Pdf Opera - Penne Matte

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Pdf Opera - Penne Matte
Steven si scostò le coperte di dosso e guardò la splendida gnocca che giaceva al suo fianco
a pancia ingiù. Le accarezzò i capelli lisci e biondi e poi scese lungo il collo, la schiena, fino al culo,
sodo e liscio. Lo strinse e gli diede un bacio. Poi si alzò, il cazzo duro sobbalzò tra le sue gambe,
mentre andava alla finestra ad aprire le tende.
La luce solare inondò la stanza. Steven si stirò, ammirando il panorama della città dal suo
attico.
Raccolse il suo cellulare dal comodino e aprì la fotocamera. Si posizionò in modo da ritrarre
il proprio volto e il culo della gnocca e scattò la foto che subito venne caricata su ShiftLife.
“Com’è che si chiamava? Anna? Laura?” esitò “Chissenefrega. Non metto la descrizione e
fanculo.”
Non fece tempo a tornare alla home del telefono, che subito questi vibrò: 210 nuovi Shift.
Steven sorrise, la giornata iniziava bene.
Tirò una sculacciata alla gnocca che si svegliò con un urletto.
«Coglione! Mi hai fatto male!»
«Non ti lamentavi così ieri sera… Prendi le tue cose e vattene a fanculo. Io mi faccio una
doccia, quando torno non voglio rivederti.» Poi si rivolse a Frank, l’impianto domotico che gestiva
casa sua. «Sentito, Frank? Sbattila fuori tu se non se ne va lei.»
«Come desidera, signore.» La voce metallica di Frank fuoriuscì dai microfoni sul soffitto.
«Stronzo» grugnì lei.
«Puttana» ribatté Steven. Prese l’asciugamano e si diresse in bagno. La doccia si avviò in
automatico, sollevando nuvolette di vapore.
«Signore» disse Frank «l’acqua ha raggiunto la temperatura, potete entrare.»
«Grazie.»
«Volete il solito accompagnamento musicale?»
«Sì.»
Partì l’aria de “La donna è mobile” e Steven si fece la doccia cantando a squarciagola.
Quando ebbe finito e fu pronto per uscire, fece un rapido giro dell’appartamento e notò
con piacere che la ragazza se n’era andata.
«Ciao, Frank, bada alla casa mentre non ci sono.»
«A dopo, signore.»
L’ascensore personale lo condusse fino al suo garage, dove la nuova R8XS lo stava
aspettando.
«Ti sono mancato, bambina?» le chiese accarezzandole il cofano.
La macchina non rispose, ma si lascio accarezzare, docile e mansueta.
Steven salì e mise in moto, premette l’acceleratore e un ruggito di potenza si scatenò da
sotto la carrozzeria.
Sfrecciò per le strade poco trafficate, ignorando semafori rossi e schivando all’ultimo un
ragazzo con il cane che stava attraversando sulle strisce.
Arrivò sul set con cinque minuti di anticipo, la truccatrice non era ancora arrivata. Si scattò
una foto e la caricò sul social, in nemmeno trenta secondi aveva già ottenuto cento nuovi Shift.
Scrisse un messaggio alla biondona con la quale aveva un appuntamento quella sera, per
tenerla in caldo.
«Eccolo, quello che sparisce alle feste e mi fa tornare a casa da sola!» Claudia lo abbracciò.
«Sì, scusami ma avevo un mal di testa infernale» Steven si staccò dall’abbraccio e spostò il
ciuffo dalla fronte.
«Pensavo ti fossi defilato con quella biondina» gli fece l’occhiolino.
Steven sorrise. «Non ti sfugge niente.»
«Non per niente sono la tua spalla ufficiale.»
Alzò la mano e Claudia gli batté un cinque.
«Steven! Devo ancora truccarti!» Paola arrivò di corsa e lo afferrò per un braccio. «Scusaci,
Claudia» disse mentre lo trascinava via.
«Che dici, dopo le riprese ci divertiamo un po’?» gli sussurrò all’orecchio.
«No, ho un appuntamento.»
«Succhiamo il cazzo ora.» La bionda sorrise e si chinò versò la sua patta, la aprì con
delicatezza, lui si alzò leggermente dal sedile per permetterle di abbassare le mutande e i
pantaloni.
Poi sentì la umida lingua di lei sul suo glande e gemette di piacere. Pigiò l’acceleratore fino
in fondo, il contachilometri segnava 180 km/h, e lui voleva andare ancora più veloce, sentiva
l’adrenalina ribollirgli nelle vene mentre procedeva filato lungo la strada, tra i grattacieli di Eden.
Lei mescolava dolci leccate al movimento della mano, su e giù, mentre gemeva avida.
Fu un istante.
Il piacere provocato da lei fu così intenso che sentì un brivido corrergli lungo tutto il corpo,
chiuse gli occhi per godersi appieno il momento in cui riempiva quella bocca del suo caldo seme.
Fu un istante.
Non vide la curva, non vide la piglia di cemento armato.
Morì in un orgasmo.
Aprì gli occhi, il volto di Claudia gli apparì davanti, aveva un’espressione tesa.
“Non sono morto?”
«E così sei sveglio…» lo salutò caustica.
«Io… Io… non sono morto?» balbettò Steven, provò a muovere braccia e gambe e scoprì
che gli riusciva perfettamente, non avvertiva dolori, niente di niente.
Claudia gli tirò uno schiaffo così forte che gli fece voltare il capo dall’altra parte.
«Ero così in pensiero per te! Quante volte ti ho detto di stare attento mentre guidi!»
«Mi sembra di sentire mia madre» scherzò Steven. Claudia non sorrise, si limitò a fissarlo
con aria interrogativa.
«Cosa è successo?» chiese Steven.
«Sei stato tamponato da una ragazza, lei ha qualche livido, tu hai sbattuto la fronte e sei
svenuto, ma niente di serio.»
«Ero da solo in macchina?»
Lei si accigliò.
«Sì, perché?»
Steven scosse la testa. «Impossibile. Sono morto, Claudia, te lo giuro.»
Lei gli accarezzò la fronte.
«Certo, ora riposati. Domani il dottore ti fa tornare a casa.»
Gli diede un bacio sulle labbra e lo lasciò nella fredda stanza d’ospedale. Il catetere gli dava
fastidio, lo sentì solo in quel momento, avere un ago infilato nel pene era una tortura. Si mise
seduto sul letto, i suoni dal corridoio erano ovattati dalla porta scorrevole, passi, parole, lo squillo
di un telefono.
Steven si prese la testa tra le mani.
Ricordava la bionda, la corsa per la strada deserta, la sua bocca… e poi buio. Nessun
tamponamento.
“Come faccio a essere illeso?”
Si mise in piedi senza fatica, ebbe solo un lieve giramento di testa.
Uscì dalla stanza, trascinandosi dietro il sacchetto del piscio.
Due infermiere stavano parlottando tra loro nel corridoio. Non appena lo videro,
scapparono via, allarmate, come se avessero visto un orso impugnare un mitragliatore.
«Signore, la prego di rientrare nella sua stanza, ha avuto un incidente e vogliamo che si
riprenda al meglio.»
La voce proveniva alle sue spalle, Steven si girò e trovò un dottore caucasico sulla trentina,
e, dietro di lui, due grossi uomini della sicurezza.
«Voglio solo fare visita alla donna che era con me nell’incidente.»
Il dottore sorrise.
«Signore, lei è già stata dimessa, temo che non potrà vederla.»
«Allora dimettete anche me, mi sento benissimo.»
«Temo di non poterlo fare, dobbiamo ancora ricevere dei risultati, potrebbe avere
un’emorragia cerebrale.»
«Dimettetemi. Ora.»
Il dottore sospirò e si aggiustò gli occhiali.
«D’accordo, venite con me.»
Il dottore gli passò davanti e Steven provò a seguirlo, fece un passo, barcollò, il corridoio
divenne prima lungo, poi stretto, il dottore era deforme, i suoni erano confusi, mescolati l’uno
sull’altro. Sentì l’ago solo quando questi lasciò il suo collo.
Buio.
«Devi farti una dormita, hai un’aria pessima.» Theo andò in cucina, Steven lo sentì aprire il
frigo. «Dannazione, è vuoto.»
«Devo essermi dimenticato di impostare Frank.»
«Te lo faccio io, aspetta. Prendo una birra anche per te?»
«Vodka.»
Stevan si stravaccò sul divano in pelle nera, era bello essere finalmente a casa, quel
dannato medico lo aveva sedato di nascosto.
“Dovrò fargli causa.”
Theo tornò in soggiorno, in una mano una lattina di birra e nell’altra un bicchiere di Vodka
pieno fino all’orlo.
«Ho sentito Claudia ieri, era molto preoccupata. Diceva che farneticavi.»
Steven fece un lungo sorso. “Io sono morto. Eppure sono qui, sento la vodka bruciarmi in
gola, possibile sia stato un tamponamento? Cosa ho preso ieri?”
Guardò Theo, che rispose con un sorriso.
«Devo parlarti seriamente.»
«Dimmi.»
«Quello che sto per dirti può sembrare da pazzo, ma ti assicuro che non è così.»
Theo annuì, poco convinto.
“Dannazione, finisce che mi rinchiudono in quell’ospedale psichiatrico.”
«Io ieri… sono morto. Non so come faccio a essere qui, perciò ti volevo chiedere… sei
morto anche tu?»
Il volto di Theo era teso, poi scoppiò a ridere.
«Fanculo va’» disse bevendo un sorso di birra «pensavo fossi serio.»
«Non fare il bambino, sono serio.»
Theo si bloccò.
«Non fare cosa?»
«Il bambino» ripeté Steven.
«Ma che parole ti inventi?»
“Mi piglia per il culo?” si chiese Steven, non sapeva come rispondere, scosse la testa.
«Niente, lascia stare.»
Theo gli poggiò una mano sulla spalla. «Forse il tuo è stato un sogno dopo che hai sbattuto
la testa e sei svenuto.»
Steven bevve ancora, si passò una mano tra i capelli.
«Può darsi, ma era così reale.»
«So io cosa ti ci vuole.» Armeggiò con la tasca posteriore del jeans, mordendosi il labbro,
divenne paonazzo in volto per lo sforzo. Infine, tirò fuori una bustina di pillole arcobaleno,
sollevandola in alto come un trofeo.
«ESD! Un po’ di queste pilloline magiche, e vedrai che tutto tornerà alla normalità.» Gliela
lanciò addosso, Steven se la portò ad altezza occhi.
“Forse ha ragione, forse la bionda non l’ho nemmeno incontrata, mi sono immaginato
tutto. La biondona, lei sa se ieri ci siamo incontrati o no. Devo scriverle.”
Theo finì la birra e si congedò, farfugliò qualcosa su una festa ma Steven non gli prestò
attenzione, si limitò a salutarlo con la mano.
“Devo prenderne un po’, mi farà bene.”
Si mise due pastiglie sulla lingua e le buttò giù con la vodka. Andò a stendersi sul letto, in
attesa che l’ESD facesse effetto.
«Frank.»
«Sono qui, signore.»
«Cerca su internet a quando risale l’ultimo decesso.»
«Non ho risultati.»
«Grazie a EdenLab, nessuno dovrà più temere la morte, in nessuna circostanza, in nessun
caso» disse Steven, ripetendo lo spot tv.
Strane forme caleidoscopiche presero a danzargli davanti agli occhi, si sentiva più leggero,
più rilassato.
«Frank.»
«Mi dica.»
«Chiama la biondona con cui ho messaggiato ieri, il suo numero era in rubrica come
“biondona sexy”.»
«Signore, non mi risulta alcun contatto con quel nome.»
«Impossibile, cerca nei messaggi recenti.»
«Non c’è nulla.»
«Dannazione!»
«Signore, dai vostri valori vedo che necessitate assolutamente di riposo. Avete subito un
trauma, riposate.»
Le forme si mescolarono, intravide un volto: piccolo, paffuto, con un ciuffo di capelli.
«Frank, cerca foto di bambini.»
«Signore, non ho risultati per questa parola.»
Deluso, Steven chiuse gli occhi. I pensieri gli baluginavano in testa, sentiva le tempie
pulsare, tornò con la mente al momento dello schianto, stava andando troppo veloce, impossibile
sopravvivere.
“Eppure la mia auto era nel garage, perfetta. Io non mi sono immaginato tutto.”
Si alzò di scatto e corse all’ascensore.
«Frank, ultimo piano.»
Rimase fermo.
«Frank? Mi hai sentito?»
«Signore, non posso permettervi di compiere sciocchezze.»
«Fanculo, prenderò le scale.»
Ma arrivato alla porta dell’appartamento, non riuscì ad aprirla, la maniglia si abbassava a
vuoto.
«Frank, cazzo! Lasciami uscire!»
«Signore, i miei protocolli di sicurezza indicano che lei si trova in uno stato di coscienza
alterato, pertanto rimarrà in casa finché non si sarà calmato.»
«Fottuto coso elettronico!» imprecò Steven, tirò un pugno alla porta. Si accasciò a terra, in
lacrime, le ginocchia al volto.
“Prigioniero in casa mia.”
Prese una sedia dalla cucina e se la portò in camera.
«Signore, cosa vuole fare?»
Steven urlò, prese la sedia dallo schienale e la scaraventò con tutta la sua forza contro il
vetro. Una, due, tre volte, in un crescendo di rabbia per l’impotenza cui era condannato.
Il vetro si crepò, ma non cedette.
Steven lanciò la sedia contro il muro. Avrebbe voluto che Frank fosse una persona, per
potersi sfogare.
“In un certo senso lui è in tutti gli oggetti di questa casa” rifletté, in salotto, sradicò la tv dal
mobile, la sollevò sopra il capo e la schiantò per terra.
«Soffri, bastardo!» urlò, poi rimase in silenzio, facendo lunghi e profondi respiri.
«Signore, le ho preparato un infuso di camomilla, lo beva, la farà sentire meglio.»
“Dannato impianto domotico.”
Obbedì alla macchina, andò in cucina e aprì lo sportello del dispenser, trovò ad attenderlo
una tazza fumante. Ne bevve un sorso, e si sedette su una sedia, lo sguardo perso nel vuoto.
Aveva lasciato le pastiglie lì sul tavolo. Forse con un’altra si sarebbe sentito meglio…
«Frank» chiamò, usando il suo tono più umile.
«Signore.»
«Puoi chiamare Claudia e chiederle di venire qui?»
«È notte fonda, signore, non so se è il caso.»
«Ti prego, ho bisogno di lei.»
Attimi di silenzio.
«Va bene, ma se lei dà di matto, chiamerò la polizia.»
Steven annuì e finì la camomilla.
«Ah, e signore, non faccia menzione di quelle strane parole con Claudia.»
«Sta’ tranquillo, Frank, sto molto meglio ora.»
Stava giocando con una pastiglia magica, rigirandosela tra le dita, quando finalmente il
campanello suonò. Corse ad aprirle, la maniglia questa volta fece il suo dovere. Il volto di Claudia
era segnato da due spesse occhiaie, lo salutò con un cenno del capo.
La abbracciò.
«Steven, ma che succede? Frank mi ha chiamato…»
“Stupido impianto domotico.”
Si staccò da Claudia e corse su per le scale, fece due rampe, spinse il maniglione antipanico
e si ritrovò sul tetto. L’aria era gelida e faceva condensare il respiro, Steven osservò il cielo e si
chiese se quelle stelle fossero reali.
Claudia lo raggiunse subito dopo.
«Mi vuoi dire che cazzo succede?» sbraitò, «io ti voglio bene, vuoi fare la fine di Paul?»
«E se Paul avesse avuto ragione?»
«Steven…»
Le si avvicinò, le prese le spalle e la guardò negli occhi.
«Ascoltami, è impossibile che sia sopravvissuto a uno schianto come quello di ieri, sono
morto, ma per qualche motivo sono ancora qui. Forse siamo tutti morti.»
Claudia aveva uno sguardo pieno di compassione.
«Steven, ho visto che ci sono delle pastiglie di ESD sul tavolo della cucina. Quante ne hai
prese? Lo sai che ti friggono il cervello?»
Steven scosse la testa. «No, no, no» si allontanò da lei. «Tu non capisci. Non vuoi capire. Se
io ti dico mamma o bambino, capisci ciò che intendo?»
Claudia aprì la bocca, ma non la fece rispondere.
«Andiamo, rifletti, come abbiamo fatto ad essere qui? Qualcuno ci avrà pur creati no? Ci
sono cuccioli di cane, cuccioli di gatto, possibile non esistano cuccioli di uomo? Come facciamo a
nascere?»
Claudia gli porse la mano, ma lui indietreggiò.
«Steven, sono stanca, andiamo a dormire, ne parleremo domani mattina.»
«Te lo dimostrerò.» Raggiunse il bordo del tetto, sotto di lui le luci dei fari delle macchine,
minuscole come lucciole.
«Che vuoi fare? Ti prego, andiamo a dormire!» Steven si voltò. Claudia era in lacrime, fece
dei passi incerti verso di lui, estrasse il cellulare. «Frank ha un messaggio per te.»
«Le ho dato una possibilità di redenzione e l’ha fallita. Non risolverà niente, lei finirà nella
clinica perché è un pericolo per sé è per gli altri. Mi dispiace, signore.»
«Fottiti, Frank.»
«Steven, lì ti potranno curare, e forse, quando uscirai…»
«Grazie, Claudia, sei sempre stata un’amica. Sei una bella persona.» Steven si accorse che
la voce gli tremava. «Ricorda questo momento. Ti dimostrerò che tutto questo non è reale, io
cadrò giù da centoventi piani e non morirò.»
«Steven…»
«Ci vediamo domani.»
Le rivolse un ultimo sorriso e poi allungò una gamba nel vuoto. Deglutì. Chiuse gli occhi e
prese coraggio. Vinse il proprio istinto di autoconservazione, saltò.
L’aria gli sferzava il viso, non riusciva ad aprire gli occhi.
L’immagine di un uomo che si buttava da un grattacielo gli tornò alla mente, sbiadita,
insieme ad essa lo raggiunse una voce: molte persone che si sono lanciate sono morte d’infarto,
non per lo schianto. Si chiese da dove provenisse quel pensiero, forse da qualche angolo oscuro
della sua memoria.
Sperò che il suo cuore si fermasse.
Poco prima dello schianto si pentì di aver saltato.
Si svegliò di soprassalto, era sudato marcio, aveva il fiatone.
Era nel suo letto, nella sua stanza con il vetro crepato e la sedia con le gambe spezzate per
terra.
Aveva ragione.
“Claudia!”
«Signore, mi dispiace» disse Frank.
«Prova a fermarmi e giuro che ti stacco tutti i cavi.»
Balzò fuori dal letto e corse fuori dalla stanza, in soggiorno trovò ad attenderlo Claudia, con
lei, il dottore caucasico dell’ospedale, indossava una divisa blu.
“No.” Il panico si impossessò di lui, cadde in ginocchio.
«Hai visto, Claudia? Sono vivo!» singhiozzò, lei scoppiò a piangere. «Claudia! Ti rendi
conto? Stanotte hai visto anche tu che mi sono buttato dal tetto, eppure sono qui! Mandalo via!»
«Steven…» Claudia si asciugò le lacrime con il fazzoletto. «Stanotte ero a casa mia, a
dormire, mi sono svegliata alle sette perché Frank mi ha chiamata dicendomi che stavi
distruggendo tutto. Ti sei fatto pesante, vero?»
«No. Non è vero, tu eri con me sul tetto.»
«Steven» fece di no con la testa, «dormivo. Guarda come hai ridotto questa casa!» indicò la
tv distrutta.
«Ho trovato una bustina di ESD, vuota. L’impianto domotico conferma che ve la siete
sparata tutta questa notte. Mi sorprende che non siate morto» disse il dottore, l’ironia non divertì
Steven. «Mi segua, Signor Palmer. Con le buone»
«No, Claudia, tu c’eri, diglielo…»
Claudia guardò dritto davanti a sé.
«Mi dispiace, Steven.»
Il dottor Shepard condusse il signor Palmer alla sua cella, non opponeva resistenza, fissava
per terra, il capo chino, stretto tra le spalle.
«Signor Steven Palmer, lei rimarrà qui finché non sarà ritenuto idoneo ad un reintegro nella
società» recitò, lo spinse dentro.
«Sono morto, vero?» disse Steven, guardandosi attorno, la cella era candida come la neve
e rifletteva la luce del neon. «la prego, dottore, mi dica la verità.»
Il dottor Shepard non rispose, rivolse un’ultima occhiata a quell’uomo senza speranza e
chiuse la porta con un clangore metallico.
L’agente Shepard si tolse l’encefalo-connettore e lo posò sulla scrivania, poi fece lo stesso
con il visore. Sospirò e accese una sigaretta.
Scrisse al pc la relazione sul caso Steven Palmer e la stampò, l’aumento dei casi di anamnesi
nei soggetti di Eden era preoccupante.
Prese il foglio, spense la sigaretta nel portacenere e andò all’ufficio del signor Eldrich,
bussò.
«Avanti» disse la voce all’interno.
Shepard entrò, vide il volto del signor Eldrich attraverso lo schermo olografico del suo pc.
«Accomodati, Jack» disse il presidente della EdenLab.
L’agente Shepard prese posto.
«Allora? Avete risolto il caso Palmer?»
Shepard consegnò la relazione. Il signor Eldirch la lesse con voracità, alzò lo sguardo dal
foglio.
«Sei impazzito, Jack? Chiudere o riscrivere Eden?»
«Signore, i casi di anamnesi hanno toccato il venti percento della popolazione di Eden,
avvengono sempre più spesso. Gli impianti domotici segnalano anche anamnesi spontanee, non
dovute a traumi. Le coscienze iniziano a ricordare parole e concetti, e vanno in tilt, sono violenti.
Bisogna lasciare i ricordi della vita vissuta.»
Il signore Eldrich scosse la testa.
«Non possiamo. Le coscienze di Eden devono essere pure. Eden è il paradiso dopo la
morte, per tutti quelli che possono permetterselo. È il nostro slogan. Lasciare alle coscienze i
vecchi ricordi potrebbe portare a casi di violenza, finirebbero comunque in cella.»
«Allora Eden va chiuso, è fallato alla base» affermò l’agente Shepard.
«Ma dov’è il problema? La memoria di Claudia è stata modificata, il ripristino della ragazza
che era con Palmer nell’incidente ha avuto successo. Tutti lo credono un pazzo che ha preso un
colpo in testa. Storia finita.»
Sbatté il foglio sulla scrivania.
«Se si venisse a sapere che chi ha speso milioni per entrare in Eden ha il venti percento di
possibilità di passare l’eternità in una cella, senza cibo né acqua, ma con gli stimoli della fame o
della sete, sarebbe la fine.»
«E chi può dirlo in giro? Solo voi agenti avete un accesso diretto. Voi ed io sappiamo quello
che succede in Eden. Jack, stiamo parlando di una montagna di soldi. Non possiamo chiudere o
riscrivere tutto, ne va della fiducia dei consumatori.»
L’agente Shepard scosse il capo.
«Vuoi dei soldi?» lo incalzò il signor Eldrich, «È un ricatto?»
«No. Voglio solo che quelle… coscienze, vengano trattate da esseri umani.»
«Jack» il presidente sorrise, «sono solo stringhe di codice.»
«Sono umani.» Uscì sbattendo la porta.
Jack spense la sveglia prima ancora che suonasse.
«Signore, le ho preparato la colazione.»
«Grazie, Frank.»