Incontri scientifici sul Delirio Le sue costruzioni ed espressioni

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Incontri scientifici sul Delirio Le sue costruzioni ed espressioni
Unità Operativa di Psichiatria
Gruppo Psicologi
Sala D polo Didattico Piano -1
Ospedale A. Manzoni
Lecco
2° Venerdì del mese ore 9.00
Incontri scientifici sul Delirio
Dr Mario Pigazzini
Le sue costruzioni ed espressioni storico-culturali
Teorie e modelli interpretativi
La struttura linguistica
Le forme del delirio
Approccio terapeutico
La sofferenza nel delirio
Dalle antiche Pizie alle attuali comunicazioni via televisione, il delirio ha assunto le
connotazioni fenomeniche proprie dell’epoca storica e dell’ambiente socio-culturale e
geografico in cui si è sviluppato. La valutazione stessa del delirio è legata al contesto in
cui emerge, e non potrebbe essere diversamente. Le immagini mentali su cui si fonda
sono le immagini che la persona assimila durante il suo cammino evolutivo dall’infanzia
alla manifestazione esterna del delirio ed al suo riconoscimento come espressione divina
o satanica, mistica o megalomane, bizzarra o geniale; oggi, tale riconoscimento molto
spesso è connesso con il solo fenomeno del ricovero psichiatrico, comunemente chiamato
esordio psicotico o schizofrenico.
Il mio intento oggi non è tanto quello di ricostruire le espressioni storico-culturali, che si
possono facilmente trovare in qualsiasi buon manuale di Psichiatria, quanto quello di
cercare di individuare se ci sono delle costanti nella costruzione del delirio al di là delle
sue manifestazioni fenomeniche legate ad un contesto specifico. Queste costanti agiscono
infatti come catalizzatori attorno a cui le immagini – storiche, sociali, culturali,
geografiche, religiose o mitologiche – connesse a quello specifico fattore si aggregano. È
anche vero che purtroppo oggi, grazie alla farmacopea, la manifestazione riconosciuta del
delirio tende a scomparire in fretta, per riemergere, rigidamente strutturata, là dove la
realtà interna si agglutina difensivamente e proiettivamente attorno ad un bisogno cui il
soggetto tiene in modo spiccato, che spesso è il bisogno di riconoscimento di un Sé che
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lui ha amato oltre ogni limite. È proprio questo gioco, sempre oltre il limite, senza mai
poter scendere ad un compromesso, ad una composizione, ad un accomodamento con il
reale, che ha relegato-regalato la persona a quelle sue singolari manifestazioni così
cariche di significato e povere di comprensione.
Le costanti che intendo prendere in considerazione, e che per certi aspetti sono
interconnesse ed interagenti, nel senso che sono tenute legate da elementi strutturali visivi
e linguistici, sono: l’invisibilità e l’inacessibilità, la concretezza, l’onnipotenza o
megalomania, la copertura, la rigidità, l’impossibile richiesta di tenerezza. Faccio un
esempio: essere l’artefice divino ha a che vedere con una realtà in sé invisibile e
onnipotente ma linguisticamente concreta, l’artigiano; ciò copre l’impotenza del riuscire
nella vita e, per poter restare tale, deve essere mantenuta rigidamente intatta.
L’Invisibile Inaccessibile
La prima caratteristica del soggetto-rappresentazione-contenitore del delirio è che deve
essere invisibile, cioè non accessibile alla verifica, all’esame di realtà, alla comparazione
o confrontabilità, in una parola il soggetto dell’identificazione deve essere nonraggiungibile, in modo che a nessuno venga in mente di mettersi a discutere, criticare o
dubitare che ciò sia vero. Il delirante non e’ interessato allo scambio con gli altri e non
vuol essere disturbato da nessuno, né ha piacere – apparentemente - che nessuno intruda
nel suo mondo. Egli parte infatti dal presupposto assiomatico, emerso internamente dalla
sua esperienza relazionale, quell’esperienza che lo ha portato all’elaborazione difensiva
del delirio, che tanto agli altri di lui, del suo mondo interno, delle sue angosce e paure
non importa assoluta-mente niente, per cui ritiene che deve bastare, a chi vuole prestare
ascolto al suo bisogno, la comunicazione racchiusa nel contenuto della rappresentazionemanifestazione delirante.
Che il soggetto della costruzione identificatoria sia Dio o Satana, la Madonna o Einstein,
Napoleone o Miss Italia non cambia molto perchè in tutti casi nessuno di loro al lato
pratico è accessibile tant’e’ che chi, come Miss Italia, potrebbe essere accessibile nella
realtà, non viene indicato con nome e cognome, ma come entità astratta. È ovvia
l’implicazione protettiva del Sé , il mettere al riparo quel residuo di libertà la cui perdita
implica il definitivo annientamento della propria identità-dignità: mettendo il Sè oggettoamato all’ombra della Madonna o di Einstein, a nessuno verrà il dubbio che lì sotto c’e’
una persona che chiede aiuto e rispetto, ascolto e comprensione e se proprio a qualcuno
passasse per la testa di andarlo a cercare, beh, che si faccia strada tra mille ostacoli:
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l’inacessibilità del soggetto-contenitore del delirio e’ segno concreto, equiparabile,
dell’inacessibilità della parte amata e protetta del Sé.
Poiché l’Io, nel suo giocare sempre on the boundaries, ai bordi della realtà-burrone, ha
finito con il perdere sia la corretta identificazione (il sapere qual’è la sua vera identità) sia
i processi o le funzioni mentali (manipolati per sopravvivere in questo dentro e fuori la
realtà), per poter ritrovare l’identità del Sé amato deve prima di tutto recuperare un buon
utilizzo delle strutture e delle funzioni mentali, cammino che già di per sé rende
inaccessibile anche al soggetto stesso il rifugio del Sé amato.
La concretezza
Il contenitore-rappresentazione del delirio, per quanto invisibile, si manifesta comunque
sempre attraverso atti concreti che possono andare dall’assumere una determinata
postura, alla ripetizione automatica e monotona di una o più frasi o di uno o più simboli,
alla adozione di comportamenti o confabulazione chiaramente riferibili al contenitorerappresentazione del delirio. Se l’invisibilità inaccessibile protegge la parte amata del Sé,
sottratta all’avidità dell’altro, dall’intrusione divorante di relazioni fusionali, la
concretezza della manifestazione esterna è quel modo di essere presente al mondo,
l’esserci, il dasein della fenomenologia husserliana, che ha la funzione di rendere visibile
l’invisibile, secondo quanto ci racconta Merleau Ponty.
Invisibilità e concretezza, inaccessibilità e manifestazione sono caratteristiche che ci
parlano dell’uomo-persona che sta dentro-dietro questa involucro che troppo spesso ci
limitiamo a mascherare con una diagnosi gnostica che svuota l’individualità
fenomenologica della sua ricchezza comunicativa, del suo richiamo affettivo espressione
di un forte bisogno di essere avvicinato, di sedersi accanto, di ‘stare con’. Se la
psicoanalisi ha colto sia il bisogno di adiacenza della sofferenza psichica (nella
composizione fisica del setting analitico attraverso la strutturazione di una poltrona vicina
al divano) sia il bisogno del tempo necessario al raggiungimento dell’intimità, non è stata
capace di cogliere, come la fenomenologia, il valore dell’essere presente al mondo per
come si manifesta nella concretezza del delirio.
Onnipotenza e megalomania
Di fronte a tanta paura di essere-vivere nel mondo, l’unica possibilità di sopravvivenza
non può che essere il rifugiarsi in una dimensione-posizione di onnipotenza, più o meno
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trionfalistica, da cui tener sotto controllo non tanto gli eventi in sé quanto le relazioni che
si muovono attorno ad essi. L’illusione di poterli in ogni momento modificare o volgere
nel proprio interesse o di poter allontanare una fonte di angoscia e minaccia o di
manipolare a proprio piacimento quanto succede intorno è un’altra forma di protezione.
Se l’aspetto onnipotente di tante manifestazioni deliranti ci può far sorridere o diventare
fonte di divertimento – le tante barzellette sui matti - i comportamenti che accompagnano
queste manifestazioni sono invece spesso carichi di provocante manipolazione che tende
a svuotare ogni persistenza nell’accostarsi al mondo interno del delirante.
È nostra esperienza quotidiana il sentimento contro-transferale di impotenza di fronte
alla monotona ripetitività del delirio; farci sentire impotenti è un altro modo di
proteggere il proprio Sé amato dal rischio di nuove delusioni, nuovi accaparramenti,
nuova avidità divorante. Ovviamente l’impotenza del terapeuta è l’onnipotenza del
delirante, lo svuotamento, la noia, la paura del matto è il suo trionfo, una sorta di autoconfortante esibizione che L’io può tutto e non deve temere niente come ogni dittatore
insegna. Così lentamente si instaura nel mondo interno un regime dittatoriale che ordina,
impone, avvilisce, e tende ad essere … dittatoriale anche con il mondo esterno, con tutte
le conseguenza che ciò comporta: emarginazione ed esclusione.
La copertura
Nessuno dubita che tutto questo sia una copertura della propria fallibilità, della paura di
non farcela, della propria impotenza, della estrema fatica di essere-vivere nel mondo.
Ogni doloroso sentimento di fatica, noia, rabbia, paura, vulnerabilità che percepiamo in
noi stessi nel duro lavoro con i pazienti psicotici è l’esatta immagine speculare della loro
fatica di esistere, immagine comunque anche della nostra fatica di vivere. Ecco perché il
malato mentale allontana: perché inconsapevole drammatico specchio della nostra
fragilità. Per certi versi, riuscendo a coprire con l’apparato delirante la sua fragilità, il
paziente psicotico si protegge, ma diventa elemento di contestazione, visibile segno di
contraddizione da mettere a tacere spedendolo sulla nave dei folli, in un manicomio, in
una terra lontana e inospitale.
La rigidità
La rigidità comportamentale, e assai spesso anche psicomotoria, è un’altra
manifestazione difensiva della propria incapacità di vivere. Essere tutto d’un pezzo
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diventa in queste vite una imperativo categorico. Qualsiasi debolezza apre il fianco al
nemico, qualsiasi cedimento lo terrorizza, quasi che il mondo sia abitato da esseri non
umani ma virali che possono entrare dentro l’anima, annidarsi e distruggere. Il dittatore
interno non lo permetterebbe mai; nessuno può indebolire il rigido dominio difensivo che
lo controlla.
L’impossibile richiesta di tenerezza
Ovviamente più è fragile l’insieme Io-Sé che deve affrontare il mondo, più alta è la
richiesta di aiuto, di semplice tenera capacità di empatia, di stare accanto, di muoversi
insieme nelle pericolose strade del mondo. Chi lascerebbe mai un bambino aggirarsi da
solo per le strade minacciose della nostra civiltà auto-mobilizzata?
L’immagine del bambino solo, spaurito, affranto, incapace di muoversi dentro i sentieri
del reale, ma desideroso di farlo perché è nella sua natura, è l’immagine più concreta,
visibile, articolata del mondo interno del paziente psicotico.
Si è spesso dato e si continua a dare maggior rilevanza alla roboanza del comportamento
esterno, all’incomprensibilità, alla minacciosità, al valore distruttivo delle ansie
persecutorie, al bisogno di proteggere gli altri rispondendo con la violenza, - anche e
soprattutto istituzionale, quindi più asettica e distante, non colpevolizzante - alle
manifestazione perentoriamente difensive delle situazioni deliranti.
Il bisogno carico di manifestazioni comportamentali a volte estreme del paziente di
proteggere il Sé amato non deve trarre in inganno la nostra conoscenza. Fasti non foste per
viver come bruti ; non possiamo rispondere con lo stesso comportamento, non possiamo
ignorare il cammino della conoscenza umana e scientifica
che ci ha portato alla
comprensione della reale configurazione interna del mondo dello psicotico e del delirio:
la violenza del delirio è solo un’apparenza, un inganno della mente malata, un disagio
che nasce da paure immense, incontrollabili che impediscono a volte di vedere il grande
bisogno di tenerezza che sta dietro, il richiamo ad una presenza rassicurante.
Come sempre l’oscurità interpretativa, la personale incapacità ad andare oltre il visibile,
il sentire la nostra fragilità riaccesa dall’altro ci impedisce di gettare uno sguardo al di là
di ciò che ci appare davanti e di scorgere, nel piagnucolio, nell’insulto, nella
vociferazione, nella ripetitività assordante confusiva e monotona di parole che appaiono
vuote di significato, la richiesta di uno sguardo attento, di un sorriso calmo, di una
conferma dolce e vissuta della bontà delle convinzioni deliranti.
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La tenerezza che ci chiede lo psicotico è il riconoscimento pieno sincero affabile del suo
delirio; quando sarà sicuro della nostra sincera attitudine nei suoi confronti, ci aprirà il
suo mondo sacro, costruito con tanta fatica, e che deve pertanto restare tale, inviolato. È
questa la tenerezza che lentamente fa crescere la relazione e che fa dire ad una mia
paziente, dopo anni di lavoro: “Adesso sono contenta perché ho imparato e capito che
se io e Stella ci diamo una mano a sopportare le violenze subite tutto è più facile”.
Lecco, 14 febbraio 2003
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