti o di trovare soluzioni ad hoc per
problemi nuovi, emergenti (elaborazione, originalità)
3) vedere ciò che accade da tanti punti di vista (flessibilità)
Per comprendere a fondo la natura e il concetto di pensiero creativo, o laterale
che dir si voglia, può essere di aiuto questa immagine: “non puoi scavare una
buca in un punto diverso del terreno scavando sempre più in profondità la
medesima buca” (De Bono). Come dire che perseverare nelle stesse idee con
un approccio sempre uguale può non aiutare a risolvere il problema. Può
essere necessario muoversi lateralmente, sperimentando nuovi concetti con un
differente approccio. Il pensiero laterale serve ad allontanarsi da punti di vista
e soluzioni tradizionali al fine di individuarne di nuove.
Ma come nascono le idee?
La idee nascono spesso da un caso fortuito o in seguito a un errore. Si può
ricordare il celebre episodio di Newton che sta seduto sotto un albero allorché
una mela, cadutagli sulla testa, gli fa scoprire la legge di gravità. Un altro
esempio è costituito dall’errore di produzione di una colla – che una volta
attaccata si stacca facilmente – da cui è nato un prodotto di grande successo:
il post-it della 3M.
Ed ecco un’altra immagine per descrivere il ruolo del pensiero laterale:
“perchè stare seduti passivamente sotto un albero aspettando che ci
cada una mela in testa (cioè che giunga la fatidica ispirazione)? Possiamo
provare a scuotere l’albero per facilitare la caduta delle mele. Come?
Attraverso l’utilizzo di tecniche volte appunto a sviluppare la nostra capacità di
pensare in modo creativo.
Ogni individuo, indipendentemente dalla propria età, dal proprio sesso o dal
proprio ambiente, possiede un immenso potenziale creativo di cui non sfrutta
che una minima parte (fatta eccezione per i grandi esploratori!). Questo
potenziale può essere attivato e sviluppato mediante un approccio adeguato e
l’utilizzo di tecniche ad hoc che ci aiutano a “uscire dagli schemi”. Vediamo
insieme alcune di queste tecniche (per scuotere l’albero e far cadere le mele!)
Tecnica della pausa creativa
E’ la più semplice, ma forse anche la più efficace di tutte le tecniche creative e
può essere utilizzata in ogni fase del processo di problem solving, non solo
nella ricerca di alternative. Dovrebbe diventare un’abitudine mentale di tutti
coloro che aspirano a diventare degli esploratori.
Non ci sono problemi, né interruzioni, ma noi interrompiamo il filo dei nostri
pensieri semplicemente perché lo vogliamo noi. Questa pausa non è effettuata
in relazione a qualcosa, ma è il risultato della nostra intenzione di sostare. “A
questo punto sarebbe necessaria un’idea nuova”, “voglio fare una pausa per
pensare”…
Se non si presta attenzione a qualcosa è improbabile che ci si fermi a pensarci
su. La pausa creativa è un’interruzione nel flusso della routine per prestare
volontariamente attenzione a un qualche argomento. La pausa può essere
individuale (“chissà se questo non potrebbe essere fatto in modo diverso) o
può coinvolgere tutto il gruppo (“vediamo se non esistono altre alternative”).
La pausa non dovrebbe essere lunga e non ci si dovrebbe lambiccare il cervello
nello sforzo di generare una nuova idea. E’ sufficiente fermarsi a riflettere e
lasciare vagare la mente in libertà per un breve lasso di tempo (da venti a
trenta secondi per un individuo e per due minuti nel caso di un gruppo) e poi
riprendere il corso dei propri pensieri. Non ci si deve sentire costretti a
ottenere un risultato perché la pausa creativa è fine a se stessa.
La ricerca delle alternative
Di tutte le attività creative la più fondamentale è la ricerca delle alternative
Si può operare in un altro modo?
Quali sono le soluzioni possibili?
Cos’altro si può fare?
Per certi versi si può definire la creatività come la ricerca delle alternative. Ma
non si tratta di un’impresa così semplice come potremmo immaginare,
soprattutto perché permane la resistenza a cercare alternative quando non lo
riteniamo “necessario” (sembra spesso un inutile perdita di tempo, un lusso).
La cultura occidentale ci impone di dimostrare che qualcosa è errato prima di
avere il diritto di cercare alternative. Inoltre, quando alcune alternative sono
già date da altri o sono comunque disponibili, perché fare lo sforzo di cercarne
altre? Perché non limitare la nostra scelta alle alternative disponibili?
Le alternative che noi vediamo molto spesso sono limitate dalla nostra
immaginazione e dalla nostra capacità di “progettarle”…
Tecnica dell’associazione
Il prodotto della creatività nasce spesso da relazioni che il pensiero fa con ciò
che conosce. E’ evidente che non può fare relazione tra ciò che non conosce e
nemmeno tra ciò che conosce e non conosce. Non si possono stabilire relazioni
tra una lastra di vetro e un uyrffgg. Si può invece stabilire una relazione tra
una lastra di vetro e un foglio di gomma. Cosa può nascere da una simile
relazione? Si può pensare a un vetro elastico o a una gomma trasparente.
In ogni caso, la nostra creatività sarà più o meno fervida se avremo più
o meno la possibilità di fare relazioni. Il problema basilare, quindi, per lo
sviluppo della creatività è l’aumento della conoscenza, per permettere un
maggior numero di relazioni possibili tra un maggior numero di dati. Questo
naturalmente non significa che automaticamente una persona molto colta o
molto preparata su un certo argomento sia anche molto creativa. Ci sono
persone che memorizzano una quantità enorme di dati inerti. Come un
dizionario che ha tutte le parole con le quali costruire ogni poesia, ma non ha
nemmeno una poesia. Uno strumento non utilizzato.
Disegno analogico
Un'altra potentissima tecnica creativa che sfrutta la logica dell’associazione è il
disegno analogico.
Avete mai provato a disegnare un problema? Se non lo avete mai fatto,
provate…
Concentrate il vostro pensiero su una persona, qualcuno la cui personalità o il
cui carattere sia importante per la vostra vita passata o presente ma che,
magari, vi crea anche dei problemi…adesso seguite le seguenti istruzioni
(questo disegno non richiede nessuna abilità artistica):

raffigurate questa persona in un disegno, ovvero non secondo i normali
criteri della ritrattistica ma con una serie di linee o forme che rappresentano la
persona, cercate di non disegnare oggetti riconoscibili, né simboli, né lettere i
parole;

tracciate una “cornice” entro cui inserire il vostro ritratto (può essere di
qualsiasi tipo, rettangolare, quadrata, tonda, ovale, di forma irregolare..);

non avete bisogno di sapere a priori quale aspetto assumerà il vostro
disegno, anzi, non dovete proprio pre-vederlo, poiché lo scopo dell’esercizio è
di rivelare aspetti della persona scelta come modello che forse avevate già
percepito a un qualche livello di coscienza e che tuttavia magari non hanno
raggiunto la parte cosciente del vostro pensiero, si tratta di esprimere ciò che
sapete del problema ma che non sapete di sapere;

lasciate disegnare la matita, consentitele di tracciare i segni così
come vengono, senza censura. Sappiate che il disegno, una volta terminato vi
mostrerà ciò che la parte destra del
vostro cervello pensa di quella persona (e non potete sapere nulla a priori, cioè
prima che il disegno sia compiuto, poiché ciò che voi sapete viene elaborato da
una parte della vostra mente che spesso è inaccessibile al pensiero ordinario).
Ripeto che lo scopo di questo disegno è di rendere visibile ciò che già è
presente nella vostra mente, non di scoprire cose nuove; si tratta, in poche
parole, di sottrarsi alle trappole del linguaggio e di vedere

una volta terminato il disegno provate a osservarlo a lungo. Questo non
è un vero e proprio ritratto: voi avete disegnato la vostra intuizione, non la
persona stessa. Riuscite a completare le seguenti frasi? “Ciò di cui non mi ero
mai reso conto è che..” “Ora capisco che..” “Non avevo mi capito che..”

ora provate ad esprimere con le parole ciò che avete appreso, provate a
“dare un titolo” all’opera (può essere necessaria una buona dose di coraggio
per affrontare l’intuizione e per riuscire a vedere ciò che il disegno vi mostra;
ma d’altra parte il disegno potrebbe mostrarvi anche degli aspetti bellissimi
della persona finora rimasti nel vostro inconscio…
La tecnica del disegno può essere utilizzata anche nel campo degli affari, per
risolvere problemi aziendali e professionali. Serve per cercare di avere una
“visione d’insieme del problema”, coglierne l’essenza e quindi arrivare a
soluzioni creative!
Tecnica del capovolgimento
La più elementare manifestazione della creatività nasce, forse, dal
capovolgimento di una situazione, dall’uso dei contrari, degli opposti, dei
complementari. O bambini ridono se gli diciamo che lo zucchero è amaro e si
divertono molto se gli raccontiamo una storia di una tartaruga che corre come
un lampo. In ogni caso, a volte per uscire dalle nostre premesse implicite,
basta capovolgere una situazione, un problema e stare a vedere dove la
fantasia ci porta….
Avete mai pensato a scrivere un anti-curriculum? Forse fino ad oggi avete
scritto uno o più curricula, contenenti una descrizione accurata delle scuole che
avete frequentato, delle esperienze lavorative che avete fatto, degli hobbies
che avete praticato. Ma avete mai scritto un curriculum in cui, al contrario,
vengono citate le esperienze non vissute, i corsi di formazione non frequentati,
gli hobbies a cui non vi siete mai dedicati, i libri che non avete letto? Questo
significherebbe capovolgere la “logica della biblioteca”, capovolgere la
tendenza umana a concentrarsi su ciò che è conosciuto, noto, sperimentato..
Provate a immaginare di scrivere un anti-curriculum…
Torniamo adesso alla tecnica del disegno analogico. Riprendete il “ritratto” che
avete disegnato, capovolgetelo e osservatelo da questo nuovo punto di vista.
Cosa vedete adesso? E’ probabile che l’immagine, una volta capovolta, offra
delle nuove informazioni…adesso date un titolo a questa nuova percezione,
l’intuizione derivata da questo nuovo punto di vista
Qual è lo scopo di guardare il disegno capovolto? Lasciare che esso ci
comunichi un messaggio del tutto diverso.
I disegni, provengono da dentro di noi e rappresentano il nostro pensiero reso
visibile; inoltre, a differenza di altri “oggetti”, possono essere rovesciati; tenuti
in mano e osservati nelle diverse posizioni essi possono offrire informazioni
non immediatamente percepibili al primo colpo d’occhio…
Un giorno un bambino domandò a Walt Disney di descrivergli il suo mestiere. Il
famoso padre di Topolino gli rispose che oramai non disegnava più i cartoni
animati. “Allora sei tu che pensi a tutte le avventure” “No, io faccio come l’ape.
Vado da un posto a un altro in questi studi portando con me il polline della
fantasia e cerco di spargerlo un po’ su tutti…”
Gli ostacoli allo sviluppo di un pensiero creativo possono essere di tre tipi:
1) culturali: desiderio di conformarsi a modelli sociali, desiderio di
appartenenza, utilizzo del “no” automatico come risposta a nuove idee,
tendenza al “tutto o niente”, alla polarizzazione e alla generalizzazione,
eccessiva fiducia nella “ragione”, convinzione che sogno e immaginazione siano
retaggio del periodo infantile, precedenza a fattori pratici ed economici ecc
2) emotivi: timore di commettere errori, paura di sentirsi in minoranza,
difficoltà a rilassarsi e a godere del tempo di incubazione, difficoltà a cambiare
stile di pensiero, dipendenza eccessiva dalle opinioni altrui, compiacimento,
mancanza di risorse per completare il passaggio dal problema alla soluzione e
all’azione, convinzione di non essere creativi ecc
3) percettivi: non percepire relazioni insolite tra idee e oggetti, non distinguere
tra causa ed effetto, tra fatti e opinioni, difficoltà a definire il problema,
incapacità ad utilizzare tutti i sensi che mettono in contatto con l’ambiente,
punti di vista troppo ristretti ecc
Torniamo all’acronimo F.A.R.E., e alla lettera R, come “risolvere”. Trovare una
soluzione significa non solo generare alternative possibili ma anche decidere e
quindi selezionare l’alternativa migliore. In sostanza, arriva sempre il
momento in cui deve aver fine l’indulgenza costruttiva verso una nuova idea.
Questa deve lasciare il nido e spiccare il volo nel gran mondo, confrontarsi con
altre idee possibili e dimostrare la propria utilità.
Qui interviene il pensiero critico, l’esplorazione dovrebbe mettersi
momentaneamente da parte, perché la procedura della valutazione non fa
parte del pensiero creativo, ma appartiene alla sfera della capacità di giudizio.
Non ci può essere alcun “disastro” attribuibile al pensiero creativo se dopo
l’Esploratore viene il Critico (quando si verificano “disastri”, questi sono
attribuibili alla nostra creatività, ma alla carente valutazione delle idee
creative).
E dunque chiediamoci: cos’è che rende “buona” un’idea, una soluzione?
Risposta: una buona idea è quel processo che ci guida verso un esito che, sulla
base degli obiettivi da raggiungere e dei nostri valori, si avvicina il più possibile
alle nostre aspettative.
In relazione a ciascuna idea emersa in fase di brainstorming può essere utile
riflettere su alcuni elementi-chiave:
i vantaggi: rappresentano la prima e più importante considerazione. Se l’idea
non presenta alcun vantaggio allora non vale la pena di approfondirne l’esame.
E’ importante chiedersi quali sono i vantaggi e quanto grandi, da cosa
dipendono e quanto dureranno, inoltre, a chi vanno i vantaggi
la fattibilità: vengono dopo i vantaggi perché se questo appaiono consistenti ci
si impegnerà sicuramente per cercare il modo di rendere operativa l’idea.
Talvolta però le idee non sono sfruttabili perché contravvengono a qualche
principio fondamentale, altre volte non sono fruibili perché illegali, o non esiste
un modo standard per realizzarle o non è disponibile la tecnologia
le risorse: disponiamo delle risorse necessarie per attuare l’idea? Vogliamo
assegnare risorse all’idea? Quanto costa la realizzazione? Chi deve dedicarsi
alla realizzazione e chi se ne assume la responsabilità? Quasi sempre le risorse
necessarie alla realizzazione di un’idea sono grossolanamente sottovalutate
l’adeguatezza: l’idea è adatta all’organizzazione, è in linea con la politica
organizzativa, la strategia e gli obiettivi, con le aspettative dei clienti interni ed
esterni? E’ in linea con le motivazioni di chi la responsabilità di realizzarla? Può
accadere che un’idea anche molto valida fallisca proprio per una mancanza di
adeguatezza al contesto
la flessibilità: si può modificare l’idea per adeguarla a condizioni esterne in
continua evoluzione? Se i concorrenti reagiscono in un certo modo, si può
modificare l’idea per trovare un’altra soluzione? In caso di necessità, sarebbe
possibile cambiare il prezzo? L’idea rigida non è una buona idea ed è un
compito importante della funzione progettuale dotare le idee di flessibilità
Un elemento molto importante dal punto di vista della reazione emotiva del
problem solver, soprattutto di fronte alle decisioni innovative ad alta
complessità, è rappresentato dall’incertezza e dunque dal rischio. Starò
decidendo bene? Come andrà a finire?
Spesso l’incertezza rappresenta un fattore di dilazione, di paralisi decisoria. Ma,
ricordiamolo: non decidere non vuol mai dire…non decidere, bensì significa:
scelgo di far decidere ad altri, alla concorrenza, al mercato. In altri termini,
decido
di
non
decidere
io.
SEGUIRE
Il valore di un’idea è rivelato da chi si impegna a farla funzionare
E. come eseguire, come esecuzione. Siamo così giunti alla fase realizzativa del
processo di problem solving. L’ultima.
Questa fase si suddivide in due sotto-fasi:
1) la pianificazione delle azioni da svolgere (il territorio ambiguo che si
situa tra il “dire” e il “fare” (è il mare del “come faccio a farlo, ora che ho
deciso di farlo?”)
2) le azioni (la concretezza del fare vero e proprio)
Siamo nel regno del pensiero strategico.
Non entriamo nella descrizione dettagliata della pianificazione, perché si tratta
della fase più “dura” del project management, quella in cui si identificano le
linee guida, si struttura la sequenza delle fasi di lavoro e delle attività, si
generano diagrammi, si allocano le risorse, si individuano le fasi critiche dal
punto di vista dei rispetto dei tempi, si calcolano i costi complessivi ecc E’ una
fase che, per essere approfondita, necessiterebbe di un manuale a parte.
In questa sede mettiamo a fuoco solo le caratteristiche di un buon piano di
azione, indipendentemente dalla strumentazione tecnica con cui è realizzato.
Prescindendo dalle ovvietà (un buon piano deve essere accurato, completo
ecc), ecco tre caratteristiche che possono costituire una utile fonte di
riflessione:
- un buon piano di azione nasce con una prima stesura che individua tutte le
attività che dovranno essere svolte per realizzare la soluzione prescelta in
condizioni di normalità; prevede cioè con precisione tutti i passaggi operativi
che ci separano dall’obiettivo, nell’ipotesi assunta inizialmente che “tutto vada
come previsto”
un buon piano di azione non si ferma alla prima stesura, ma acquista forma
sempre più complessa man mano che si procede nella previsione degli
imprevisti; costituisce quindi lo strumento nel quale trovano sintesi i successivi
passaggi del processo di pianificazione; come tale il piano è soggetto di solito a
svariate revisioni, prima della delibera definitiva, mediante le quali assume una
visione realistica delle operazioni
- un buon piano di azione prevede le occasioni e le modalità per la sua verifica
e revisione
In sostanza, un buon piano di azione è uno strumento “aperto”, un work in
progress che continuamente si evolve sia nel corso del processo di
pianificazione, sia nel corso della messa in atto della soluzione. In questo è
profondamente diverso da una pianificazione deterministica, poiché è guidato
dall’obiettivo e rimane sempre modificabile in relazione ai segnali di criticità
che possono essere raccolti lungo il suo sviluppo.
Viene in mente una frase di J. Lennon “La vita è ciò che accade mentre siamo
impegnati a fare altri progetti”.
M. Serena Arcangeli