Matematica e letteratura

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Matematica e letteratura
Stefano Beccastrini e Maria Paola Nannicini
Matematica
e letteratura
Oltre le due culture
STRUMENTI PER LA DIDATTICA DELLA MATEMATICA
Collana diretta da Bruno D’Amore
INDICE
11 Prefazione
(Emilio Pasquini)
15 Da che parte sta la matematica?
(Giorgio Bolondi)
19 Introduzione
Oltre le due culture
21 Capitolo 1
La letteratura matematica
1.1. Premessa
1.2. Le «Lezioni americane» di Italo Calvino: un «Discorso
sulla matematica»?
1.3. Letteratura e matematica: affinità e influenze reciproche
1.4. Tre grandi libri di letteratura matematica
37 Capitolo 2
L’influenza dei grandi matematici sulla letteratura
2.1. Premessa
2.2. Archimede e la poesia latina
2.3. La rivoluzione astronomica, Isaac Newton e la letteratura del XVII e XVIII secolo
2.4. Nikolaj I. Lobacevskij e la letteratura russa a cavallo
tra XIX e XX secolo
53 Capitolo 3
Tre matematici premi Nobel per la letteratura
3.1.
3.2.
3.3.
3.4.
Premessa
Bertrand Russell
Aleksandr Solgenitsin
John M. Coetzee
69 Capitolo 4
La matematica della letteratura
4.1.
4.2.
4.3.
4.4.
Premessa
La matematica della narrativa e Georges Perec
I numeri della poesia
Matematica e critica letteraria
89 Capitolo 5
Numeri in versi
5.1.
5.2.
5.3.
5.4.
Premessa
Odi, e lodi poetiche, della matematica
Numeri e numerologia nel «Canzoniere» del Petrarca
Il Pi greco nella poesia contemporanea
113Capitolo 6
Leonardo Fibonacci e la poesia
6.1.
6.2.
6.3.
6.4.
Premessa
L’origine del sonetto alla corte di Federico II
La successione di Fibonacci e la poesia contemporanea
Il Phi, la poesia, l’«Eneide» di Virgilio
129Capitolo 7
Poeti appassionati di matematica e matematici poeti
7.1. Premessa
7.2. Gianni Rodari: l’arte di inventare storie (anche di
matematica)
7.3. Hans M. Enzensberger, il mago dei numeri della poesia
europea
7.4. Tre matematici poeti: Piet Hein, Eugène Guillevic,
Jacques Roubaud
147Capitolo 8
La matematica nella narrativa
8.1. Premessa
8.2. Due romanzieri di lingua tedesca e la matematica: Hermann Broch e Hermann Hesse
8.3. Quando matematici e letterati lavorano bene insieme:
Raymond Queneau e l’Oulipo
8.4. Italo Calvino e la ricerca dell’esattezza
165Capitolo 9
La matematica e il romanzo dell’Ottocento
9.1.
9.2.
9.3.
9.4.
Premessa
Stendhal e la matematica
La matematica di «Moby Dick» e quella di «Guerra e pace»
Due matematici e due romanzi neri dell’Ottocento: «Il
manoscritto trovato a Saragozza» e «Dracula»
181Capitolo 10
La matematica in alcuni particolari generi letterari
10.1.Premessa
10.2.La matematica e il teatro del Novecento
10.3.Matematica e letteratura poliziesca
10.4.Matematica e letteratura fantascientifica
213Capitolo 11
Tre camei
11.1.Premessa
11.2.Dante Alighieri e la matematica della «Commedia»
11.3.Robert Musil ovvero Del connubio tra esattezza e anima
11.4.Jorge Luis Borges tra paradossi logici, labirinti infiniti e pietre che non rispettano l’aritmetica
233Capitolo 12
Pensare, e scrivere, il cosmo
12.1.Premessa
12.2.Galileo, il più grande scrittore della lingua italiana
d’ogni secolo
12.3.Giacomo Leopardi ovvero Del pensiero poetante
12.4.Il teorema delle cifre immaginarie e la matematica
spezzata: Emily Dickinson
251Capitolo 13
Tre pastori anglicani tra letteratura, matematica e viaggi immaginari: Jonathan Swift, Edwin A. Abbott, Lewis
Carroll
13.1.Premessa
13.2.Jonathan Swift, Gulliver e l’isola di Laputa
13.3.Edwin A. Abbott, Flatland e il mondo a più dimensioni
13.4.Charles L. Dodgson, alias Lewis Carroll, e la matematica quale sorriso senza gatto
267Capitolo 14
Ritratti
14.1.Premessa
14.2.Tra filosofia, poesia e matematica: Paul Valéry e Simone Weil
14.3.Tre ingegneri tra matematica e letteratura
14.4.«Un matematico scrittore»
289Conclusioni
Fertilità pedagogica e didattica del dialogo tra matematica e letteratura
295Bibliografia
Prefazione
Non è cosa da poco stendere una prefazione a questo libro, per la sua natura policentrica e
insieme enciclopedica, già annunciata dalle due epigrafi che lo aprono, tratte da Raymond Queneau e da Giovanni Vailati. Stanno a parte, quasi canoniche, l’introduzione Oltre le due culture (da
cui discende il sottotitolo) — obbligatoriamente agganciata alla magnanima lezione di Charles P.
Snow, sempre attuale nonostante i suoi oltre cinquant’anni di età — e le sintetiche conclusioni in
chiave pedagogica, nel segno di una «fertilità pedagogica» del dialogo tra matematica e letteratura,
che prospetta la prima come una chiave essenziale per comprendere tanta poesia e narrativa. Per il
resto — il blocco delle oltre duecento pagine centrali — un lettore comune si trova davanti a una
sorta di labirinto borgesiano, in 14 tappe corrispondenti ad altrettanti capitoli, con 4 semitappe
ciascuna (una premessa e 3 paragrafi): dunque un totale di 56 soste.
La direzione non è univoca, meno che mai quella cronologica o quella spaziale: i cronotopi
si susseguono in apparente disordine, disorientando il lettore ingenuo. Così, nei capitoli 1 (La
letteratura matematica) e 2 (L’influenza dei grandi matematici sulla letteratura), da Italo Calvino
delle Lezioni americane (uno dei six memos è appunto l’exactitude) si passa ad Archimede, per poi
risalire a Newton e a Lobacevskij; fino a Queneau e all’Oulipo, cioè l’Ouvroir de littérature potentielle, movimento fondato nel 1960 dallo scienziato umanista François Le Lionnais e dallo stesso
Queneau, celebre per i suoi funambolici Esercizi di stile, fra lipogrammi e isomorfismi, più ancora
pluralità di combinazioni e di registri (su cui è da vedere il classico Quasi come. Letteratura come
Matematica e letteratura
parodia e parodia come letteratura, di Guido Almansi e Guido Fink). E via dicendo, con apparente
ma calcolato disordine, una specie dunque di «disarmonia prestabilita» (per riprendere la formula
escogitata da Roscioni per Gadda).
Anche la serie degli argomenti presenta un ordine non scontato, se si prescinde da certe simmetrie, peraltro non sempre coerenti. Ad esempio, i Tre camei (Dante, Musil e Borges) andrebbero
posti contigui ai Ritratti (Paul Valéry capofila, secondo Hugo Friedrich, della linea di una poesia
matematica, coi suoi Cahiers capaci di attingere agli insiemi transfiniti di Cantor; Simone Weil,
persuasa nei suoi Quaderni della bellezza suprema della matematica; Carlo Emilio Gadda, campione
di una concezione logico-combinatoria della realtà; Leonardo Sinisgalli e il suo Furor mathematicus; Roberto Vacca, terzo ingegnere-scrittore tra fantastoria e fantapolitica; infine il matematico
bolognese Bruno D’Amore, scrittore elegante, capace di racconti stranianti e di mandare Dante
a scuola di matematica) e invece appaiono separati da Pensare, e scrivere, il cosmo, che include i
profili di Galileo, Leopardi ed Emily Dickinson, dove ho apprezzato le giuste sottolineature della
«matematica spezzata» della poetessa americana e di pagine straordinarie tratte dal Saggiatore (riletto
sotto il riverbero di Italo Calvino) e dallo Zibaldone, ripercorso con l’ausilio dello stesso Calvino
e di Cesare Luporini.
In ordine sparso si susseguono, dunque, nel capitolo 3, i Tre matematici premi Nobel per la
letteratura, con Bertrand Russell, Aleksandr Solgenitsin (che chiamava in causa il Dante del nobile
castello per la saraska dell’Ivan Denisovic) e John Coetzee, il quale cercava nella matematica pura
«quella poesia cosmica che poi avrebbe trovato nella letteratura»; il capitolo 6, su Leonardo Fibonacci
e la poesia; il 7 su Poeti appassionati di matematica e matematici poeti (con al centro la Grammatica
della fantasia, le Favole al telefono e le Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari, ma anche,
nell’orbita di un matematico della statura di Kurt Gödel, il teorema di Münchhausen di Hans M.
Enzensberger); il 13 (Tre pastori anglicani tra letteratura, matematica e viaggi immaginari, dove si
apprezzano i coloriti medaglioni di Jonathan Swift con la sua Laputa; del fantamatematico Edwin A.
Abbott, l’autore di una distopica Flatlandia in uno spazio a 6 dimensioni; del «matto matico» Lewis
Carroll con la celeberrima Alice nel Paese delle Meraviglie, tutta giostrata su giochi di contaminazione
fra forme poetiche e numerico-geometriche). Quasi fatale, dunque, che si creino interferenze fra
i vari capitoli, e che la figura di un certo personaggio o la fisionomia di un movimento debbano
ricostruirsi nella loro integrità mettendo insieme tasselli anche distinti (ciò si dica ad esempio per
l’onnipresente Rodari e poi per Queneau, Perec, Calvino, Simone Weil e altri, specie all’insegna
dell’Oulipo). Resta il fatto che la comprensione e la disponibilità di questo vastissimo materiale sono
condizionate dalla «enciclopedia» (o, se si vuole, dalla erudizione) del singolo lettore: con vertice
ideale in un esperto delle due discipline, risultati soddisfacenti per il letterato o per il matematico,
qualche difficoltà in più per il comune uomo di cultura (escluderei senza ambagi il lettore inge-
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Prefazione
nuo). Dunque, l’estensore di queste paginette introduttive sembrerebbe trovarsi in una situazione
privilegiata: non ignaro di matematica, algebra e trigonometria (quali si facevano egregiamente
nei licei classici di sessant’anni fa), con conoscenze rinvigorite dal più recente sodalizio con Bruno
D’Amore, egli è un filologo e commentatore di testi (dantista, petrarcologo ma anche leopardista),
che ha perfino insegnato, agli inizi del suo percorso accademico, Storia della lingua italiana.
Eppure, ammetto di aver imparato tantissimo da questo libro, nelle brillanti intersezioni con il
cinema e la letteratura contemporanea (italiana e ancor più straniera), per non dire dell’universo dei
grandi matematici via via evocati, da Archimede a Fibonacci (il cui Liber abaci sembra sia giunto fra
le mani di Dante), a Eulero e Georg Cantor. Per un letterato una strada più agevole potrebbe essere
quella che da Coleridge porta fino agli Elementi di Euclide, anche se egli non se la sente di affrontare la revisione critica del suo 5° postulato nella geometria non-euclidea di Lobacevskij. Ignoravo
del tutto, lo confesso, gli echi dell’Arenario di Archimede in Catullo e nei poeti augustei; qualcosa
invece sapevo, per fortuna, dell’influenza di Copernico, Galileo, Bruno e Newton (aggiungerei solo
la geniale rilettura di Leopardi, col Copernico entro le Operette morali) su Shakespeare e su John
Donne, o in genere sulla cultura barocca (ma anche sull’illuminista Swift dei Gulliver’s travels).
Ciò che inoltre depone a favore della validità e utilità del libro è il fatto che mi sarebbe difficile
proporre delle integrazioni non episodiche di qualche rilievo o suggerire delle formule nuove rispetto
a quelle sparse a piene mani nel volume dei due studiosi, dovute agli stessi o più sovente ad altri,
tutti debitamente citati. Si va dalle «affinità elettive» fra matematica e letteratura alla «irragionevole
efficacia» che può apparentarle, anche se il loro scopo è più quello di «portare nel mondo l’ordine della forma» che di «accertare le verità del mondo» stesso, in quanto sono entrambe «il frutto
dell’immaginazione»: una visuale che si contrappone all’idea (maturata fra Jakobson e Della Volpe)
che il discorso scientifico sia univoco e quello letterario polisemico: qualcosa pur significa (ce lo ha
ricordato Tullio De Mauro) che, dal punto di vista etimologico, il «contare» e il «raccontare» abbiano
la stessa origine, dal latino computare. Non deve dunque stupire che in area russa (fra Lobacevskij,
Dostoevskij e Chlebnikov) maturi un assioma come «per certi aspetti, la matematica attuale è più
vicina a un’arte che a una scienza»; e che si sia ormai d’accordo sul fatto che «l’intelligenza linguistica e quella numerica facciano capo a facoltà mentali e aree neurologiche assai prossime». Il che
è confermato (e ne posso io stesso dare sicura testimonianza, come docente universitario, anche a
prescindere dalla diagnosi di Raffaele Simone in La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo,
2000) dalla difficoltà che hanno i più giovani a organizzare logicamente il pensiero: alla perdita
della profondità sintattica corrisponde esattamente la difficoltà nell’uso del linguaggio matematico.
Il lettore di queste pagine, che abbia sott’occhio il libro di Beccastrini e Nannicini, si sarà a
questo punto accorto del fatto che io non ho ancora quasi fatto parola di ben tre capitoli: 6, 7 e 11;
la ragione è ovviamente che in essi, dove figuro generosamente citato e discusso, io mi sento più
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Matematica e letteratura
profondamente coinvolto e dunque tentato di aggiungere chiose forse importune. Non dico questo
tanto per i 2/3 del capitolo 11, dove pagine importanti sono addette a illustrare il connubio fra
esattezza e anima in Robert Musil, esaltatore del primato della matematica, «l’unica facoltà dell’intelletto umano che, nell’epoca della crisi dei valori e del crollo catastrofico delle tradizioni sapesse
coltivare e praticare uno stile di pensiero capace di apertura al senso della possibilità e alla ricerca
della verità»; e i paradossi logici e i labirintici infiniti di Jorge Luis Borges, persuaso dell’affinità
fra musica, poesia e matematica («non si contrappongono, sono complementari come la serratura
e la chiave»).
Certo, qualcosa ho detto e qualcosa mi verrebbe da aggiungere alle pagine sulla matematica
nella Commedia dantesca, ad esempio sulle valenze del 3; o alla numerologia dantesca indagata da
Barbara Reynolds; per non dire delle suggestioni che vengono dalle monografie di Bruno D’Amore,
specie sul numero degli angeli, Teodolinda Barolini, che chiama in causa le spirali del DNA per la
terzina dantesca e Horia-Roman Patapievici sull’ipersfera dell’Empireo. E a molte tentazioni mi
accade di rinunciare, per non apparire invadente (ad esempio sulla sestina lirica di Arnaldo Daniello,
Dante e Petrarca o sui Seven types of ambiguity di William Empson, o sulle modalità della critica
di Giacomo Debenedetti e Gianfranco Contini), nel capitolo 4. A maggior ragione, nel capitolo
5 (Numeri in versi), mi sento totalmente a mio agio e davvero gratificato leggendo le pagine che
illustrano l’ode ai numeri di Pablo Neruda, gli exploits numerici di Trilussa, di Jacques Prévert,
di Miguel de Unamuno e Fernando Pessoa, ma soprattutto del Petrarca volgare di Canzoniere e
Trionfi (qui tuttavia ribadisco la natura cervellotica della proposta di Wilhelm Pötters su Laura =
π, suggerita dalla mise en page dei sonetti negli autografi petrarcheschi: proprio quel pi greco che
ha avuto invece una straordinaria fortuna nella poesia sperimentale contemporanea). Non resta
che augurare al libro dei due matematici-scrittori quella meritata fortuna che spetta alle opere che
sanno associare la modernità a un sapiente recupero delle radici antiche.
Emilio Pasquini
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Capitolo 3
Tre matematici premi
Nobel per la letteratura
3.1. Premessa
Il premio Nobel è nato a seguito del testamento di Alfred B. Nobel, chimico svedese, inventore
della dinamite nonché ricchissimo industriale con qualche velleità letteraria. Lasciò il proprio immenso patrimonio a una Fondazione che, ogni anno e su indicazione dell’Accademia delle Scienze
di Stoccolma, premiasse il fior fiore degli uomini di cultura del mondo. Escluse purtroppo la matematica (pare, ma forse è una leggenda, perché era un matematico l’amante della moglie). I primi
premi Nobel furono assegnati nel 1901. Per la letteratura, lo vinse il francese Sully Prudhomme,
poeta oggi praticamente dimenticato. D’altra parte la motivazione, fissata da Nobel stesso, era quella
di assegnare il premio a quell’autore che si fosse distinto per il «valore idealistico» delle sue opere
e il «valore idealistico» non è detto che coincida con quello poetico. Non ci fu assegnazione del
premio in sette anni caratterizzati da gravi problemi internazionali (1914, 1918, 1935, 1940, 1941,
1942, 1943). Esso è stato rifiutato due volte dagli autori premiati. Nel 1958, da Boris Pasternak,
che lo aveva vinto grazie al romanzo Il dottor Zivago, censurato in URSS (Pasternak non si recò a
Stoccolma in quanto temeva che, poi, non sarebbe potuto rimpatriare). Nel 1964, da Jean-Paul
Sartre, per tutt’altri e meno convincenti motivi. In genere, il Nobel per la letteratura viene vinto da
persone che, di mestiere, fanno i letterati ma, a guardare con attenzione i nomi dei 105 Nobel per la
Matematica e letteratura
letteratura assegnati dal 1901 al 2012, ci si accorge che ciò non è sempre vero. L’hanno vinto anche
storici come Theodor Mommsen, filosofi come Henri Bergson, statisti come Winston Churchill.
Comunque, per tre volte l’hanno vinto anche dei matematici: l’inglese Bertrand Russell, nel 1950;
il russo Aleksandr Solgenitsin, nel 1970; il sudafricano John M. Coetzee, nel 2003.
Tre matematici su 105 premi assegnati: una percentuale non enorme ma neppure insignificante,
anche in considerazione del fatto che è probabilmente destinata ad aumentare. Noi lo speriamo,
pensando ad esempio a un matematico poeta come Jacques Roubaud.
3.2. Bertrand Russell
Bertrand Russell, nonostante all’epoca avesse
già scritto due o tre libri significativi — tra i
quali una Esposizione critica della filosofia di
Leibniz, filosofo che considerava «uno dei più
alti intelletti di tutti i tempi» (Russell, 1991,
p. 562) — balzò all’attenzione della comunità
scientifica e filosofica internazionale il 16 giugno
1902, con l’ormai celeberrima lettera inviata a
Fig. 3.1 Bertrand Russell.
Fig. 3.2 Aleksandr Solgenitsin. Gottlob Frege, il grande logico e matematico
tedesco (in seguito, con un certo snobismo, Russell affermò che quella lettera,
oltre a rendere famoso lui stesso, aveva reso famoso anche Frege: «Benché la
natura delle sue scoperte sia veramente degna di fare epoca, Frege rimase del
tutto ignorato finché io non attrassi l’attenzione su di lui»; Russell, 1991, p.
790). Russell informava Frege d’aver rilevato nei suoi Principi dell’aritmetica
— con i quali egli dava inizio al tentativo di fondazione logicista dell’intero
edificio del sapere matematico — un paradosso (ma più precisamente un’antinomia) da allora conosciuto appunto come Paradosso di Russell. La vicenda
è nota ma può valer la pena di essere rapidamente riassunta. Russell stava
lavorando a un libro, poi pubblicato nel 1903 con il titolo di I principi della
matematica, che voleva contribuire a quel progetto di fondazione logicista
Fig. 3.3 John M. Coetzee.
della matematica che era stato impostato da Frege e dal matematico e logico
italiano Giuseppe Peano. Frege aveva pubblicato nel 1893 il primo volume dei suoi Grundgesetze der
Arithmetik, forse il tentativo più grandioso che un matematico avesse fino ad allora compiuto nella
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Tre
matematici premi
Nobel
per la letteratura
direzione di liberare la propria disciplina dalle ambiguità cui la costringeva il largo utilizzo, in essa,
del linguaggio comune, fondandola invece su un rigoroso formalismo logico. Russell lesse l’opera
di Frege proprio mentre stava lavorando ai Principi della matematica e vi trovò una contraddizione.
Prese carta e penna e scrisse allo stesso Frege:
Caro collega, da un anno e mezzo sono venuto a conoscenza dei suoi Grundgesetze der Arithmetik, ma solo ora mi è stato possibile trovare il tempo per uno studio completo dell’opera. Mi trovo
completamente d’accordo con lei su tutti i punti essenziali, in modo particolare col suo rifiuto di
ogni elemento psicologico nella logica e col fatto di attribuire un grande valore all’ideografia per
quel che riguarda i fondamenti della matematica e della logica formale [...]. C’è solo un punto in
cui ho trovato una difficoltà. Lei afferma [...] che anche una funzione può comportarsi come l’elemento indeterminato. Questo è ciò che io credevo prima, ma ora tale opinione mi pare dubbia a
causa della seguente contraddizione. Sia w il predicato «essere un predicato che non può predicarsi
di se stesso»: w può essere predicato di se stesso? Da ciascuna risposta segue l’opposto. Quindi
dobbiamo concludere che w non è un predicato. Analogamente non esiste alcuna classe (concepita
come totalità) formata da quelle classi che, pensate ognuna come totalità, non appartengono a se
stesse. Concludo da questo che in certe situazioni una collezione definibile non costituisce una
totalità. (Frege, 1983, pp. 183-184)
Lo stesso Russell offrì nel 1918, in Introduzione alla filosofia della matematica, una formulazione
dell’antinomia più comprensibile a quanti non siano abituati al linguaggio logico-matematico. Essa
è nota come «paradosso del barbiere». Narra di un villaggio ove gli abitanti sono divisi, rispetto al
criterio del radersi, in due soli insiemi: nel primo si collocano tutti coloro che si radono da soli e
nell’altro tutti quelli che vengono rasati dal barbiere. In quale dei due insiemi va collocato il barbiere?
Egli non può trovare posto in nessuno dei due insiemi. L’effetto che la lettera di Russell ebbe su Frege
fu devastante: egli ne ricavò la conclusione che l’intero edificio della riformulazione logicista della
matematica, cui stava lavorando da decenni, risultava minato nei suoi stessi fondamenti. Russell
aveva ritenuto invece, scrivendo la lettera, di porre un problema risolvibile con più riflessione e
che non metteva affatto in discussione il progetto di fondazione logicista della matematica, da lui
pienamente condiviso. Una decina d’anni dopo, infatti, pubblicò con Alfred North Whitehead i
Principia mathematica. Essi miravano a fornire una ricostruzione dell’intero edificio della matematica
finalmente tutto quanto formalizzato in senso logicista ed esente da antinomie. Un’impresa eroica,
tuttavia annullata nelle sue eccessive pretese epistemologiche, nel 1931, dall’austriaco Kurt Gödel,
il più geniale logico del Novecento. Egli dimostrò, con i suoi due «teoremi di incompletezza», che
nessun sistema matematico coerente può essere utilizzato per dimostrare la propria coerenza. Russell restò, per tutta la sua lunga esistenza, innanzitutto un matematico, tanto che scrisse nella sua
Autobiografia: «Durante l’adolescenza, la vita mi era odiosa e pensavo continuamente al suicidio;
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Matematica e letteratura
ma questo mio proposito era tenuto a freno dal desiderio di approfondire la mia conoscenza della
matematica» (Russell, 1971, p. 38). Scrisse però di tutto, coerentemente con quanto affermato di
se stesso, ossia che «tre passioni, semplici ma irresistibili, hanno governato la mia vita: la sete di
amore, la ricerca della conoscenza e una struggente compassione per le sofferenze dell’umanità»
(Russell, 1971). Si occupò, pertanto, di politica (sostenendo le idee del pacifismo nonché di un
socialismo libertario e nemico d’ogni totalitarismo), di morale e di sessualità (combattendo le idee
conformiste in materia di amore, di rapporti tra i due sessi, di matrimonio), di religione (professando il proprio rifiuto d’ogni dogma e d’ogni chiesa). Fu anche, seppure in pochi libri quali Satan
in the suburbs and other stories del 1953, un autore letterario in senso stretto. Il premio Nobel per
la letteratura fu complessivamente motivato con il fatto che l’intera sua opera aveva costituito «un
servizio alla civilizzazione morale della società e del mondo», ma lo ricevette soprattutto grazie alla
pubblicazione, e all’enorme successo internazionale, della Storia della filosofia occidentale e dei suoi
rapporti con le vicende politiche e sociali dall’antichità a oggi.
L’opera vide la luce nel 1945 e nacque grazie alla lungimiranza di un benefattore americano,
il dottor Albert C. Barnes. Era un chimico, si era arricchito creando un farmaco di successo, amò
investire i propri lauti profitti collezionando quadri e promuovendo attività educative realizzate, in
Pennsylvania, tramite la Barnes Foundation. Fu appunto dalle conferenze sulla storia della filosofia
tenute da Russell presso tale fondazione che prese origine il libro. Esso risulta effettivamente ben
scritto, tanto da appassionare il lettore quasi stesse leggendo un romanzo le cui protagoniste siano
appunto la filosofia occidentale e le sue avventurose peripezie tra rivoluzioni scientifiche, sociali,
politiche. Si tratta di un’opera assai originale e personale, sia stilisticamente che ideologicamente. In
genere, nelle storie della filosofia, le preferenze e le idiosincrasie, le simpatie e i preconcetti dell’autore
traspaiono dalle pagine e tra le righe, però sono raramente esplicitati ed espressi in prima persona
con ardore e passione. Russell, invece, fa proprio questo e lo dichiara fin dalla Introduzione. Dopo
aver affermato che, tra i tanti filosofi di cui parla nel suo libro, soltanto di uno — il grande Leibniz
— egli è personalmente specialista («Forse con la sola eccezione di Leibniz, ciascun filosofo di cui
io tratto e più noto ad altri che a me», Russell, 1991, p. 11), Russell continua:
Vi sono molte storie della filosofia, ma nessuna ha lo stesso scopo che io mi sono posto. I filosofi
sono insieme effetti e cause: effetti delle condizioni sociali, politiche e istituzionali del loro tempo;
cause (se sono fortunati) delle dottrine che modellano la politica e le istituzioni delle età successive
[...]. Il problema della scelta, in un libro come questo, è difficilissimo. Se privo di dettagli, un libro
diviene scipito e noioso; con troppi dettagli corre il rischio di diventare intollerabilmente prolisso. Ho
cercato un compromesso, trattando soltanto quei filosofi che mi sembra abbiano avuto un’importanza
considerevole, e menzionando in relazione ad essi dei particolari che, anche se non di fondamentale
importanza, hanno valore di esempio e di chiarificazione. La filosofia, fin dai tempi più antichi, non
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Tre
matematici premi
Nobel
per la letteratura
è stata soltanto un affare di scuola o di discussione tra un’élite di uomini istruiti. Ha fatto parte integrante della vita della comunità, e come tale ho cercato di considerarla. Se vi è qualche merito nel
presente volume, deriva da qui. (Russell, 1991, p. 13)
Sono apertamente dichiarate, nel libro, le simpatie e le antipatie filosofiche di Russell. Ad esempio, non stima né ammira Socrate,
disonesto e sofistico nei ragionamenti [e] c’è qualcosa di untuoso e di ricercato in lui che ricorda un
tipo di cattivo prete. Il suo coraggio in faccia alla morte sarebbe stato più ammirevole se non avesse
creduto di andare a godere l’eterna felicità in compagnia degli dei. A differenza di alcuni dei suoi predecessori, il suo pensiero, lungi dall’essere scientifico, era teso a dimostrare che l’universo coincideva
con i suoi modelli etici. Questo è un tradimento della verità ed il peggiore dei peccati filosofici. Come
uomo, possiamo immaginarlo ammesso nella comunione dei santi, ma come filosofo ha bisogno di
una lunga permanenza in un purgatorio scientifico. (Russell, 1991, p. 154)
Di Platone apprezza l’interesse verso la matematica ma critica duramente l’idealismo. Di Aristotele
apprezza i meriti nei confronti dei predecessori ma detesta i demeriti verso i successori. Dedica un
bel capitolo — raro, soprattutto all’epoca, nelle storie della filosofia — alla matematica greca nei suoi
rapporti, appunto, con la filosofia. Si mostra cauto estimatore delle filosofie ellenistiche (cinismo,
scetticismo, epicureismo, stoicismo). È invece molto critico nei confronti del neoplatonico Plotino,
addirittura sarcastico verso Sant’Agostino e spodesta drasticamente dall’alto seggio filosofico in cui
solitamente è collocato Tommaso d’Aquino e, più in generale, l’intero pensiero medievale, anche
quello — ad esempio, di Roger Bacon — amato da altri scienziati. Si entusiasma, com’era facile
immaginare, per John Locke, per Galileo Galilei, per Isaac Newton e per Gottfried W. Leibniz
e offre una convincente e appassionante sintesi del pensiero kantiano. Non stima per nulla né il
pensiero né la figura di Jean Jacques Rousseau e irride all’intero Idealismo tedesco.
L’ultimo filosofo con cui fa i conti — prima del capitolo conclusivo, tutto quanto dedicato
alla filosofia dell’analisi logica, nella quale pienamente si riconosce — è l’americano John Dewey.
Considerando che, al tempo delle conferenze per la Barnes Foundation, Dewey era vivo e vegeto,
il confronto tra i due diventa quasi un dialogo diretto, non privo di qualche strascico polemico.
Erano due tra i maggiori pensatori del XX secolo, si stimavano, li univa una comune passione per
la scienza, la laicità, la democrazia, l’impegno sociale e politico a fianco delle classi subalterne e
contro i poteri autocratici, ovunque fossero annidati. Eppure qualcosa li divideva: possedevano
una concezione diversa di cosa fossero la ricerca scientifica e la conoscenza. Il logicista Bertrand
Russell credeva nella possibilità umana di raggiungere forme di verità oggettiva e in tal senso privilegiava la logica formale, mentre il pragmatista John Dewey riteneva che la ricerca scientifica fosse
un processo incessante e continuamente fallibile di indagine il cui fine non era l’acquisizione di
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CAPITOLO 9
La matematica e il
romanzo dell’Ottocento
9.1. Premessa
Fu proprio nel XIX secolo — il secolo della rivoluzione industriale, dell’affermarsi sociale della
scienza, del mito del progresso ma anche del trionfo del romanzo quale nuova forma epica della società
moderna — che la matematica e i personaggi matematici cominciarono a diventare, di frequente,
protagonisti della letteratura d’Europa e d’America. Di ciò dirà questo capitolo, prendendo in esame: a)
l’amore giovanile per la matematica di un romanziere di grande fascino quale Stendhal; b) la presenza
della matematica in due dei più grandi romanzi del secolo ovvero Moby Dick di Herman Melville e
Guerra e pace di Lev Tolstoj; c) la presenza di un personaggio matematico, forse il primo della narrativa
moderna, nel Manoscritto trovato a Saragozza del nobile polacco, nonché scrittore d’indubbio valore,
Jan Potocki nonché il comparire sulla scena letteraria di uno dei primi matematici che si fecero scrittori
di grido, Bram Stoker, l’autore di Dracula, storia del più celebre vampiro della letteratura.
9.2. Stendhal e la matematica
Marie-Henri Beyle nacque a Grenoble nel 1783. Lo pseudonimo che assunse, facendosi romanziere, fu scelto in riferimento alla città tedesca di Stendal, ove nacque l’ammirato Winckelman.
Matematica e letteratura
Oggi il suo nom de plume è a tutti noto grazie a opere narrative quali, ad esempio, Il rosso e il nero
e La certosa di Parma. Fu uomo curioso della società come delle donne e dell’amore, della musica
(adorava Mozart, Rossini e Cimarosa) come delle arti figurative (scrisse una Storia della pittura in
Italia e ammirava Raffaello), amante dei viaggi (scrisse un Roma, Napoli e Firenze nonché le Memorie
di un turista) e delle avventure così politiche come sentimentali. Seguace di Napoleone, definito
l’unico uomo che avesse mai rispettato, lasciò ai posteri un’eredità letteraria di assoluta modernità,
nel proprio saper coniugare romantica ispirazione a rigore di scrittura e a una passione cronachistica
che prelude al miglior giornalismo del nostro tempo. Insomma, uno scrittore «adorabile», come
scrisse Leonardo Sciascia, suo fervente cultore (Sciascia, 2002). Tra i tanti suoi libri c’è anche una
sorta di romanzo autobiografico il cui protagonista, Henry Brulard, altri non è che lo stesso Henri
Beyle (Brulard era il cognome di uno dei suoi zii). Lo scrisse tra il 1835 e il 1836, quando aveva
già assunto il celebre pseudonimo. L’inizio della Vita di Henri Brulard è indimenticabile:
Questa mattina, 16 ottobre 1832, mi trovavo a San Pietro in Montorio, sul Gianicolo, a Roma.
C’era un sole splendido [...]. Che vista magnifica! È proprio qui che la Trasfigurazione di Raffaello è
stata ammirata per due secoli e mezzo. Che differenza dalla triste galleria di marmo grigio dove oggi
è sepolta, in fondo al Vaticano! Così, per duecentocinquant’anni, quel capolavoro è rimasto qui.
Duecentocinquant’anni! Ah! Fra tre mesi avrò cinquant’anni: possibile? 1783, 93, 1803, conto sulle
dita [...] e 1833: cinquanta. Possibile? Cinquanta! [...] La scoperta inaspettata non m’irritò affatto [...].
Dopo tutto, mi sono detto, non ho impiegato male la mia vita. (Stendhal, 2003, p. 9)
Egli comincia così a ripercorrere, nella memoria e nella scrittura, quella vita. Ne fa parte la giovanile
frequentazione della scuola di Grenoble ove si innamorò della matematica e sperò a lungo di poter
eccellere talmente in tale disciplina da essere accolto all’École Polytechnique di Parigi. Avrebbe così
realizzato quelli che erano i due sogni della propria adolescenza: recarsi nella capitale e, appunto,
diventare un matematico. In una pagina della sua «autobiografia mascherata da romanzo» egli scrive:
All’epoca della morte di mia madre, verso il 1790, la mia famiglia era [...] composta da M. Gagnon
padre, sessant’anni; M. Romani Gagnon, suo figlio, venticinque anni; Séraphie, sua figlia, ventiquattro anni; Elisabeth, sua sorella, sessantaquattro anni; Chérubine Beyle, suo genero, quarantatré anni;
Henri, figlio di Chérubine, sette anni; Pauline, sua figlia, quattro anni; Zenaide, sua figlia, due anni.
Sono questi i personaggi del triste dramma della mia giovinezza, che mi riporta alla mente quasi solo
sofferenza e profonda insoddisfazione morale. (Stendhal, 2003, p. 82)
Joseph-Chérubine Beyle era dunque il padre di Henri, futuro Stendhal; un avvocato del Parlamento, cavaliere della Legion d’Onore, vicesindaco di Grenoble. Dice di lui, ormai defunto, il figlio
cinquantaquattrenne: «Era un uomo decisamente poco amabile e non mi amava come persona ma
come figlio che doveva perpetuare la stirpe [...]. La smania di allontanarmi da Grenoble, cioè da
166
La
matematica e il romanzo dell’Ottocento
lui, e la mia passione per la matematica [...] mi indussero a vivere in profonda solitudine dal 1797
al 1799» (Stendhal, 2003, p. 83). Fu proprio frequentando l’École Centrale di Grenoble che egli
scoprì le rare virtù della matematica, innamorandosene. Vi era entrato nel 1796, ragazzo infelice e
solitario, vessato da un padre di corta intelligenza e di scarsa sensibilità, dai precettori religiosi, da
una zia ottusa e bigotta. Scrive Dominique Sels, matematica e scrittrice, nel suo saggio Stendhal et
les mathématiques:
Nel 1796, Henri Beyle entra alla Scuola Centrale di Grenoble [...]. Ha tredici anni e la sua infanzia, assai solitaria, si è svolta fino ad allora rinchiusa tra le quattro mura d’una casa ov’erano suoi
tutori miseri sacerdoti [...]. Henri Beyle odiava soprattutto il duro trattamento cui lo sottoponeva
padre Raillane, la cui tirannia si esercitò su di lui dal 1792 al 1794. L’ingresso alla Scuola Centrale fu
dunque, per il giovane Henri, sinonimo di libertà. (Sels, 2009)
Nella Vita di Henry Brulard egli scrive che fu in quegli anni che avvenne appunto «la mia caduta
nella matematica» (Stendhal, 2003, p. 370). Forse, all’inizio, egli imparò ad amare tale disciplina
perché era visceralmente disprezzata dal suo ottuso genitore: «Mio padre detestava la matematica per
motivi religiosi, credo: la perdonava solo quando serviva a rilevare la pianta delle tenute» (p. 371).
Lo studente Henri Beyle scopriva invece, cominciando a studiarla seriamente, che la matematica era
qualcosa di molto più bello, non solo uno strumento utile a misurare l’ampiezza dei possedimenti
del suo odiato genitore. Andava, insomma, comprendendo che «la matematica considera solo un
aspetto particolare degli oggetti (la loro quantità) ma ha il fascino di dire, su questo aspetto, solo
cose certe, solo la verità e quasi tutta la verità» (p. 374).
Non mancava peraltro, anche nello studiare matematica, più di un problema. Soprattutto, quello
della mediocrità dei suoi insegnanti: «Quanto più amavo la matematica, tanto più disprezzavo i
miei insegnanti, M. Dupuy e M. Chabert» (p. 370). Sebastian Henri Dupuy de Bordes, cultore
di geometria, prima di andare a insegnare all’École di Grenoble era stato docente della Scuola
Reale di Artiglieria di Valence e vi aveva avuto quale allievo nientemeno che il giovane ufficiale
Napoleone Bonaparte. Stendhal lo giudicava un ignorante, assai più di quanto non considerasse
tale il suo collega Andrè Laurent Chabert, da cui andava privatamente a lezione, apprezzandolo
almeno per il fatto che la domenica studiava Eulero. Si recò, per un certo periodo, presso di lui,
ma «aveva sempre [...] l’aria di un farmacista che conosce delle buone ricette, ma niente lasciava
capire come queste ricette nascessero le une dalle altre, nessuna logica, nessuna filosofia in quella
testa». Insomma, «M. Dupuy e M. Chabert sono ipocriti come i preti che vengono a dire la messa
da mio nonno, e la cara matematica non è altro che un imbroglio? Non sapevo come raggiungere
la verità. Ah! Come avrei ascoltato avidamente, allora, una parola sulla logica e sull’arte di trovare la
verità!» (p. 375). Il giovane Henri aveva un’idea grandiosa, seppur confusa, di ciò che la matematica
167
Matematica e letteratura
avrebbe potuto essere ma che non ritrovava nell’insegnamento di Dupuy e nemmeno in quello
di Chabert: «A quattordici anni, nel 1797, immaginavo che la matematica pura, che non ho mai
studiato, arrivasse a comprendere tutti o quasi tutti gli aspetti delle cose e che, approfondendone
lo studio, sarei giunto a sapere delle cose certe, indubitabili, e che avrei potuto mettermi alla prova,
senza limitazioni, su tutto» (p. 374). Diventò, così, un suo tormentoso cruccio il comprendere
perché meno per meno fa più.
Come potevo rassegnarmi, quando mi accorsi che nessuno sapeva spiegarmi com’era che meno
per meno fa più (– x – = +, è uno dei fondamenti della scienza chiamata algebra). Facevano anche di
peggio: oltre a non spiegarmi questo problema (che certamente si può spiegare perché conduce alla
verità), me lo presentavano con delle argomentazioni evidentemente poco chiare anche per coloro
che me le esponevano. M. Chabert, assillato dalle mie domande, era a disagio, ripeteva la sua lezione,
proprio quella su cui chiedevo dei chiarimenti, e sembrava che volesse dirmi: Ma questa è la consuetudine, tutti accettano questa spiegazione. (pp. 372-373)
Anche il V postulato di Euclide finì con il procurare più d’una angustia al giovane Beyle:
Se (– x – = +) mi aveva dato tanti problemi, potete immaginare quale livore si impadronì del mio
animo quando cominciai la Statique di Louis Monge, fratello del famoso Monge, e che sarebbe poi
venuto a fare gli esami di ammissione all’École Polytechnique. All’inizio del trattato di geometria si
trova scritto: Si definiscono parallele due rette che, prolungate all’infinito, non si incontrano mai. E,
all’inizio della Statique, quell’insigne bestione di Louis Monge ha scritto all’incirca così: Due rette
parallele possono essere considerate incrociantisi se le si prolunga all’infinito. Ebbi l’impressione di
leggere un catechismo e, oltretutto, uno dei più scalcinati. Chiesi inutilmente spiegazioni a M. Chabert.
«Figliolo — disse [con] aria paterna — figliolo, lo capirete più avanti» [...] Rischiai di lasciar perdere
tutto. A quel punto un confessore, abile e buon gesuita, avrebbe potuto convertirmi commentando la
massima: «Vedete bene che tutto è errore, o meglio, che non c’è niente di falso, niente di vero: tutto
è convenzione». (pp. 377-378)
L’elemento curioso di tale questione è che, a parte le spiegazioni che non spiegavano nulla dei
mediocri docenti del povero Henri, effettivamente, per quanto riguarda il fatto che le parallele si
incontrino o meno all’infinito, si tratta davvero di una «convenzione». Ossia, come oggi sappiamo,
di quale sia il tipo di universo geometrico in cui operiamo (ma al tempo in cui il giovane Henri
Beyle frequentava l’École di Grenoble non lo si sapeva ancora; Sels, 2009). Assai deluso dai propri
insegnanti, il futuro grande romanziere scelse alfine, quale proprio docente privato che sapesse
seriamente prepararlo all’esame che gli avrebbe aperto le porte della École Polytechnique, un giovane ma valente matematico nonché fervente repubblicano ed ex giacobino. Scrive su ciò Stendhal/
Henry Brulard:
168
La
matematica e il romanzo dell’Ottocento
Nella mia adorazione della matematica, da qualche tempo sentivo parlare di un giovane, noto
giacobino, che di matematica ne sapeva molto di più di M. Dupuy e M. Chabert, ma che non ne
faceva mestiere [...]. Non so come abbia potuto, timido com’ero, avvicinarmi a M. Gros [...]. Era un
giovane dai capelli biondo scuro, molto attivo ma corpulento, avrà avuto venticinque o ventisei anni
[...]. Ci disse: – Cittadini, da dove cominciamo? Bisognerebbe vedere a che punto siete. – Dunque,
abbiamo fatto le equazioni di secondo grado. E, da persona sensata, si mise a spiegarci le equazioni,
cioè, per esempio, la costruzione di un quadrato di a + b, che ci faceva elevare alla seconda potenza: a2
+ 2ab + b2. L’ipotesi che il primo membro dell’equazione fosse un inizio di quadrato; il complemento
di questo quadrato, ecc. ecc. ecc. Si schiudevano i cieli per noi, o almeno per me. Vedevo finalmente
il perché delle cose; non c’era più una ricetta da farmacista caduta dal cielo per risolvere le equazioni.
Provavo un piacere intenso, analogo a quello della lettura di un romanzo appassionante [...]. Senza
essere assolutamente un ciarlatano, Gros aveva tuttavia i vantaggi di questa dote così utile ad un
professore, come ad un generale in campo: mi aveva conquistato. (pp. 381-382)
Stendhal ha ragione: proprio questo dovrebbe saper fare, ancor oggi, un bravo insegnante (di
matematica o d’altro): far appassionare i propri allievi alla disciplina studiata come ci si appassiona
a un romanzo, magari di avventure (sull’attenzione rivolta da Stendhal ai metodi di d’insegnamento
della matematica si veda L’éducation mathématique du jeune Stendhal di Alphonse Magnus, 1998).
Il giovane Henri trascorse così l’ultimo biennio presso l’École Centrale di Grenoble: «Non mi
ricordo quasi nulla degli ultimi due anni, 1798 e 1799. La passione per la matematica assorbiva a
tal punto il mio tempo che [...] portavo i capelli troppo lunghi, tanto rimpiangevo la mezz’ora che
bisognava perdere per farli tagliare» (p. 384). Gli esami conclusivi della scuola di Grenoble furono,
per lo studente Henri Beyle, un grande successo, soprattutto in campo matematico:
Gli esami del corso di matematica di M. Dupuy arrivarono e per me fu un trionfo. Ottenni il
primo premio, tra otto o nove ragazzi, quasi tutti più grandi e più benvoluti di me e che furono tutti
ammessi, due mesi dopo, all’École Polytechnique [...]. M. Dupuy avrebbe dovuto farmi un secondo
esame. Ero oberato di lavoro, sfinito. Ripassare l’aritmetica, la geometria, la trigonometria, l’algebra,
le sezioni coniche, la statica [...] mi avrebbe fatto odiare l’amata matematica. Per fortuna, la pigrizia
di M. Dupuy, tutto preso dalle vendemmie [...], venne in soccorso alla mia. Mi disse, dandomi del
tu, segno di grande privilegio, che sapeva benissimo quanto ero preparato e che un nuovo esame era
inutile e mi consegnò, con aria cerimoniosa e sacerdotale, un magnifico certificato attestante una
falsità, come prova che avevo sostenuto un nuovo esame per l’ammissione all’École Polytechnique e
che me l’ero cavata egregiamente. (p. 385)
Il giovane partì così per Parigi, lasciando Grenoble come aveva sempre desiderato. Almeno in
questo, la matematica gli era servita davvero. Partendo, ricevette qualche luigi d’oro dal nonno, vide
— ma senza per nulla commuoversi — spuntare due lacrimucce negli occhi del padre, venne a sapere
169
Matematica e letteratura
dei fatti del 18 brumaio e della nomina del generale Bonaparte a primo console della Repubblica
Francese (il che lo rallegrò molto). Tuffarsi nella grande capitale ebbe su di lui un effetto disorientante: «Giunto a Parigi, due grandi oggetti del desiderio, duraturi e intensi, svanirono di colpo nel
nulla. Avevo adorato Parigi e la matematica [ma] la matematica era per me come lo scheletro di un
falò ormai spento» (pp. 393-394). Non si presentò all’esame di ammissione all’École Polytechnique,
decise di dedicarsi alla letteratura, intanto si arruolò nell’esercito di Napoleone recandosi in Italia.
A cose fatte, questa scelta deve rallegrarci: ci ha regalato un grande scrittore, mentre chissà che
genere di matematico egli sarebbe diventato. Una domanda, però, occorre farsela: perché la passione
per la matematica, così intensa negli anni dell’École Centrale, scomparve tanto presto in lui, che
non ne parlò più fino a quando la rievocò, ormai cinquantenne, ne La vita di Henri Brulard? Forse
quello per la matematica era stato soltanto un colpo di fulmine giovanile, legato soprattutto alla
voglia di lasciare Grenoble. Forse la matematica, intesa come ricerca d’una sorta di verità assoluta,
l’aveva deluso. O forse, più semplicemente, l’avevano deluso i matematici, non soltanto i miseri
docenti di Grenoble (Gros a parte) ma anche i grandi nomi di Parigi — i Cuvier e i Lagrange, i
Laplace e i Legendre — pronti a prostrarsi ai piedi di Napoleone ma poi anche ad abbandonarlo, per
opportunismo, per servilismo, per ipocrisia. Stendhal aveva scritto, nella sua autobiografia malcelata,
che alla fin fine «il mio entusiasmo per la matematica aveva avuto origine, forse, dal mio orrore
per l’ipocrisia [...]. A mio avviso, l’ipocrisia era impossibile in matematica» (p. 372). In tal senso,
probabilmente la matematica, pur da lui abbandonata, da parte sua non lo abbandonò mai. Proprio
essa potrebbe, assieme alla lettura attenta del Codice Civile napoleonico (che Stendhal considerava
un modello esemplare di scrittura sobria, precisa, cartesiana), costituire la fonte d’ispirazione del
suo meraviglioso stile narrativo, così poco alato e adorno, così alieno dai vezzi letterari e dalla loro
presunta eleganza, così concreto e capace di porre continuamente la propria attenzione alle passioni
umane, all’esame implacabile e ironico dell’umano raziocinio.
Come ha scritto di Stendhal, ma forse pensando anche a se stesso, Paul Valéry, «dalla breve
preparazione matematica trasse quella preziosa e temeraria attitudine mentale che consiste nel giudicare come destituite di validità le cose vaghe, e altresì tutti i valori non dimostrabili che popolano
l’intelletto» (Valéry, 2012).
9.3. La matematica di «Moby Dick» e quella di «Guerra e pace»
Cesare Pavese, che mirabilmente tradusse Moby Dick in italiano, scrisse sull’autore del possente
romanzo: «Un greco veramente è Melville. Voi leggete le evasioni europee della letteratura e vi
170
CAPITOLO 12
Pensare, e scrivere,
il cosmo
12.1. Premessa
Questo capitolo è dedicato a tre grandi scrittori, accomunati dal fatto che erano interessati a
pensare e scrivere il cosmo. Anche quando parlavano — in prosa o in poesia, con l’intento di fare
scienza o letteratura — di questo o quell’aspetto del mondo terreno, il respiro che li spingeva a
scrivere, o forse che con il loro scrivere volevano raggiungere, era di natura cosmica. Apparentemente, non molte caratteristiche li univano. Uno, Galileo Galilei, visse in Italia a cavallo tra
il XVI e il XVII secolo, fu scienziato e filosofo. Credeva nell’eliocentrismo ma fu costretto dal
potere ecclesiastico ad abiurare a questa sua convinzione. Il secondo, Giacomo Leopardi, visse
anch’egli in Italia, nel suo caso a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, fu poeta e filosofo oltre che
anima tormentata e sofferente. Il terzo, infine, fu una donna, vissuta nel XIX secolo, una solitaria
zitella americana di nome Emily Dickinson la quale scrisse migliaia di versi che restarono per lo
più sconosciuti ai suoi contemporanei e soltanto nel Novecento rivelarono che la sua autrice era
una delle più grandi menti poetiche della storia della letteratura mondiale. Tre geni, certo, ma
cosa li univa? Appunto la volontà e l’intelligenza di pensare, e scrivere, il cosmo. Di sapercelo
raccontare, senza paura alcuna nel descrivere la superficie lunare come fosse il giardino di casa
propria, di rivolgersi alla luna come fosse una silente amica, di chiedere che le fosse portato il
tramonto in una tazza.
Matematica e letteratura
12.2. Galileo, il più grande scrittore della lingua italiana
d’ogni secolo
Galileo Galilei nacque a Pisa, nel 1564, da famiglia d’origine fiorentina. Il padre Vincenzo
esercitava la mercatura e coltivava la passione per la musica. Del giovane Galileo ha scritto un suo
attento biografo, il filosofo Antonio Banfi:
Della prima età di Galileo nulla si sa di preciso, fuor che nel 1574 [...] passò con la famiglia a
Firenze [...]. Gli studi, iniziati già in Pisa, furono qui proseguiti e a dar loro uno sviluppo sistematico
il giovinetto fu inviato al convento di S. Maria in Vallombrosa, dove certamente apprese le discipline
dell’enciclopedia scolastica del tempo [...]. Quando una temporanea infermità agli occhi offerse al
padre l’occasione di ritirare dal convento il giovinetto, questi toccava i quindici anni. [...] Fu avviato
agli studi artistici della musica e del disegno e a quelli umanistico-letterari [...]. Con tale [...] corredo
di coltura [...] a diciassette anni [...] Galileo fu immatricolato nella facoltà degli artisti dell’Università
di Pisa, per apprendervi l’arte della medicina. (Banfi, 1962, pp. 13-14)
Non divenne affatto medico e si rivolse invece alla matematica, avendo per maestro un allievo di
Tartaglia ossia Ostilio Ricci, e alla fisica, seguendo il magistero di Archimede, dimostrando precoce
inventività e sviluppando idee e strumenti nuovi nel campo della meccanica, dell’idraulica, dell’astronomia. Se avesse continuato gli studi di medicina sarebbe forse diventato un Vesalio o un Harvey, che
demolirono le tradizionali concezioni del corpo umano e del suo funzionamento. Avendo scelto invece la matematica e la fisica, demolì quelle sulla struttura e il funzionamento dell’universo.
Insegnò a Pisa ma fu poi chiamato alla cattedra di Padova, ove si fece un nome, realizzò scoperte importanti, cominciò a utilizzare il cannocchiale, non da lui inventato ma da lui utilizzato a
scopi di rinnovamento scientifico, avvicinandosi al copernicanesimo. Restò a Padova per diciotto
anni ma infine, chiamato dal granduca Cosimo II di cui aveva curato l’educazione scientifica, fece
ritorno in Toscana. Poi, come si sa, iniziarono quelle dispute con le autorità ecclesiastiche che
finirono con il condurlo davanti al tribunale dell’Inquisizione, all’abiura,
alla messa all’Indice dei suoi libri, alla clausura di Arcetri. Prigioniero, ma
tutt’altro che intellettualmente inoperoso, scrisse di nascosto i Discorsi e
dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze attinenti la meccanica e i
movimenti locali. Il libro fu pubblicato a Leida, in Olanda, l’anno stesso della
sua morte, nel 1642 (lo stesso anno che vide la nascita a Woolsthorpe, in
Inghilterra, di Isaac Newton, suo erede scientifico). Come sostiene Alexandre
Koyré, insigne storico della scienza, Galileo riconobbe nell’antica Grecia due
grandi maestri, Platone e Archimede (Koyré, 1976). Del primo, condivise
Fig. 12.1Galileo Galilei.
234
Pensare,
e scrivere, il cosmo
«la visione dell’universo come entità strutturata matematicamente»; del secondo, «l’applicazione
delle analisi della matematica ai problemi della fisica» (Rossi, 2006, p. 210). Con il cannocchiale,
che usò genialmente quale strumento tecnologico ma anche quale protesi teorica, osservò la natura
«terrestre» della luna, deducendone che Terra e cielo erano fatti della medesima materia e rispondevano alle medesime leggi di carattere matematico. L’originalità di tale approccio fu ciò che lo divise,
nonostante l’adesione di entrambi al copernicanesimo, da Keplero. L’eliocentrismo di quest’ultimo,
infatti, restava legato a una visione antropocentrica — nella quale il sistema solare nel suo complesso
prendeva il posto da Tolomeo assegnato alla Terra — del cosmo, Galilei non trovava invece nulla
di scandaloso nell’idea che l’uomo abitasse su un piccolo pianeta appartenente a un umile e periferico sistema planetario, perso nel cosmo infinito. A lui non interessava l’eliocentrismo in sé bensì
il dimostrarne la verità nel quadro di una visione più vasta dell’universo: vuoto, infinito e scritto
in linguaggio matematico: «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci
sta aperto dinanzi agli occhi (io dico l’universo) ma non si può intendere se prima non s’impara a
intendere la lingua [...] in cui è scritto. Egli è scritto in lingua matematica» (Galilei, 1965, p. 79)
La celeberrima frase si trova ne Il Saggiatore, una delle mirabili testimonianze della linda prosa
galileiana, pubblicato nel 1623 ossia nove anni prima del Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo,
il suo capolavoro scientifico e letterario.
Galileo fu uno scienziato di formazione umanistica e sin interessò molto, dunque, di letteratura. Si sa del suo amore per Dante, che lo portò a tenere nel 1588, presso l’Accademia fiorentina,
due lezioni Circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante. Era intensa, in Galileo, anche
l’ammirazione per Ludovico Ariosto, sul quale scrisse le Postille sull’Ariosto, e per Torquato Tasso,
sul quali scrisse le Considerazioni sul Tasso. Egli entrò anche nel merito di una diatriba che molto
occupò i letterati del suo tempo circa quale dei due poemi fosse superiore all’altro. Galileo, pur
amandoli entrambi, si pronunciò a favore dell’Ariosto e la cosa non ci stupisce affatto (Ariosto era
poeta più «cosmico» del Tasso). Fu anche poeta in proprio, generalmente di carattere satirico, come
per esempio in questi versi, dedicati a un collega accademico, intitolati Contro il portar la toga,
che prendono in giro la boria dei professori universitari: «Pare una gatta in una via maestra/che
sbalordita fugga le persone/quando è caduta giù dalla finestra,/che se ne corre via carpon carpone/
tanto che la s’imbuchi e si difenda/perché le spiace la conversazione». Non basterebbero, tuttavia,
i suoi scritti esplicitamente letterari (Galilei, 1970) a giustificare la famosa affermazione calviniana
sul fatto che egli fu «il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo» (Bucciantini,
2007). Nel 1967, in piena gara spaziale tra russi e americani, Anna Maria Ortese scrisse a Calvino,
su «Il Corriere della Sera», lamentandosi del fatto che anche un serio scrittore come lui si fosse
fatto prendere la mano dalla moda dei viaggi spaziali e della fantascienza, così da avere pubblicato
una raccolta di racconti fantascientifici intitolata Ti con zero. L’Ortese confessava che, ogni volta
235
Matematica e letteratura
che sentiva parlare di conquiste spaziali, provava tristezza e fastidio in quanto la troppo enfatizzata
corsa alla conquista dello spazio finiva con il ridurre il cosmo a mèta di una gara tecnologica, così
privandolo della sua poesia e della sua bellezza, contemplando le quali si poteva una volta scordare
le brutture terrestri. Calvino rispose prontamente, mostrando ancora una volta la propria anticonformistica intelligenza:
Cara Anna Maria Ortese, guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non
le sembra una soluzione troppo comoda? Se si volesse portare il suo discorso alle estreme conseguenze,
si finirebbe per dire: continui pure la terra ad andare di male in peggio, tanto io guardo il firmamento
e ritrovo [...] la mia pace interiore. Non le pare di strumentalizzarlo malamente, questo cielo? [...]
Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole
entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di
più. Il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare
della luna innalza la sua prosa ad un grado di precisione e di evidenza ed insieme di rarefazione lirica
prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare.
(Bucciantini, 2007)
Chi reagì malamente alle affermazioni calviniane fu Carlo Cassola:
Italo Calvino ha affermato che Galilei è il più grande scrittore italiano di ogni secolo. Io credevo
che Galilei fosse il più grande scienziato, ma che la palma di massimo scrittore spettasse a Dante [...].
Mentirei se dicessi che l’affermazione di Calvino mi ha scandalizzato. Lo spirito di dimissioni di molti
miei colleghi è giunto a un punto tale che non mi scandalizzo più di niente. L’augurio che rivolgo
loro è di liberarsi del complesso di inferiorità nei confronti della cultura scientifica e della tecnologia.
E se no, che cambino mestiere. (Bucciantini, 2007)
La meditata risposta di Calvino venne su «L’Approdo Letterario». Essa chiariva che, dicendo
«scrittore», egli intendeva «prosatore» e che, in tal senso, la questione non era se fosse più grande
Galilei o Dante, ma se lo fosse lo stesso Galilei o Machiavelli. Tuttavia, Calvino sottolineava, la direzione verso cui stava andando il suo personale lavoro di scrittore — quella direzione che l’avrebbe
fatto approdare nelle file dell’Oulipo — gli rendeva più importante, nel senso che vi trovava maggior nutrimento, proprio Galileo, grazie alla precisione del suo linguaggio, alla ricchezza della sua
immaginazione poetico-scientifica, alla sua capacità di ragionamento congetturale. E qui Calvino
si gettava in una ricostruzione della letteratura italiana che ritroveremo poi nelle Lezioni americane.
C’è un filo rosso, a suo avviso, che da Dante conduce prima all’Ariosto, poi a Galileo e poi anche a
Leopardi ed è quello che mira a una concezione della letteratura quale messa in questione di tutto
lo scibile umano, modo di disegnare una mappa enciclopedica dell’intero cosmo e di costruire grazie
alla parola — non più distinta in poetica o scientifica — un’immagine a un tempo esatta e com-
236
Pensare,
e scrivere, il cosmo
movente dell’universo. Lungo questa linea, che in Italia ha posto per secoli la letteratura in dialogo
con la scienza, la maniera con la quale nel nostro Paese si scrive può tornare grande (è improbabile
che Cassola abbia compreso tale risposta). Calvino tornerà a riflettere con entusiasmo su Galileo,
e sulla ricchezza espressiva e dunque poetica della sua prosa scientifica, nella Seconda delle Lezioni
americane, quella dedicata alla Rapidità:
Nel Saggiatore, polemizzando col suo avversario che sosteneva le proprie tesi con una gran quantità
di citazioni classiche, scriveva: «Se il discorrere circa un problema fosse come il portar pesi, dove molti
cavalli porteranno più sacca di grano che un caval solo, io acconsentirei che i molti discorsi facessero più
che uno solo; ma il discorrere è come il correre, e non come il portare, ed un caval berbero solo correrà
più che cento frisoni». «Discorrere», «discorso», per Galileo vuol dire ragionamento, e spesso ragionamento deduttivo. «Il discorrere è come il correre»: questa affermazione è come il programma stilistico
di Galileo, stile come metodo di pensiero e come gusto letterario: la rapidità, l’agilità del ragionamento,
l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi sono per Galileo qualità decisive del pensar
bene. A questo s’aggiunga una predilezione per il cavallo nelle metafore e nei Gedanken-Experimenten
di Galileo: in uno studio che ho fatto sulla metafora negli scritti di Galileo ho contato almeno undici
esempi significativi in cui Galileo parla di cavalli: come immagine di movimento, dunque come strumento d’esperimenti di cinetica, come forma della natura in tutta la sua complessità e anche in tutta la
sua bellezza, come forma che scatena l’immaginazione nelle ipotesi di cavalli sottoposti alle prove più
inverosimili o cresciuti fino a dimensioni gigantesche; oltre che nell’identificazione del ragionamento
con la corda: «il discorrere è come il correre». (Calvino, 1988, p. 43)
Calvino propone anche, ricavandolo dal Dialogo sui massimi sistemi del mondo, quello che ritiene
essere l’elogio più bello della più grande invenzione umana, l’alfabeto. Viene messo, da Galilei, in
bocca a Sagredo:
Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò
di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo, parlare con quelli che son nelle Indie, parlare
a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni [...] con i vari
accozzamenti di venti caratterizzi sopra una carta. (Calvino, 1988, p. 44)
In Il libro della Natura di Galileo Calvino (1991a) sottolineò come la famosa metafora del «libro
della Natura scritto in linguaggio matematico» fosse orientata non soltanto a sostenere un metodo
di ricerca scientifica basato sulla lettura diretta, piuttosto che mediata da ciò che ne hanno scritto
gli scolastici, del «libro del mondo». In tal senso, la metafora non avrebbe avuto alcuna originalità,
essendo stata usata da vari altri pensatori, da Montaigne a Bacon, da Comenio a Campanella, per
incitare il prossimo a cercare la conoscenza osservando le cose piuttosto che leggendo pedantesca-
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Matematica e letteratura
mente i libri dei dotti. Come scrive Calvino, Galileo intendeva dire molto di più: «L’apporto più
nuovo di Galileo alla metafora del libro-mondo è l’attenzione al suo speciale alfabeto, ai “caratteri
ne’ quali è scritto”. Si può allora precisare che il vero rapporto metaforico si stabilisce, più che tra
mondo e libro, tra mondo e alfabeto» (Calvino, 1991a, p. 104). Ciò lo porta a scoprire che gli
alfabeti necessari a leggere il mondo sono due: quello fatto di lettere e quello fatto di numeri. Dice
ancora Calvino: «Quando parla dell’alfabeto, Galileo intende dunque un sistema combinatorio in
grado di rendere conto di tutta la molteplicità dell’universo» (p. 104). Ciò vale per le lettere e vale,
anche, per i numeri e gli enti geometrici. Ciò significa che «per Galileo la matematica e soprattutto
la geometria abbiano una funzione di alfabeto» (p. 105). La letteratura e la matematica risultano
così le due chiavi per leggere il mondo, l’una quello degli uomini, l’altra quello della natura.
Ci avviamo a concludere il nostro dis/correre su Galileo, facendo riferimento a un altro punto di
vista, diverso ma complementare a quello di Italo Calvino, teso a valorizzare la ricchezza di scrittura
di Galileo, il suo stile letterario quale elemento inseparabile del suo stesso messaggio scientifico. È
quello espresso nel volume Il pensiero come stile, di Ermanno Bencivenga, docente presso la Columbia
University. Esso è basato sull’idea che l’anima filosofica italiana (l’espressione è, originariamente,
di Richard Rorty, in riferimento all’anima filosofica americana, fondata sul pragmatismo) sia fondata sullo stile ossia sull’intreccio tra cultura filosofica, cultura scientifica e cultura letteraria. In tal
senso, Bencivenga prende in esame le idee e gli scritti nonché, appunto, lo stile di dieci pensatori
italiani ossia Dante, Machiavelli, Bruno, Campanella, Galileo, Vico, Leopardi, Pirandello, Croce
e Calvino. Nel saggio su Galileo, egli scrive:
La figura di Galileo s’impone maestosa nella storia della scienza, non solo italiana. [Egli fu autore
del] Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, uno dei capolavori della nostra letteratura. [Egli] riunì
in sé la perizia matematica di Cartesio, l’impegno programmatico di Bacone e capacità osservative
e tecniche superiori a entrambi; quello che per quattro secoli è stato considerato il metodo di ogni
scienziato rispettabile trovò nel suo lavoro la prima enunciazione formalmente adeguata e le prime
consapevoli e fruttuose applicazioni. (Bencivenga, 2008, p. 81)
Tutto quanto il saggio dedicato da Bencivenga a Galileo è serio, preciso e illuminante, ma noi ne
sottolineeremo soltanto un aspetto: quello che lega la strategia scientifica del grande scienziato alla
sua strategia letteraria. Secondo Bencivenga, in riferimento al Dialogo sopra i due massimi sistemi,
Galileo, nonostante il suo ufficiale disprezzo per la retorica, finisce in sostanza per usare strategie
persuasive in favore della sua ipotesi preferita. Le strategie principali sono tre: le spiegazioni fornite da
Copernico sono più semplici di quelle tolemaiche; sono più eleganti e apprezzabili sul piano estetico
in quanto descrivono un universo più simmetrico e ordinato; e mostrano una migliore proporzionalità
fra causa ed effetti. (Bencivenga, 2008, pp. 92-93)
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Pensare,
e scrivere, il cosmo
Insomma, Galileo offre certamente prove oggettive ma mai disgiunte da una visione del mondo,
da un gusto culturale, da una convinzione ideologico-estetica e, alla fin fine, persino poetica. «Produrre un’ipotesi scientifica originale è tanto frutto d’ispirazione quanto comporre una poesia o un
dramma; e come [...] non esiste un metodo per diventare Dante o Shakespeare, non ne esiste uno
che ci permetta di acquisire la “fertile immaginazione” di Galileo» (Bencivenga, 2008, pp. 94-95).
Insomma, se Galileo resta — la definizione è ancora di Bencivenga — il filosofo italiano più influente della storia, occorre interrogarsi sul perché ciò sia avvenuto. Certamente, poiché diresse il
telescopio verso il cielo, così ponendosi come l’Archimede della Modernità e aprendo la strada a
Newton. Certamente, perché fece scoperte astronomiche assai innovative. Certamente, perché fu
un eccezionale matematico. Tutto ciò, però, non è sufficiente a spiegarne lo storico successo. Se
egli resta il personaggio più celebrato d’un drammatico, ma anche esaltante, periodo della storia
del sapere europeo,
il motivo non va cercato nelle sue qualità di fisico e di matematico, che per quanto straordinarie non
erano uniche, ma nel fatto che intorno alle sue idee e qualità seppe costruire un libro, e che il suo
libro a tutt’oggi sa trasmetterci l’eccitazione di una scienza in gioioso subbuglio, la serietà di una disinteressata ricerca del vero, una nobile ed eloquente rivendicazione d’indipendenza dalle tradizionali
autorità [...]. Galileo è il padre della nuova scienza perché non ha solo contribuito a fondarla: ha anche
saputo raccontarcela con quella cura dell’intreccio e quella dignità di espressione con cui un grande
scrittore ci fa apparire sensate le vicende più strane. (Bencivenga, 2008, p. 97)
Insomma, Italo Calvino aveva ragione: Galileo è un grande scrittore, probabilmente il più grande della letteratura italiana. Quello che Calvino non era giunto ad affermare, pur implicitamente
lasciandolo intendere, era che proprio per questo è stato anche il più grande scienziato che l’Italia
abbia mai avuto.
12.3. Giacomo Leopardi ovvero Del pensiero poetante
Giacomo Leopardi, come scrive Yves Bonnefoy, è stato colui che, anche grazie alla sua cultura
razionalistica e scientifica, «ha fatto capire alla poesia, così facilmente inebriata dalla capacità di
esprimersi per simboli e di conseguenza di sognare, che nel mondo nulla è destinato a durare,
neppure il poeta, non più di qualunque altra cosa e di chiunque altro» (Bonnefoy, 2010, p. 1281).
Leopardi ha affermato:
a far progressi notabili in filosofia, non basta sottilità d’ingegno, e facoltà grande di ragionare, ma si
ricerca eziandio molta forza immaginativa; e Descartes, Galileo, Leibniz, Newton, Vico, in quanto
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